“Non è piccola gloria per la nostra città quella di aver dischiuso al Savonarola la via della celebrità e del trionfo”. La città di cui si parla è Brescia e l’affermazione è di uno storico di prima grandezza, Paolo Guerrini, che con quelle parole conclude l’articolo “Fra Girolamo Savonarola predicatore a Brescia” pubblicato nella rivista “Brixia Sacra” nel 1916. Fu infatti nella nostra città che il frate domenicano predicò, durante l’Avvento nel dicembre 1489, commentando l’Apocalisse, un testo che gli era particolarmente congeniale. “Il gran successo di quella predicazione – ebbe a scrivere il primo grande studioso del martire domenicano, Paolo Villari – incominciò finalmente a diffondere in Italia il nome del Savonarola, e determinò l’indirizzo e lo scopo della sua vita, perché da quel giorno egli non dubitò più di se stesso”.
Savonarola doveva diventare un barone della medicina come suo nonno Michele, che curava la gente di Casa d’Este, i signori di Ferrara. Ma poco prima di laurearsi – ventiduenne, nel 1474 – scomparve improvvisamente da casa. Girolamo si trasferì a Bologna, dove sarebbe diventato frate domenicano. E come frate ricomparve brevemente a Ferrara (dov’era nato nel 1452) a ventotto anni, come maestro dei novizi domenicani. Con lo stesso compito fu mandato poi a Firenze, nel convento di San Marco, e nel 1483 cominciò a predicare nella chiesa di San Lorenzo. Lasciata Firenze nel 1486, Savonarola vi tornò nel 1490. E, stranamente, per desiderio di Lorenzo il Magnifico, al quale l’aveva raccomandato uno degli uomini più dotti d’Italia, il conte Giovanni Pico della Mirandola. Savonarola tuttavia si presentò al Magnifico solo quando lo seppe malato a morte e lo invitò a ripristinare le libertà fiorentine. Ed ecco chiarita anche la sua posizione politica: in tempi di signorie trionfanti, egli voleva invece governi popolari all’antico modo comunale, severa moralità nelle cose pubbliche e in quelle private. Nel 1494 Carlo VIII di Francia marciava attraverso l’Italia alla conquista del regno di Napoli. Carlo VIII, comparso davanti a Firenze come amico, vi entrò in realtà come conquistatore, facendo pendere sulla città la minaccia del saccheggio. Poi finì per andarsene pacificamente, ma non gratuitamente.
Libera dai francesi e dai Medici, tornata ai governi elettivi, Firenze si divise: da una parte i Palleschi, i ricchi nostalgici dei Medici e ostili a Savonarola per le sue invettive contro la corruzione; dall’altra i Piagnoni, sostenitori del frate e delle sue riforme; e infine gli Arrabbiati o Compagnacci, sorta di squadristi, partigiani della vecchia oligarchia. Le forze antisavonaroliane trovarono alleati a Roma, nel clan dei Borgia, e il Papa allora era un Borgia, Alessandro VI. Fu facile e rapida la loro alleanza contro Savonarola, che si concretò in un subdolo invito: fra Girolamo venga a Roma – gli si mandò a dire – perché il Papa vorrebbe ascoltare le sue prediche e predizioni. In realtà erano i gruppi di potere che lo volevano allontanare da Firenze; e forse uccidere, come aveva ragione di temere; ma Savonarola non lasciò la città. Nel settembre del 1495, mentre Piero de Medici si preparava a marciare su Firenze per riprendere il potere, arrivò un ordine pontificio che imponeva a Savonarola di trasferirsi a Bologna. L’ordine era falso, come poi si seppe. Intanto, il frate aveva replicato con una lettera, respingendo le accuse di insegnare cose contrarie alla dottrina della Chiesa, e di spacciarsi per profeta. In risposta giunse un breve papale (autentico, stavolta) che annullava il trasferimento, vietandogli però di predicare.
A quel punto gli Arrabbiati avevano vinto, essendo riusciti a farlo tacere. Il governo fiorentino strappò ad Alessandro VI un permesso orale di riprendere la predicazione, e fra Girolamo tornò a parlare in chiesa, ma non mitigò affatto i suoi attacchi al clero corrotto e allo stesso Papa. Questi tentò la via delle blandizie, offrendo a Savonarola il cardinalato, ma in risposta venne una predica del 20 agosto 1496: “Non voglio cappelli da cardinale, non voglio mitrie grandi o piccole”.
Allora si tornò alla forza: un breve dello stesso anno fuse la congregazione di San Marco, di cui egli era priore, con i domenicani di Roma. Se si fosse ribellato, sarebbe incorso nella scomunica. Non ci fu ribellione: Savonarola scrisse una difesa della sua congregazione, e nessun superiore domenicano ebbe il coraggio di rimuoverlo dal suo posto. Riprese a predicare nell’avvento 1496 e poi nella quaresima 1497. Il 17 giugno 1497 arrivò la sentenza di scomunica, che fu letta soltanto in cinque chiese fiorentine: nelle altre il clero aveva rifiutato di farlo. Il frate scrisse al papa chiedendogli l’assoluzione, che gli venne negata. Dopo alcuni mesi di silenzio tornò a predicare, sostenendo che il papa era stato ingannato per motivi politici. L’ultima predica (18 marzo 1498) fu una sorta di congedo dai fiorentini. Ma con un’aggiunta che ebbe tragiche conseguenze: Girolamo sostenne la necessità di un concilio, che provvedesse urgentemente alla riforma generale della Chiesa. Per Alessandro VI concilio poteva significare destituzione. E Savonarola non si limitò a parlare di quell’idea; ne scrisse pure ai vari sovrani d’Europa: poi non spedì le lettere, anzi le bruciò. Per Roma, restava scomunicato; per Arrabbiati e Palleschi, un disturbatore da liquidare; per molti ricchi, infine, un rimprovero vivente. Queste forze insieme costituirono la macchina che lo uccise. Il governo decise di processarlo: tortura e falsi documenti furono ampiamente usati e il 22 maggio fu pronunciata la condanna a morte. Il giorno dopo fu eseguita in piazza della Signoria. Savonarola e due suoi compagni furono impiccati e i loro corpi bruciati. Erano le dieci del mattino.
Annunciatore della renovatio Ecclesiae, Savonarola difese appassionatamente i poveri e gli sfruttati, propugnò ardite riforme politiche, vide nel binomio inscindibile di giustizia sociale e governo popolare una proiezione del sentire cristiano. Egli fu soprattutto l’antitesi implacabile di Alessandro VI, il Papa con cui la Chiesa cattolica toccò il punto più basso in quindici secoli di storia. Era inevitabile che un uomo come lui avesse, da vivo e da morto, molti nemici; ma ai denigratori del frate, irriso come fanatico e profeta disarmato hanno sempre replicato puntigliosamente coloro che sono convinti della sua grandezza spirituale.
Savonarola turbò anche Lorenzo il Magnifico, quand’era morente, suscitò l’ammirazione di Francesco Guicciardini e di artisti come Botticelli e Michelangelo. Soprattutto colpisce il fatto che fu venerato da anime grandi e tanto diverse come Pico della Mirandola, Martin Lutero e San Filippo Neri.
A Brescia la figura del frate riformatore del Quattrocento ha sempre spontaneamente richiamato alla mente e al cuore quella di Arnaldo, perché non pochi sono i punti di contatto tra i due. Scrive giustamente Paolo Guerrini: “Ambedue furono profondamente assetati dell’ideale cristiano e lo annunziarono ai contemporanei, in mezzo al fragore delle fazioni politiche, senza infingimenti e senza sottointesi, predicando che senza virtù, senza abnegazione, senza grandezza morale, l’uomo e la società vanno in rovina”.
Giornale di Brescia, 5.11.2001. Articolo scritto in occasione della rappresentazione scenica di Carlo Rivolta Nisi Dominus aedificaverunt domum.