Come il Nuovo Testamento e la Chiesa nascente si rapportano al potere politico
Il Nuovo Testamento mette sotto gli occhi del lettore i due comportamenti, non contraddittori ma dialetticamente complementari, dei cristiani: da una parte, la piena lealtà verso lo Stato e, dall’altra, la resistenza non violenta, spinta fino all’accettazione del martirio, per non piegarsi a ingiunzioni statuali che ledono le loro coscienze. I cristiani conoscono bene i loro obblighi verso la polis e non hanno certo bisogno di coercizione per fare la loro parte. Col loro sistema di vita vanno ben oltre l’osservanza delle leggi: essi, infatti, agiscono non per paura di punizioni, ma «per motivo di coscienza» (Rm 13,5) e «per amore del Signore» (1 Pt 2,13). Non c’è umana convivenza senza una legge e non c’è legge senza un potere che la faccia rispettare. Lo Stato è necessario di contro alle numerose e sempre rinascenti forze dell’egoismo e della disgregazione. Garantire la pace, la giustizia, la solidarietà tra i membri di un corpo sociale è un bene comune indispensabile alla stessa sopravvivenza della società e lo Stato è lo strumento non unico, ma preminente per la sua attuazione. Grande, quindi, è il compito assegnato da Dio alle autorità politiche, le quali sono necessarie, vanno rispettate (Rm 13,7; 1 Pt 2,17) e obbedite (Rm 13,2). Anzi Paolo, con un eccesso di realismo, precisa: «quelle che esistono» (Rm 13,1) e non solo quelle autorità ideali che vorremmo ci fossero. Il fondamento della loro posizione è un decreto di Dio che, volendo la socialis vita hominis, ne vuole anche gli strumenti. Insomma «l’autorità politica è al servizio di Dio per il bene» (Rm 13,14) e, pertanto, a causa dell’importanza decisiva della loro funzione, tutti coloro che sono preposti al bene comune, lo sappiano o no, cooperano al «disegno stabilito da Dio» (Rm 13,2) e per essi i cristiani devono pregare (1 Tm 2,1). L’assetto sociale e politico richiede per la sua consistenza, stabilità e organicità la potestas, quali che siano i modi contingenti in cui possa esercitarsi e le persone che ne siano investite. L’ordine sociale e politico è un bene necessario «perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità» (1 Tm 2,2), sì che sia consentito allo spirito umano di volgersi a più alte mete. Queste considerazioni valgono per ogni Stato e autorità politica in quanto tali, perché attengono all’ufficio che è loro proprio, alla loro stessa ragion d’essere. Esse esprimono un principio generale e non implicano affatto un riferimento ad alcuna investitura personale. Contro certe forzature in senso anarcoide del messaggio evangelico, appare invece evidente che il cristiano non deve aver paura dello Stato e tanto meno nutrire sentimenti di preventiva ostilità nei suoi confronti. Su questo punto il pensiero delle «colonne della chiesa» – Pietro, Paolo e Giovanni – è concorde, esplicito e a noi sembra anche antiveggente, se si pensa che gli apostoli scrivevano quando la persecuzione era incombente o già in atto e si rivolgevano a persone che erano minacciate, braccate e messe a morte come la peggior canaglia. Né si deve dimenticare che i capi degli apostoli si rivolgevano agli uomini della prima generazione cristiana, tra i quali la diffusa persuasione che la venuta gloriosa di Gesù fosse assai prossima poteva alimentare la tendenza a mettere tra parentesi l’oggi e le sue imprescindibili esigenze.
Il Nuovo Testamento non mitizza lo Stato, le sue istituzioni, i suoi rappresentanti, né assolutizza mai la sfera politica. Non nutre illusione alcuna nei loro confronti. L’azione politica – statuale o no – non è trasfigurata e associata all’azione salvifica. Mai nel Nuovo Testamento si pone l’annuncio religioso a supporto di una ideologia politica, come facevano al tempo di Gesù i “rivoluzionari messianici” (Barabba era uno di loro e, a quanto pare, anche Giuda il traditore). I cristiani debbono portare il loro ethos, il loro senso di responsabilità e di servizio anche nei rapporti politico-sociali e nelle strutture statali, per umanizzare sempre di più gli uni e le altre; ma essi non configurano affatto lo Stato come una specie di riflesso terreno della Gerusalemme celeste e della sua gloria. Desideri del genere potevano ancora essere presenti nell’Antico Testamento, ma sono screditati per sempre nel Nuovo Testamento, che sconfessa ogni esercizio clericale del potere. Non ci può essere, insomma, a partire dal Vangelo, identità o confusione tra nazione e religione, regalità e sacerdozio, potere temporale e potere spirituale, politica e costruzione del regno di Dio. Cosa del tutto diversa è porre il problema, e il Nuovo Testamento lo fa apertamente, della mutua, funzionale, necessaria indipendenza e convivenza tra Chiesa e potere politico. Ma perché una tale possibilità pratica, estranea alla mentalità onniconclusiva dello Stato nell’antichità classica, potesse sorgere, occorreva che lo Stato riconoscesse – cosa non facile e interamente nuova, rivoluzionaria! – accanto alla sua, un’altra basiléia, la sovranità di Dio. È il senso del racconto della ‘moneta del tributo’ riportato dai sinottici (Mc 12,13-17; Mt 22,15-22; Lc 20,20-26) e della distinzione di piani e di poteri mirabilmente enunciata da Gesù nella massima evangelica: «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (Mt 22,21-22). Con queste parole Gesù affermava che il diritto dello Stato non è né esclusivo, né assoluto. È qui la radice prima di ogni liberazione, anche politica, dell’uomo e dello Stato medesimo in quanto esso è ricondotto alla sua finalità propria ed è così preservato dall’imbarbarimento. La sovranità di Dio non fa concorrenza a quella terrena, tanto diverso è il piano su cui si trova; e tuttavia quella novità del Vangelo è apportatrice di luce e libertà, anche nell’ambito civile e politico.
Gesù ha in tal modo restituito finalmente lo Stato alla sua corretta laicità e alle finalità sue proprie, preservandolo dalla degenerazione; nello stesso tempo ha indicato una delle condizioni permanenti e fondamentali perché la Chiesa possa adempiere la lex salutis animarum in cui consiste la sua sola ragion d’essere. Ebbene, è a partire da quelle parole di Cristo che è cominciata una nuova storia in cui per principio lo Stato non deve invadere ciò che attiene all’interiorità, alle convinzioni, alla fede dei credenti e alla missione religiosa della Chiesa; e, d’altra parte, la Chiesa è chiamata a non cedere alla più insidiosa temptatio sedutionis, quella di esercitare in nome di Dio un potere per il quale essa non è stata costituita.
La basilèia di Dio non si me¬scola a quella terrena, come vorrebbero farci credere i fondamentalisti e i clericali di qualsiasi epoca storica. Al contrario, la sovranità di Dio esclude ogni forma di sovranità politica della Chiesa e dei sacerdoti, sì che è blasfemo ricorrere al Vangelo per legittimare qualsiasi forma di dominio politico in veste sacrale. Una tentazione del genere si presenta, in forme diverse, spesso nella storia della Chiesa; ma nella misura in cui è diventata in qualche modo realtà storica, essa ha prodotto sempre guasti di indicibile gravità, che si sono rilevati devastanti.
Il cristiano di fronte a uno Stato che impone il culto idolatrico di se stesso.
Lo Stato non è una grandezza chiusa in sé, non è l’ultima istanza di tutto; ma se pretende di esserlo, allora diventa un’aberrazione e una gigantesca macchina per opprimere. Nell’Apocalisse, appunto, i cristiani vivono questa terribile situazione e sono messi in guardia nei confronti di uno Stato che degenera. La possibilità di degenerare è posta in forte rilievo dagli scrittori neotestamentari dall’esperienza di uno Stato che tanto più divinizzava se stesso quanto più si corrompeva: uno Stato che impone il culto idolatrico di se stesso non è per il veggente dell’Apocalisse un fenomeno storico unico. Lo Stato deve funzionare nel modo migliore per rispondere alla sua ragion d’essere, ma il processo di perversione è una possibilità reale, un’atroce minaccia. Non è solo l’Apocalisse a fare queste affermazioni. Anche Paolo aveva parlato, qualche decennio prima, del «mistero d’iniquità già in atto» (2 Ts 2,7) che si manifesta in un potere il quale «s’innalza su tutto ciò che viene chiamato Dio ed è oggetto di venerazione, così da assidersi nel tempio di Dio e presentare se stesso come Dio» (2 Ts 2,3). Quando lo Stato diventa il dio in terra, allora non può essere designato che con i termini di «Grande Bestia» e di «Grande Puttana». La violenza è la logica stessa del suo agire e gli uomini sono trasformai in numeri. Tutti sono costretti a portare il marchio, la sphragìs,il simbolo di chi impone il suo volere assoluto, e sono classificati esclusivamente in amici e nemici del potere. A chi rifiuti la schiavitù del regime vengono sottratte le basi economiche per sopravvivere, estendendosi il dominio del mostro anche all’economia: «nessuno può comprar o vendere se non chi ha l’impronta col nome della Bestia». Il trionfo dello Stato oppressore avrà il sigillo della «forza» e sarà un «prodigio di menzogne» (2 Ts 2,9). L’intellettuale impegnato a idolatrare la Grande Puttana, che gli concede i suoi favori, è il ‘falso profeta’ (Ap 16,20; 19,20) che adempie alla funzione che gli è stata affidata: celebra l’ideologia di chi comanda, degrada la cultura a propaganda, elabora l’autogiustificazione permanente del potere, diffonde l’illusione di una felicità terrena perfetta, insegna la pedagogia del servaggio. Il filosofo-teologo-ideologo dello Stato degenerato è una meschina, lurida bestia al servizio della Grande Bestia.
Che cosa debbono fare i cristiani in una situazione del genere? I cristiani non adoreranno la Bestia e non fornicheranno con la Puttana. In primo luogo occorre «non aver parte ai peccati», cioè ai crimini e alle infamie dello Stato degenerato. Non è lecito esser vili e neppure tiepidi verso il male. I cristiani conoscono la loro parola d’ordine: non cedere al mistero d’iniquità, non lasciarsi vincere dal male, non rispondere al male col male. La loro vittoria sta nel ‘testimoniare’ (è il senso preciso della parola ‘martirio’) il Signore e il suo nuovo comandamento secondo il quale anche i nemici e gli operatori d’iniquità sono pur sempre uomini e, dunque, anch’essi sono sempre oggetto dell’agàpe.
Quando uno Stato svolge normalmente il suo ufficio, solo chi compie cattive azioni deve temere (Rm 13,3). Quando, invece, le forze del male hanno nelle loro mani le leve del potere, lo Stato non può assolvere nemmeno il compito di punire la sopraffazione e la malvagità, essendo queste coincidenti – e al più alto livello – con lo stesso sistema statuale. In cambio lo Stato degenerato si accanisce contro chi non si piega perché ha una coscienza. Suona allora per i cristiani l’ora della prova, dalla quale, in virtù della loro fede che vince il mondo, usciranno vittoriosi coloro che sono «scannati» (Ap 18,24). «Perseguitati, i cristiani si moltiplicano ogni giorno di più… Quanto più aumentano i martiri, tanto più si moltiplica il numero dei credenti», osserva con tranquilla audacia l’Autore dell’A Diogneto (VI,9; VII,8). Tertulliano dirà le stesse cose con frasi di rovente forza espressiva. «Noi soffriamo il martirio come si soffre la guerra, perché nessuno la fa volentieri, dal momento che implica angoscia e repentaglio. La nostra guerra è l’essere trascinati davanti ai tribunali per combattere con pericolo di morte in difesa della verità e la nostra vittoria è raggiungere la meta per cui abbiamo accettato il certame. Tormentateci pure, torturateci, condannateci, abbatteteci. La vostra iniquità è la riprova della nostra innocenza. La più raffinata delle vostre crudeltà è sterile. Ogni volta che voi mietete nel nostro campo, noi ci moltiplichiamo: il sangue dei cristiani è una semenza feconda» (Plures efficimur quotiens metimur a vobis: semen est sanguis christianorum, Apol. 50, passim). Anche sul piano dell’efficacia storica, l’avvenire è dei perseguitati.
In sintesi: l’obbedienza alle leggi e la lealtà nei confronti dello Stato sono fuori discussione per i cristiani. Essi sono chiamati a obbedire all’autorità statale, che è richiesta per l’esistenza della vita sociale. Ma se si verifica il caso in cui l’autorità stessa operi contrariamente al miglior bene dello Stato, allora vuol dire che è giunto il momento nel quale, come dice Pietro, “bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (Atti 5,29).
In quella situazione, la rivolta della coscienza cristiana a uno Stato che si è fatto sistema di criminale oppressione è un dovere a cui non ci si deve sottrarre, una testimonianza da rendere a Dio e agli uomini, anche a costo della vita.
Brevi annotazioni e aggiunte.
1. La “politica” di San Francesco. Francesco d’Assisi è uno dei più geniali e fedeli imitatori di Cristo. Apostolo della pace interiore, egli fu anche appassionato persuasore di pace tra uomini che – a cominciare dalla sua città – erano ferocemente divisi da odi, rivalità, interessi. Ma come egli adempì la sua missione? Jacques Paul nelle considerazioni conclusive della voce «Pace» nel Dizionario francescano di spiritualità (Messaggerie, Padova 1983) ha colto perfettamente, con estrema limpidezza, lo “stile” del grande santo quando ha scritto: «A Francesco non incombe l’obbligo di negoziare degli accordi, di equilibrare le concessioni, di ricevere dei giuramenti. A lui spetta il compito di creare le condizioni spirituali che permettano a ciascuno di optare da solo in favore della pace e della concordia. Il Vangelo, alimentando questa visione spirituale, consente anche di far fronte agli avvenimenti» (col. 1196).
Questo passo è illuminante nella sua brevità. A me pare che si muova nella stessa direzione anche il filosofo ebreo Martin Buber nella lettera del 31 maggio 1923 a Ernst Simon: «Ciò che lei chiama politica religiosa non è più politica… Non esiste una politica religiosa, tutt’al più ci sono politici religiosi. Questi sono coloro che sono consapevoli della vasta problematica relativa alla distanza fra il regno di Dio e quello dell’uomo… Il profeta, che parla dell’essenza della politica, non è un politico, né può diventarlo… Se un profeta si comportasse in questo modo, avrebbe rinnegato e perduto la sua profezia. La politica religiosa è pensabile solo come superamento della politica stessa…» (M. Buber, La modernità della Parola–Lettere scelte 1918-1938, Giuntina, Firenze 2000, p. 127).
2. In forma di preghiera [Per la ventitreesima domenica dopo la Trinità]. C’è una preghiera di Alberto Magno, il maestro di Tommaso d’Aquino, poco conosciuta ma di straordinaria sagacia. In essa sono individuati comportamenti, pericoli e “trappole” di stampo prettamente clericale da cui il cristiano deve guardarsi perché snaturano l’essenza stessa del messaggio di Gesù e della fede in Dio. Eccone il testo:
«Signore Gesù Cristo, insegnaci a capire, a scoprire le trappole di quanti vogliono sedurci nel tuo nome. Insegnaci a non approvarli per compiacerli, a seguire in tutto la ragione, a schivare le occasioni di falsa pietà e le manifestazioni di pietà troppo spinta, a non dire niente che faccia torto ad altri o che noi non si creda giusto.
Concedici di distinguere ciò che rientra nell’ordine della natura e ciò che la grazia ispira, affinché in virtù della nostra intelligenza, la quale ci guida con prudenza nella vita spirituale non meno che in quella temporale, diamo a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare».
3. Il Vangelo e l’Europa. Senza Atene, senza Roma, senza la Chiesa cattolica l’Europa non sarebbe. L’Europa avrebbe, per questo, una sorta di monopolio della fede cristiana? Affermarlo sarebbe un’eresia, né si può far coincidere il Cristianesimo con la nostra civiltà perché il Vangelo è in grado di fecondare tutte le civiltà e le culture. La sua forza sta, infatti, nella universalità della chiamata alla fede e nel dinamismo che immette nella storia a vantaggio di tutti, ma conferendo un innegabile primato alle moltitudini chiamate per nome nel Discorso delle Beatitudini. La nostra civiltà in ciò che ha di più nobile è segnata senza dubbio dal Vangelo, anche se il Cristianesimo non si identifica e non si esaurisce in nessuna delle cristianità storico-politiche che si sono succedute nel nostro continente. Orbene – quali che siano i suoi limiti e le sue colpe – la nostra storia ha portato a un esito di straordinaria importanza: in Europa la libertà ha prevalso perché è stato impossibile per una sola delle forze in gioco soffocare le altre.
La libertà è così diventata nello stesso tempo il risultato della storia d’Europa e il valore, dal cui riconoscimento pratico trae origine e regola la varietà dei principi e delle istituzioni che caratterizzano la nostra civiltà. Non che l’assoggettamento del tutto a un solo potere, a un solo principio, a una sola nazione, a una sola razza, a una sola ideologia non sia stato tentato, e più volte; ma è sempre provvidenzialmente fallito, e il tentativo più colossale, quello operato nel secolo scorso dalla barbarie totalitaria, comunista e nazista, è sprofondato nell’ignominia.
L’Europa, però, ha potuto resistere alle violente negazioni della sua civiltà generate dal suo interno e farsi portatrice di libertà nel mondo, perché il messaggio religioso che l’ha fecondata, il Vangelo, porta dentro di sé inequivocabilmente il principio stesso della pluralità delle sfere della vita. Per questo noi non cesseremo mai di ringraziare gli evangelisti che hanno raccolto dalla bocca di Cristo e ci hanno trasmesso le grandi parole «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (Mt 22, 21), con cui Cristo condanna senza appello l’integralismo che cancella le differenze e la distinzione tra fede e politica, Chiesa e Stato, religione e partito. Questo punto essenziale del messaggio di Cristo è entrato per nostra fortuna nel DNA della storia d’Europa, ma anche le altre civiltà e le religioni non cristiane, soprattutto quelle islamiche, hanno bisogno di scoprirne la permanente validità. Lo aveva ben capito François Guizot, l’autore di formazione calvinista della Histoire générale de la civilisation en Europe e della Histoire de la civilisation en France, apparse nella prima metà dell’Ottocento. Egli ravvisa, infatti, nello svolgersi della civiltà europea – la quale non è né ristretta, né esclusiva, né stazionaria – qualcosa di multiforme e persino di tempestoso, che però “si ricollega agli stessi principi e tende a produrre quasi ovunque risultati analoghi” perché ciò che ne ha reso possibile il sorgere ne orienta, in un certo senso, gli sviluppi successivi. Per Guizot la differenza di fondo della storia d’Europa rispetto a quella di altri continenti ha la sua origine in “un grande fatto”: «La Chiesa [nell’atto stesso di annunciare Cristo] dette inizio a un grande fatto, la separazione del potere spirituale e del potere temporale. Questa separazione è la sorgente della libertà di coscienza (Cette séparation c’est la source de la liberté de conscience)».
4. Dalla Resistenza europea due spinte a superare la mentalità clerico-integralista. Nell’aprile-maggio del 1945 finì la seconda guerra mondiale e pochi mesi prima cessarono di funzionare i lager nazisti, nei quali erano stati accomunati i cattolici e gli evangelici che avevano resistito al neopaganesimo razzista di Hitler e del suo regime. Quei testimoni eroici costituirono un vero problema di coscienza per le loro Chiese e le obbligarono a guardare con altri occhi i rapporti tra Stato e Chiesa, tra Chiesa e società, tra coscienza individuale e autorità costituita.
Su due punti, in particolare, la loro resistenza profetica slargò e approfondì la comprensione dell’essenza stessa del cristianesimo. Il primo punto è il seguente: cattolici ed evangelici, sotto la sferza di Satana, si riscoprirono finalmente fratelli, ponendo così le premesse per la nascita del movimento ecumenico. E l’ecumenismo sarebbe stato nei decenni successivi una delle grandi direttrici del XX secolo, segno e causa insieme del rinnovamento delle Chiese cristiane. Di lì nacque il fermo proposito di impegnare le rispettive confessioni a rendere pura da odi e pregiudizi la memoria del passato, a valorizzare i reciproci tesori, a ricercare l’unità tra i cristiani, ad abbandonare ogni tentazione integralista.
L’altro insegnamento, che ci viene dalla lotta dei cristiani contro la barbarie nazista, fu una nuova visione di ciò che si debba intendere per difesa della fede e della Chiesa a cui si appartiene. Con grande lucidità uno degli eroi dell’impari lotta, il gesuita tedesco Friedrich Muckermann, nel breve, mirabile racconto della sua lunga lotta contro il nazismo, La via tedesca, tradotto in italiano dalla Morcelliana di Brescia, scrisse: “Vi erano e vi sono ancora dei cristiani che parlano di persecuzione religiosa soltanto quando si assaltano i conventi e si uccidono i sacerdoti. Per i non credenti un tale modo di giudicare appare egoistico, quasi che ci si preoccupi unicamente di specifici interessi ecclesiastici. Per noi il cristianesimo è la religione dell’umanità, l’anima di una cultura universale. Davanti ai nostri occhi la Chiesa è offesa ogni qualvolta si disonora l’umanità in un uomo e chi colpisce il volto di un uomo colpisce nello stesso tempo il volto di Cristo, primogenito fra tanti fratelli. Lottare per la Chiesa significa per noi lottare per l’umanità”.
5. «Nell’eguaglianza del diritto comune». Faust dice con profonda verità: «Bisogna rinunciare a dominare per adorare»; il clericalismo, alla sua radice, è rinuncia ad adorare per dominare, spinta – attraverso vari gradi – sino al sacrilegio di fare dell’Assoluto e dell’Eterno dei semplici mezzi di conquista e di potere. Vi è però un’evidenza che s’impone a tutti: il clericalismo, nella sua forma più detestabile (il più spesso esso è frutto di confusioni di piani e di incoerenza di mezzi, più che di una deliberata perversione del fine), è una tra le mille maschere di quella sete di potenza, di quella libido dominandi insorgente proprio dal ripudio del Cristianesimo, e perciò solo anime profondamente religiose possono difendersene, perché la loro fede le mette nelle migliori condizioni per misurarne la capacità di degradazione.
«Dio – scrive stupendamente P. Giulio Bevilacqua in Equivoci-Mondo moderno e Cristo (Morcelliana, Brescia, 19532) – per salvarci ha rinunciato al privilegio abbracciando il diritto comune, divenendo cioè simile in tutto a noi, ad eccezione del peccato, ed il Cristo ci ha additato così, nell’eguaglianza del diritto comune, il mezzo principe di redenzione. Su questa strada il clero incontrerà nuovamente il suo popolo, il tempio la sua libera respirazione, la società il senso smarrito del sacro. Società cristiana sarà allora la società nella quale lo spirito del Vangelo sarà pienamente libero di circolare come lievito di elevazione».
6. In Francia la Chiesa la pensa così. «Regolarmente, in occasione delle consultazioni elettorali, si levano voci, tra i cattolici, per dolersi del fatto che in Francia non esista un partito specificatamente cristiano che difenda “i valori del Vangelo”. In realtà una simile richiesta implica tre errori: a) non dà fiducia alla maturità politica dei cristiani, considerandoli incapaci, in quanto cittadini, di decidere in libertà e con cognizione di causa; b) dimentica un dato di fatto innegabile: che due cristiani possono trovarsi d’accordo su alcuni principi comuni e separarsi poi non certo sui valori, bensì sui mezzi per raggiungerli; c) qualora avesse successo, quella richiesta, avrebbe l’effetto di mettere l’identità cristiana sullo stesso piano di quella politica. Trasformerebbe quindi il Vangelo in un programma politico, il che equivarrebbe a snaturarlo completamente. Infeudando la Chiesa ad un partito, o il partito “cattolico” alla Chiesa, questa rischierebbe di non apparire più quello che è e deve essere, una società soprannaturale e trascendente, fondata sulla realtà sacramentale, il cui compito è annunciare a tutti Gesù e il suo messaggio di salvezza. Inversamente, nella misura in cui sarà chiaro che l’identità cristiana trascende le distinzioni politiche, le quali peraltro sono legittime in un sistema democratico, sarà più facile ai cristiani rendere testimonianza alla verità della loro fede ed invitare gli altri cittadini ad affrontare nel modo più degno le questioni politiche, sia distinguendo quello che è accettabile da quello che non lo è, sia lavorando a far sì che gli stessi avversari si confrontino civilmente e si riconcilino tra loro». («Nota sulla richiesta di un partito cristiano», in Chiesa e politica di Hippolyte Simon, trad. it. Queriniana, Brescia 1993).
7. Il clericalismo: appunti per una definizione. «Si tratta di uno di quei termini in cui la definizione è strettamente legata al contesto storico-politico in cui viene usato. Oggi comunque viene generalmente usato per indicare il comportamento della Chiesa istituzionale che cerca di intervenire in ambiti della società civile che non le sono propri, per determinarne le scelte e gli orientamenti, utilizzando come strumento di intervento il clero e le sue organizzazioni laicali, indirizzate così verso attività che esulano dai fini per i quali sono state create.
Speculare al termine clericalismo è l’anticlericalismo. Clericalismo e anticlericalismo hanno avuto pertanto una storia e una sorte comune. Tra gli avversari della Chiesa il termine clericalismo non è usato in modo univoco; si va da una valenza antiecclesiastica, da cui è quasi sempre assente l’aspetto antireligioso, al radicalismo e all’ostilità aperta nei confronti dello stesso sentimento religioso. Non va però dimenticato che anche all’interno della Chiesa, a partire dalla metà del XIX secolo, nascono movimenti e tendenze anticlericali, che hanno le loro radici in gruppi o persone che agiscono e intendono restare dentro la Chiesa.
Una certa mentalità, diffusa ancora oggi, è propensa a sostenere che, come unica depositaria della verità, la Chiesa e la sua classe dirigente abbiano il diritto di intervento in tutti i problemi. L’evoluzione più recente della Chiesa cattolica ha portato quella classe dirigente ad emanare documenti nei quali tale mentalità sembra superata. Non sempre, però, è così nei fatti» (Maurilio Guasco, voce «Clericalismo» in Dizionario di politica, Utet-Tea, Torino 1990, pp. 146-147).
Città e Dintorni, n.87, dicembre 2005.