Agostino arriva a Milano alla fine dell’estate del 384 e ne riparte per sempre nel maggio del 387. In questo spazio di neppure tre anni si colloca la sua conversione, che certamente è uno degli avveni-menti più decisivi e ricchi di implicazioni non solo della storia del pensiero filosofico e teologico, ma anche dell’evoluzione culturale e sociale che ha dato vita all’Europa. È affascinante studiare nelle Confessioni i meccanismi logici, psicologici e morali che sono stati chiamati in causa in que-sto processo di capovolgimento interiore.
In questa relazione vorrei tentare di mettere in luce l’influsso dell’ambiente ecclesiale, cioè della chiesa di Milano, sulla decisione di conversione di sant’Agostino. Questa angolazione prospettica implica l’analisi dei rapporti tra il giovane Agostino e il vescovo di Milano Ambrogio. La novità del mio discorso, rispetto ad altri, sarà che, mentre di solito si vede il problema dal punto di vista di Agostino, io lo tratterò dal punto di vista di Ambrogio.
Agostino arriva a Milano come professore di retorica e quindi, come autorità in campo scolastico, diventa suo dovere andare dal vescovo per una visita di cortesia. Nelle Confessioni leggiamo che Ambrogio gli dà un saluto “satis episcopaliter”, e questo significa che lo ha accolto con affettuosa gentilezza. Perché Agostino si meraviglia di questo? Doveva avere qualche ragione particolare il Vescovo di Milano per comportarsi diversamente? Siamo sufficientemente informati dai fatti per formulare qualche congettura plausibile. Sappiamo che Agostino è mandato a Milano da Simmaco, che allora era prefetto di Roma. La cattedra gli è conferita da Simmaco su raccomandazione della setta dei Manichei, a cui Agostino aderiva seppure con molta perplessità.
Proprio in quei mesi Ambrogio e Simmaco stavano litigando acerbamente perché, essendo Simma-co un pagano, era sua intenzione riproporre la religione ufficiale di Roma e collocare la statua della dea Vittoria nel senato di Roma; e a questo tentativo si era opposto Ambrogio. In quei giorni di liti-gi, al prefetto di Roma non sarà parso vero di poter fare un dispetto ad Ambrogio assegnando la prestigiosa cattedra di Milano ad un africano, ateo, anticlericale, manicheo e inoltre concubino, qua-le era Agostino a quel tempo.
Dopo il primo incontro, i loro rapporti non diventano molto più stretti. Agostino, come professore di lettere, è ammaliato dalla mirabile eloquenza di Ambrogio e ben presto ne diventa uno dei più as-sidui ascoltatori. Sappiamo che almeno dopo l’arrivo della madre Monica, nel 385, Agostino è in chiesa ogni domenica e a poco a poco, attraverso la forma dell’eloquenza di Ambrogio, viene colpi-to anche dalla sostanza dell’insegnamento della dottrina cattolica. Agostino in quel periodo era un personaggio di spicco, quindi non è possibile che Ambrogio non l’abbia notato in chiesa. Ad Ago-stino il primo gennaio 385 era stato assegnato il compito di pronunciare a corte il discorso di circo-stanza per l’inizio del consolato del generale Bautone; il 22 gennaio del 385 era stato incaricato del panegirico aulico per il decimo anniversario di regno dell’imperatore Valentiniano II. Dopo questi incarichi importanti, Ambrogio non può ignorare la presenza di Agostino in chiesa, ma pare non abbia né tempo né voglia di occuparsi da vicino dei grovigli interiori e delle ansie inconcluse di questo retore straniero. Ambrogio non ha tempo perché il suo compito pastorale lo assorbe total-mente; sono infatti questi gli anni tra i più intensi del suo episcopato. Poco dopo il suo primo incon-tro con Agostino Ambrogio parte per Treviri alla corte dell’imperatore Massimo: andare a Treviri significava star via alcuni mesi.
Tornato a Milano verso i primi giorni di dicembre, si vede arrivare in città il vescovo eretico Mercu-rino Aussenzio, che viene accolto fastosamente a corte. Aussenzio incomincia a riorganizzare il par-tito ariano e a pretendere da Ambrogio l’assegnazione di una delle grandi basiliche cittadine. Co-mincia la lotta tra Ambrogio e l’autorità imperiale, che parteggiava per Aussenzio, una lotta che tie-ne impegnato il vescovo per lungo tempo. L’autorità imperiale era rappresentata dall’imperatore Valentiniano II. Agli inizi del 385 c’è il primo tentativo dell’autorità imperiale di sequestrare una basilica, tentativo che viene prontamente sventato da Ambrogio. Un anno dopo, nel 386, si riaccen-de la lotta con la pubblicazione di un decreto imperiale a favore dei seguaci ariani. A questo punto Ambrogio decide di convocare un Concilio con i suoi vescovi che appoggeranno la sua ferma con-dotta. La crisi arriva all’apice durante la Settimana Santa del 386 con l’occupazione permanente della basilica da parte dei cattolici di Milano che non volevano finisse in mano agli ariani. È in que-sta occasione che Ambrogio compone gli Inni liturgici che si diffonderanno poi in tutto l’Occidente. In quegli stessi anni è impegnato nella costruzione di molti edifici sacri: la basilica Martyrum (l’attuale Sant’Ambrogio), la basilica Apostolorum (l’attuale San Nazaro), il battistero nel quale verrà battezzato Sant’Agostino. A quel tempo risalgono anche produzioni letterarie molto importan-ti del vescovo: De Jacob et vita beata, De bono mortis, Hexaemeron, gli Inni, il gruppo di lettere che assumono la forma di piccoli trattati.
Le lettere più significative sono la 17a e la 18a scritta a Valentiniano II a proposito della polemica con Simmaco, la 19a al Vescovo Vigilio di Trento sulla questione dei matrimoni misti, la 20a alla sorella Marcellina sul primo incidente delle basiliche, la 21a a Valentiniano II sulle basiliche, la 22a a Marcellina con la narrazione del ritrovamento dei Santi Protasio e Gervaso, la 23a ai Vescovi dell’Emilia sulla data della Pasqua. A queste si deve aggiungere un lungo discorso, il Sermo contra Auxentium de basilicis tradendis.
Agostino ci rende testimonianza dei suoi impegni quando dice: “Non mi era possibile interrogarlo su ciò che volevo e come volevo, perché caterve di gente indaffarata, che egli soccorreva nell’angustia, si frapponevano fra me e le sue orecchie, tra me e la sua bocca”. [VI, 3.3].
Ecco che cosa pensava Ambrogio della dialettica: “Ella non ha la capacità di costruire, ma solo quella di demolire. Non è con la dialettica che Dio si è compiaciuto di salvare il suo popolo, perché il regno di Dio sta nella semplicità delle cose”. Al Vescovo non interessava entrare in discorsi dia-lettici, mentre un uomo come Agostino avrebbe preteso intere giornate di confronti intellettuali e di analisi filosofiche minuziose. Agostino ci racconta che dopo aver sentito il desiderio di parlare con il Vescovo, senza difficoltà raggiunge il suo studio, trovandolo intento nella lettura; e la sua lettura lo impegnava al punto che non concesse una parola ad Agostino. A questo proposito Agostino scri-ve: “Mi allontanavo supponendo avesse piacere di non essere distratto”.
La madre di sant’Agostino, Monica, arriva a Milano nell’estate del 385 con un solo preciso pensie-ro: far tornare il figlio alla fede cattolica. Monica divenne un’assidua frequentatrice di tutti i riti e di tutte le adunanze della Chiesa di Milano. Agostino, tramite la madre, era costantemente informato di tutte le vicende che riguardavano il Vescovo e noi crediamo che anche Ambrogio sia stato infor-mato della lunga crisi di suo figlio.
Ambrogio conosce perfettamente il dramma interiore di Agostino, ma sta attento a non affrontare l’argomento con lui. Quando i due si incontravano per le vie di Milano, il loro discorso cadeva su Monica e sulle sue virtù. Dice Agostino: “Incontrandomi non si tratteneva dal tesserne l’elogio e dal felicitarsi con me che avevo tale madre”. Successivamente si crea un rapporto epistolare: Agostino verso settembre si ritira a Cassiciaco dopo aver deciso la sua conversione. Da qui scrive al Vescovo informandolo della sua decisione di ricevere il battesimo chiedendo qualche libro da leggere per prepararsi al sacramento. Ambrogio gli risponde di leggere il profeta Isaia. Questo consiglio fu inef-ficace, perché Agostino ci dice di non aver capito molto della lettura e di averla interrotta quasi su-bito. [IX, 5.13].
Dopo aver raccontato questi fatti si potrebbe arrivare alla conclusione che il vescovo Ambrogio ab-bia avuto scarsa importanza per la conversione di Agostino. Arrivare a questa deduzione non solo vorrebbe dire andar contro la tradizione ecclesiale, ma andar contro la testimonianza dello stesso Agostino, il quale non esita mai ad attribuire al vescovo di Milano un’azione decisiva nell’opera della sua salvezza.
Agostino, ripensando con calma e alla luce di Dio tutta la sua vicenda spirituale, ritiene di essere stato portato di peso a Milano da una mano provvidenziale, cioè da Dio, per incontrare l’uomo che l’avrebbe saputo portare a Lui. Sant’Agostino parlando con Dio dice: “Da te, o Dio, a lui (Ambro-gio) ero condotto ignaro, perché da lui fossi condotto consapevole a Te”. [V, 13.23].
Sant’Agostino non dimenticherà mai più il vescovo del suo battesimo e lo considererà il padre della sua nuova vita, ne ricercherà avidamente pubblicazioni, lo citerà centinaia di volte nei suoi scritti, ne ricorderà i saggi consigli pastorali. Si deve proprio ad Agostino l’invito pressante rivolto a Paoli-no, che era stato segretario di Ambrogio, di scrivere la vita del caro vescovo.
Sembra vi siano due prospettive tra loro inconciliabili: Ambrogio è entrato o no in questa vicenda? È entrato in modo decisivo o in modo secondario?
Mi pare che le due prospettive diverse non siano inconciliabili se noi prendiamo come ipotesi il fat-to che Ambrogio abbia influito in modo decisivo sulla conversione di Agostino non tanto come di-rettore spirituale o amico del cuore, ma come capo di una Chiesa. Agostino è stato persuaso ad usci-re da tutti i suoi dubbi e a concludere il suo tormentoso itinerario dall’esperienza che lui stesso ha fatto della Chiesa di Milano, una Chiesa piena, che all’interno della sua pienezza consentiva ai suoi membri itinerari diversi: “videbam enim plenam ecclesiam, et alius sic ibat, alius autem sic”. [VIII, 1.2].
In che cosa consisteva la pienezza della Chiesa di Milano? Per giustificare queste affermazioni bi-sogna prendere in esame gli avvenimenti ecclesiastici del tempo, le omelie pronunciate da Ambro-gio in quegli anni, i ricordi personali di Agostino. Agostino a Milano ha trovato una Chiesa di popo-lo, popolo vario costituito da gente grande e umile, di lavoratori e commercianti, di semplici e di dotti. Il popolo era unito e aveva un capo ecclesiale come Ambrogio. Ambrogio riesce infatti a vin-cere le due battaglie del 385 e del 386 contro l’autorità imperiale perché il popolo è con lui. Agosti-no nella Chiesa di Milano poteva vedere in atto quanto veniva predicato nell’omelia episcopale.
Quella di Milano era una Chiesa capace di cantare inni a Dio anche nei momenti più difficili. Am-brogio, per dimostrare quanto fosse felice della sua Chiesa, diceva: “Come non ammirare questo popolo, strumento per l’armonia divina, dal quale riecheggia la musica della divina rivelazione e opera intimamente lo Spirito di Dio, come non ammirare questo tempio, santuario della Trinità e dimora della Santità?”
L’anima di Agostino, nativamente aperta ad ogni bellezza, non può non essere colpita dallo spetta-colo delle assemblee liturgiche. Ambrogio descrive l’ingresso dell’assemblea liturgica con l’immagine del mare: “Il popolo entra in folla, prima ne riversa le ondate da tutti gli ingressi, poi mentre i fedeli entrano in coro scroscia come per il fluire dei flutti allorché il canto degli uomini, delle donne e dei fanciulli, a guisa di risonante fragore d’onda, fa eco nei responsori dei salmi”.
Era un popolo certo e grato di essere la Chiesa di Dio, credeva nelle parole del suo vescovo: “Nella Chiesa c’è gioia, nel paganesimo o nell’eresia ci sono pianto e tristezza”.
La Chiesa di Milano non ha nessuna indulgenza verso l’elegante relativismo di Simmaco e le sue insinuanti argomentazioni di intellettuale senza certezze esistenziali. Simmaco dice: “Ognuno ha le sue abitudini e le sue forme di culto. L’intelligenza divina ha assegnato alle città diversi protettori e religioni. Tutte le strade sono buone per arrivare ad un unico mistero”.
I cattolici di Milano da questa larghezza di idee non si sono lasciati conquistare, neanche quando l’autorità imperiale parteggiava per il vescovo ariano Aussenzio. Il movimento ariano riteneva che Gesù Cristo non fosse Dio: ma un Gesù Cristo che non è Dio è più manipolabile e anche il suo Vangelo diventa adattabile.
La Chiesa è piena perché in essa si vedevano fiorire tutte le virtù. In quegli anni Ambrogio aveva usato il paragone del frutto del melograno, che ha tanti chicchi vermigli raccolti in un’unica scorza: “La Chiesa abbellita dal sangue di tanti martiri e da quello di Gesù mostra il luminoso splendore della sua fede e della sua testimonianza conservando sotto un unico riparo a somiglianza della me-lagrana numerosissimi frutti, abbracciando la molteplice operosità delle virtù”. È una Chiesa che vive intensamente la carità preoccupandosi di tutti i poveri. È una Chiesa che usa suppellettili pre-ziose, ma che qualche anno prima aveva rotto i vasi sacri per ottenere il materiale per pagare il ri-scatto dei prigionieri. Dice Ambrogio: “Ho preferito consegnarvi uomini liberi piuttosto che con-servare il vostro oro”.
Agostino aveva trovato una Chiesa che non tentava di attenuare il suo rigore morale mediandolo con le abitudini viziose della Roma decadente. Vorrei sottolineare il rapporto di questa Chiesa con la cultura del tempo. Il cristianesimo, all’epoca dei Padri, non è fiorito in un deserto culturale, ma aveva di fronte la produzione dei filosofi, dei poeti e dei tragici. Ambrogio non aveva fiducia nei confronti degli autori pagani, anche se nei suoi libri vengono continuamente citati.
Gli studi recenti hanno messo in luce a Milano l’attività di un cenacolo di cultura cristiana di pen-siero neoplatonico. Questo cenacolo è animato da Simpliciano, un prete di Ambrogio, con il quale Agostino ebbe quel rapporto intimo e di amicizia che non ricevette da Ambrogio. Ambrogio non poteva negare che gli autori greci e latini avessero detto cose belle, ma nello stesso tempo era con-vinto che le avessero dette perché avevano copiato dalle Sacre Scritture: “Platone si è ispirato al Cantico dei Cantici, Pitagora ha imitato Daniele, in Sofocle c’è l’influsso del libro di Giobbe. Sono dunque nostre quelle dottrine che eccellono nei libri dei filosofi”.
Grazie a questa dottrina del plagio Ambrogio riesce a comporre armoniosamente il principio che la verità è solo di Cristo con la possibilità di avvalersi di quanto di positivo era stato prodotto dal mondo ellenico e romano. Per un innamorato della filosofia come Agostino, il quale anche prima della conversione non apprezzava un libro se non vi trovava il nome di Cristo, questa linea pastorale della cultura e della Chiesa ambrosiana deve essere stata percepita come eccezionalmente feconda e liberante. Questa esperienza ecclesiale l’ha compiuta in parte direttamente e in parte più alta in mo-do mediato. Direttamente per l’assiduità alla predicazione di Ambrogio e per i rapporti culturali con Simpliciano; in modo mediato attraverso Monica, che sembra incarnare la Chiesa madre che nel do-lore e nella speranza arriva finalmente a generare alla vita di grazia questo figlio difficile.
Mi piacerebbe ora attualizzare questa lezione di storia. La Chiesa di questa parte di secolo non regi-stra molti casi di grandi conversioni. Oggi dobbiamo cercare di fare maggiore distinzione tra la luce e le tenebre, tra verità ed errore, altrimenti questo ci porterebbe al caos iniziale. L’uomo è venuto sulla terra per scegliere tra il Signore del mondo e l’apparente principe e non a metterli insieme. Bi-sogna andare incontro alla verità e lottare contro l’errore. Oggi più che mai va riscoperto il senso della missione. Se il centenario della conversione di sant’Agostino, che è stato celebrato in molte parti, dovesse immettere nella cristianità attuale la consapevolezza della verità, io credo che questo sarebbe un altro dono che sant’Agostino fa alla Chiesa.
NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura il 3.12.1986.