La mia presenza qui, stasera nella circostanza della presentazione della nuova edizione dell’opera del professor Mario Bendiscioli della Germania religiosa del Terzo Reich vuole rifugiarsi da ogni presunzione di portare un qualsiasi contributo, ma è dovuto alla pressante insistenza del carissimo professor Matteo Perrini benemerito di una ripresa di attività culturale dei cattolici in Brescia. Tre motivi mi spingono a dire una parola: il primo è l’amicizia fraterna che mi lega al prof. Mario Bendiscioli dalla prima giovinezza, di aver seguito con ammirazione e consenso la sua intelligente e coraggiosa fatica in tempi in cui la libertà di espressione anche se avvalorata dall’obiettività della ricerca scientifica doveva affrontare i condizionamenti del regime, e inoltre l’aver condiviso il carcere con lui a Brescia e a Verona.
Occorre specifica competenza per giudicare la nuova, edizione del libro, ma mi sembra significativo constatare come a distanza di 40 anni il taglio critico del libro non abbia avuto bisogno di essere modificato, mentre la copiosa documentazione raccolta nella nuova edizione venga a confortare il giudizio di Bendiscioli anche sugli avvenimenti che si sono susseguiti all’epoca della prima edizione alla fine della guerra.
Un secondo motivo è un ricordo riconoscente a Padre Bevilacqua cui è dedicata questa sala che fu maestro di tutti noi per individuare e deprecare l’assurdità e la inconciliabilità del nazifascismo con i valori umani e cristiani più essenziali ed irrinunciabili: no alla violenza, no alla guerra, no alla soffocazione delle libertà religiose civili e culturali. Grazie alla sua illuminata fermezza sempre impegnata a pagare di persona, l’ambiente della Pace, non conobbe né compromessi né capitolazioni e, con l’aiuto dì Dio, nel ventennio rimase un’oasi di libertà dove, volentieri si rifugiarono persone di ogni opinione e persino qualche fascista onesto e di buona fede.
Terzo motivo: dopo oltre trent’anni di acquistata libertà democratica avvertiamo che stanno per prendere sopravvento ideologie, legislazioni ed atteggiamenti che sono in contrasto con quegli ideali di libertà, giustizia e pace per i quali la Resistenza in modo particolare dei cattolici ha combattuto, ha sofferto, ha pagato con il sangue. Da un lato deploriamo la spregiudicatezza, libertaria che cerca di fare complice la legge di privatismo cinico, dall’altra la sempre più coartante legislazione che con il pretesto di un sempre maggior servizio sociale soffoca le libertà più legittime nel campo culturale e va verso un chiuso ed arido statalismo, infine la esplosione della violenza a danno soprattutto degli inermi e di coloro che debbono tutelare l’ordine, tragico fenomeno dell’anarchia e della criminalità. Dinanzi a tali deformazioni ed abusi dell’ideale di libertà democratica, c’è da domandarsi quali sono le responsabilità, almeno indirette di noi cattolici, soprattutto di fronte alle nuove generazioni; se abbiamo cioè sempre reso credibile il messaggio di Cristo – che è messaggio di verità, di libertà, di giustizia, di pace e di amore – con la nostra onestà, con la nostra laboriosità, con la nostra abnegazione.
Mi si domanda qualche testimonianza: parlare di quello che mi è capitato mi costa, anche perché non ho mai amato guardare indietro ma piuttosto guardare verso il futuro. Dopo il mio arresto ho avuto l’avventura, anche nel senso positivo della parola di essere associato al campo di concentramento di Dachau, dove erano passati, tra le centinaia di migliaia di prigionieri, soprattutto politici, duemilacinquecento ecclesiastici di ogni nazione e confessione che, direttamente o indirettamente, avevano detto il loro no coraggioso dinanzi all’oppressione delle coscienze che si compiva da parte del regime nazista.
Sarebbe lungo enumerare la storia delle persone che ho conosciuto singolarmente. Basterebbe citare questo fatto: quando il futuro cardinale von Galen dal pulpito ha protestato per l’eliminazione dei menomati compiuta dal regime, non potendo arrestare quest’uomo, hanno mandato a Dachau una quarantina di sacerdoti, con i quali sono entrato in rapporti di amicizia.
Il gruppo più consistente dei sacerdoti deportati era quello polacco: milleseicento ecclesiastici, insieme ad alcuni seminaristi e al vescovo ausiliare Kozal, di cui è introdotta la causa di beatificazione. Questi sacerdoti polacchi, presi come cavie di sperimentazione, furono decimati dagli stenti, dal tifo e ne rimasero soltanto seicento, la maggior parte segnata dalla terribile prova.
E’ bene che si sappia cosa erano le cosiddette “stazioni” cioè centri di sperimentazione cui venivano sottoposti i prigionieri: sperimentazione della malaria, delle infezioni di flemoni, di assideramento, gente gettata in vasche in acqua ghiacciata. I più soccombevano.
Sono episodi che permettono di capire in quale clima la nostra esistenza si svolgeva, sempre alla mercé capricciosa dei nostri dominatori.
Il fatto più significativo è stato l’incontro ecumenico nel campo. Se purtroppo col nazismo in Germania si è formata la “Chiesa tedesca”, di creazione hitleriana, dall’altra c’era la “chiesa confessante”, i cui esponenti Martin Niemöller e Resenmuller, amico del grande Bonhoeffer, si trovavano nel campo. Questi protestanti erano animati da uno spirito cristiano così intenso per cui il loro no al nazismo li ha portati ad affratellarsi anche con noi cattolici e con gli ortodossi: al di là delle confessioni che ci distinguevano, Cristo veramente dominava. Nella comune sofferenza è nata un’amicizia che dura tuttora.
Nel crogiuolo del dolore qualche cosa è maturata: l’avvicinamento di coloro che prima avevano diffidenza verso gli altri, la fecondità della fede vissuta con sacrificio. In modo particolare vorrei sottolineare gli aspetti della carità che fioriva viva nel campo, nonostante l’atmosfera così intrisa di odio. Si è verificato che là dove c’era un cuore, là dove c’era una coscienza cristiana, il senso di solidarietà ha potuto raggiungere l’eroismo. E’ sempre bello di sposare insieme il martirio causa della fede con l’impegno di dare la vita per i propri fratelli. Questo si è verificato in maniera meravigliosa quando è scoppiato il tifo petecchiale: i primi a farsi chiudere nelle baracche dei poveri fratelli condannati alla morte sono stati i preti cattolici.
Credo che il fermarsi a rievocare gli atti di efferatezza non giovi a nulla, mentre vale la pena di sottolineare quella che è stata la volontà di difendere i valori umani e cristiani, rinunciando a tutto nella capacità di donarsi ai fratelli, in un momento in cui la difesa della propria esistenza era così istintiva, perché bisogna aver provato la fame, aver provato il freddo, aver provato la sete, per sperimentare la rivincita della vita nel senso più egoistico, oserei dire nel senso più animale della parola.
Il contributo cristiano alla resistenza, la rivolta della coscienza cristiana al nazismo, vorrei che ci rendesse pensosi, perché il sacrificio di giovani di allora non abbia ad essere compromesso oggi da confusione di idee e soprattutto da aridità di cuore. Dobbiamo recuperare quello che stiamo per perdere. Una società potrà essere pacifica, giusta e libera, se i cuori saranno autenticamente liberi. La vita vale di essere vissuta se si sa amare, col cuore di Cristo.
NOTA: testo, non rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 28.10.1977 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.