Tutte le volte che vedo usata l’espressione “cultura cattolica” provo, francamente, un moto di disagio e mi tornano alla mente le parole che scrisse De Gasperi a Spadolini nel ringraziarlo dell’omaggio di L’opposizione cattolica: “Quanti steccati! Quanti steccati ancora da abbattere”. Gli steccati ai quali alludeva De Gasperi erano quelli elevati all’indomani della presa di Roma, quando i cattolici preferirono chiudersi in una sorta di apartheid, e rifiutando di considerarsi cittadini del giovane Stato unitario, attesero a creare una specie di stato nello Stato. Si trattò d’una grossa occasione storica mancata, come e ormai generalmente riconosciuto e dalla quale derivò una serie d’altri malanni specifici del contesto italiano, a cominciare dall’integralismo.
Quale infatti avrebbe potuto essere il cammino della nostra unità con i cattolici non schierati a difesa del potere temporale, ma a servizio dell’intera comunità, e ansiosi alla pari sia d’un rinnovamento della società civile che del tessuto religioso dei nostro Paese, ce lo mostrano i vari Manzoni, Rosmini, Gioberti, Tommaseo, l’insieme cioè del cosiddetto cattolicesimo liberale, per il quale l’accusa d’integralismo non vale e nemmeno vale, a rigore, la formula di cultura cattolica.
Venne invece il 1848 e scavò un fossato che il 1870 rese più profondo e, per decenni, fatale: venne il non expedit, subito tradotto nella formula “né eletti, né elettori”, venne il Sillabo e la condanna delle dottrine moderne, venne la proclamazione del dogma della infallibilità, con tutti i malintesi che si tirò dietro. Vennero insomma gli ultimi atti del pontificato di Pio IX, che comportarono il divorzio e l’antagonismo tra Chiesa e Stato, chiusero i cattolici in un ghetto culturale, suscitarono il clericalismo e il connesso anticlericalismo, fecero sì che i cattolici si dessero ad una “politica” il cui connotato fondamentale era l’opposizione allo Stato liberale (e se non sorse un partito dei cattolici fu perché accettar d’agirvi significava riconoscerlo), si organizzassero a difesa della Chiesa, ribadissero la loro dipendenza dalle autorità ecclesiastiche anche in sede temporale, si dessero strumenti assistenziali e organizzazioni mutualistiche proprie, banche proprie, case editrici proprie, formassero in breve una società nella società.
Risale appunto a quel tempo la nascita d’una cultura cattolica come alcunché di specifico e separato, quale il cattolicesimo liberale non era stato in alcun modo: una cultura che più che cattolica verrebbe da definire ecclesiastica, e che, ad ogni modo, riuscì timida e minore, dal momento che, nei casi migliori, si strinse a difesa della tradizione e rinunziò a fare i conti col coetaneo moto delle idee: sicché quando lo tentò, negli anni del modernismo, mostrò d’esservi mal preparata e li fece male. Parallelamente, dipese da una cultura cosìffatta, e, più propriamente, dall’assenza dei cattolici dal discorso culturale generale, quel tanto di asfittico che ebbe la coetanea cultura laica ‑ si pensi per tutti a Carducci – così ristretta nel suo fideismo positivistico, così congelata in un miope anticlericalismo.
E’ storia d’altri tempi, s’intende. Che però quella dizione persista, e persistano alcuni dei malintesi che vi erano connessi, che si continui tuttora a parlare di cultura cattolica e magari di scrittori cattolici come d’una specie a parte, non solo da chi è interessato a tenere i cattolici nel vecchio ghetto, ma dai cattolici stessi deve significare pur qualcosa. Significa, per lo meno, che non s’è del tutto dissipato il vecchio equivoco di una apartheid che faceva del cattolico un uomo di cultura a mezzo servizio allo stesso modo che era un cittadino a mezzo servizio. Significa, in sostanza, che nemmeno in campo cattolico è stata intesa in tutta la sua portata l’indicazione di Sturzo quando, all’atto di fondare il Partito Popolare, escludeva che esso dovesse essere il partito dei cattolici e lo concepiva invece come un partito di cattolici che intervenissero a parità, cittadini tra i cittadini, nell’opera di costruzione civile della nazione. Non più cattolici schierati a difesa della Chiesa, ma operanti finalmente a pieno servizio nella società: ecco il senso della laicizzazione introdotta da Sturzo nella politica dei cattolici e l’essenza, se vogliamo, d’una vera e propria rivoluzione che avrebbe dovuto essere bastante da sola a cancellare ogni residuo d’integralismo, che, in effetti, presso i suoi interpreti maggiori vedi De Gasperi – se n’è mostrata capace, e che tuttavia non ha ancora prodotto interi i suoi effetti.
Per lo meno, non se n’è acquistata definitiva coscienza nel campo culturale, se si continua a parlare di cultura cattolica facendo cadere l’accento più sull’aggettivo che sul sostantivo, senza comprendere che la questione va riportata precisamente ai termini indicati da Sturzo. Non esiste una politica “cattolica”, sembrava dire Sturzo, esistono dei cattolici che fanno politica. Analogamente il problema non è di tenere accesa una cultura cattolica, quanto di formare dei cattolici che facciano cultura, che cioè senza complessi e senza riserve, si pongano al servizio della cultura. Il problema cioè non è di definire o di elaborare una cultura cattolica separata, secondo un vecchio e ormai sconfitto separatismo religioso, creandogli attorno gli argini culturali, ma d’essere presenti alla cultura di tutti, partecipi da comprimari al moto complessivo delle idee, lavorando e intervenendo alla pari sullo stesso terreno dei laici, anzi accettando la laicità della ricerca come condizione. li dialogo tanto conclamato significa proprio questo: uscire alla grand’aria, lavorare con tale dignità da rendere insostituibile la propria voce e da diventare un punto di riferimento per tutti. Non più dunque nemmeno lontanamente quel sospetto del “mondo” che usciva dalle pagine del Sillabo e che tuttora, volere o no, ha la sua parte nella minorità culturale dei cattolici, ma abbattere gli ultimi steccati elevati nei quarant’anni durante i quali i cattolici imposero il non expedit anche alla propria presenza culturale per andare definitivamente verso il mondo (non sono forse le proposte del recente Concilio?), far proprie coraggiosamente le tematiche laiche e mondane, esser presenti a tutte le prospettive, e non in ritardo sulle metodologie emergenti, per dialogare senza complessi, da operai della terra allineati con gli altri nel lavoro comune. La svolta è proprio questa, a patto d’acquisirne coscienza: con una Chiesa che, almeno negli ultimi enunciati, si proclama a servizio esclusivo del mondo, sarebbe curioso rivedere dei cattolici preoccupati di non dilatare il loro impegno mondano nella presunzione, così facendo, di meglio restare al servizio della Chiesa.
E’ difficile, lo so, per il cattolico affrancarsi del tutto da una timidezza che lo rende esitante a muovere i propri passi da solo e gli fa dimenticare che, se siamo stati fatti liberi, teologicamente, di perderci, saremo liberi, mondanamente, di sbagliare. E’ difficile smuoversi dalla preoccupazione di testimoniare Dio o, peggio, dall’orgoglio di parlare in nome di Dio. E’ difficile, voglio dire, acquisire definitivamente una coscienza secolare e disporsi ad agire senza pretendere ad ogni costo dei riscontri con l’assoluto, etsi Deus non daretur, come voleva Bonhoeffer. Ha osservato finemente Paolo De Benedetti in un recente libro, La chiamata di Samuele, che “il cristiano è ancora in preda all’antica debolezza di non osare i propri passi nel mondo senza un rapporto oracolare con l’a priori; nelle battaglie del mondo egli pare voler portare con sé l’arca santa, come l’antico Israele”. Si tratta, a ben pensarci, d’una propensione assai simile a quella del marxista, incapace di pensare etsi Marx non daretur, che ha bisogno per ogni proposizione d’un rapporto oracolare con la propria dottrina e che, quando il materialismo storico non gli appare più sufficiente a spiegare l’insieme dei fenomeni della realtà, pretende di servirsi del materialismo dialettico, questo presunto strumento di conoscenza dimostratosi così fallace al lume della scienza d’oggi. Una prova, se ce ne fosse bisogno, di come un’ideologia non basta a fare conoscenza, un avviso, per il cattolico, a non operare nel campo della conoscenza come se fosse al servizio d’una ideologia e, implicitamente, a non trattare Dio come se fosse un’ideologia. Oltre tutto, le arche sante sono sempre impegnative: o non debbono essere portare fuori dal tempio o debbono uscire vittoriose. E troppe volte il cattolico, nella pretesa d’innalzare la sua, l’ha esposta a delle sconfitte, per continuare a rischiare che vadano confuse le ragioni di essa coi propri errori. E del resto non è detto che ad affrontare le battaglie del mondo senza una preliminare dichiarazione di fede debba scapitarne per forza il sentimento religioso. In un tempo rissoso come il nostro, in cui le ideologie che tengono il campo vogliono a ogni costo aver ragione e tendono a sopraffare quanto non riescono a includere, già la sola onestà intellettuale diventa il segno d’una disposizione religiosa e, in ogni caso, un esercizio di moralità. C’è, intendo, una religiosità che si esplica non nei proclami, ma nella giustezza delle opere, non nel parlare in nome di Dio, ma nel fare quanto si fa come se si fosse al cospetto di Dio: come accade ogni giorno a tanti testimoni silenziosi, e come accadeva, nel nostro campo, a certi formidabili studiosi, si pensi al cardinal Mercati, che attendevano a servire Dio facendo semplicemente della buona filologia.
Con tutto ciò, beninteso, non si vuol dire affatto che debbano essere abbandonati certi settori che richiedono la presenza specifica del cattolico, oltre a costituire il suo entroterra, il fondamento della sua identità. E’ chiaro che il discorso teologico e quello cristologico, l’interesse per le scienze morali, la ristampa delle grandi opere della tradizione sacra, la storia religiosa ed ecclesiale, perfino certa letteratura devozionale hanno bisogno, se non vogliono declinare, di addetti al lavoro d’ispirazione cattolica. Si vuol dire piuttosto che la pubblicistica e con essa la vasta e frastagliata editoria cattolica producono fin troppa letteratura devozionale, fin troppo sprecano capitali per qualsiasi scritto abbia sentore di cattolico (ed è evidente che col “fin troppo” si allude alla mediocrità di troppe tesi, e all’ingombro, al danno che produce al mondo cattolico tanta sottocultura), e troppo poco s’avventurano sul terreno delle tematiche laiche e mondane. C’è bisogno di braccia anche qui. Si è parlato di quel non so che di asfittico che ebbe la nostra cultura nei decenni del separatismo religioso. E a questo punto si può aggiungere che non è stato indifferente per il destino culturale del nostro Paese che tante discipline siano rimaste in pratica monopolio di studiosi a mentalità fortemente laicizzata o ideologizzata, i quali troppo spesso non si sono distinti per serenità. Ma per rimediarvi non si tratta di opporre ideologia a ideologia: si tratta, semmai, d’intervenire negli stessi campi con una produzione di livello tale da diventare per tutti un riferimento insostituibile.
Per limitarmi ad un solo esempio, le quindici pagine che una certa storia letteraria riserva a Dante contro la sessanta dedicate a Verga rispondono, con tutto il rispetto per Verga, a un preciso piano ideologico che ha chiaramente per bersaglio il cattolicesimo. Ma ad esso non occorre necessariamente rispondere con una crociata. Occorre piuttosto, con serietà di studiosi, ricreare le condizioni perché venga restituito a Dante quel che è di Dante, nella consapevolezza di rendere in tal modo un servizio alla cultura, e in pari tempo domandarsi fino a qual punto questo o altri simili episodi non siano colpa anche dei cattolici, l’effetto della loro perplessa presenza al discorso comune.
Tutto qui, dunque, dirà qualcuno non senza una punta di delusione. Certo che no. Se finora ci premeva sgombrare il campo da un vecchio equivoco, siamo convinti anche noi che la questione resta aperta. A patto però d’abbordarla da tutt’altro versante. E per fortuna esiste un testo che ha il merito di condensare il meglio della riflessione conciliare in tema d’evangelizzazione, e di farlo inaugurando letteralmente un nuovo corso in materia di rapporti tra Cristianesimo e cultura. Si tratta della Evangelii nuntiandi. E basti leggerne alcune righe per intuire di quale radicale mutamento di rotta si renda interprete:
“Il Vangelo, e quindi l’evangelizzazione, non si identificano certo con la cultura, e sono indipendenti rispetto a tutte le culture. Tuttavia il Regno, che il Vangelo annunzia, è vissuto da uomini profondamente legati a una cultura, e la costruzione del Regno non può non avvalersi della cultura e delle culture umane. Indipendenti di fronte alle culture, il Vangelo e l’evangelizzazione non sono necessariamente incompatibili con esse, ma capaci di impregnarle tutte, senza asservirsi ad alcuna. La rottura tra Vangelo e cultura è senza dubbio il dramma della nostra epoca, come lo fu anche di altre. Occorre quindi fare tutti gli sforzi in vista di urla generosa evangelizzazione della cultura, più esattamente delle culture”.
Non è chi non scorga il rilievo e l’importanza quasi rivoluzionaria del brano. E quanto accuratamente oltre a ciò esso distingua, nel suo usare alternativamente ora il singolare ora il plurale, tra due diverse accezioni del termine cultura, delle quali l’una largamente corrente e anzi, per effetto delle scienze socio-antropologiche, ormai dominante, specie fuori d’Italia2, l’altra invece, piuttosto stranamente, nemmeno segnalata dai dizionari.
A scorrerne infatti anche i migliori (ma scegliamo di proposito il Dizionario enciclopedico italiano, pur tenendo d’occhio almeno quello di Battaglia), essa sembrerebbe comportare solo due accezioni fondamentali, di cui l’una riferita all’individuo, l’altra alla collettività. Vi si definisce cultura in senso individuale l’insieme delle cognizioni intellettuali di cui è dotata una persona, vi si definisce cultura in senso collettivo l’insieme delle manifestazioni della vita materiale, sociale, spirituale d’un popolo. (Battaglia la descrive come “il complesso delle strutture di organizzazione sociale, dei modi di vita, delle attività spirituali, delle conoscenze, delle concezioni, dei valori che si ritrovano, in forme e a livelli diversissimi, in ogni società”).
Dopo averle ricordate, lasciamole da parte. Quanto alla seconda accezione, quella antropologica, occorrerà ritornarvi, ma lo faremo solo sul finire dei nostro discorso e dopo aver compiuto, come si vedrà, un lungo giro. Quanto alla prima, è troppo neutra e ai nostri fini insignificante. L’immagine dell’uomo non ha l’intensità, nemmeno alla lontana, della stessa espressione gens de lettres, con la quale in mancanza d’altro definivano se stessi quel gruppo d’illuministi che a metà del Settecento, dando vita all’Encyclopédie, inaugurarono un nuovo uso dei sapere e dunque un nuovo modo di fare cultura. Come dire che fino a Settecento avanzato il termine cultura non era ancora nato, benché fosse già operante quanto l’avrebbe qualificato. Occorreranno alcuni decenni per vederlo venire in luce e diventare d’uso comune, e altri ancora per vederlo subire un’improvvisa intensificazione semantica e dare poi il nome a una battaglia ideologico-politica come quella del Kulturkampf, aprendosi per tal via a quella tale accezione che i dizionari, come si è visto, omettono di segnalare, e che pure è così presente nel nostro linguaggio quotidiano, se solo pensiamo a una serie d’espressioni (cultura laica, liberale, cattolica, marxista, cultura borghese, proletaria, sottoproletaria, cultura egemone, cultura subalterna, sottocultura, controcultura e via dicendo: si sa che a suo tempo s’è parlato anche di cultura fascista) che lo strapparlo all'”innocenza” alla quale la lasciava la generica immagine dell’uomo colto e la fanno assomigliare a un terreno di scontro per le visioni della vita e le ideologie che tengono il campo.
Il fatto naturalmente non è andato senza contrasti. Julien Benda faceva appunto consistere la trahison des clercs nel fatto d’aver politicizzato e ideologizzato la cultura. Ma Benda aveva torto. Per lo meno non ricordava che la cultura (nel senso, s’intende, che qui c’interessa) portava in sé fin dall’origine i germi che l’avrebbero fatta sconfinare in ideologia. O altrimenti, la cultura che egli faceva oggetto delle proprie nostalgie è tanto distante da noi – e da lui – almeno quanto lo è l’immagine dell’uomo colto anteriormente all’Illuminismo da quella dell’intellettuale d’oggi.
In mancanza di meglio, cerchiamo di capirci per via d’approssimazioni: la cultura non è scienza, anche se la include, non è generico sapere, anche se lo include, non è nemmeno sapere filosofico, anche se lo include. E’ scienza, sapere, filosofia, ma non in senso autonomo e disinteressato, bensì come proiezione e stimolo dell’azione. Come disse, all’incirca, Benedetto Croce, è la vita teoretica nel suo confondersi con la vita morale e politica. Ovvero anche, se vogliamo appena appena spostare il tiro, è sapere intensificato in senso etico-politico e impregnato dunque di praticità: il sapere insomma nel momento in cui esce dalla sfera del cosiddetto pensiero puro e incomincia a finalizzarsi in vista d’una ideologia. E’ addirittura a mezza strada tra l’uno e l’altra, l’anello che congiunge il sapere all’ideologia. Al punto che, cogliendo a volo dalla pubblicistica una frase che ha per lo meno il merito della franchezza, potremmo benissimo descriverla così: “La cultura non ha valore conoscitivo di per sé, essa è eminentemente pratica, serve per modificare il mondo, tant’è vero che non c’è nessuna distinzione filosofica tra cultura e ideologia”.
Non a caso del resto la storia del concetto di cultura (e del termine relativo) corre parallela a una tradizione filosofica che, a partire dal Settecento, celebra sempre più il primato della ragione pratica, al pensiero affida il compito di guidare la prassi, vuole che esso non sia più tanto avvalorato dalla verifica dei propri asserti, quanto dalla giustezza dei fini pratici che persegue, dissolve anzi se stessa in quanto filosofia affermando con Marx che “i filosofi non hanno fatto che interpretare in diversi modi il mondo; si tratta ora di trasformarlo”. Dall’interno del “filosofo” affiora così “l’ideologo”, l’uomo colto d’un tempo (l’homo excultus dei latini) lascia il posto all’odierno operatore di cultura, presso il quale prevale appunto il momento dell’operare pratico; all’antico pensatore subentra via via il maitre à penser o, se vogliamo, l’intellettuale dei nostri giorni, il cui compito in maniera ormai esplicita e deliberata (parafrasando una celebre espressione di Kant) è l’impiego dell’intelletto in vista d’uno scopo pratico. Quando J.P. Nettl afferma che “Marx era un intellettuale, mentre Hegel non lo era”, segnala con un esempio quanto mai lampante uno spartiacque che diverrà decisivo. Più in breve, la cultura si fa militanza, generando la moderna figura dell’intellettuale (accordiamoci ormai a chiamarlo così), che potrà essere infinite cose, ma una è sostanzialmente: qualcuno devoluto all’impiego eticopolitico del sapere, la cinghia insomma di trasmissione tra questo e l’ideologia.
La casistica dell’impegno comincia di lì. Creatore di dissenso o creatore del ruolo che di volta in volta le varie ideologie gli verranno assegnando, da allora, per quanto si dibatta, l’intellettuale per definizione ha a che fare col potere, ed è una funzione del potere (ovvero del “Novello Principe”, come dirà poi Gramsci), oppure celebra variamente le sue ribellioni e le sue alienazioni rispetto ad esso. Ma ciò perché la cultura stessa, fin dal momento in cui emerge in quanto nozione, si definisce come funzione del potere. Come hanno scritto Horkheimer e Adorno in Dialettica dell’Illuminismo, “l’Illuminismo ha accantonato l’esigenza classica di pensare il pensiero perché essa lo distrae dall’imperativo categorico di guidare la prassi”.
Ma se questo è valido per la cultura illuministica, resta valido per tutte le culture che dal Settecento ad oggi ne sono state figlie e nipoti, anzi è per eccellenza il connotato della “cultura”. La quale non sarà né vorrà essere in alcun modo amore o ricerca disinteressata dal sapere, bensì, come sarà detto poi marxianamente, uno strumento per modificare la realtà. L’anima illuministicopraticista che continuerà pur sempre a portarsi dentro ne farà un’attività volta in sede scientifica a promuovere il momento del fare (e quindi del dominio e dell’utilizzazione della natura) e in sede socio-politica a modificare le condizioni e i rapporti di forza all’interno delle società umane: a preparare insomma insieme Progresso e Rivoluzione. “Verrà un momento – scriveva Gramsci – in cui “le ideologie saranno la vera filosofia, perché esse risulteranno essere quelle volgarizzazioni filosofiche che portano le masse all’azione concreta, alla trasformazione della realtà”.
Ma è per questo che si diceva che al momento più disinteressatamente conoscitivo è sempre sotteso il momento pragmatico e ideologico, è per questo che ogni cultura si riversa inevitabilmente in ideologia e per tal via si pone il problema del “potere”, e cioè della realizzazione concreta delle proprie premesse.
Lo sappiamo, il potere è oggi un termine troppo compromesso per non insospettire. Usato però come lo si usa qui non comporta affatto, si badi, cadenze negative, vuol solo designare l’intima politicità della cultura, anche quando non elabora vere e proprie filosofie del potere o, se si vuole, della rivoluzione. Semmai va sottoliricato che per essa s’accentua e diventa permanente la dinamica della cultura, quella febbre di sorpassi che la porta di continuo a morire e rinascere altra, la dialettica insomma che ne segna la storia e fa sì che ciascuna cultura trapassi di norma in ideologia e, bruciando e immolando se stessa nella prassi, prepari l’emergere di nuove culture, diverse bensì per problemi, per ipotesi, per proposte com’è nuovo e diverso il terreno storico in cui operano, ma figlie della prima nella propensione a ripeterne la spirale. Di qui quel tanto di fervido, di vibrante, di impaziente, quel senso d’una perpetua crisi di civiltà alla quale si assiste dal Settecento in poi. Ma di qui anche la ragione della egemonia di quella, tra le culture, che ha portato alle estreme conseguenze una propensione di questo genere, il marxismo, voglio dire, l’erede e insieme il culmine di tutte le culture che si sono avvicendate nel frattempo nella misura in cui vie ha portato allo scoperto l’intima logica. L’aver accettato francamente di definirsi filosofia della prassi, l’aver identificato senza mezzi termini filosofia e ideologia, cultura e azione pratica, le tra consentito di portare agli ultimi approdi quella smentita all’idea dei sapere come conoscenza disinteressata e quell’impegno della cultura come strumento politico che erano già tutte implicite nelle premesse degli Enciclopedisti.
Con ciò siamo però a metà strada.
Quel che più ci interessava, infatti, in questa sede, non era tanto definire cos’è e come funziona la cultura, quanto identificarne i contenuti più qualificanti. Ebbene, non credo si vada lontano dal vero se si afferma che a partire dalle radici illuministiche essa comporta anzitutto un rifiuto della tradizione ed esprime e collauda l’ideologia della ragione laica, intesa come l’affrancarsi dell’uomo da ogni retaggio del passato – e in prima istanza dalle fedi ricevute e comunque dal trascendente – e il suo porsi come protagonista autonomo del proprio destino in vista d’un progresso che proprio tale autonomia garantisce certo e indefinito. O, altrimenti, la “cultura” emerge dalla secolarizzazione dei sapere, la accompagna, la asseconda, s’identifica con essa, diventa il veicolo e l’emblema d’una concezione laico-immanentistica che esclude rigorosamente ogni ipotesi religiosa. E anzi proprio questa dorsale laica, se così vogliamo chiamarla, la nota sua più qualificante. In essa, comunque, si riconoscono, indipendentemente dall’infinita varietà delle loro manifestazioni, le varie culture sorte in questi due secoli dal ceppo dell’unica cultura. Per essa appunto la “cultura” cessa d’essere “sapere” generico e disinteressato e implica e sottende una visione del mondo che è lì a ogni passo per trasformarsi in ideologia. Nella esclusione e spesso nella lotta alla categoria della religiosità, e per essa al Cristianesimo in quanto emblema della tradizione, è il segno unificante di quella che nel suo insieme sarà ben presto orgogliosamente chiamata cultura occidentale, punto d’arrivo dell’evoluzione, pienezza della storia, garanzia dell’uscita dell’uomo da un antico stato di minorità che lo rendeva incapace, come scriveva Kant, di valersi dei proprio intelletto senza la guida di un altro. E non saremo certo noi a negarne la spinta liberatrice, le conquiste e in molti casi l’afflato.
Bisogna tuttavia coglierle certe parole nei momenti in cui vengono allo scoperto, quando cessano di stare nell’onnicomprensivo delle dichiarazioni di principio per diventare insegne di battaglia. Quello del KuIturkampf – quali che ne fossero i moventi e le forze in campo – è uno di tali momenti. In essa si fa esplicita fino a diventare enunciato e programma politico la lotta della “cultura” contro l'”oscurantismo” religioso. Per via d’antitesi la “cultura” realizza (o manifesta) l’ideologia di se stessa. La prassi ne porta in luce la vocazione innata e profonda, che è poi fatta di prassi. Di lì a poco la filosofia della prassi, come la chiamava Gramsci, non solo avrà, come si è già notato, il ruolo di portarne alle ultime conseguenze e di collaudarne in un sistema organico l’istinto ideologico-pratico, ma si assegnerà il compito, sempre come voleva Gramsci, di divulgare a tutti i livelli, utilizzando anche le prime scuole, una visione della vita rigorosamente immanentistica e laicistica che, sgomberando il campo da ogni sovrastruttura metafisica, da ogni residuo religioso, dovrà fare da piattaforma al grande balzo destinato a inaugurare il nuovo corso della storia.
La lotta dell’Illuminismo contro la tradizione, la battaglia del Kulturkampf contro la Chiesa convergono coerentemente nel giudizio che dà il marxismo della religione come oppio dei popolo. L’antioscurantismo borghese sfocia in quello socialista. Culture diverse si avvicendano e si oppongono, ma trovano in quella tale dorsale laica e nel connesso principio della funzione secolarizzatrice del sapere la loro continuità e il loro denominatore comune. Ciò che maggiormente Gramsci rimprovererà a Croce sarà di non aver svolto fino in fondo la sua funzione di “papa laico” sviluppando un movimento di cultura che propagasse ed estendesse presso tutte le classi sociali quella visione laica della vita che connotava la sua filosofia: che era un modo di pretendere, secondo una logica che ormai conosciamo, che dalla filosofia passasse all’ideologia. Ma c’è di più: ricorre non a caso, nelle parole di Gramsci, l’appello a un nuovo Kulturkampf. Si domanda perciò perché il Croce non si sia messo a capo, se non attivamente, almeno dando il suo nome e il suo patrocinio, a un movimento italiano di Kulturkampf, che avrebbe avuto un’enorme importanza storica. Segno che il Kulturkampf non fu un evento occasionale, qualunque fosse la parte politica che lo proclamò, e rientra invece perfettamente in un piano che vede alleate in un’unica nozione di cultura la tradizione borghese e quella socialista.
Inutile dire che un discorso come questo presenta molte zone d’ombra, procede fin troppo per approssimazioni e schematismo. Ma l’importante, in circostanze come la nostra, non è la completezza, ma la plausibilità di quanto ci si propone di mettere in evidenza. Ed io non dubito che si possa ormai essere d’accordo almeno su alcuni punti:
Ce n’è abbastanza, crediamo, per capire come mai il Cattolicesimo si trovasse impreparato e restasse emarginato. In realtà tutto ciò implicava alcunché di così estraneo al retto concetto di Cristianesimo, che l’errore maggiore che si sarebbe potuto commettere era d’accertare il confronto sullo stesso terreno e di provarsi a “fare cultura” in proprio. Ma ci sarebbero voluti due secoli per capirlo. Nel frattempo ci furono soltanto risposte sbagliate o inadeguate; e vennero in aggiunta crolli che sembrarono generali e finali e che coinvolsero anche le strutture istituzionali del Cattolicesimo (si pensi solo a ciò che avvenne con la rivoluzione francese), vennero riprese che riguardarono soprattutto le strutture e fecero sì che il ritorno cattolico andasse confuso con le nostalgie per l’Ancien Regime e l’opera di restaurazione (come spesso in effetti fu), ci furono silenzi e interventi maldestri che fecero apparire il Cattolicesimo inassimilabile alla cultura moderna, ci fu soprattutto, a partire all’incirca dal 1860, l’ingresso in quella specie di ghetto che si connotò col nome di cultura cattolica, la quale non si sottrasse alla logica di tutte le culture, quella di portare entro di sé una componente ideologica legata, come sempre, alle contingenze storiche.
Voglio dire che attraverso quella che a partire da allora assunse l’improprio nome di cultura cattolica (e qui richiamiamo ciò che si diceva all’inizio, ma per discuterlo da tutt’altro versante) il Cattolicesimo, al limite, non fece altro che esprimere un’ideologia della propria tradizione, di cui l’insieme delle condanne del Sillabo rappresentò il momento più clamoroso. Col Sillabo il Cattolicesimo entrava in campo contro la culture e le ideologie d’allora, comportandosi esattamente come un’ideologia. I vari no che pronunziò nei confronti delle visioni del mondo d’allora e dei relativi corollari ideologici si dimostrarono caduchi quanto questi. Degli uni e degli altri la storia fece rapidamente giustizia. Senonché mentre culture e ideologie avevano in preventivo, per loro stessa natura, tale sorte, i dinieghi pronunziati dalla Chiesa per un verso ne ideologizzavano l’immagine, e la facevano apparire nostalgica del passato e sospettosa del progresso, per l’altro legavano al transeunte il suo magistero e lo facevano diventare, perciò stesso, transeunte.
Con le contraddizioni, insomma, in cui andò a impigliarsi, il Cattolicesimo mostrò quali sono gli errori che più deve evitare. In quanto portatore d’una visione sovratemporale e, se così si preferisce, metastorica, esso non può impunemente risolversi in una cultura, tanto meno accamparsi come cultura tra le culture (o addirittura contro le culture), visto che queste, per come abbiamo fino alla sazietà tentato di dimostrare, nascono accettando francamente la propria storicità, riconoscendo, dico, in partenza il loro carattere di strumenti dialettici – e provvisori – della storia e ipotizzando per tal via la loro stessa fine. Ed io mi domando qual senso avrebbe un cattolicesimo il quale, accettando d’identificarsi in una cultura, accettasse d’entrare in una simile spirale dialettica.
E’ per tale ragione che, oltre a considerare stramorta quella tale cultura cattolica che venne elaborata in epoca di separatismo religioso, e oltre a giudicare frutto di pigrizia e di mancanza di riflessione critica il fatto che la dizione permanga e venga usata anche dai cattolici, affermo che anche presa in astratto e sottratta alle contingenze che la videro nascere l’espressione rappresenta una vera e propria contraddizione in termini. Non si attaglia al Cattolicesimo data la sua sovrastoricità, non vi si attaglia inoltre perché il concetto di cultura, in sé preso, è nato e si è definito in antitesi e addirittura come antitesi al Cattolicesimo: è cioè una valenza laico-immanentistica inapplicabile al Cattolicesimo, anzi all’intero Cristianesimo. E tuttavia ci sarebbero volute le risultanze del recente Concilio perché per bocca di Paolo VI si affermasse finalmente che “il Vangelo non si identifica certo con la cultura, ed è indipendente rispetto a tutte le culture”.
Per ulteriore chiarezza proviamoci a spostare il tiro. Quante volte non udiamo usare l’espressione “l’ideologia cattolica” (è un lapsus normale, ad esempio, e si capisce, da parte della pubblicistica a ispirazione marxista) provandone disagio e scandalo e rifiutandoci istintivamente ad essa? Sappiamo anche perché: Dio non è un’ideologia. Ma perché allora non provare il medesimo disagio di fronte ad un’espressione come cultura cattolica, pur conoscendo ormai l’intima connessione tra cultura e ideologia? Come Dio non è, ripeto, un’ideologia, e perciò stesso una cultura, così anche il Cattolicesimo non è un dico un’ideologia, ma nemmeno una cultura. Che si continui tuttavia a cadere nel malinteso e ad attribuire al fenomeno della fede quanto c’è di transeunte nelle culture umane è un effetto dei ritardi ai quali abbiamo accennato.
Si possono anche guardare le cose secondo un’altra prospettiva. Abbiamo insistito, lo si rammenterà, sull’intima politicità della cultura e aggiunto anzi (e, speriamo, dimostrato senza dar luogo a banali malintesi) che un’ideologia non è altro che una cultura che si fa prassi in vista del potere. Ma il Cristianesimo, in quanto tale, non ha nulla a che fare con il potere. Potrà aver sofferto, nel corso della storia, di molte compromissioni con l’ordine temporale e commesso in tal senso, anche di recente, molti errori, ma il suo paradosso e il suo riscatto sono stati di non immedesimarvisi. Nel momento stesso in cui un sistema sembrava catturarlo, ha celebrato le sue rinascite trovandosi da un’altra parte. Se una dialettica ha presieduto alle sue vicende, è stata quella d’essere nel mondo ma non del mondo; d’avere in prospettiva un Regno che “non è di questo mondo» pur quando restava, nel bene e nel male, coinvolto nell’ordine mondano; di non volersi confondere tra le potenze mondane perfino quando operava come vera e propria potenza mondana; d’essere rimasto, nella sostanza, un lievito della storia, e, naturalmente, di tutti i fattori che operano nella storia, ivi inclusa la politica, ma senza per questo confondersi con la politica né tanto meno avere una sua politica; nell’aver insomma tenuto fede alle sue istanze sovratemporali anche quando circostanze, necessità e magari errori più sembravano averlo coinvolto nel temporale. In tal senso ha potuto sbagliare, ma non ha mai tradito. Se si passa in rassegna quel grande archivio dell’anima cristiana (e del retto modo d’intendere il Cristianesimo) che è l’insieme di coloro che sono stati proclamati santi, non credo ce ne sia nessuno che sia stato riconosciuto tale per le sue virtù politiche; nessuno insomma è stato fatto santo per aver operato, ancorché virtuosamente, nel senso del potere. Lo stesso Tommaso Moro non è stato elevato agli altari né per i suoi meriti di cancelliere e neppure per aver scritto l’Utopia.
Ma se il Cristianesimo non è né cultura né ideologia, che cosa insomma è? Molto in breve, e con un termine e un concetto assolutamente altri e in nessun modo riducibili alle categorie della cultura, il Cristianesimo è profezia.
Non pensiamo, si capisce, al profeta come a colui che antivede e preannunzia i fatti futuri, che è solo un significato aggiunto. Profeta, nel retto senso, è qualcuno che prolunga nella storia la rivelazione della Parola. E che altro sono il Cristianesimo e la Chiesa, ridotti alla loro nuda essenza, se non appunto questo? In che altro consiste l’essere cristiani se non nel farsi, ciascuno nel suo ambito e secondo i carismi che gli sono stati concessi, testimoni della Parola? Cos’altro caratterizza la situazione del cristiano se non il suo singolare rapporto con il Vangelo?
Né ciò, sia ben chiaro, esclude il cristiano dalle culture, al modo stesso che non lo esclude dal mondo e dalla storia: le vuole anzi al servizio del mondo e della storia secondo la concretezza insita nella Parola, ma con un suo modo d’essere, un suo proprio spessore, un suo carico di responsabilità, una tendenza a riferire a segni oltremondani anche tutto ciò che opera nel senso del mondano, a sentire e proclamare che il Regno non è di questo mondo e in pari tempo a operare poiché sia di questo mondo, a utilizzare a volta a volta gli strumenti offertigli dal mondo, ivi incluse le culture, rispettandoli e insieme volgendoli a un senso altro, a una diversa prospettiva. E ciò tuttavia è tenuto a farlo etsi Deus non daretur, perché alla minima presunzione di parlare o agire in nome di Dio, ecco che di Dio avrebbe fatto un’ideologia, della Chiesa un partito. Deve farlo sapendo di non avere deleghe nell’ordine mondano, ma insieme conoscendo le responsabilità che si è assunto relativamente al suo ruolo di testimone della Parola.
E’ difficile, lo so: è difficile definire l’essere del cristiano quasi quanto è difficile l’essere cristiani. Lo è perché per farlo dovremmo servirci del linguaggio della cultura, e la cultura non può farlo, non possiede gli strumenti adatti. E’ anzi il suo linguaggio stesso, con l’impotenza di cui dà prova, a manifestare fino all’evidenza sia l’alterità fondamentale del cristiano, sia l’alterità della cultura rispetto al Cristianesimo.
Sulla difficile condizione del cattolico uomo di cultura riteniamo d’aver già offerto sufficienti motivi di riflessione quando all’inizio parlavamo dell’onestà intellettuale che dovrebbe contraddistinguerlo, specialmente in un tempo rissoso come il nostro. E c’è inoltre un uso, da parte del cattolico, dei sapere e della scienza, che investe non tanto il campo conoscitivo, quanto le sue responsabilità morali. Ci sono uno spessore umano e una forma di “santità” che s’esplicano nell’ordine dei fatti, che possono vedere associate la probità intellettuale e la carità, che comportano, ad esempio, un’attenzione fatta d’amore da parte del cattolico che parla da una cattedra rinunziando a fare ideologia, e con ciò stesso rinunciando a plagiare ideologicamente (come invece troppo spesso hanno fatto altri in questi anni) le giovani intelligenze che sta formando, rispettoso piuttosto della loro autonomia, pensoso dello sviluppo dell’intera loro persona. Come ci sono del resto (per fare solo un altro esempio) nel cattolico che si dedica al mestiere di scrittore, il quale già porta, nel modo di ritrarre e d’indagare i propri personaggi, una sottile disposizione a percepire la loro essenza creaturale, a sentirli e trattarli anzitutto come anime. E al di là di tutto ciò c’è il grande tema dei fini ai quali sono volti conoscenza e scienza, l’impegno a tener desta l’idea che i progressi che queste comportano e le forme di civiltà che stanno elaborando non debbono in nessun caso perdere di vista l’uomo.
Ma guai al cattolico che si rifiutasse in nome delle proprie credenze a nuove prospettive scientifiche e a nuovi metodi l’indagine, ovvero eludesse nuovi campi di ricerca giudicandoli contrari ai principi della propria fede. Che penseremmo di costui? Al contrario, egli è tenuto (lo dicevamo già in principio) a far propri coraggiosamente le tematiche e i linguaggi del proprio tempo, ad essere laicamente presente a tutte le prospettive e non in ritardo sulle metodologie emergenti, per operare senza complessi, al fianco degli altri, nel comune servizio della civiltà; sapendo tuttavia che in tale opera egli ha da portare qualcosa di suo, di proprio, di non commensurabile, di permanentemente originale: l’offerta del Vangelo.
1 NOTA: testo, rivisto dal’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 10.3.1978 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.
2 A scorrere ad esempio un volume ad hoc, Il concetto di cultura di Kluchohn e Kroeber (che risale al 1952 ma è stato stampato in Italia da Il Mulino nel 1972), invano vi si cercherebbe il menomo richiamo ad altra accezione che quella antropologica. E la cosa si ripete in testi recenti e recentissimi.