Voce del Popolo, 14 gennaio 2010.
La riflessione del Vescovo Luciano Monari mi pare tocchi il tema cruciale dell’identità cristiana, che è intimamente collegato a quello del ruolo del cristiano nel mondo. Molte sono state e sono oggi le sfide tremende che il corso della storia ha posto e pone alla coscienza cristiana e alla Chiesa; e le sfide hanno comportato e comportano, sia l’assunzione, talora eroica, di responsabilità al servizio della famiglia umana, sia il rischio di mescolarvi ciò che impoverisce e tradisce ogni autentica animazione cristiana del mondo, cioé la propensione al dominio in veste sacrale e l’utilizzo strumentale della religione per fini che non hanno nulla a che vedere con il messaggio cristiano. Eppure il Vangelo si caratterizza, rispetto ad altri testi sacri, proprio per la sua straordinaria libertà, non richiedendo ritualità salvifiche ma l’assunzione personale della prospettiva di Cristo.
Sul grande interrogativo del ruolo dei cristiani nel mondo, la testimonianza dell’A Diogneto e la sua prospettiva mi sembrano ancora pienamente attuali.
Quel documento del secondo secolo dopo Cristo pone il duplice quesito: in quale Dio i cri-stiani ripongono la loro fede? In che cosa consiste il paradosso della loro presenza nel mondo? “I cristiani – scrive l’ignoto autore dell’A Diogneto – non si distinguono dagli altri uomini né per territorio, né per lingua, né per il modo di vestire. Non abitano mai città loro proprie, non si servono di un gergo particolare, né conducono uno speciale genere di vita.” (V,1-2).
I cristiani non costituiscono una razza, un popolo, un gruppo etnico particolare. La loro specificità non li vuole affatto separati dagli altri. Tutt’altro.
“Si conformano alle usanze locali nel vestire, nel cibo, nel modo di comportarsi; e tuttavia, nella loro maniera di vivere, manifestano il meraviglioso paradosso, riconosciuto da tutti, della loro società spirituale. Abitano ciascuno nella propria patria, ma come immigrati che hanno il permesso di soggiorno. Adempiono a tutti i loro doveri di cittadini, eppure sopportano i pesi della vita sociale con interiore distacco. Ogni terra straniera per loro è patria, ma ogni patria è terra straniera. Si sposano e hanno figli come tutti, ma non abbandonano i neonati. Mettono vicendevolmente a disposizione la mensa, ma non le donne. Vivono nella carne, ma non secondo la carne. Dimorano sulla terra, ma sono cittadini del cielo. Obbediscono alle leggi stabilite, ma col loro modo di vivere vanno ben al di là delle leggi” (V, 4-10).
Il metodo dell’incarnazione non consiste pertanto nel ripetere più o meno stancamente rituali e gesti che provengono dalla tradizione, anche se in molti casi densi di straordinario fascino – soprattutto a Natale – e nemmeno richiede riconoscimenti legislativi e tutele giuridiche, che spesso hanno più controindicazioni rispetto ai mali che vorrebbero contrastare, ma esige il tradursi della fede nella vita personale. E proprio per questo è un compito mai concluso.
L’ampiezza dell’orizzonte evangelico rifiuta ogni chiusura egoistica, e la certezza dei valori viene riscattata nel cristiano autentico dall’amore, che la rende immune da ogni deformazione farisaica. Quest’ultima chiude lo spirito invece di liberarlo, si sforza di introdurre distinzioni, di separare i nostri dagli altri, non vede la persona sotto l’etichetta che le ha apposto, crede di aver acquisito per sempre ciò che va conquistato ogni giorno, si compiace per il potere che la propria parte esercita più che esserne la voce critica, confonde per convenienza “quel che è di Cesare e quel che è di Dio”, opera in maniera opposta rispetto a ciò che ostentatamente proclama.
A mio parere il nostro Vescovo ha voluto denunciare con poche ma chiare parole questo rischio gravissimo che corre oggi la comunità cristiana.