Innanzitutto grazie di cuore a tutti voi. Grazie per essere venuti qui oggi ad ascoltarmi, ad ascoltare una donna che viene dall’Iran, una donna che si preoccupa di quello che sta accadendo nel suo paese e che si preoccupa di tutti quei problemi difficili e complicati che il suo popolo sta affrontando.
Sono Shahla Lahiji, faccio l’editore e sono anche ricercatrice nell’ambito delle questioni femminili in Iran. È un piacere per me avere quest’opportunità, data dalla CCDC, di stare con voi questa sera. E spero di riuscire a tracciare un’immagine realistica della situazione del mio paese. Cultura e libertà. Questo è il titolo della mia relazione questa sera. Diciamo che c’è un tema teorico in questo titolo; però il mio taglio sarà quello di presentarvi il mio punto di vista personale. Parlando di cultura e libertà vorrei affrontare l’argomento anche con un certo umorismo. In Iran io enfatizzo sempre il fatto che tutte le mie attività sono limitate all’ambito culturale. Io dico sempre che non sono un’attivista politica e il mio lavoro, come editore, i libri che io pubblico, i miei articoli, le mie interviste e anche le critiche che muovo alla situazione attuale e alla crisi culturale che stiamo vivendo si concentrano tutte su problematiche culturali. Quindi io mi definisco un’attivista culturale. Ciononostante vengo sempre accusata di attivismo politico. Questo perché io difendo la libertà d’espressione, la libertà di scrittura, la libertà di pensiero, i diritti umani e combatto la discriminazione nei confronti delle donne. Agli occhi della repubblica islamica dell’Iran tutte le discussioni, i dibattiti, le argomentazioni che parlano di libertà vengono considerate argomentazioni politiche e qualunque tipo di critica mossa a questo aspetto viene vista come un crimine e come tale punita. Per esempio chi si oppone alla censura e dichiara che la censura è contro la nostra legge costituzionale, cosa per altro vera, commette un crimine. Ora potete bene immaginarvi che il mio discorso sulla cultura e sulla libertà sia una vera propria sfida, per me, a livello personale. Chiaramente tutto questo viene visto come una propaganda da parte del governo iraniano che vede tutto quanto a che vedere con le donne, i diritti umani, la libertà come un qualche cosa che i paesi occidentali impongono agli iraniani nella forma di attacco-aggressione culturale. Il liberalismo viene visto come attività politica contro la repubblica islamica e viene per tanto considerato un crimine. Devo dire che è ormai passato molto tempo da quando vivevo attanagliata dalla paura. Per fortuna la mia età mi dà la possibilità di non aver più paura. Tutto il tempo che ho passato come attivista socio-culturale mi ha insegnato molto. Ho iniziato le mie attività come editore nel periodo peggiore e più critico dopo la rivoluzione. Il mio paese era impegnato nella guerra contro l’Iraq. Le università iraniane erano state chiuse, utilizzando la scusa della rivoluzione culturale. I giovani, gli adolescenti del mio paese erano o sul fronte di battaglia o in prigione. Venivano battuti dai proiettili dei nemici o ancora dalla giurisdizione dei giudici delle nostre corti rivoluzionarie. Molte persone, me inclusa, avevano partecipato a questa rivoluzione contro la dittatura e avevano perseguito gli ideali di diritti civili e sociali. Tutte persone che possono testimoniare con me come le donne furono le prime a cadere vittime della rivoluzione, a perdere tutti i diritti che erano riuscite a conquistare e al contempo piangevano la morte della libertà, una libertà che era durata meno di due anni dopo una rivoluzione così onnipresente nel nostro paese. Insieme a molti altri iraniani ci chiedevamo che cosa sarebbe accaduto, eravamo scioccati dall’idea di dover seppellire i nostri ideali di libertà e di democrazia, seppellirli in una tomba grande quanto tutto il nostro Iran. E continuavamo a chiederci: “Ma come è potuto accadere? e perché è accaduto? che errore abbiamo fatto? dov’è che abbiamo sbagliato? perché non abbiamo imparato di più? perché non abbiamo chiesto di più? perché non abbiamo richiesto di più? perché non abbiamo avuto abbastanza curiosità per capire qual era lo sfondo della leadership della rivoluzione?”. Avevamo molte domande nelle nostre teste e al contempo molti dolori nei nostri cuori e molte lacrime nei nostri occhi. E fu allora che capimmo che, all’inizio del movimento della rivoluzione, non avevamo preparato un fondamento culturale, non c’erano le fondamenta culturali per i nostri desideri, per le nostre speranze affinché potessero realmente affermarsi contro la dittatura, a favore della democrazia, a favore di una società civile: una società che potesse garantire i diritti delle persone. Durante il periodo della dittatura di Pahlavi gli intellettuali e gli uomini di pensiero non avevano nessuna possibilità di parlare, conversare, intrattenere discussioni e discorsi con i giovani, non avevano la possibilità per descrivere il significato, il senso, i concetti della rivoluzione. Non potevano parlare di società civile in uno spazio culturale tranquillo. Dopo la vittoria della rivoluzione il fatto di non poter discutere e parlare, di non poter analizzare le diverse componenti fondamentali nella costruzione del potere, il leader, in un referendum affrettato, che si tenne soltanto un mese dopo il collasso completo del regime del regime dello Shah, ancora in preda all’eccitazione, all’entusiasmo della rivoluzione, un entusiasmo che si poteva palpare in Iran quando tutti i precedenti prigionieri politici del regime vennero liberati, quando si ruppero le catene delle porte delle prigioni e tutti i membri della confederazione di opposizione allo Shah poterono fare ritorno, ecco che in questa atmosfera il popolo diede il proprio voto al governo religioso, alla repubblica islamica dell’Iran, senza riflettere nemmeno un istante sul paradosso che c’è tra queste due parole: repubblica e religione, abbandonando praticamente tutti i loro diritti civili ed umani nelle mani del clero e dei capi religiosi, il simbolo di Dio, lo spirito di Dio.
Molti analisti politici a livello mondiale ritengono che la rivoluzione iraniana contro il regime Pahlavi, sotto la guida dei religiosi, fosse una rivoluzione culturale contro la modernità. Questa è un’analisi troppo superficiale della situazione e può essere fatta soltanto da coloro che non conoscono la complessità della società iraniana. Ne è prova il fatto che ci fu un altissimo numero di vittime nonché l’altissimo prezzo che abbiamo pagato negli ultimi trent’anni e che penso stiamo ancora pagando oggi. Il popolo iraniano: più di tremila anni di storia scritta, quattro imponenti attacchi da parte di culture primitive, ad eccezione di Alessandro; questo popolo, comunque, era riuscito a mantenere il proprio territorio, la propria cultura e la propria lingua. Gli iraniani erano riusciti a vestire di abiti iraniani Alessandro, avevano insegnato la scrittura e l’alfabeto agli arabi, avevano convertito i mongoli alla religione musulmana. Ed erano anche riusciti ad addomesticare il selvaggio Timor Iane, convincendolo a costruire scuole e conservatori. E poi erano riusciti a rendere ancora più iraniana la religione islamica, scegliendo di essere sciiti. Durante tutto questo lungo periodo storico gli iraniani non hanno mai avuto la possibilità di imparare cosa sono i diritti umani e che cos’è la democrazia. Nella loro antica storia, gli iraniani hanno sempre vissuto sottomessi a re, re che venivano visti come le ombre della divinità. Ora, questa situazione culturale non ha mai dato la possibilità agli iraniani di poter richiedere i propri diritti e la propria libertà, diritti e libertà come cittadini liberi, anche se mai furono schiavi. La loro libertà è sempre stata sacrificata nel nome dell’indipendenza. Lo slogan della leadership del processo per i diritti della rivoluzione era il seguente: libertà, indipendenza e repubblica islamica. E la maggior parte della gente credeva che la repubblica islamica sarebbe riuscita a coniugare questi due aspetti, questi due fenomeni. La voce di quella piccola minoranza, che si rendeva conto del paradosso dei due termini e che metteva in guardi nei confronti di questo paradosso, andò purtroppo perso nel gran vociare dell’atmosfera rivoluzionaria. Ci possiamo bene immaginare che la leadership della rivoluzione non poté che trarre vantaggio dall’atmosfera, un’atmosfera che consentì quindi di spegnere qualunque dialogo e qualunque discussione culturale. Non si parlò più di repubblica democratica nè di repubblica democratica islamica ma solo ed esclusivamente di repubblica islamica e senza nessun’ altra aggiunta. Questo era il messaggio dei capi della rivoluzione, capi che avevano alle spalle una battaglia più che trentennale con il regime dello Shah. In virtù del fatto che il regime precedente non aveva aperto spazi alla gente comune e quindi non aveva mai avuto accesso ad alcun tipo di conoscenza, non sapeva nulla di polarizzazioni, di esperienze politiche, di pluralità. Alla gente comune l’unica porta che era aperta era la porta della moschea. La religione era l’unica cosa nota alle masse. Durante il primo referendum si parlò di libertà, lo slogan conteneva il termine libertà, senza però accennare a quale tipo di libertà si facesse riferimento. Libertà per chi? e chi l’avrebbe garantita? Le persone pensarono: “libertà per me stesso” e quindi diedero i loro voti alla repubblica islamica per riuscire a realizzare questa libertà in realtà non specificata. Durante il primo mese, dopo la vittoria della rivoluzione, nella totale assenza di potere e di forza, vennero messi al bando e proibiti i dialoghi politici diversi, etichettandoli con termini come marxismo, leninismo, maoismo e addirittura stalinismo; e quindi vennero a formarsi e ad emergere alcuni gruppi religiosi di sinistra nella società. I giovani e le generazioni più recenti erano letteralmente assetati di attività politica, in quanto in passato era sempre stata proibita, ma non avevano quel contesto culturale, quella conoscenza che sono necessari.
Quindi sull’onda dell’entusiasmo di essere attivisti politici caddero nelle mani di questa ideologia. Tutte le università e le scuole superiori iniziarono a pullulare di queste ideologie, che avevano nomi iraniani come Pishgam, Peykar, Mojahedin khalgh, Fedayian khalgh e nomi che appunto risuonavano a quel tempo. Sfortunatamente nemmeno i capi di questi gruppi avevano studiato a sufficienza l’ideologia che volevano diffondere; non conoscevano nemmeno le masse, le loro culture e neppure le loro credenze. Il regime della repubblica islamica aveva ottenuto la maggioranza, grazie all’approvazione di un sistema religioso di governo, sotto la guida dell’Ajatollah Rohollah Khomeini. Ebbe anche l’approvazione del mondo intero. E stava all’erta per identificare gli attivisti dei vari gruppi. Allo stesso tempo stava preparando le basi per l’esercito rivoluzionario. Un esercito diverso rispetto all’esercito ufficiale che non godeva della loro fiducia. In questo periodo dominò un anarchismo in tutto il paese e anche nelle università. In quest’atmosfera, in questa situazione gli intellettuali non ebbero la possibilità di parlare alla società, di guidare la società, di portarla sulla strada della democrazia civile, della società civile, dell’organizzazione civile. I religiosi cominciarono quindi il loro primo attacco culturale accusando le donne di essere una componente dell’immoralità del regime precedente; si iniziò a parlare di ripristinare l’Hejab, il velo. Contemporaneamente tolsero il diritto di esercitare la professione di giudice alle donne, licenziarono moltissime donne da posizioni ufficiali: il tutto nel nome di una strategia che mirava a ripulire la società dai segni occidentali. Per la prima volta le donne alla televisione apparivano con il velo. Le associazioni di avvocati, di magistrati e di donne indipendenti organizzarono incontri e dimostrazioni qua e là richiedendo il sostegno degli attivisti politici, ma questi gruppi, da destra a sinistra, non solo non supportarono le loro richieste ma le incolparono di essere borghesi, di svolgere attività di femminismo in questo movimento sociale contro l’imperialismo e la sinistra; quindi le donne rimasero da sole.
Continuò questo processo di espulsione delle donne dal posto di lavoro, processo che colpì anche i professori delle università, gli specialisti e l’età di matrimonio scese a tredici anni. Furono chiuse tutte le scuole per ragazze e furono chiusi anche gli asili infantili per le madri lavoratrici. Il velo divenne obbligatorio e le donne che non lo portavano venivano attaccate da organizzazioni governative che portavano il nome di Hezbollah (il partito di Dio). A meno di un anno dalla vittoria dalla rivoluzione l’occupazione dell’ambasciata americana cambiò la situazione. Tutto questo venne chiamato “la seconda rivoluzione”. E provocò una grave crisi ai livelli più alti del regime. L’occupazione dell’ambasciata statunitense fu a copertura di molte altre attività sociali; iniziarono le dimostrazioni nelle università con proteste che partivano dalle università e raggiungevano la zona dell’ambasciata. La guerra tra Iran e Iraq, gli attacchi delle forze aeree dell’Iraq contro Tehran, contro altre città, tutte queste furono opportunità d’oro per i nostri governanti che organizzarono il nostro popolo a difesa del nostro paese. Allo stesso tempo, sotto la rivoluzione culturale, furono chiuse tutte le università in Iran, con il pretesto che era necessario ricostruire una politica culturale che potesse essere in armonia con i valori islamici, con la necessità anche di arruolare i giovani nei campi di battaglia. Essenzialmente lo spazio aperto nelle università doveva essere ripulito dalle ideologie dell’ateismo. La protesta degli studenti organizzati in diversi gruppi nelle università fu bloccata con la violenza da parte dell’esercito rivoluzionario e di Hezbollah. Nel frattempo l’ordine di arrestare tutti gli attivisti di tutti i gruppi di opposizione divenne una realtà. Gli oppositori che erano ben noti durante il momento di apertura a Tehran furono arrestati e imprigionati. Molti furono torturati, molti furono giustiziati dopo processi della durata di due o tre minuti. Per questi giovani che avevano creduto nella primavera della libertà iniziò un periodo di tortura, prigione, tumulti di strada. Tutte le prigioni dell’Iran erano gremite da migliaia e migliaia dei nostri migliori e più puri giovani, giovani che volevano semplicemente fare parte di queste attività sociali. Molti altri giovani erano stati chiamati alle armi e molti adolescenti avevano lasciato la scuola per poter raggiungere il campo di battaglia. Fu un inverno trascorso sotto gli attacchi dei missili iracheni, mentre il gelo politico continuò per molto tempo, per più di sedici anni. Le nostre esperienze furono dure, tristi, dolorose. Perdemmo moltissimi amici, molti altri lentamente lasciarono il paese, portando i loro meravigliosi desideri nella terra di nessuno. Troppe madri piangevano la morte dei figli per i quali non avevano nemmeno una tomba. Molte donne avevano perso figli, mariti, padri, fratelli martiri della guerra, al posto dei quali ricevevano la plachetta di identificazione e una rapida lettera di condoglianze. Fu proprio nell’inizio di questo inverno che iniziai la mia attività editoriale con speranze e desideri molto profondi, desideri di produrre attività culturali che potessero andare molto lontano e durare nel tempo. Era molto difficile in quel periodo svolgere un qualsiasi tipo di attività nell’ambito dei libri e delle pubblicazioni; questo era dovuto a due fattori: la guerra e le sanzioni economiche. La realizzazione delle attrezzature per la pubblicazione era estremamente difficile, talvolta impossibile. La società aveva pagato un alto prezzo come risultato di questo processo politico falso e, di conseguenza, non avevamo nemmeno una società disposta ad ascoltare quelle problematiche sociali speciali che noi volevamo affrontare. Ma il mio problema, nell’ambito dell’editoria, in realtà non era la mancanza di un pubblico o la mancanza di mezzi per pubblicare. Il problema principale era il controllo dei contenuti e la censura, organizzata in modo tale da metterci sotto pressione in tutta segretezza. Intendo dire: per poter utilizzare la carta più economica che veniva fornita dal governo durante la guerra, il contenuto del libro doveva essere innanzitutto accettato dalle autorità e i libri che noi volevamo pubblicare non potevano ottenere l’approvazione del governo che stava creando una vera e propria pressione culturale e stava contrastando la libertà di parola. Talvolta riuscivamo ad ottenere dei coupon per ottenere questa carta ma erano sufficienti solo per un libro nell’arco di un anno. Ma per ottenere questi coupon dovevamo ottenere l’approvazione dell’intero contenuto del libro. Ricordo che per pubblicare un libro sulla battaglia delle donne tedesche a favore dei loro diritti civili fui costretta a cambiare la prefazione del libro ben quattro volte. Questi limiti resero particolarmente difficile l’avviamento della mia attività. Il mio secondo libro era su un regista famoso; rimase in attesa un anno per poter essere analizzato dai censori e alla fine non ottenni il permesso di pubblicarlo. Fui quindi costretta a cambiare alcune parti, ad eliminarne altre. Il libro successivo era un libro sulla rivoluzione in Ungheria e purtroppo seguì lo stesso destino. Nei primi miei cinque anni riuscii a pubblicare soltanto cinque libri, il che significa un libro all’anno. Con la fine della guerra i limiti sulla disponibilità di carta si ridussero. Furono però sostituiti da una censura totale. Prima di poter pubblicare un libro dovevamo sottoporlo al Ministero della Cultura per ottenerne l’approvazione. Non potevamo mandarlo in stamperia se non avevamo questo permesso. O ancora, una volta stampato, per poterlo distribuire in libreria avevamo comunque bisogno di questo permesso. Era l’inizio di una censura organizzata. L’associazione della rivoluzione culturale stese lunghe liste di ciò che poteva essere pubblicato e di ciò che non poteva essere pubblicato: per esempio, le critiche nei confronti dei religiosi, i rapporti tra uomo e donna, i baci, le parole d’amore, il ballo, le critiche alla dittatura, discussioni su religioni diverse dall’Islam e altri argomenti erano assolutamente proibiti. Erano indicati in questa lista alla quale dovevamo attenerci. Tuttavia questo non era neppure sufficiente per loro, perché il libro doveva essere anche verificato dai funzionari. Quindi, indipendentemente dal gusto e dalle disposizioni dei funzionari, potevamo avere altri problemi prima della pubblicazione. Alcuni funzionari della censura magari accettavano un libro, ma se c’era un altro che lo dichiarava “non stampabile” il libro non si poteva stampare. E poi c’era sempre, comunque, la possibilità di negoziare, quindi di eliminare alcune parti o di cambiarne alcune per consentirne la sopravvivenza. Alla prima fiera del libro di Tehran, quella internazionale, il primo anno di guerra partecipai con solo sette libri e l’intera fiera del libro si tenne in un piccolo padiglione. Comunque con la fine della guerra e con il prezzo della carta a livelli più ragionevoli riuscii a pubblicare più libri. In un anno dopo la guerra riuscii a pubblicare ben diciotto libri e quell’anno partecipai alla fiera del libro con venticinque libri. Devo dire che quando ci penso sono ancora molto orgogliosa per il moltissimo pubblico e perché lo stand era sempre molto affollato. Ma decisi comunque di seguire la mia strategia del mio primo libro, cioè di porre l’attenzione sui diritti delle donne; decisi di continuare per la mia strada: anche se i miei libri avevano il loro pubblico io volevo vedere quale fosse l’effetto sulla cultura della società. Indipendentemente dalla pressione sempre crescente della censura e dai limiti culturali sempre più pressanti, un numero sempre crescente di donne decise di dedicarsi all’editoria. Nel 1993 arrivammo a dieci donne nell’editoria. E nel ‘96 arrivammo a cinquanta. Durante lo stesso anno, a causa degli stretti controlli e della rigidissima censura, non fui in grado di pubblicare nessun romanzo e nessun racconto. Di conseguenza pubblicai trentatré titoli su problematiche comuni, sulla libertà, sulla democrazia, biografie di donne che avevano combattuto battaglie, sul totalitarismo, sulla battaglia dei popoli contro le dittature, sulle leggi civili, e altre cose. Come attivista culturale io ritengo che poter capire cos’è la democrazia e vedere qual è il prezzo che si paga, scoprire gli angoli più segreti, le capacità e le incapacità note e sconosciute del nostro popolo, analizzare in profondità la nostra cultura, le nostre credenze e riuscire a miscelare tutto questo con l’esperienza universale sia la base per riuscire a lanciare delle campagne civili tranquille, per poter dibattere con gli altri delle loro idee, delle loro credenze; questa è l’unica via per potersi liberare dall’ingiustizia, dalla soppressione e dalla pressione di un sistema totalitario e antidemocratico. Un decennio dopo, nel periodo delle settime elezioni presidenziali, nel 1996, riuscii a percepire una reazione a tutto questo. Quelle persone che fino a quel momento avevano evitato qualunque tipo di movimento politico e si erano tenute nell’ombra, in seguito alla candidatura di Mohammed Khatami e in seguito al suo messaggio sulla necessità di libertà in una società civile, solo due mesi prima delle elezioni decisero di abbandonare la ritrosia di un ventennio per creare un importante partecipazione politica generale in Iran, la più grande nella storia dell’Iran dopo la Costituzione, la rivoluzione e l’elezione. Le elezioni presidenziali nel ‘96 e nel 2001 non decretarono la vittoria di Khatami ma la vittoria della nazione iraniana. Anche se i riformisti del cosiddetto gruppo di Khatami non poterono fare nulla per migliorare la situazione economica in politica estera e anche se i disastri che caratterizzarono gli otto anni di presidenza non diedero nessun segno positivo a questo periodo di governo, comunque la resistenza e la battaglia del nostro popolo continua più forte che mai e questo è il risultato delle attività culturali che erano iniziate anni prima della comparsa di Khatami e che durante il suo periodo riuscirono ad evolversi. Quindi durante le due presidenze di Khatami i fondamentalisti cercarono di riportare la società alla situazione debole e disperata del passato. Ma non ci riuscirono. Vennero arrestati numerosi scrittori e giornalisti, alcuni dei quali erano i leader più forti della rivoluzione. Vennero messi al bando giornali e riviste. Vennero anche arrestati molti religiosi che avevano dei pensieri innovativi nei confronti della religione. Vennero imprigionati molti attivisti culturali. La censura venne restaurata e ci fu un vero e proprio attacco alla libertà di espressione e ai movimenti delle donne. Tutto questo nel nome dei cosiddetti “valori islamici”. Queste attività cercavano di rendere il nostro popolo nuovamente passivo. Avevano capito che la scrittura è molto più efficace nel risvegliare le coscienze di quanto le pistole non siano in grado di addormentarle.
Vi potrete chiedere allora perché e come mai il nostro popolo alla fin fine ha votato Ahmadinejad. Indipendentemente o meno dalla onestà dell’elezione, questo è in forte dubbio, Ahmadinejad, nella sua campagna, sostenne che la parte più importante della sua attività e della sua politica erano le classi inferiori. Aveva anche affermato che i proventi del petrolio sarebbero andati direttamente nel portafoglio delle famiglie; per altro era un laureato, un professore universitario. E nei suoi discorsi sulle donne e sui giovani disse chiaramente che non voleva aver nulla a che fare con la vita privata delle persone, con i loro abiti e con tutto questo genere di cose. Molti, soprattutto i ceti più bassi, decisero di dare il loro voto ad Ahmadinejad. Ma non aveva detto neanche una parola sull’energia atomica: nel suo discorso, nel suo programma non si era fatta menzione di attacchi nei confronti delle donne, delle ragazze per strada semplicemente perché andavano vestite in un certo modo. Non aveva mai detto che avrebbe utilizzato la violenza più dura nei confronti degli studenti universitari se l’avessero criticato. Non aveva nemmeno detto che avrebbe congelato la creatività nei diversi ambiti della cultura come la letteratura, il cinema, il teatro, eccetera. Non aveva nemmeno detto che aveva intenzione di opporre l’Iran a tutto il resto del mondo. Ma non appena fu noto il nome del ministro da lui prescelto per la cultura capimmo che il suo primo obiettivo d’attacco era la cultura stessa, perché la persona che mise a capo del Ministero della Cultura era l’editore del giornale Keyhan. Era un capo dei fondamentalisti, vero nemico della libertà di espressione e teorico del concetto dell’attacco culturale occidentale. Due giorni dopo dall’entrata in servizio iniziò il suo attacco agli editori. Li accusò di essere collegati al governo precedente, annunciò che non avrebbe tollerato nessuna critica al governo, nessun punto di vista opposto al governo e che non avrebbe dato il permesso di esercitare attività e di pubblicare quello che si volesse pubblicare. Nel suo secondo discorso affermò che la battaglia delle donne per avere diritti uguali deve essere considerata come una rigenerazione femminista e mise la questione femminile sullo stesso piano della pornografia, dichiarando che entrambe le cose sono illegali in tutte le regioni del nostro paese. Il fatto di mettere il femminismo sullo stesso piano della pornografia è indicativo della sua opinione, in generale, della cultura e anche delle problematiche dei diritti umani. Con il nuovo Ministro la censura continuò su scala ancora più alta. Questo significa che i libri che avevano già ottenuto un permesso furono ricontrollati. E devo ricordare che la censura, prima della pubblicazione di libri per adulti, è contro la Costituzione della repubblica islamica dell’Iran e anche contro i dettami dell’associazione della rivoluzione culturale. Ma quando l’associazione degli editori avanzò un reclamo presso la Commissione culturale del Parlamento islamico, il Ministro annunciò che avrebbe continuato la censura in modo legale o illegale, dato che la riteneva appropriata per la società e che riteneva che non tutti i libri dovessero avere il permesso di essere pubblicati. La mannaia della censura divenne ancora più affilata. Molti libri rimasero in attesa di ottenere un permesso per mesi e mesi. E questo portò al fatto che moltissime stanze del Ministero della Cultura si riempirono di libri. Ma la censura si estese a tutte le dimensioni della cultura. Al cinema, al teatro, alla musica. Fu vietata la proiezione di molti film e molti cantanti non ottennero il permesso per poter distribuire i propri dischi. Ma nel campo dei libri questa limitazione assunse a proporzioni orribili che provocarono il vero e proprio “crollo dell’editoria indipendente”. I classici della letteratura occidentale furono anch’essi sottoposti alla censura come gli scritti, le pubblicazioni di noti scrittori iraniani, soprattutto quelli che facevano parte di associazioni di scrittori con i quali c’erano già antichi rancori tra il Ministero e l’associazione stessa. Allo stesso tempo le riviste e i quotidiani iniziarono ad affrontare il problema della censura. Questo portò alla messa al bando di analisti e di critici. Alcuni furono arrestati e poi imprigionati. Decine di stamperie in tutto il paese furono chiuse e bandite; i loro manager furono giudicati dai tribunali. Fu inutile cercare di negoziare con le autorità del Ministero. Fu inutile ricordare che le loro azioni erano contro la legge. Alcune scrittrici che erano riconosciute e apprezzate nella società furono anch’esse bandite. Insieme ad altri editori noi che avevamo un altissimo numero di libri dichiarati illegali o in attesa di permesso decidemmo di inoltrare un reclamo nei confronti del Ministro in quanto agiva contro la Costituzione e contro le leggi dell’associazione della rivoluzione culturale. Shirin Ebadi, vincitrice del premio Nobel, fu la nostra portavoce. Insieme ai nostri avvocati, pur sapendo che non avremmo mai avuto una risposta adeguata, decidemmo comunque di fare questa azione per dimostrare che esistono forme diverse di battaglia civile per la libertà di parola e per i diritti umani. Organizzammo anche diverse interviste con diversi giornali parlando di censura, di problemi economici, di problemi economici legati alla censura, e chiaramente anche questi giornali oggigiorno vengono visti come illegali, oppure furono cambiati i manager. Sono qui davanti a voi e ho ben trenta titoli in attesa di permesso. La nuova politica, comunque, non si limita a questa forma di censura. Fin dall’inizio delle sue attività il Ministro ha sospeso la fornitura di carta economica a tutte le strutture esistenti nell’editoria: quindi non c’è più carta, non è più possibile ottenere prestiti non è più possibile prendere a prestito libri nelle biblioteche pubbliche. Questi sono servizi che, al contrario, vengono erogati a quegli editori che sostengono la politica del governo. Quindi un’altra manovra per indebolire l’associazione degli editori. Venne addirittura creata un’altra associazione, assolutamente priva di credito. Recentemente un’associazione, chiamata l’Associazione delle cooperative degli editori, è presente a tutte le fiere del libro internazionali. Per esempio, questa sedicente associazione è presente anche alla fiera del libro di Francoforte. Hanno un budget consistente, mentre gli altri editori non possono partecipare a queste fiere del libro perché hanno difficoltà economiche. In poche parole, questi fondi stanziati per le fiere del libro vanno a vantaggio di persone che non sono editori veri. Ho visitato la fiera di Francoforte come ospite, ho parlato di queste problematiche, ho parlato di come ad alcuni editori venivano messi a disposizione fondi ed aiuti, ed è interessante ricordare come una persona, un rappresentante dell’Iran presente nello stand, disse al giornalista: “Queste sono persone che non ci hanno votato e che quindi non possono utilizzare i nostri fondi”. Quindi queste persone ritengono che i fondi del nostro paese siano lì esclusivamente per loro e ritengono di poterli spendere come vogliono. E il risultato di tutto questo è che la fiera internazionale del libro di Tehran a Mossala (è un luogo di preghiera) è una fiera che starà vuota, ancora più vuota di quanto non fosse negli anni dopo la guerra. Questo perché moltissimi importanti libri di scrittori iraniani e stranieri non hanno ottenuto il permesso di pubblicazione. L’anno scorso molti editori internazionali non hanno partecipato alla fiera proprio per dimostrare la loro insoddisfazione nei confronti della politica ufficiale, in quanto erano stati fatti anche tentativi di cambiare la località in cui si teneva la fiera del libro e di separare le pubblicazioni internazionali da quelle nazionali. Recentemente un libro di Marquez e di Milan Kundera sono stati banditi dopo la pubblicazione e la distribuzione nelle librerie. Sono stati quindi ritirati dalle librerie e il permesso, precedentemente dato, è stato tolto definitivamente. Chiaramente ci sono molti altri limiti culturali e sociali nel nostro paese. Io vi parlo soltanto della questione dei libri, perché forse è una questione che non viene trattata molto diffusamente a livello mondiale. Dopo aver bandito centinaia e centinaia di pubblicazioni in tutto il paese negli ultimi due anni, recentemente, in seguito all’elezione del Parlamento islamico, sono state bandite ben nove riviste in un giorno. Nonostante tutte queste pressioni mi vedete comunque qui e io vi sto parlando. Faccio l’editore, sono scrittrice e ricercatrice. Non sono un eroe né un’attivista politica, ma credo fermamente che il sistema che agisce in questo modo nell’ambito della cultura sia un sistema che ha paura delle persone che non usano la violenza ma che usano solo la loro conoscenza, quindi in modo civile e tranquillo lottano per i loro diritti di cittadini. Oggi potete vedere, ascoltare, leggere che le persone in Iran, uomini e donne, riescono a trovare la loro strada. In questi trent’anni abbiamo veramente imparato moltissimo e abbiamo capito che la libertà va cercata sulla via della promozione culturale. Ed è questa la strada che abbiamo imboccato. Quindi non solo i governi ma anche le nazioni, le organizzazioni non governative che lavorano nell’ambito dei diritti umani e le democrazie che sostengono i diritti umani e chiedono ai loro governi di esercitare pressioni sull’Iran, ecco, tutte queste figure ci possono aiutare. Noi dobbiamo costruirci il futuro con le nostre mani e lo faremo perché il dolore, i sacrifici ma anche la conoscenza ci insegnano che l’unica via è quella della cultura della società civile. Abbiamo solo bisogno di un’atmosfera migliore, di un’atmosfera che garantisca i diritti umani affinché possiamo gridare questo nostro messaggio in Iran.
Nota: Trascrizione, non rivista dall’Autrice, della conferenza tenuta a Brescia il 4.2.2008 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.