Dal sogno all’incubo. Nazismo e comunismo in Vasilij Grossman

Affiancare nazismo e comunismo in un qualsiasi discorso sulle ideologie totalitarie del XX secolo è ancora oggi un’operazione difficile e contestata, politicamente scorretta; al massimo si può parlare di nazismo e stalinismo, come hanno fatto due libri recenti[2]. Sembra quasi che comparare nazismo e comunismo significhi condannare di meno il nazismo, sembra che la comparazione stessa finisca in qualche maniera per relativizzare il male nazista e per equipararlo al comunismo, la cui idea si suppone invece buona. In realtà, ciò che è discutibile non è tanto la comparazione, quanto questo impaccio, inaccettabile sia da un punto di vista storico che teorico[3], e rivelatore di una incapacità di cogliere in profondità l’essenza del fenomeno totalitario, il cui maleficio non dipende dalle caratteristiche di questa o quella idea (così che se poi l’idea ha la parvenza del bene diventa imbarazzante condannarne le malefatte) ma dalla pretesa che un’idea, quale che sia, possa contare più della realtà e possa arrogarsi il diritto di sostituire la realtà. In effetti, ricordare che un’idea che si suppone buona (il comunismo) ha prodotto milioni di morti non rende meno gravi i milioni di morti prodotti da un’idea che abbiamo imparato a giudicare cattiva (il nazismo); ciò che fa problema non è questo tipo di comparazioni, il problema è piuttosto che ci siano delle idee che producono e giustificano milioni di morti, e che ci siano delle persone (degli storici come E. Hobsbawm, tanto per fare un esempio) che parlando del sogno comunista condannano l’ecatombe che ha prodotto solo perché il sogno non è stato realizzato, e poi, alla precisa domanda, «se il sol dell’avvenire fosse sorto davvero, la morte di quindici, venti milioni di persone sarebbe giustificabile?», rispondono in maniera positiva[4].

L’opera di Grossman (come in genere la letteratura concentrazionaria russa) è estremamente istruttiva e chiarificante in questo senso, cioè là dove si voglia cercare di capire meglio il funzionamento dei sistemi totalitari del XX secolo.

D’altro canto il problema della comparazione tra nazismo e comunismo non può essere eluso ogniqualvolta si parli di Grossman perché è al cuore stesso della sua opera e lo è nella maniera più scandalosa.

In uno dei più famosi dialoghi di Vita e destino, l’ufficiale delle SS Liss dice al suo prigioniero, il vecchio bolscevico, Mostovskoj: «quando ci guardiamo in faccia l’un l’altro, noi guardiamo uno specchio. Questa è la tragedia dell’epoca. Forse che voi non riconoscete voi stessi, la vostra volontà, in noi? […] Mi capisce? Io non sono perfettamente padrone del russo, ma desidero molto che lei mi capisca. A voi pare di odiarci, ma vi pare soltanto: odiate voi stessi in noi»[5]; e poi continua lo stesso ufficiale nazista: «due poli! È certo così! Se non fosse esatto, ora come ora non ci sarebbe questa guerra spaventosa. Noi siamo i vostri nemici mortali, sì. Ma la nostra vittoria è la vittoria vostra. Capisce? E se vincerete voi, allora noi moriremo e vivremo della vostra vittoria. È questo il paradosso: perdendo la guerra noi vinceremo la guerra, ci svilupperemo in un’altra forma, ma nello stesso essere»[6]; e di questo essere, alla fine, viene anche dato il nome: «noi siamo le forme differenti di un unico essere, lo Stato partitico»[7].

A scanso di equivoci varrà la pena di ricordare che chi ha scritto le righe appena lette non è uno studioso neutrale o un letterato in vena di provocazioni né uno storico revisionista. Grossman è un russo di origine ebraica che ha avuto una parte della famiglia, compresa la madre, massacrata dalle squadre speciali al seguito degli eserciti nazisti in Unione Sovietica; come corrispondente del giornale «Krasnaja Zvezda» (La Stella Rossa), organo ufficiale del ministero della difesa sovietico, è stato tra i primi giornalisti a poter entrare in un campo di stermino nazista e ha scritto un testo, L’inferno di Treblinka, che è stato utilizzato dalla delegazione sovietica come materiale informativo durante il processo di Norimberga; da ultimo, come scrittore sovietico e su incarico diretto delle più alte autorità del suo paese, è stato autore con Erenburg di un libro di documentazione[8] sui crimini nazisti, un’opera che poi Stalin ha bloccato nella follia antisemita che ne ha preceduto la morte, ma che resta ancora oggi una delle raccolte più impressionanti su questo tema. La comparazione scandalosa che abbiamo appena letto è dunque la testimonianza appassionata di una tragica e dolorosa esperienza personale. Eppure lo scandalo resta tutto e, anzi, Grossman lo approfondisce con un grande anticipo sui tempi: non bisogna infatti dimenticare che delle due grandi opere che prenderemo qui in considerazione Vita e destino è già pronto nel 1960 e Tutto scorre è terminato nel 1963; e proprio in queste due opere di più di quarant’anni fa Grossman va a toccare tutte le questioni più politicamente scorrette, quelle sulle quali gli studiosi più frequentemente discutono ancora oggi.

Innanzitutto, se il comunismo ha fatto milioni di morti questo non dipende per Grossman da una deviazione che avrebbe subito in Russia un’idea buona, ma da qualcosa che accomuna l’idea comunista a quella nazista; inoltre, se le due ideologie hanno un veleno comune, per Grossman esso non si è introdotto nell’organismo comunista ad un certo punto della sua storia – con Stalin ad esempio –, ma lo rende apportatore di morte sin dall’inizio.

Il primo scandalo è dunque nella convinzione che i due sistemi siano caratterizzati e accomunati da un condiviso spirito omicida. Ricordando la tragedia della collettivizzazione forzata delle campagne, con la dekulakizzazione e la tremenda carestia che la accompagnò e provocò tra il 1932 e il 1933 non meno di sette milioni di morti[9], Grossman scrive in Tutto scorre: «sotto Nicola ci furono delle carestie, però tutti aiutavano, davano a prestito, i contadini potevano andare in città a chiedere l’elemosina in nome di Cristo, avevano aperto delle mense, e gli studenti raccoglievano offerte. Invece sotto lo Stato degli operai e dei contadini non hanno dato un granellino […] ai bambini delle campagne, neanche un grammo. Proprio come i tedeschi che soffocavano i bambini ebrei col gas: non avete diritto di vivere, siete ebrei. Ma qui? Non riesci a capire: di qua sono sovietici, e di là pure sovietici, di qua russi e di là russi; e il potere è degli operai e dei contadini. Perché mai, allora, quello sterminio?»[10]. Per Grossman, in effetti, è evidente che si tratta di una comune sete di sterminio: se da una parte c’erano i campi e il filo spinato che abbiamo tragicamente imparato a conoscere da tanti filmati sull’Olocausto, dall’altra, come ci insegnano oggi le testimonianze[11] e gli studi sul Holodomor, c’era un immenso campo costituito da tutto un paese che veniva separato con un cordone militare dal resto dell’Unione per impedire che vi fosse anche la benché minima possibilità di salvezza; come scrive Grossman, «in tutte le strade che portavano in città, barriere con truppa, polizia, Enkavedé: gli affamati che arrivano dalla campagna non li lasciano entrare, non possono avvicinarsi alla città, le stazioni sono attorniate dalle guardie, anche quelle piccolissime, intermedie. Non c’è pane per voi che nutrite la nazione»[12]. La denuncia è esplicita e non lascia spazio a dubbi, interpretazioni o limitazioni, riguarda i due sistemi in quanto tali, senza possibilità che si apra la strada a una qualsiasi forma di revisionismo, o all’illusione che almeno nel caso del comunismo certi eccessi siano stati il frutto di patologie personali o di una cattiva applicazione di un principio buono, magari dovuta a qualche tara insita nel carattere nazionale russo; proprio quest’ultimo mito, anzi, è esplicitamente escluso da Grossman quando ricorda come si era comportata la Russia contadina e arretrata sotto il pur deprecabile Nicola.

Di fronte all’ideologia, in effetti, per Grossman non contano le differenze nazionali o culturali, economiche o politiche, tra la Russia contadina e arretrata e la Germania industriale e avanzata: l’Unione Sovietica distrugge l’umanità esattamente come fa la Germania nazista e come non aveva fatto la Russia zarista.

E qui viene il secondo scandalo, sottolineando che in questo caso non si possono fare differenze tra Germania e Unione Sovietica, tra buoni e cattivi, tra corretta applicazione dell’idea o suo travisamento, Grossman precisa quale fosse il meccanismo che accomunava i due sistemi e chiarisce che si tratta di una comune e identica falsificazione e negazione della realtà, richiamando così con grande lucidità quello che è l’elemento qualificante dell’ideologia totalitaria e denunciandone la presenza nel comunismo a partire dalle sue origini: «per ucciderli si è dovuto spiegare che i kulaki non erano uomini. Sì, come quando i tedeschi dicevano: i giudei non sono uomini. Allo stesso modo Lenin e Stalin: i kulaki non sono uomini. Ma questa è una menzogna! Uomini! Uomini erano. Ecco ciò che principiai a capire. Tutti uomini»[13].

Così come il male del comunismo non era dipeso principalmente[14] dal passato storico della Russia, allo stesso modo le sue vittime non erano il frutto della sola malvagità di Stalin, perché «l’opera di Lenin, l’opera di Stalin, si era incarnata in questi uomini, in questo Stato»[15]; e ancora di più, non solo c’era una continuità essenziale tra Lenin e Stalin, qualcosa che in questo caso diventa una vera e propria uguaglianza, ma era stato proprio il sistema in quanto tale a produrre Stalin e non viceversa, «si sarebbe detto che Stalin andava edificando uno Stato – le cui fondamenta erano state gettate da Lenin – a propria immagine e somiglianza. Ma, naturalmente, le cose non stavano proprio così: era l’immagine di Stalin a essere fatta a somiglianza dello Stato, e appunto per questo egli ne divenne il padrone»[16]. Ora, se Grossman può dire così tranquillamente che Lenin e Stalin sono la stessa cosa, è solo perché rifiuta la loro comune negazione ideologica dell’uomo, quella che, a prescindere dal contenuto dell’idea, a prescindere dalla sua presunta bontà o validità politica, a prescindere da tutte le concezioni con le quali si cercava di giustificare l’eliminazione di tanti esseri umani, ha «condotto impietosamente al sacrificio l’uomo in nome di una concezione astratta dell’umanità»[17].

Solo questo suo modo di vedere il totalitarismo, come definito dal primato dell’idea sulla realtà, può consentire a Grossman e a noi di evitare, oltre alle riduzioni del comunismo fin qui considerate (quelle che ne fanno un prodotto della storia russa o del carattere di Stalin), anche quelle così diffuse oggi che tendono a fare di esso e del nazismo una ennesima ripetizione della malvagità del potere e cercano di trasformare la loro abnormità in un mero fatto quantitativo, dimenticando così, dopo la caduta delle ideologie, tutta l’essenziale novità del principio ideologico.

In realtà per Grossman il totalitarismo non è mai determinato dalla sola cattiveria dell’uomo né dal carattere corruttore del potere, così che nel caso del comunismo, ad esempio, tutti i suoi mali sarebbero il frutto della pura malvagità umana, aggravata dalla forza malefica del potere e dalle possibilità omicide che i moderni strumenti di distruzione hanno messo a disposizione del potere contemporaneo. Anche in questo caso, con una lucidità e una precocità che vanno sottolineate, Grossman pronuncia un giudizio decisamente controcorrente; per lui non solo il male del comunismo – e del totalitarismo in generale – non dipende innanzitutto dalla malvagità dei suoi artefici, ma ciò che di più malefico v’è in esso è piuttosto il bene con il quale i suoi artefici si ammantano: «sapete voi cosa c’è di più ripugnante nei confidenti e nei delatori? Quel che di cattivo c’è in loro, penserete voi. No! Il più terribile è ciò che v’è di buono in loro; la cosa più triste è che sono pieni di dignità, che sono gente virtuosa. Essi sono figli, padri, mariti teneri e amorosi… Gente capace di fare del bene, di avere grande successo nel lavoro. Essi amano la scienza, la grande letteratura russa, la bella musica, alcuni di loro esprimono con intelligenza e coraggio il loro giudizio sui più complessi fenomeni della filosofia e dell’arte moderne… E quali devoti, buoni amici si riscontrano fra di loro […]. Quali pazienti intrepidi soldati fra di loro […]. E quali poeti, musicisti, fisici, medici di talento vi sono fra di loro, quali abili fabbri, falegnami […]. Questo appunto è il terribile: molto, molto di buono v’è in loro, nella loro stoffa umana»[18]. Il passo che abbiamo appena letto può essere stato scritto al più tardi all’inizio del 1963 ed è una formulazione perfetta dell’idea che costituisce il nucleo centrale della famosa Banalità del male di Hannah Arendt, che ebbe la sua prima pubblicazione tra il febbraio e il marzo di quello stesso anno[19]: l’indipendenza delle due posizioni è dunque evidente, al pari della loro coincidenza. Ma ciò che è più significativo è il fatto che le due posizioni coincidano proprio per aver entrambe indicato l’essenza del totalitarismo nella sua pretesa di sostituire la realtà con un’idea, con una rappresentazione del reale che non si preoccupa più di adeguarsi al reale stesso; basti ricordare a questo proposito che, se per Grossman il servitore di un regime totalitario è colui che si lascia catturare dalla menzogna dell’astrazione e sostituisce all’umanità reale dell’ebreo e del kulak una concezione astratta e falsificatrice dell’uomo, per la Arendt, esattamente allo stesso modo, «il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più»[20].

È l’aver messo in luce come specificità del totalitarismo questo carattere essenzialmente ideologico a determinare il valore delle analisi della Arendt e delle intuizioni di Grossman e a renderli capaci di descrivere quello che è realmente successo col totalitarismo: così riescono a coglierlo nella sua specificità storica, evitando di farne l’ennesima ripetizione della naturale malvagità umana ed evitando poi di dover ridurre la sua novità a una pura questione quantitativa. È la novità del totalitarismo a rendere possibile che esso produca una quantità inaudita di vittime, mentre non è certo questa quantità a spiegarne e a fondarne la nuova qualità. In effetti, se si definisce il totalitarismo senza mettere in primo piano la sua caratteristica e la sua specificità di forma ideologica di pensiero – il suo essere definito dalla pretesa di sostituire la realtà con la sua interpretazione ideologica – e limitandosi quindi a considerarlo una semplice forma di potere o di esercizio del potere, poi risulta difficile distinguere il totalitarismo stesso da una dittatura o da qualche altra forma di potere autoritario o tirannico, a meno di non ricorrere proprio alla categoria della quantità: il totalitarismo sarebbe una delle tradizionali forme di potere non democratico, con la sola differenza che l’assolutismo, la dittatura, la tirannide sarebbero qui portate a un grado estremo, totale, appunto. Secondo una definizione divenuta classica[21], il totalitarismo implicherebbe allora la presenza di sei caratteristiche: 1) una ideologia totalmente vincolante per tutti, 2) un partito unico di massa, che assorbe in sé tutto, Stato e società, ed è guidato da un capo onnipotente, 3) il controllo totale di tutti i mezzi di comunicazione e informazione, 4) il controllo totale di tutti i mezzi di coercizione, 5) il controllo di tutta la società tramite l’esercizio di un terrore diffuso, 6) il controllo totale di tutta l’economia. La prevalenza in questa definizione dell’aspetto quantitativo è evidente; tuttavia, per quanto l’insistenza sul carattere totale del potere totalitario possa sembrare chiarificante e appropriata alla realtà che si tratta di descrivere, si deve ammettere che questa definizione ha non pochi difetti. Innanzitutto la staticità idealtipica della definizione che vede nel totalitarismo un potere totalmente e costantemente onnipervasivo non si è mai realizzata di fatto nella storia; questa totalità del potere totalitario, anzi, è sempre stata contraddetta dalla resistenza ai regimi, che non ha mai permesso al loro potere di diventare veramente totale, e dalla complicità con essi, che non li ha mai costretti ad esercitare una violenza veramente totale. In secondo luogo, fare della differenza tra i totalitarismi e le dittature una questione puramente quantitativa, oltre a essere un progetto di fatto impraticabile[22], rischia di ridurre il riferimento alle vittime ad un vergognoso e inaccettabile calcolo statistico, nel quale la vita irripetibile di ogni singolo uomo diventa una pura entità matematica; a parte la discutibilità di simili procedimenti, v’è poi da notare che se si omologano tutti i morti in un’ordinaria somma matematica non si capisce come si possa dar ragione dell’eccezionalità di quanto è avvenuto e, innanzitutto, dell’unicità della Shoah. In questo senso e in terzo luogo, questa interpretazione puramente politica e quantitativa del totalitarismo rischia di far perdere di vista proprio quanto è realmente avvenuto: il fatto reale che il totalitarismo non è stato semplicemente una forma di dominio e di potere sulla realtà esercitata in nome di una particolare ideologia, ma la pretesa di trasformare ed eliminare la realtà in nome di un’idea che doveva sostituire la realtà stessa. È questo che ha reso e rende possibile il nichilismo radicale del mondo contemporaneo; la novità delle ecatombi che hanno segnato il XX secolo non sta soltanto nel fatto che siano state numericamente inaudite: altre volte in passato delle forme politiche avevano generato una grande quantità di vittime; la novità qui non consiste esclusivamente nel fatto che siano esistite delle forme politiche che hanno prodotto milioni di morti ma soprattutto nel fatto che siano esistite delle forme politiche per le quali la produzione di milioni di morti, su una scala assolutamente sconosciuta al passato, era una parte essenziale e necessaria del loro processo politico. Su questo punto l’intuizione artistica di Grossman coglie veramente l’elemento essenziale: «al socialismo in un solo paese è necessario – dice uno dei personaggi di Grossman – liquidare la libertà dei contadini di seminare e di vendere senza impedimenti, e Stalin senza tremare ha liquidato milioni di contadini. Il nostro Hitler si è reso conto che al nazionalismo tedesco, al movimento socialista nuoce un nemico: il giudaismo. E anche lui ha deciso di liquidare milioni di ebrei»[23]. Non si ha più a che fare con una violazione della legge, ma con una violazione che diventa legge, necessità. Questa intuizione rivela però tutta la sua portata solo se consideriamo con attenzione come Grossman definisce quanto ha appena descritto e quanto di fatto è avvenuto nel XX secolo: l’opera di Stalin – questi milioni di morti che hanno un tragico parallelo nei milioni di ebrei eliminati da Hitler – non è definita con termini che evochino un progetto politico, di potere, di sterminio, ma con un’espressione che richiama «un’opera educativa»: «in seguito Stalin ci insegnò molto»[24]. È un’espressione per lo meno inconsueta, che deve farci riflettere. Possiamo trovare un’espressione simile in un documento (non letterario questa volta) citato da Leon Poljakov; si tratta di una nota di servizio delle SS su uno dei suoi più efficienti rappresentanti, Rudolf Hoess, che dal 1940 al 1943 era stato il primo comandante di Auschwitz. In questa nota leggiamo, dunque: «Hoess non è soltanto un buon comandante di campo, ma in questa sfera d’azione si è rivelato un vero pioniere, per il suo apporto di nuove idee e di nuovi metodi educativi»[25]. Anche Poljakov è rimasto sorpreso dalla stranezza di questa notazione, tanto più che non si è in presenza di un documento di propaganda, ma di uno strumento a uso interno; «a quale scopo – si chiede Poljakov – insistere sulle qualità di “educatore” di Hoess, e qual è il vero senso di questa sfrontatezza verbale? Si è tentati di vedervi una vera operazione magica, un tentativo d’influire sulle cose […] agendo sulle parole»[26]. In che cosa consista più esattamente questa operazione magica è una questione che Poljakov cerca di chiarire qualche pagina più avanti, quando la descrive come «un tentativo deliberato di chiamare nero quel che è bianco e bianco quel che è nero, in breve il rituale meticoloso della cerimonia demoniaca. “Essi chiamano bene il male e male il bene. E vogliono mutare le tenebre in luce e la luce in tenebre”»[27].

Questo documento nazista viene dunque a confermare quanto stiamo dicendo circa l’essenza del totalitarismo e la sua inaudita novità: è proprio questa pretesa di trasformare una finzione ideologica in realtà a definire quanto è avvenuto nel nostro passato e quanto ancora avviene o potrà avvenire in presenza di un sistema totalitario o della sua forma di pensiero. In questo senso, non è né un caso né una semplice curiosità il fatto che qualche anno fa una «niña de la guerra» abbia definito in questi termini la figura di Fidel Castro: «Castro era, è ancora, un essere straordinario, con una capacità di convincimento senza uguali. È capace di dirti che una cosa è nera anche se tu la vedi bianca, ma quando lui te l’ha spiegato finisci per dire a te stesso: “Adesso che osservo meglio, effettivamente pare anche a me un po’ nera”»[28].

Ciò che costituisce l’essenza necessaria del totalitarismo è proprio questo processo educativo che induce le persone a vedere la realtà in un modo che non ha più alcun legame con la realtà stessa; tutto il resto può anche venir meno, essere momentaneamente sospeso o cessare del tutto, purché resti questo processo di estraniazione dalla realtà e poi di eliminazione della realtà, processo che è l’esatto rovesciamento di quello che è l’educazione autentica, intesa nel senso di un’introduzione alla realtà.

Allo stesso modo, la pretesa ideologica è l’esatto rovesciamento del rapporto con la realtà che, nell’ideologia totalitaria, cessa di essere il punto di riferimento col quale deve fare i conti e al quale deve adeguarsi ogni interpretazione per verificare la propria plausibilità. Ed è proprio questo processo nella sua pura e vuota processualità che deve restare.

In effetti, se è necessario che il processo rivoluzionario produca milioni di morti, non è necessario che continui a produrli costantemente dall’inizio alla fine: il nazismo non è meno totalitario quando non ha ancora iniziato a far funzionarie i propri campi di stermino, esattamente come Berija non smette di essere un protagonista del totalitarismo sovietico quando, subito dopo la morte di Stalin, comincia lui stesso a smantellare il sistema del GULag divenuto economicamente insostenibile[29]. Allo stesso modo, se è necessario l’affermarsi e il permanere della forma ideologica di pensiero, non è necessario, come ricordava la Arendt, che i singoli contenuti ideologici siano effettivamente condivisi e che, ad esempio, la gente creda effettivamente alla giustificazione ideologica di tutti i crimini del regime: giunto alla fase della stagnazione brežneviana, il totalitarismo sovietico è ormai un sistema nel quale ben pochi credono all’ideologia comunista, ma questo non lo rende certo più democratico. Così, il fatto che le nostre democrazie deboli non siano state capaci di opporsi all’affermazione dei totalitarismi del XX secolo, o non sembrino sapersi opporre adeguatamente oggi alle nuove ideologie, non significa affatto che esse sarebbero state conquistate da quelle precise e particolari ideologie totalitarie che non sanno contrastare, ma indica piuttosto la presenza in esse di quella forma di pensiero che non casualmente ha fatto parlare di una democrazia totalitaria[30]: l’uomo che ha voluto liberarsi da ogni restrizione, che si è liberato così da tutte le tradizioni e i valori esistenti, e che per far questo ha dovuto rovesciare e ricostruire tutte le istituzioni e gli ordinamenti sociali operanti, alla fine si trova solo in un mondo dove non v’è più alcuna realtà che possa frapporsi tra lui e il potere di uno Stato divenuto onnipotente. In questo processo, oggi come nel XX secolo, ciò che conta non è la presenza di questa o quella ideologia, ma l’azione della sua forma vuota, lo svuotamento e l’abolizione del reale, così che non c’è più una realtà o una verità con la quale l’interpretazione ideologica debba fare i conti e rispetto alla quale sia possibile mostrare la differenza che intercorre tra la realtà del contadino in carne e ossa e la finzione del kulak da ammazzare, tra la realtà dell’ebreo e la finzione del sottouomo da eliminare.

È questo svuotamento che spiega come possa un sistema totalitario trovare tanti complici in società progredite e colte; certo, occorre anche tutta una serie di misure repressive, quella totalità di controllo e di repressione che le definizioni classiche del totalitarismo ci indicano come fondamentali, ma anche su questo punto l’intuizione artistica di Grossman ci mostra una realtà più complessa e scandalosa. La stessa paura, che pur è fondamentale al mantenimento di un sistema totalitario, è per Grossman meno importante ed essenziale di questa forma di pensiero; comunque la paura, da sola, non è in grado di spiegare, secondo lui, la vasta rete di connivenze, di complicità, o di viltà, che permisero al sistema di durare tanto a lungo. Alla paura deve affiancarsi un meccanismo più potente e onnicomprensivo: «No, no! La paura da sola non è in grado di compiere una tal mole di lavoro. Il fine superiore della rivoluzione libera dalla morale in nome della morale, giustifica in nome del futuro gli attuali farisei, delatori, ipocriti, spiega perché un uomo, per la felicità del popolo, deve spingere degli innocenti nella fossa. In nome della rivoluzione questa forza permette di ignorare i bambini i cui genitori si trovano nel lager. Spiega perché la rivoluzione ha stabilito che la moglie che si sia rifiutata di denunciare il marito innocente, è strappata ai suoi figli e deve scontare una pena di dieci anni in campo di concentramento»[31]; ancora una volta, ciò che conta è il principio ideologico della eliminazione della realtà, il principio dell’eliminazione dei bambini e delle loro madri innocenti e reali, che vengono ignorati nel loro diritto reale alla solidarietà e alla compassione, e sostituiti dalla categoria dei «membri della famiglia di un controrivoluzionario», socialmente lontani e potenzialmente pericolosi e, in questo senso, degni di ogni sospetto e delle adeguate misure di profilassi sociale[32].

Ci imbattiamo così finalmente in una chiara formulazione di quello che costituisce il culmine del processo educativo che ha i suoi eroi in personaggi come Stalin o Rudolf Hoess, l’idea del nemico oggettivo, che sostituisce il nemico reale e che, con la sua oggettività potenzialmente onnicomprensiva, rende possibile un’ecatombe prima neppure immaginabile: nemico oggettivo, infatti, può essere, e di fatto sarà, chiunque, come ci insegna la formulazione teorica di questo concetto e come ci mostra poi la sua successiva applicazione, dall’ultimo dei kulaki al primo dei padri della rivoluzione, quel Trockij che, essendo stato il principale protagonista della vittoria militare sovietica, diventa poi nella finzione ideologica il punto di riferimento (oggettivo, ovviamente) di tutti i complotti antisovietici. Ora la formulazione teorica dell’idea di nemico oggettivo viene studiata e proposta da Lenin proprio nel momento in cui, a guerra civile finita, gli avversari della rivoluzione sono stati schiacciati; e nonostante questa situazione favorevole, viene allora introdotto nel nuovo codice penale un articolo che, per esplicita insistenza dello stesso Lenin, legalizza un terrore ormai inutile e lo estende a tutto il paese, prevedendo pene pesantissime, fino a quella capitale, per chiunque «aiuti oggettivamente» o «possa aiutare»[33] la borghesia internazionale. Grazie all’intuizione leniniana, il nemico più o meno inventato, ma comunque reale e per la cui condanna bisognava almeno inventare delle prove, viene sostituito dalla categoria fittizia del nemico possibile, la cui ostilità viene determinata in forza della sua origine sociale (una nuova versione della razza) e grazie alla «intuizione di partito» di cui è fornito il giudice: quello di nemico oggettivo è un concetto vuoto riempibile all’infinito e, proprio grazie a questo, capace di generare al momento opportuno qualsiasi ecatombe; ed è questa intuizione che viene descritta da Grossman: «ex ufficiali zaristi erano finiti nel lager non per aver messo su un’organizzazione monarchica, ma solo in previsione del fatto che avrebbero potuto farlo. Nel lager scontavano la loro pena socialdemocratici e socialisti rivoluzionari. […] li avevano messi dentro non perché si erano battuti contro lo Stato sovietico, ma solo perché v’era una possibilità che lo facessero. Contadini venivano sbattuti nei lager non perché si battevano contro i kolchoz. Ci mandavano quelli che in determinate condizioni, avrebbero potuto opporsi ai kolchoz. […] Il terrore era rivolto non contro i criminali, ma contro coloro che, secondo gli organi repressivi, avevano una probabilità solo un poco maggiore di diventarlo»[34]. Nemico, dunque, è colui che può diventarlo o che può essere considerato tale, non per cattiveria o in nome di un’ideologia malvagia, ma «per fare il bene, il bene dell’umanità»[35].

Pur dovendo riconoscere tutte le differenze che intercorrono tra i due sistemi totalitari del XX secolo, si deve anche riconoscere che proprio su questo punto essenziale comunismo e nazismo sono profondamente accomunati: non certo per il contenuto ideologico, che li differenzia in maniera evidente, ma per il principio ideologico, per quella sostituzione della realtà che Grossman ha colto come centrale nel comunismo e che un Levi, ad esempio, coglie come centrale nel nazismo quando dice che l’intera storia del Terzo Reich può essere letta come una «falsificazione della realtà, fino alla fuga definitiva dalla realtà medesima»[36].

Sogni diversi avevano così prodotto un unico incubo: la distruzione della realtà; e questa implica a sua volta un nuovo elemento: coinvolge non solo le vittime del sistema in misura mai vista prima, ma distrugge i suoi stessi protagonisti fino alla radice stessa del loro io, a livello della persona e dei suoi rapporti; distrutta la sua possibilità di rapporto col reale, l’io è distrutto sia nella sua struttura intima sia nella sua possibilità di entrare in relazione con i propri simili.

La devastazione umana prodotta dall’ideologia, tante volte descritta in studi specialistici, è anticipata dall’intuizione artistica di Grossman che, innanzitutto, sottolinea l’annichilimento di cui resta vittima l’io quando, per il bene della causa, per il principio astratto dell’ideologia, deve sacrificare tutti gli affetti reali, non trasformandoli in un amore più grande, ma rinunciando ad ogni amore e alla propria persona, e sostituendoli con lo spirito del partito: «La fiducia del partito! Getmanov conosceva la grande importanza di queste parole. Il partito gli dava la sua fiducia! Tutto il lavoro della sua vita , in cui non c’era stato posto per grandi libri, né per scoperte famose, né per lotte epiche, era stato un lavoro enorme, costante, perseverante, capillare, perennemente intenso, insonne. Il significato principale e superiore di questa fatica risiedeva nel fatto che essa nasceva dalle esigenze del partito e in nome degli interessi del partito. […] Le sue decisioni in qualsiasi circostanza […] dovevano essere compenetrate dello spirito e degli interessi del partito. […] Egli doveva rinunciare senza incertezze alle proprie abitudini, al libro preferito, nel caso in cui gli interessi del partito fossero in contraddizione con le sue personali simpatie. Getmanov comunque sapeva che in queste cose esisteva il livello più alto della partiticità, la cui sostanza consiste nel fatto che l’uomo in generale non può avere né propensioni né simpatie in grado di porsi in contrasto con lo spirito del partito; ciò che è caro e prezioso per il dirigente, deve essergli caro e prezioso unicamente in quanto esprime lo spirito del partito. […] Non doveva più tener conto né dell’amore né della compassione […] perché i sentimenti personali come l’amore, l’amicizia, la solidarietà, naturalmente, non possono sopravvivere se sono in contrapposizione allo spirito di partito. La fatica degli uomini che ottengono la fiducia del partito passa inosservata; ma questa fatica è immensa, consuma mente e anima, totalmente»[37]. Questa fatica mortale, che nasce dalla rinuncia alla vita concreta per il servizio dell’idea, consuma l’io fino a renderlo estraneo a se stesso: «nel terribile lager tedesco, si sentiva forte e fiducioso. Solo una penosa sensazione non l’abbandonava. Neanche nel lager poteva ritrovare quel sentimento giovane, chiaro e compiuto di sentirsi “suo” tra i suoi, estraneo tra gli estranei. […] Il guaio era che molto del suo stesso animo gli era diventato estraneo. Accadeva che in tempo di pace egli, rallegratosi di aver incontrato un vecchio amico, se lo scoprisse subito dopo straniero. Ma che fare quando l’estraneo del giorno presente viveva in lui stesso, era una parte di sé? Con te stesso non puoi troncare i rapporti, non puoi smettere di incontrarti»[38]. L’esito tragico di questo processo, dunque, è che la promessa dell’idea comunista, la promessa di una nuova socialità si realizza come scomparsa di ogni socialità.

Giunti a questo fondo dell’abisso, dal quale sembra che non ci sia più uscita possibile, nel quale sprofondano sia le vittime sia i loro carnefici, abbiamo però un nuovo paradosso, uno dei paradossi più frequentemente ribaditi dalla letteratura nata dai campi: nel momento stesso in cui viene riconosciuta la radicalità della distruzione prodotta dal totalitarismo, e nel momento stesso in cui viene pronunciata la sua condanna definitiva, si deve riconoscere anche l’infinita eccedenza dell’uomo rispetto alle potenzialità distruttive dello stesso totalitarismo: l’umanità si perde nel carnefice ma si ritrova nella vittima, «uno è il castigo del carnefice: lui che non considera la sua vittima un uomo, cessa di essere uomo lui stesso; egli uccide l’uomo che è in lui, è il suo proprio carnefice; la vittima, invece, resterà un uomo nei secoli, per quanto tu lo distrugga»[39]. L’umanità è ultimamente irriducibile a qualsiasi tentativo di dominarla e di possederla.

Come si realizzi questo processo salvifico e come sia possibile è questione che ci porterebbe troppo lontano dal tema di cui ci stiamo occupando, ci limiteremo quindi ad alcune osservazioni per capire piuttosto cosa permetta a Grossman di trarre questa conclusione e, in ultima analisi, quale sia il principio che guida le sue riflessioni e le sue intuizioni; saremo condotti così al vero cuore di Grossman, che è la sua arte, il suo essere innanzitutto un artista.

Innanzitutto dobbiamo osservare che la conclusione cui arriva Grossman – che sia possibile per l’uomo riprendere a vivere, riaffermando la propria umanità, dopo le tragedie del XX secolo – ha un parallelo nella riflessione che faceva un altro grande testimone e letterato, generato dall’esperienza dei campi nazisti, e cioè Primo Levi; riprendendo la famosa affermazione di Adorno, secondo il quale dopo Auschwitz non si poteva più fare poesia, Levi aveva precisato: «la mia esperienza è stata opposta. Allora [1945-1946] mi sembrò che la poesia fosse più idonea della prosa per esprimere quello che mi pesava dentro. Dicendo poesia, non penso a niente di lirico. In quegli anni, semmai, avrei riformulato le parole di Adorno: dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz»[40]. Una volta colto il cuore del principio ideologico nella sua negazione della realtà, e una volta arrivati al punto in cui si credeva che questa negazione potesse essere giunta alla vittoria finale, l’ideologia subisce la sua sconfitta, l’uomo riprende a vivere, a essere se stesso; e questa sconfitta si compie proprio nel punto di negazione suprema – Auschwitz – e proprio grazie alla forza dell’arte, si compie nell’arte e come arte.

La riflessione di Levi è in un certo qual senso la spiegazione dell’esperienza di Grossman. Il progetto totalitario della reinterpretazione del reale e della sua sostituzione con una rappresentazione ideologica aveva investito necessariamente tutte le sfere della vita (in questo senso davvero era totalizzante), e quindi si era tradotto anche in una particolare concezione artistica, il cosiddetto realismo socialista, inteso come negazione della realtà e sua sostituzione con la rappresentazione della realtà nella sua prospettiva rivoluzionaria. La sconfitta di questo metodo artistico era stata subito evidente nel tracollo dell’arte sovietica ed è evidente nel confronto con l’opera di Grossman: là dove si era celebrata e creduta possibile la sostituzione della realtà con un discorso su di essa, là dove si era celebrata la vittoria dei principi e delle idee astratte sul reale, la vita dell’uomo riprende, irriducibile, non opponendo a un’idea una nuova idea, ma negando che la realtà possa essere ridotta alla sua rappresentazione e mostrando, per esperienza, che questa riduzione è inevitabilmente destinata alla sconfitta. Innanzitutto, dunque, in Grossman abbiamo un’esperienza: il nostro discorso su nazismo e comunismo è partito dall’esperienza, evocata da Grossman, secondo cui tutti sono e restano uomini, a dispetto della riduzione ideologica che voleva trasformare il contadino in kulak e l’ebreo in sottouomo; questa esperienza iniziale si incontra ora con l’esperienza finale della rinascita dell’uomo ritrovata al culmine della sua negazione: «l’anima di ogni singola vita, nella sua irripetibilità, nella sua unicità, è la libertà. […] La vita si trasforma in felicità, libertà, valore supremo, solo se l’uomo esiste come mondo, persona mai e da nessuno ripetibile nei tempi che non hanno fine»[41]. Ma, come abbiamo detto, questa non è un’affermazione teorica[42]; ovviamente può – e per certi versi deve – passare attraverso delle formulazioni teoriche, ma va ben al di là di esse; Štrum, il fisico protagonista di Vita e destino che sta ripensando alla sua scoperta scientifica, fa esattamente la stessa riflessione: «benché la nuova soluzione fosse nata da un cervello umano, era connessa agli esperimenti di Markov. In effetti, se i nuclei atomici e gli atomi non fossero realtà, non esisterebbero neppure nel cervello dell’uomo»[43]. Il lavorio della ragione, l’interpretazione non è rifiutata, ma va ricondotta alla sua origine reale e richiamata alla sua responsabilità di fronte al reale. Il fatto che nel nome del bene siano stati compiuti «delitti mai visti prima in tutto l’Universo»[44], non porta alla sua semplice negazione o alla sua sostituzione con un’altra categoria astratta ma alla ricerca della sua verità ultima: «il bene non risiede nella natura, non sta neppure nella predicazione dei missionari e dei profeti, non sta negli insegnamenti dei grandi sociologi e dei capi popolo, non nell’etica dei filosofi. […] Accanto al minaccioso, grande bene, esiste una bontà quotidiana. È la bontà della vecchia che porta un pezzo di pane a un prigioniero, del soldato che dà da bere dalla sua borraccia al nemico ferito, della gioventù che ha pietà della vecchiaia, è la bontà del contadino che nasconde nel fienile un vecchio ebreo. È la bontà dei guardiani che mettendo in pericolo la loro stessa libertà consegnano le lettere dei prigionieri, non ai propri compagni di fede, ma alle madri e alle mogli. Questa bontà privata di un singolo individuo nei confronti di un suo simile è senza testimoni, una piccola bontà senza ideologia. La si può chiamare bontà insensata. La bontà degli uomini fuori dal bene religioso e sociale»[45].

La rete di solidarietà e di relazioni umane che caratterizza questa bontà chiarisce in che senso essa sia fuori dal bene, senza ideologia e senza parole. È una bontà senza parole esattamente nello stesso senso in cui Solženicyn parlava di una «verità senza parole»; questa bontà e questa verità si situano al di fuori di ogni discorso astratto e di ogni pretesa di esaurire il reale e di sostituire alla sua complessità un discorso chiuso, ma non sono la rinuncia ad ogni ragionevolezza del reale. L’affermazione che leggiamo in una delle primissime pagine di Vita e destino, «io non credo nel bene, credo nella bontà»[46], in effetti non è semplicemente il rifiuto delle teorie in nome di una prassi altrettanto astratta ma, con la rete di solidarietà che le dà carne e la definisce, diventa il vero principio di organizzazione della vita reale e del testo letterario che, nato e caratterizzato dalla contestazione del bene astratto, culmina appunto nella riscoperta della bontà e nella possibilità di viverla e di trasmetterla: non meno efficace e non meno reale per il fatto di essere senza parole, è artisticamente realissima per essere diventata ciò in forza di cui si decide il destino dei singoli protagonisti, ciò che costituisce, proprio al culmine della disperazione, «la piccola macchia chiara» che distingue le vittime, ancora esseri umani, dai carnefici, perché i primi «soffrivano, ma non tormentavano gli altri»[47]. È l’ultima scena di un romanzo in cui tutti i protagonisti sono chiamati a confrontarsi con questa bontà: «fa freddo ed è ancora buio, ma presto si spalancheranno le porte e le imposte, la casa deserta si rianimerà, si riempirà di risa e pianti infantili, risuonerà dei frettolosi e leggeri passi della donna amata, vi camminerà deciso il padrone di casa. Erano immobili, tenevano in mano la borsa per il pane e tacevano»[48]. Una bontà senza parole, certo, ma con tutta la concretezza e la ragionevolezza di un pane condiviso.

NOTE:

[1]              Testo di riferimento utilizzato da Adriano Dell’Asta nella conversazione tenuta in libreria dell’Università Cattolica di Brescia su invito della CCDC in data 16.1.2009.

[2]             Si tratta di H.Rousso (a cura di), Stalinismo e nazismo. Storia e memoria comparate, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino, 2001 e di I. Kershaw – M. Lewin (a cura di), Stalinismo e nazismo. Dittature a confronto, tr. it. Editori Riuniti, Roma 2002.

[3]             A proposito della comparazione tra nazismo e stalinismo v’è infatti da notare che è sì vero che è esistito un fenomeno storico che merita il nome di stalinismo e i cui caratteri sono legati alla personalità politica di Stalin, ma è altrettanto vero che mentre il nazismo è iniziato e si è concluso con Hitler, il comunismo è iniziato prima di Stalin, è finito dopo di lui e si è sviluppato anche in paesi che con Stalin non avevano avuto nulla a che fare (si pensi alla Cambogia); in questo senso dunque non v’è alcuna ragione di limitare il parallelo con il nazismo al solo stalinismo. Se si limita al solo Stalin il comunismo, che pure è durato più di Stalin, non si capisce perché non si limiti al solo Hitler il nazismo, che invece non è sopravvissuto a Hitler; e non si capisce quindi perché si parli di «stalinismo e nazismo» e non, ad esempio di «stalinismo e hitlerismo». In realtà questa limitazione del parallelo col nazismo al solo stalinismo cela una inaccettabile petizione di principio, una asimmetria che, proprio in uno di questi testi, quello curato da H. Rousso, è stata fortemente messa in discussione; si vedano a questo proposito le «Osservazioni conclusive» di P. Hassner, «Oltre la storia e la memoria» (in particolare le pp. 321-326), nelle quali questa asimmetria viene giudicata per lo meno «rischiosa».

[4]             Si veda in questo senso l’intervista rilasciata il 24 ottobre 1994 a M. Ignat’ev, citata da R. Conquest. Il secolo delle idee assassine, tr. it. Mondadori, Milano 2001, p. 21

[5]             V.S. Grossman, Žizn’ i sud’ba (Vita e destino), in Sobranie Sočinenij v 4-ch tt. (Opere in 4 volumi), Vagrius-Agraf, Moskva 1998, II, p. 293 (tr. it. Vita e destino, Jaca Book, Milano 1984, p. 393). D’ora in avanti citeremo Vita e destino sempre a partire da queste edizioni, indicando il testo con la sigla VD e facendo seguire immediatamente il numero della pagina dell’edizione russa e, tra parentesi, quello della traduzione italiana.

[6]             VD 295 (395).

[7]             VD 298 (399).

[8]             V. Grossman – I. Erenburg, Il libro nero. Il genocidio nazista nei territori sovietici. 1941-1945, tr. it. Mondadori, Milano 1999.

[9]             Sul Holodomor (moria per fame), la carestia indotta che tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta è arrivata a far parlare di una sorta di genocidio in Ucraina, si veda l’ormai classico lavoro di R. Conquest, The Harvest of Sorrow: Soviet Collectivization and the Terror-famine, Hutchinson, London 1986; interessante è anche R. Serbyn – B. Krawchenko [a cura di], Famine in Ukraine. 1932-1933, Canadian Institute of Ukrainian Studies, University of Alberta, Edmonton 1986; a questi testi vanno poi aggiunti il lavoro di A. Graziosi, La grande guerra contadina in URSS. Bolscevichi e contadini 1918-1933, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1998 e le ricerche fondamentali di N.A. Ivnickij, tra le quali va citata in particolare, Kollektivizacija i raskulačivanie [Collettivizzazione e dekulakizzazione], Nauka, Moskva 1996).

[10]           V.S. Grossman, Vse tečet (Tutto scorre), in Sobranie Sočinenij v 4-ch tt., cit., IV, p. 327 (tr. it. Tutto scorre, Adelphi, Milano 1987, p. 144, il corsivo è nostro). D’ora in avanti citeremo Tutto scorre sempre a partire da queste edizioni, indicando il testo con la sigla TS e facendo seguire immediatamente il numero della pagina dell’edizione russa e, tra parentesi, quello della traduzione italiana. Cfr. anche TS 327-328 (145-146).

[11]           Si veda in questo senso l’agghiacciante raccolta di documenti curata da L. Kovalenko e V. Maniak e presentata in francese da G. Sokoloff, 1933, l’année noir. Témoignages sur la famine en Ukraine, Albin Michel, Paris 2000.

[12]           TS 327 (144).

[13]           TS 322 (135 il corsivo è nostro).

[14]           Va sottolineato che Grossman non esclude affatto che nel passato russo vi siano degli elementi che possano aver facilitato il trionfo del bolscevismo e anzi insiste lui stesso sulla presenza nella tradizione russa di fortissimi ed essenziali agenti di non libertà (cfr. ad esempio TS 351-357 [194-203]); e questa insistenza gli è stata persino rimproverata (in genere da autori di ispirazione nazionalista) come il segno di una sua presunta russofobia. Ma a questo proposito vanno tenute presenti due precisazioni essenziali. Innanzitutto, oltre a ricordare (come nel caso delle carestie) che, pur con tutte le sue manchevolezze e pur con tutto il suo spirito servile, la Russia dei servi e dello zarismo non era mai arrivata alla follia genocidaria del regime sovietico, Grossman pone sempre la questione del rapporto tra Russia e Unione Sovietica in una maniera più complessa, non limitandosi ad una pura dialettica di continuità/discontinuità, ma chiedendosi ad esempio se sia davvero la Russia ad aver scelto Lenin o se non sia vero piuttosto che fu anche lui a scegliere lei: «La grande schiava [la Russia che si era liberata dalle catene dello zarismo] soffermò il suo sguardo – uno sguardo indagatore – sopra Lenin. Il prescelto fu lui. […] ma fu davvero così? Egli divenne il suo eletto perché lui aveva scelto lei, e perché lei aveva scelto lui. Lei lo seguì – lui le aveva promesso montagne d’oro e fiumi di vino –, lo seguì dapprima piena di entusiasmo e di fede, lungo la gaia, inebriante strada illuminata dalle ville incendiate dei grossi proprietari; poi tirandosi indietro, guardandosi attorno spaventata della strada che le si apriva dinanzi, ma sempre più e più forte percependo la mano di ferro che la conduceva» (TS 352 [195]). In secondo luogo, Grossman non cade mai in quella sorta di razzismo che fa di tutti i mali del comunismo un prodotto necessario e logicamente conseguente dell’anima russa; parlando in questa prospettiva di una sorta di legge di sviluppo che avrebbe portato la Russia alla schiavitù sovietica, si pone una domanda radicale alla quale dà lui stesso una risposta altrettanto radicale e chiara: «È proprio e soltanto russa questa legge di sviluppo? Forse che all’anima russa e solo a lei tocca di svilupparsi – anziché con la crescita della libertà – con la crescita della schiavitù? È proprio dell’anima russa esprimersi così? No, certamente no. […] Qui non dell’anima si tratta. […] E del resto non furono solo i russi a seguire quella via. Non pochi sono i popoli, in tutti i continenti della terra, che – vuoi da lontano e confusamente, vuoi da vicino e più chiaramente – hanno provato in tutto il suo amaro l’amarezza della vita russa» (TS 355-356 [201-202]). Tra Russia e Unione Sovietica, dunque, nonostante tutti i legami e le complicità storiche, esiste una differenza qualitativa, un’eterogeneità essenziale, che rende la prima irriducibile alla seconda e che, appunto, ha fatto sì che il fenomeno sovietico («l’amarezza della vita russa») fosse tragicamente esportabile in tutto il mondo, ben al di là dei confini della Russia e delle terre conquistate dalle sue armate.

[15]           VD 393 (524 traduzione modificata).

[16]           TS 359 (209).

[17]           VD 206 (280 traduzione modificata).

[18]           TS 296 (81).

[19]           La prima pubblicazione in volume è poi del maggio 1963: Eichmann in Jerusalem. A Report on the Banality of Evil, The Viking Press, New York 1963 (tr. it. La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1964).

[20]           H. Arendt, Le origini del totalitarismo, tr. it. Comunità, Milano 1967, p. 649.

[21]           Cfr. C.J. Friedrich e Z. Brzezinski, Totalitarian Dictatorship and Autocracy, University Press, Cambridge, Mass. 1956. Sulla questione del totalitarismo e sulla relativa (ormai sterminata) bibliografia, rimandiamo al classico lavoro di D. Fisichella, Totalitarismo. Un regime del nostro tempo, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1992 e al più recente contributo di S. Forti, Il totalitarismo, Laterza, Roma-Bari 2001.

[22]           In base a quale criterio e chi deciderà, infatti, il numero di morti che determinerà il passaggio da una dittatura a un totalitarismo?

[23]           VD 298 (400 traduzione modificata; il corsivo è nostro).

[24]           VD 298 (400 traduzione modificata).

[25]           L. Poljakov, Il nazismo e lo sterminio degli ebrei, tr. it. Einaudi, Torino 1964, p. 289.

[26]           L. Poljakov, op. cit., p. 290.

[27]           L. Poljakov, op. cit., p. 293.

[28]           Cfr. M. Quadri, Un retroscena staliniano: il caso dei bambini spagnoli, in «La Nuova Europa», , n. 2, 2003, p. 38. I «niños de la guerra» sono i sopravvissuti del gruppo di bambini spagnoli che, per essere sottratti al franchismo vincente, vennero trasferiti in Unione Sovietica durante la guerra civile spagnola. La donna che viene qui citata, C. Ruiz Toribios, insieme ad un gruppetto di ex bambini, all’inizio degli anni Sessanta, decise di trasferirsi dall’Unione Sovietica a Cuba, per sostenervi la rivoluzione castrista e continuare così la missione per la quale era stata educata.

[29]           Su tale questione e per la relativa bibliografia si veda: M. Craveri, Resistenza nel Gulag. Un capitolo inedito della destalinizzazione in Unione Sovietica, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003 e E. Zubkova, Quando c’era Stalin. I russi dalla guerra al disgelo, tr. it. il Mulino, Bologna 2003.

[30]           Si veda in questo senso la nuova edizione del fondamentale testo di J.L. Talmon, Le origini della democrazia totalitaria, tr. it. il Mulino, Bologna 2000.

[31]           VD 394 (525-526).

[32]           Per questo ampliamento illimitato della categoria della colpevolezza, oltre alla descrizione artistica datane da Solženicyn nell’Arcipelago GULag, si vedano le precisazioni del classico A.J. Kaminski, I campi di concentramento dal 1896 a oggi. Storia, funzioni, tipologia, tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1998, e tutto l’apparato linguistico inventariato da J. Rossi, Spravočnik po GULagu. Istoričeskij slovar’ sovetskich penitenciarnych institucij i terminov, svjazannych s prinuditel’nym trudom (Guida del GULag. Dizionario storico delle istituzioni penitenziarie sovietiche e dei termini relativi al lavoro forzato), Overseas Publications Interchange Ltd., London 1987 (tr. ingl. Paragon House, New York 1989; tr. fr. le cherche midi, Paris 1997). Sulla questione fondamentale dell’uso e della trasformazione ideologica del linguaggio e dei suoi significati in un sistema totalitario, si veda poi il lavoro basilare di F. Thom, La langue de bois, Julliard, Paris 1987.

[33]           Sono due delle varianti che Lenin propone per un articolo del codice in una lettera del 17 maggio 1922 a D.I. Kurskij; Vl.I. Lenin, Polnoe Sobranie Sočinenij, izdanie pjatoe (Opere complete, V ed.), XLV, Moskva 1964, p. 191.

[34]           TS 306 (102-103).

[35]           TS 331 (151).

[36]           P. Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, Torino 1986, p. 20.

[37]           VD 68 (101 traduzione modificata).

[38]           VD 14-15 (33).

[39]           TS 322 (134-135).

[40]           P. Levi, «L’ora incerta della poesia» intervista di G. Nascimbeni per il «Corriere della Sera» del 28 ottobre 1984, in P. Levi, Conversazioni e interviste. 1963-1987, Einaudi, Torino 1997, p. 137.

[41]           VD 415 (551).

[42]           Sarebbe interessante notare a questo proposito quante volte vengano richiamate da Grossman le categorie di testimonianza ed esperienza.

[43]           VD 256 (346).

[44]           VD 302 (405).

[45]           VD 302 (405).

[46]           VD 13 (31).

[47]           VD 568 (751).

[48]           VD 651 (857).