Detti e Contraddetti 1989 – 1° semestre

DETTI E CONTRADDETTI 1989 – PRIMO SEMESTRE

5 gennaio 1989.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Un’icastica adamantina sentenza. La letteratura è cosa buona quando non chiede nulla al mondo (Anna Maria Ortese). Il più grande dei peccati. Il più grande dei peccati che un essere umano possa commettere è quello di cercar di scrollarsi di dosso la responsabilità morale per trasferirla su un imprevedibile ordine futuro. Gli eterni alibi. I falsi assoluti sono gli eterni alibi della coscienza morale. Gli alibi sono la natura o la storia, la classe o la razza o ‘le dure realtà del nostro tempo’, l’immodificabile evoluzione della struttura sociale che si pensa non debba essere giudicata e tanto meno combattuta. (Isaiah Berlin)

Le preoccupazioni serie dei credenti. Riconosco la serietà delle preoccupazioni dei credenti. Neppure a me piace il dilagare del materialismo nella nostra società. E sono convinto che la cultura laica debba colmare un consistente ritardo sui grandi temi dell’etica della scienza (Renato Dulbecco). Non sanno di morire. Gli animali e gli uomini politici non sanno di essere mortali (Eugène Ionesco). La stupidità di oggi. La stupidità di oggi non è più tanto borghese, razionalista e volterriana, quanto tesa verso il futuro, piena di idee. Oggi il cretino è pieno di idee. Può capitare a chi si fa cliente della verità. Un vecchio amico della verità può guardare negli occhi l’incredibile. (Ennio Flaiano)

LA BONTÀ, MERCE ESAURITA ANCHE A NATALE? «In prima persona sono stato protagonista di uno spiacevole episodio. Vivendo a Milano nei pressi della stazione centrale, parcheggio dove posso. L’altra mattina vedo che c’è folla attorno alla mia auto. Anche la polizia. E dentro, immobile e sgomento, un nordafricano. Un poliziotto dice: “Se lei dichiara che la porta era chiusa, lo arrestiamo”. La gente mi incita. Guardo il brigadiere e gli chiedo: “E se dico che era aperta?” “Allora possiamo passar sopra”. Il brigadiere sorride, ma la gente mugugna. “È così che si aiuta la delinquenza” grida un signore, naturalmente ‘per bene’». Chi racconta l’episodio è Giancarlo Galli su Avvenire del 18 dicembre.

IL RIFIUTO È TUTT’ALTRO CHE SCONTATO. La risposta al problema «qual è il valore della musica?» non può essere: «Non mi pongo nemmeno una domanda del genere, non avendo disposizione per la musica». Chi argomenta così dà prova solo di una cattiva soggettività e di una chiusura di spirito che non fa onore ad alcuno. Fornisce anche un argomento per la replica: «Allora una vita con o senza musica non fa proprio differenza?». E perché il ragionamento che s’è fatto per la musica non dovrebbe valere anche per la domanda religiosa?

Non è vero che la filosofia non si interroga più sul significato ultimo del vivere e del morire, su Dio e l’immortalità, sul valore di altre fonti di conoscenza che hanno segnato il suo stesso cammino in maniera così decisiva. Quando cesserà di farlo, non esisterà più la filosofia. Si sa chi sono i «compagni d’incredulità» che nell’Ottocento innalzarono «la bandiera dell’ateismo»: Feuerbach e poi Marx, Comte, Freud, Nietzsche. Occorre però discutere a fondo le contestazioni che ad essi mossero pensatori come Kierkegaard, Newman, Bergson, Blondel. Alla pentarchia della negazione nel nostro secolo va aggiunto Sartre. Ma la loro eredità si è andata sbriciolando. Basti pensare a come siano differenziate, proprio sul problema di Dio, le posizioni dei neomarxisti e come in Francia all’esistenzialismo ateo si siano opposte, sormontandolo da ogni lato, il socratismo cristiano di Gabriel Marcel, il realismo critico di Etienne Gilson e Jacques Maritain, il personalismo di Emmanuel Mounier, lo spiritualismo di Le Senne e Lavelle. In Germania, sia pure in modo ambiguo, secondo il suo solito, Heidegger lasciava aperta la questione e Jaspers rispondeva in modo condizionatamente positivo. Adorno trovava impensabile l’idea di una morte come realtà assolutamente ultima e Horkheimer invocava, con profonda nostalgia, l’abbraccio con il totalmente Altro, ponendo kantianamente nei Taccuini l’immortalità come postulato della stessa vita morale. No, il rifiuto è tutt’altro che scontato. Né è poi così ‘moderno’ e ‘scientifico’ come lo si vorrebbe far apparire.

L’IDEOLOGIA DELLA TOTALE TEMPORALITÀ. «La nostra non è solo una società del consumo, come si dice, ma una società come consumo, sia di beni materiali che di beni culturali; una società che trova la sua ragion d’essere nel ciclo produzione-consumo esteso dagli oggetti alle persone, dai beni alle idee, dal necessario al superfluo» (Gianfranco Morra).

12 gennaio 1989.

LINEA RECTA BREVISSIMA. In questa fiera dell’effimero. Nella nostra epoca si sta verificando qualcosa di sconosciuto nei tempi passati: anche le forme più serie ed impegnate della cultura, dell’informazione, della politica, tendono a spettacolizzarsi. Oggi si bada di più all’efficacia della rappresentazione e alla forma della sua espressione, che all’autenticità del contenuto; qualcosa diventa vecchio non perché è confutato da una verità superiore, ma perché non suscita l’interesse della platea (Stefano Zecchi). I bibliomani e i lettori. Bibliomania è il furore di avere libri e di ammucchiarli. In quanto a leggerli, è un altro discorso. Molti, moltissimi i bibliomani, pochi, pochissimi i lettori (Paolo Granzotto). Il consiglio radicale di un editore settecentesco. Se non vi sono che sei pagine meritevoli d’esser lette, separa quelle dal rimanente e getta l’opera nel fuoco (Gaetano Volpi). A proposito di un certo modo d’intendere il superamento. Aristotele non sostituisce Platone come la gomma bucata è sostituita da quella gonfiata (Charles Péguy). Qualità o pseudo-attualità? Nella casa del genio è di casa la qualità assai più che l’attualità. Occorre saper andare in collera. Ci sono reazioni di rigetto che sono reazioni salutari. Cristo si lascia prendere dalla collera quando tratta i farisei da «sepolcri imbiancati». E quando afferma, a proposito di coloro che scandalizzano i bambini, che bisognerebbe metter loro una macina da mulino al collo e gettarli in mare! La collera, nel significato più corretto del termine, è la reazione di una sensibilità sana davanti a situazioni vili, laide, spregevoli. In questo senso occorre saper andare in collera come Bernanos, come Péguy. Può ben esistere una collera perfettamente compatibile con la carità. (Jean Daniélou) Sull’uso scorretto del termine fanatismo. Certamente vi è chi considera fanatismo ogni elevazione dello spirito verso il sovrasensibile, ogni fede dell’uomo nella virtù, nel nobile, nel divino, nell’eterno, ogni convinzione religiosa; ma allora la parola fanatismo è un’espressione vana, che può essere adoperata soltanto dall’arido intelletto e da chi non crede in niente di elevato (Georg Wilhelm Friedrich Hegel).

I TITOLI DEI GIORNALI E LE COSE CHE PESANO SULLA COSCIENZA. Rimettendo a posto, a fine anno, gli articoli ritagliati perché trattano di problemi seri, sono rimasto colpito da alcuni titoli. Sono titoli che richiamano con forza ciò che rende brutta o ingiusta la nostra convivenza, ciò che tendiamo a rimuovere dalla nostra coscienza. Eccone alcuni, di seguito: Incidenti sul lavoro: c’è una diffusa impunità. – Il crudele inganno delle Usl e il collasso dei servizi urbani. – Spesa pubblica e servizi pubblici: qualcuno risponde? – Ti rispetto, non ti accetto (fino a che punto può spingersi il pluralismo culturale). – E la riforma dei partiti? – Don Picchi propone: «Salvate i drogati con i soldi dei boss». – La psicoanalisi è una scienza? (Al massimo è un’incertezza, sostiene il filosofo Grünbaum). – Tasse chiare e certe. È un diritto non più rimandabile. – Italia record: altissima mortalità infantile. – Cristiani: molto zucchero, poco sale. – I bambini sono trattati peggio degli animali. – Bioetica, ora è legge: Parigi, no alle sperimentazioni selvagge sull’uomo – Scegliere tutto e il contrario di tutto. – Troppa indulgenza demoralizza l’uomo onesto. – La vera droga fu il clima permissivo. – La libertà si misura sui pochi / Giovanni Paolo II chiede il rispetto di tutte le minoranze etniche, culturali e religiose. – Italia: l’80% sta bene, ma il resto proprio no. – Non è tutto oro quello che è Usa: sono quarantotto milioni i “quasi poveri” che nessuno vuole riconoscere.

E qui mi fermo per non schiacciare me stesso e i lettori sotto il peso di un inventario di sofferenze ingiustificate, di stupidità nella gestione del potere, di compiti… inadempiuti, di antichi e nuovi malanni. La vita, per fortuna, ci viene incontro un giorno dopo l’altro e l’essenziale è fare ogni giorno la nostra parte. Basta a ogni giorno la sua pena ed anche il suo pondus amoris, quella quota d’amore che siamo tenuti a torchiare dai nostri cuori. È però assolutamente necessario che in noi abbia un’eco la tristezza del mondo insieme alla decisione di operare atti quotidiani di speranza. La speranza come disperazione superata.

UN APOLOGO SUL «CARPIRE L’INTEREZZA». Un re persiano, per mettere alla prova i suoi saggi, aveva fatto rinchiudere in una stanza completamente buia un elefante. Fatti entrare i saggi uno per volta, domandò loro che cosa vi fosse nella stanza. Il primo aveva incontrato nel buio la proboscide e rispose: «Un serpente». Il secondo, che aveva sfiorato gli orecchi, affermò: «Un grande pipistrello». Il terzo rispose che si trattava di una colonna e il quinto di un muro. Il re rise ed esclamò: «Ognuno di voi, tastando nel buio, ha incontrato soltanto una parte; ma ha avuto la pretesa di descrivere il tutto» (Marcello Staglieno).

19 gennaio 1989.

 GIUDIZI SEVERI, MA NON INFONDATI. Jean-Paul Sartre. «Ha scritto molto, ma poco di questioni sostanziali. La sua opera mi sembra artificiale, guidata da apriori, con la sola eccezione di Le parole dov’è possibile incontrare la vera umanità» (Jean Daniélou). Emmanuel Mounier. «La sua onestà la sua rettitudine e il suo valore personale sono fuori discussione. Aveva un grande ascendente sulle persone e sotto un aspetto di fragilità nascondeva una volontà fortissima. Splendidamente dotato per bollare le vergogne delle politiche esistenti, non riusciva a superare il suo giacobinismo. Possedeva il puritanesimo spietato dei moralisti» (Jean Daniélou). André Gide. «André Gide non ha peso, non ha centro di gravità, non può fare alcuna scelta. Fluttua» (Charles Du Bos). Thomas Mann. «È una di quelle persone che permettono tutto con il pretesto di capire tutto» (Joseph Roth). A chi crede di dover scegliere un totalitarismo per opporsi ad un altro. «Se lei ha detto che i sovietici hanno ragione, allora deve anche dire che hanno ragione i nazionalsocialisti… Chi approva la Russia approva anche il Terzo Reich» (Joseph Roth, Lettera a Stefan Zweig del 30 novembre 1933).

Ci sono in Marx le premesse logiche e psicologiche di ciò che poi fu designato come “stalinismo”. «Il pensiero di Marx mi fa paura per la libertà degli uomini. Marx è la tenia del socialismo» (Pierre-Joseph Proudhon). Il complesso messianico di Marx. «Per Marx solo Marx possedeva la verità. Solo nella sua figura si trovava la scienza pura come il diamante, una concezione immacolata del socialismo, la pietra filosofale, la verità somma. Disapprovava ogni opinione diversa dalla sua con rabbia sprezzante, con odioso sarcasmo, e perseguitava con forza tutte le opinioni non uscite dal suo cervello. Non c’era saggezza che non fosse la propria, socialismo che non fosse il suo, vangelo oltre e all’infuori del suo. La sua opera era il punto di riferimento classico, il metro della purezza intellettuale e dell’onestà scientifica. Il suo sistema era Allah e Marx il suo profeta» (Otto Ruhle).

LA GRANDE POESIA E IL TEST DELLA TRADUZIONE LATINA. Il latino è una lingua che costringe ad essere perspicui e costituisce, pertanto, un test di indubbio valore per obbligare, ad esempio, una lirica a rendere esplicito quello che tanto spesso cela. Quando però ci troviamo dinanzi ad un’autentica, grande poesia la fatica del traduttore scompare: il testo poetico supera di slancio la prova della traduzione. La Madre è indubbiamente una delle liriche più alte di Ungaretti e per molte ragioni. La ricordate? «E il cuore quando d’un ultimo battito / avrà fatto cadere il muro d’ombra, / per condurmi, Madre, sino al Signore, / come una volta mi darai la mano. / In ginocchio, decisa, / sarai una statua davanti all’Eterno, / come già ti vedevo / quando eri ancora in vita. / Alzerai tremante le vecchie braccia, / come quando spirasti / dicendo: Mio Dio, eccomi. / E solo quando m’avrà perdonato, / ti verrà desiderio di guardarmi. / Ricorderai d’avermi atteso tanto, / e avrai negli occhi un rapido sospiro».

Ecco una sua possibile traduzione in latino. In Matrem. «Cor vero quando et ultimum palpitans / deicerit quodammodo umbrae morum, / ut me adducat, Mater, Domino coram, / veluti quondam me prehendes manu. Genibus adstans, confidens, / exstabis statua Aeternum ante Patrem, / velut iam te cernebam / cum viva etiantum eras. / Tremebunda intendes vetustas ulnas / velut quando expirasti / ‘En adsum, mi Deus’, memorans. / Et solum quando pepercerit mihi, / Deus, optabis tum vero me intueri. / Te reminisceris me exspectavisse diu / folgore ac tremulo oculi micabunt».

IL POLITICISMO ASSOLUTO, PREMESSA ALLA MORTE DELLA POLITICA. Chi ha teorizzato, con le più spericolate acrobazie dialettiche, la «politicità» come categoria capace non solo di investire tutte le altre attività dello spirito, il che sarebbe giusto, ma di dominarle e risolverle totalmente in sé è stato proprio il filosofo che sembrava più idoneo a uscire dalla gabbia dello storicismo, Giovanni Gentile, soprattutto nell’opera postuma, Genesi e struttura della società. E non è chi non veda nella riduzione della realtà a storia e nient’altro che storia – è così che si definisce lo «storicismo» – la premessa logica della riduzione di ogni altra attività umana a politica e nient’altro che politica: tesi questa proprio del «politicismo» assoluto. Gentile, dunque, e non Benedetto Croce, in cui il giustificazionismo storicistico, di derivazione hegeliana, fu sempre più contrastato, nell’intimo del suo cuore e negli scritti, dall’energica difesa dei diritti della coscienza morale. Per Croce, in ultima analisi, «l’unione della morale con la politica è necessaria, ha carattere positivo e non negativo, è virtù di bene e non corruttela di male». Oggi non cedere alla politicizzazione totale, selvaggia dell’esistenza significa, dunque, resistere a una delle espressioni più diffuse del processo di impoverimento dell’umano.

26 gennaio 1989.

 IL PRIMO DEI PROBLEMI ECUMENICI: QUELLO DEI RAPPORTI TRA LA CHIESA E ISRAELE. Ogni anno, a gennaio, le chiese cristiane dedicano una settimana di riflessione, incontri e preghiere per l’unità tra quanti, richiamandosi a Cristo, sono impegnati a superare le divisioni sopraggiunte e a rendere testimonianza alla sua parola. Ebbene, bisogna avere il coraggio di dire che il primo dei problemi ecumenici – Karl Barth diceva «l’unico vero problema ecumenico» – è quello dei rapporti tra le chiese cristiane e Israele. Lo aveva compreso alla fine del secolo scorso lo spirito più largo e profondo del mondo slavo, Vladimir Solov’ëv. È vero, le sue considerazioni sociologiche e politiche sulla condizione degli ebrei tra i russi e i polacchi nel 1884 erano imprudenti e perfino erronee, ma la sua intuizione centrale resta pienamente valida: «La questione ebraica – diceva Solov’ëv – è anzitutto una questione cristiana». Se alla base del dialogo ecumenico sta la riscoperta della «comune sorgente biblica», alla base del dialogo ecumenico sta innanzitutto la riscoperta di Israele. Per questo noi riteniamo decisive le parole con cui si apre la dichiarazione del Vaticano II intorno agli ebrei: «Scrutando il mistero della chiesa, il Concilio ricorda il legame che unisce spiritualmente il popolo del Nuovo Testamento alla stirpe di Abramo». L’ebraismo non è solo anteriore a Gesù Cristo, gli è interiore. Incontrando Cristo, noi scopriamo la sua «ebraicità» e cogliamo, infine, la nostra parentela fraterna col popolo nel quale egli si è fatto carne. Sono loro, gli ebrei, i nostri fratelli maggiori nella fede.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Una vocale fa la differenza. Non si tratta di farsi animo, ma anima (Michele Ranchetti). L’esibizionismo peggiore. A uno spettacolo di esibizionismo dell’esteriorità non proverei vergogna; mi indigna, però, l’esibizionismo dell’interiorità, che tra l’altro mi insospettisce molto (Jean Cocteau). Basta a confutare il pessimismo. Il pessimismo di Schopenhauer può essere confutato da un lampeggiare minimo di felicità: anche solo la luce che emana da uno sguardo (Max Horkheimer). L’uso del tutto immorale della questione morale. Quando fa un uso del tutto immorale della questione morale, il sistema politico pronuncia su se stesso una sentenza che non gli sarà facile cancellare. I partiti abusano dell’opinione pubblica. Nel fare i loro giochi, i partiti usano e abusano dell’opinione pubblica, ridotta a un tacchino di cui si riempie il gozzo con qualsiasi mangime preparato nella loro cucina e finalizzato, nelle intenzioni di ciascuno, a far crescere o diminuire l’area del consenso. (Massimo L. Salvadori) Amabilmente, tra amici. Desidero parlarti unicamente per il piacere di parlarti, / desidero entrare in comunione cosciente con te (John Henry Newman). Tanta narrativa moderna. Tanta narrativa moderna nella maggior parte finisce per essere: cinquanta per cento ideologie e cinquanta per cento sudicerie (Arrigo Cajumi). E più forte. L’acqua è più forte della roccia. / L’amore è più forte della violenza (Hermann Hesse).

IL REFERENDUM IN CILE, E A CUBA? Pinochet è al potere da quindici anni e Fidel Castro il 1° gennaio 1989 ha compiuto trent’anni di ininterrotto dominio dittatoriale su Cuba. In Cile il popolo, dopo tre lustri di lotta, ha avuto la possibilità di manifestare liberamente la sua opinione circa il destino politico del Paese e Pinochet ne è uscito con le ossa rotte. Perché a Cuba non si effettua un plebiscito nel quale il popolo, con un o con un no, possa decidere, con voto libero e segreto, se approvare o rifiutare la permanenza di Fidel Castro al potere?

Se persiste lo sdegnoso rifiuto di Castro nei confronti di qualsiasi forma di perestrojka, toccherà all’intervistatore televisivo italiano Gianni Minà – che si guadagnò con pieno merito «l’Oscar del servilismo», qualche tempo fa, mettendosi a lustrare gli stivali del dittatore cubano – confezionare un altro «servizio» e un altro «libro-verità» per spiegarci la superiorità del regime castrista, e non solo su Pinochet. E saranno bacchettate sulle mani per quanti si ostinano a non vedere a priori un’identità tra regime e popolo – presupposto inalterabile di ogni «democrazia» comunista – e non giudicano un dono togliere al popolo la responsabilità di scegliersi liberamente i suoi governanti. Già nel 1959, all’indomani della vittoria, Castro usava l’argomento «forte» per giustificare il rifiuto delle libere elezioni: «Sarebbe scorretto fare le elezioni, perché verrei eletto a furor di popolo». Ma il momento giusto per fare libere elezioni non è mai giunto, neppure dopo un trentennio. È sempre… «scorretto» farle.

2 febbraio 1989.

 «IO PROTESTO CONTRO L’AFFERMAZIONE SOMMARIA… ». Il titolo di un recente incontro con un pittore di schietta ispirazione come Renato Laffranchi, «L’arte e la ricerca del significato», a qualcuno è sembrato provocatorio o polemico: ai nostri occhi, invece, esso ha solo carattere esplicativo, a tal punto che si sarebbe potuto trasformare la congiunzione «e» (et) nella copula «è» (est).

In un’epoca come la nostra, in cui siamo immersi in una crisi di orientamento in grande stile, una crisi che coinvolge tutte le istanze, ebbene forse spetta proprio alla prima e più toccante delle attività dello spirito, l’arte, rappresentare sensibilmente il travaglio dell’uomo, il suo dramma, le sue più radicali aspirazioni – e rappresentarlo in maniera esteticamente del tutto piena di senso, cioè con intima coerenza.

Contro i giudizi di dura condanna che circolano ancora sull’arte contemporanea, sento anch’io il dovere di far mie le parole pronunciate nel 1950 da Willi Baumeister, il pittore i cui quadri erano stati rimossi dai musei e in parte distrutti, perché inclusi nella cosiddetta «arte degenerata», messa al bando dal nazismo in Germania, per ordine di Hitler, a partire dal 30 giugno 1937 (la storia di quell’infame capitolo della dittatura nazionalsocialista è stata ricostruita nel bellissimo libro-catalogo Banned and persecuted dictatorship of art under Hitler di Werner Haffmann, Du Mont, Buch-Verlag, Colonia, 1986). «Io protesto – scriveva Baumeister – contro l’affermazione sommaria, secondo cui l’arte moderna sarebbe priva di valori etici e non avrebbe nessun collegamento religioso». Hans Küng in una sua conferenza del 1979, ora pubblicata in italiano (Arte e problema del senso, Brescia 1988), constatava che «forse negli ultimi due decenni si è messo un po’ troppo in ombra il fatto che nella grande rivoluzione dell’arte moderna non sono venuti in luce soltanto problemi formali, ma insieme anche impulsi spirituali e i grandi problemi del senso. Si pensi alle lettere di van Gogh e Cézanne o ai diari di Gauguin». E noi aggiungiamo: si pensi a Lo spirituale nell’arte di Kandinsky e al Cavaliere azzurro, al Ronchamp di Le Corbusier, ai cicli biblici di Chagall, al Miserere di Rouault, ai lavori di Bazaine ad Assy e a Audincourt.

E non fu Matisse a offrirsi di costruire per le suore la cappella di Vence? Cappella di cui Matisse ha scritto: «È per me il risultato di un’intera vita di lavoro e la fioritura d’uno sforzo enorme, sincero, difficile. Non è un lavoro che io abbia scelto, ma piuttosto un lavoro per cui sono stato scelto al termine del mio cammino».

Nell’arte contemporanea il dramma dell’uomo e della città dell’uomo è espresso con tale forza da far emergere di continuo qualcosa di «ciò che ci concerne incondizionatamente» (l’espressione è di Paul Tillich). In termini kantiani: il fondamento sovrasensibile, noumenico, della natura e dell’uomo. Per questo l’arte, quando raggiunge certe profondità, ci sospinge a intuire noi stessi nella luce dell’Infinito e comunque a riconoscerci bisognosi di esso.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Per una corretta interpretazione della psicanalisi. I poeti e i filosofi hanno scoperto l’inconscio prima di me. Quel che ho scoperto io è il metodo scientifico che consente lo studio dell’inconscio (Sigmund Freud – Sarebbe stato più scientifico, però, parlare di «un» metodo e non dire di aver scoperto «il» metodo che consente lo studio dell’inconscio). La diplomazia che non ha diritto di cittadinanza. La diplomazia, con la quale si cerca di accendere una candela a Dio e due al diavolo, o di addolcire la pillola inzuccherando le critiche con lodi che le contraddicono o le vanificano, non ha diritto di cittadinanza nei campi del sapere, che richiedono la dura fatica del lavoratore, non le capriole del ballerino (Nicola Petruzzellis).

La bontà concreta, non il Bene della Causa”. Là dove c’è la costrizione regna il dolore e si sparge il sangue. Io ho assistito alle grandi sofferenze del popolo contadino, anche se la collettivizzazione la si faceva in nome del Bene della Causa. Io non credo nel Bene della Causa, credo nella bontà. I cosiddetti errori. Nei pregiudizi, negli sbagli e inesattezze del passato come in bozzoli ha dormito per millenni la verità. Quando la vita è attraversata dalla sofferenza. Quando la vita è attraversata dalla sofferenza, allora negli occhi degli uomini vediamo solo l’immagine della loro anima. (Vasilij Grossman)

Che cos’è la poesia. Poesia / è il mondo l’umanità / la propria vita / fioriti dalla parola / la limpida meraviglia / di un delirante fermento. Per superare la condizione d’esilio. Da ciò che dura a ciò che passa, / torni a correre un patto. (Giuseppe Ungaretti)

9 febbraio 1989.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. Meglio Beccaria che Machiavelli. Piuttosto che eredi di Machiavelli, preferirei che gli italiani fossero definiti discepoli di Beccaria (Franco Venturi). Una santità… non comprensibile. Non riesco a comprendere i santi che non amano la loro famiglia (Angelo Roncalli). Andare alle sorgenti. La riforma è il superamento di una tradizione per un’altra più antica (John Henry Newman). Il paradosso cristiano lo impone. Al centro della Chiesa, dopo il santo sta il peccatore (Charles Péguy). Dal nulla non vien fuori proprio nulla. Neanche il presunto Big Bang può essere senza causa. Nonostante tutte le logomachie antiche e nuove, resta sempre vero il principio: ex nihilo nihil fit (Nicola Petruzzellis). Il valore insostituibile. La libertà può fare del mondo un inferno e un caos, ma una volta intravistala, l’uomo non può trovare soddisfazione in null’altro. Riscoprirci europei. Amo l’Europa, nonostante i suoi vizi e i suoi difetti. Amo la visione dei Profeti e la grazia del Partenone, amo l’ordine romano e le cattedrali, amo la ragione e la passione per la libertà… Amo l’Occidente e la grandezza del suo progetto. (Jacques Ellul) Tre aforismi di Clemente Rebora. Quel che unito fu nell’amore progredisce oltre la morte (ca. 1916). L’amore è speranza di Paradiso (1923). Varco d’aria al respiro a me fu il canto, / a verità condusse poesia. / Però non ogni canto è buon respiro, / né tutti i versi fanno poesia (1955).

LA FUTUROLOGIA E L’IMPONDERABILE. «Per il momento la futurologia occidentale si preoccupa della crescita delle città e delle difficoltà legate all’irrefrenabile progresso della scienza e della tecnica. È evidente che se la futurologia fosse esistita nella Roma imperiale dove, com’è noto, si costruivano già case di sei piani e dove esistevano trottole per bambini che venivano messe in moto dal vapore, i futurologi del V secolo avrebbero previsto per il secolo dopo la costruzione di case di venti piani e l’impiego industriale di macchine a vapore. E, invece, come noi ben sappiamo, nel VI secolo le capre pascolavano nel Foro».

Questo ribaltamento delle tesi più ottimistiche della futurologia ufficiale di qualche lustro addietro lo si legge nelle pagine conclusive di un saggio agile e imprevedibile, Sopravviverà l’Unione Sovietica fino al 1984? scritto dal geniale e sfortunato Andrej Aleksevic Amalrik nel 1969. Quel saggio politico-filosofico ottenne tra i lettori del samizdat un successo grandioso e venne tradotto in molte lingue (in Italia dalle edizioni Coines nel 1970). C’è chi lo paragona al 1984 di Orwell.

NELL’ORIZZONTE DEL NICHILISMO QUALE ARTE? L’incertezza in cui si trova l’uomo contemporaneo rispetto ai chiari segni di un cammino si manifesta in mille modi. Frasi come: «non c’è scopo», «non ho un centro», «il nulla ci circonda» sono ormai così diffuse da suonare esse stesse, malgrado la loro tragicità, banali luoghi comuni. Nell’orizzonte del nichilismo, nel tempo dell’assurdo possono ancora avere pienezza di senso le opere d’arte?

Questo è uno dei problemi analizzati con maggior acutezza da Theodor W. Adorno nella sua Teoria estetica (Torino 1975). La singola opera d’arte può avere ancora un senso se l’uomo ha smarrito la grande connessione di senso? La risposta di Adorno suona: «sì». Sì, poiché in un tempo dell’assurdo l’opera d’arte può rappresentare sensibilmente proprio la tragedia dello smarrimento dell’uomo in un’esistenza avvertita come labirinto senza via d’uscita. L’opera d’arte, come dimostra ampiamente l’arte moderna, può essere espressione in sé piena di senso, intimamente coerente, anche dell’orizzonte chiuso in cui il nichilismo comprime l’esistenza umana. Come sempre – e qui il nostro discorso va oltre quello di Adorno – la stessa rappresentazione bella e potente del brutto e dell’assurdo finisce col comunicare un’ansia di liberazione, una spontanea purificazione interiore che la grande opera d’arte porta sempre con sé: è il dono meraviglioso della catarsi. In ciò sta l’immanente spinta liberatrice, o eticità, dell’arte di ogni tempo, e del nostro in particolare, e non come dice Adorno, nell’essere e nel comunicarsi agli uomini come una menzogna affermativa, la cui funzione è, di fronte alle esperienze storiche, attribuire un senso positivo a qualsiasi esistenza.

MUSEO, SCONSACRAZIONE DELL’ARTE? Per André Malraux il museo opera una «sconsacrazione» dell’arte. Per farne degli oggetti d’arte, il museo spoglia l’icona, il crocefisso romanico, la Vergine gotica del loro carattere sacro. La Pietà d’Avignon è in esilio al Louvre, perché il suo posto è in una cattedrale. Così i fedeli pregano davanti a Madonne di gesso e la Pietà non vede che passare turisti. Ma i turisti l’ammirano veramente?

16 febbraio 1989.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. L’inafferrabile potere delle ‘voci’. Le insinuazioni fanno sempre strada; e uomo che seppe difendersi dall’invidia e vincer la calunnia, cede al sospetto ed è sconfitto dalle voci vaghe. Una calunnia si sfata e cade, una voce ronza inafferrabile (Riccardo Bacchelli). L’esegesi di un rabbino chassidico. Si dice che le parole Io credo siano una preghiera. Significano: Che io possa credere (parole riportate da Martin Buber). Europa, Cristianesimo e morale laica. È impossibile comprendere il passato europeo – e quindi il nostro presente e il nostro avvenire – senza tener conto del fattore cristiano. La storia europea è una storia tragica, né più, né meno di tante altre. Ma, nonostante tutto, il richiamo al Cristianesimo essa l’ha conosciuto e quel richiamo vive nella coscienza e nel subconscio. Se l’Europa riconosce una morale, questa ha origine nel Cristianesimo. Questa considerazione è ancora valida ai giorni nostri? Sì, nella misura in cui l’Europa è ancora europea. Certo ci sono gli atei e ancor più numerosi sono gli agnostici. Ma qualora si cerchi di definire un’etica, un insieme di regole per l’individuo e per la collettività, è inevitabilmente al Cristianesimo che si ritorna (Henri Brugmans). Il realismo dei grandi costruttori dell’unità europea. L’Europa non potrà mai farsi in una sola volta, né sarà costruita tutta insieme. Essa sorgerà da realizzazioni concrete che creino innanzi tutto una solidarietà di fatto (Robert Schuman). Diverse le persone, identico il destino. Che dirti delle persone? Mi hanno stupito nel bene e nel male. Sono insolitamente diverse, benché tutti vivano un identico destino (Vasilij Grossman).

AL SERVIZIO DELL’OROSCOPO L’UFFICIALITÀ DELLA RAI-TV. Eduardo De Filippo mette in bocca a uno dei suoi personaggi un’espressione divenuta famosa: «Non è vero, ma ci credo». Non ci sono cautele del genere, invece, alla Rai che trasmette l’oroscopo con solenne, desolante pompa sul secondo canale, in uno dei momenti di massimo ascolto, prima del telegiornale. Così la «ufficialità» del mezzo televisivo finisce per accreditare presso un larghissimo pubblico l’attendibilità dell’astrologia. Sedici secoli fa anche Agostino consultava gli astrologi (Conf. IV, 3), ma bastò un fatto, irrefutabile nella sua estrema concretezza, a far cadere la fiducia riposta negli oroscopi. Due bambini nascono nello stesso identico momento e nello stesso luogo; ed ecco «l’uno, il figlio del padrone, cresceva in ricchezza e saliva la scala degli onori, mentre l’altro era sotto il giogo della sua condizione di schiavo», nota Agostino (Conf. VII, 6). Dunque assolutamente identico l’oroscopo per tutti e due, abissalmente diversa la loro sorte, del tutto paralleli e opposti i loro destini.

Le stelle centrano davvero con la nostra condotta di vita? «Oggi sappiamo stimare masse e distanze di stelle e pianeti» scrive Margherita Hack sul Corriere della Sera del 24.1.89. «Sappiamo misurare la quantità e la qualità di radiazioni elettromagnetiche, le particelle che sono emesse, i loro campi magnetici e renderci così conto che a causa delle enormi distanze delle stelle, a causa della piccola massa ed energia emessa dai pianeti, il loro effetto fisico sulla terra è completamente trascurabile». Non si può invece escludere a priori che il sole e il clima possano avere un effetto sul temperamento. Quindi è del tutto verosimile che il nascere in una stagione piuttosto che in un’altra possa avere una qualche influenza sul fisico e sul temperamento di un essere umano. Ma anche questo è da dimostrare. La difficoltà di provarlo sta nell’individuare questa eventuale causa, nel calcolarne l’incidenza, nel distinguerla e insieme collegarla a tutte le altre che in varia misura concorrono a formare un essere umano: famiglia, società, educazione, salute, condizioni economiche.

SULL’ARTE E IL SACRO. 1. Ci può ben essere un’arte che ha un alto valore sacro, benché il contenuto non sia religioso; reciprocamente, un’arte non può essere detta religiosa a causa del contenuto, quando la sua struttura e il suo significato rimangono profani. 2. La vera arte religiosa nasce come esodo e trasfigurazione, ascesa al Tabor o al Calvario. È – come diceva Georges Rouault – «il dominio di coloro che si dimostrano capaci di fede e che fanno dell’arte». 3. In che cosa l’arte è indispensabile al cristianesimo e in che cosa lo stesso cristianesimo giova al suo arricchimento? Il problema fu posto da Chateaubriand nel Genio del Cristianesimo (1802), ripreso e approfondito da Huysmans alla fine del secolo scorso e, nel nostro, da Malraux. Senza arrivare a dire quello che diceva Auguste Rodin («Ho sempre confuso l’arte religiosa e l’arte; quando la religione si perde, si perde con essa l’arte»), ci si deve però chiedere che cosa diverrebbe la storia dell’arte senza il cristianesimo. Forse per tre quarti sparirebbe.

23 febbraio 1989.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. Ritmi di vita congestionati. Paradossalmente, più sono veloci le comunicazioni, meno è concesso al riposo (Alberto Moravia). La dinamica del provvisorio. Le energie migliori si dispiegano quando ci si sente provvisori. Vivere, nella pienezza del termine, è molto più importante che sopravvivere (Fabiano De Zan). Il testamento di Simon Wiesenthal. Se non facciamo attenzione, ecco cosa vedrà la storia ventura: la bestia sterminatrice in forma d’uomo. Se l’odio e il sadismo si alleano alla tecnologia moderna, l’inferno può ricominciare in qualsiasi luogo. Quanto è successo può ripetersi (dall’ultima pagina dell’autobiografia Justice n’est pas vengeance).

Un passo di natura morale alla portata di tutti. La parte essenziale della nostra libertà è interiore, dipende dalla nostra volontà. Se noi stessi la consegniamo alla corruzione, non abbiamo più diritto al nome di uomini. Il nostro compito più essenziale e urgente si identifica con l’affrancamento della nostra anima, che non esige da noi exploit organizzativi, assemblee, scioperi o strutture di partito. Esso consiste unicamente nel compiere un passo di natura morale che è alla portata di tutti (Aleksandr Solzenicyn). Perché i santi ritornano? I santi sono il commento più importante del Vangelo e costituiscono perciò una via di accesso a Gesù (Urs von Balthasar). Segno di riconoscimento delle pseudo-filosofie. Pseudo-filosofie sono quelle che consegnano l’uomo all’indifferenza etica, cioè a un vergognoso materialismo (Emmanuel Lévinas). Può bastare un asterisco. Vita e morte le pronuncio con una nota in calce / con un asterisco (Marina Cvetaeva nella poesia Per l’anno nuovo, scritta nel 1927, in morte di Rainer Maria Rilke).

NEL CENTENARIO DELLA NASCITA DI MARTIN HEIDEGGER. «Una filosofia anestetizzante della contesa è quella che si esprime nel sordo ronzio delle parole del professor Heidegger… Continuo a lavorare su Heidegger senza gioia: è opaco e nebbioso. Eppure Heidegger si dichiara prossimo alla filosofia dei sapienti greci, ma partendo da uno strano presupposto. Sembra che tutta la questione del pensiero stia nella corretta interpretazione di un frammento di Anassimandro, o di Eraclito, o di Parmenide, come se quel frammento, che casualmente è giunto fino a noi, contenesse tutta la verità; e come se esso fosse stato corrotto da una lunga teoria di interpretazioni, tutte scorrette. Il problema della verità diventa il problema della corretta restituzione di un testo. Profumo d’accademia, avrebbe detto Schopenhauer. Mentre, per il fatto che il nostro pensiero ruota attorno agli stessi temi affrontati dai presocratici, non siamo autorizzati ad attribuire più verità al loro pensiero che al nostro» (Franco Rella, Asterischi, Milano 1989).

LE VITTIME DI STALIN, SECONDO ROY MEDVEDEV. Gorbaciov in un discorso pubblico nel novembre del 1987 parlò di «migliaia di casi di persone soggette a misure repressive» nel trentennio staliniano. Ora, agli inizi di febbraio, il tragico bilancio comincia ad essere meno generico. Per bocca di Roy Medvedev, attraverso una sua intervista al quotidiano Fatti e argomenti, che ogni giorno vende milioni di copie, lo stesso potere sovietico fa sapere che le persone arrestate, giustiziate o sottoposte ad altri tipi di violenza durante gli anni del terrore staliniano sono state 40.000.000 (quarantamilioni). «I conti – assicura Medvedev – li ho fatti io personalmente». L’ortodossia marxista di Roy Medvedev è ben nota e non vorrei che solo tra un qualche decennio ci fosse data finalmente la cifra più vicina alla verità storica (quarant’anni prima dell’ascesa di Lenin al potere Dostoevskij aveva predetto che il socialismo sarebbe costato alla Russia cento milioni di vittime). Ma anche se pecca per difetto, quella cifra – 40.000.000 – è enorme e costituisce la più grande vergogna per l’umanità.

A questo punto, dati alla mano, chi vorrà negare al «magnifico georgiano» il primo posto tra i massimi criminali del genere umano? Non si può, però, dimenticare che il lavoro coatto e l’eliminazione di qualsiasi avversario erano previsti da tutti i profeti del comunismo; non si deve perciò vedere nell’Arcipelago Gulag la deformazione asiatico-staliniana di un’idea sublime, bensì la manifestazione conseguente di una legge implacabile, la legge di struttura dello Stato totalitario in quanto tale.

«RISPETTARE LA VITA SIGNIFICA… ». Un filosofo autentico, uno dei maggiori, è Giuseppe Capograssi. L’editrice Giuffré di Milano ha avuto il merito di pubblicarne l’opera omnia. Leggere le sue pagine – meditate, prive di inutili divagazioni – è un godimento. Nel V volume, a pagina 183, l’occhio cade su questo pensiero: «Rispettare la vita, per dirla in termini semplici, significa fare in modo che la vita sia vita per tutti. Rispettare la vita dovunque, cioè dove la vita è in potenza in ogni individuo, fare che sia in atto; dove la vita è ma non si può sviluppare come vita umana, per le condizioni che sono in contrasto a questo svolgersi, fare che si possa sviluppare».

 2 marzo 1989.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. La misura più precisa. L’intensità della sofferenza diventa la misura del tempo. Il limite. Chi ha esprit de finesse sa dove stia il misterioso limite. Siamo tutti soggetti a sbagliare. L’errore fa parte della nostra natura ed è quasi un diritto che ci è concesso. La logica del diavolo. Il diavolo è accorto negli affari e disprezza le prede troppo facili. Gli interessano soltanto le anime che gli si negano. Invocazione. Signore, abbi pietà della nostra disperazione. Amen. (Julien Green)

La forza di accettare. Più che amare la vita, bisogna saperla patire (Ennio Flaiano). Il riconoscimento della differenza. Ciò che ci unisce non è un ponte, ma un abisso (Octavio Paz). Paga ciascuno il suo prezzo. Nessuno dei mortali trascorrerà la vita incolume del tutto da pene. Paga sempre ciascuno il suo prezzo (Eschilo). L’uomo come animale metafisico. La noia profonda è la soglia di grandi cose (Walter Benjamin). Riflettendo sulla narrazione. Oggetto della narrazione non può non essere un oggetto metafisico: la domanda su ciò che siamo e su ciò che, in una data situazione, possiamo vedere. Aggirando questa domanda metafisica, la narrativa diventa kitsch consolatorio (Franco Rella). La bellezza. Sì, malgrado tutto, / una forma di bellezza rimuove il velo / dai nostri spiriti bui (John Keats).

L’AVVENTURA AFGANA. O l«errore» afgano, se si preferisce. Naturalmente di «avventura» o di «errore» si può parlare dal punto di vista sovietico soltanto, cioè dal punto di vista dell’aggressore. Se si considerano le cose dal punto di vista della vittima, si dovranno usare altri termini, come «sopraffazione imperialistica» e «massacro», perché i morti si contano a migliaia tra i sovietici e a centinaia di migliaia tra gli afgani, per non contare i milioni di profughi.

Che cosa è stato per il mondo occidentale la guerra afgana? Se lo chiede Vittorio Strada su Avvenire del 16.2.1989 e risponde «Non è stato neppure un brutto spettacolo, come tante guerre locali, e in suo favore nessuna mobilitazione di massa. Gli aggressori, forti del loro sistema totalitario, hanno avuto l’accortezza e la possibilità di impedire quasi completamente quella documentazione fotografica e televisiva che costituisce la fonte primaria di indignazione per gli spettatori dei tranquilli e sazi Paesi democratici».

E il Pci? E la sinistra? «La coscienza di sinistra, con la sola eccezione dei socialisti, è selettiva e nel caso di Kabul – Kabulisti a parte (come Armando Cossutta e, ahimé, Ludovico Geymonat) – ha scelto semplicemente la via del distanziamento rispetto all’…«errore» dei compagni sovietici. Breznev era convinto di fare una semplice passeggiata a Kabul, poco più di quella passeggiata fatta con successo in precedenza a Praga… Adesso che il colpo non è riuscito, il colpevole si vanta di far marcia indietro e vuol essere lodato per non aver fatto ciò che gli è stato impedito di fare».

LA MAGNIFICENZA DEI SANTI E QUELLA DELL’ARTE. Ha ragione Joseph Ratzinger quando scrive che la chiesa ha bisogno dell’arte e ha il dovere di essere anche città di gloria, luogo dove sono raccolte e portate all’orecchio di Dio le voci più profonde dell’umanità. «L’unica, vera apologia del Cristianesimo può ridursi a due argomenti: i santi che la Chiesa ha espresso e l’arte che è germinata nel suo grembo. La magnificenza della santità e quella dell’arte rendono credibile il Vangelo più che le astute scappatoie elaborate per giustificare i lati oscuri di cui purtroppo abbondano le vicende umane della Chiesa. I cristiani devono continuare a fare della loro Chiesa un focolare del bello, senza il quale il mondo diventa il primo girone dell’inferno» (Rapporto sulla fede, Cinisello Balsamo 1985).

9 marzo 1989.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. L’amore non conosciuto. È simile a una vocazione fallita la nostalgia semplice dell’amore umano non conosciuto. Auri sacra fames. I ricchi hanno questa particolarità: non lo sono mai abbastanza. Difficile giovinezza. La giovinezza non è la stagione della felicità… non sempre… non per forza. Prenderne coscienza. Tutti portiamo in noi una Grande Palude Scura. Vasta, sinistra, misteriosa. La fede. Dio c’è anche quando nasconde il suo volto. Io lo ringrazio di esserci. Bisogna ringraziare Dio di essere Dio. (Julien Green)

L’enigma del potere. La forza non sta nella forza stessa, ma in quel potere cui essa è legata. Non il culto della personalità, ma il riconoscimento dell’umana dignità. Quale nobile senso si racchiude nella elevazione a dignità di un proprio simile! In un uomo grande noi ammiriamo la concentrazione di quelle forze superiori che in qualche misura si racchiudono in ciascuno di noi. A un certo livello l’esperienza interiore è inesprimibile. Ma come e a chi narrare tu potresti / cos’è ciò che ti chiama, e di che cosa / ricolmo ancora e sempre è il cuore tuo. (Ivan Bunin)

Che cosa peserà di più sul piatto della bilancia della storia? Una sola parola di verità trascinerà con sé tutto il mondo (Proverbio russo).

L’«ARTE IMPEGNATA»: NATA A DESTRA, L’IDEA PASSA A SINISTRA. Contrariamente a quanto si intende affermare oggi, l’idea di «arte impegnata» non è legata, almeno in origine, al concetto di cambiamento rivoluzionario. Fu il visconte Louis de Bonald uno dei primi a proclamare l’unità di arte e società («l’arte è la società») e a invitare l’artista ad associarsi a un «grande disegno» politico, la restaurazione. All’artista spetta il compito di prevenire una nuova rivoluzione! Questa era la convinzione di De Bonald, espressa nei Mélanges del 1805 (ma pubblicati nel 1819).

Ed ecco che, nata a destra, l’idea passa rapidamente a sinistra, per utilizzare una terminologia di moda. Saint-Simon la fa sua. Il suo amico Olindo Rodriguez invoca per gli artisti «un comune impulso e un’idea generale», perché essi possano «esercitare l’azione più vitale e decisiva». Quale impulso doveva diventare «comune» a tutti gli artisti, quale idea farsi «generale»? Per Saint-Simon è il sistema industriale trasfigurato dall’amore dell’umanità («Uomini d’immaginazione, gli artisti… svilupperanno tutto il lato poetico del nuovo sistema»); per Marx ed Engles è la rivoluzione proletaria; per Lenin, Trotsky (sì, il Trotsky di Letteratura e rivoluzione del 1924) e Stalin è l’utopia realizzata dello Stato-Partito, l’insuperabile bellezza delle sue conquiste. Pretese di totale dominio e di perfezione utopica ben presenti, come si sa, anche presso gli ideologi nazisti dell’arte impegnata.

Qualche osservazione. 1. L’arte impegnata, mentre incoraggia l’artista nella sua rivolta contro i filistei, rifiuta all’artista il diritto di decidere circa il destino della sua opera. Al pari del filisteo, vuole asservirla e utilizzarla ai propri scopi. L’utilità politica, ideologica o pedagogica dell’opera è, in ultima analisi, solo una variante particolare – come osserva giustamente André Reszler – del concetto utilitaristico dell’arte. 2. Il progetto stesso di una integrazione totale della cultura è ‘asiatico’ o ‘islamico’, non europeo. 3. L’asservimento pregiudiziale a una parola d’ordine – e in un campo, quello politico, il cui il tasso di errore è altissimo – fa deviare il pensatore e l’artista dalla traiettoria delle loro opere per avvicinarli al ruolo di propagandisti. 4. Una cosiddetta ‘etica dell’impegno’ che obblighi al silenzio o alla menzogna per servire la Causa, o che induca l’artista a dissociare la sua partecipazione alla vita politica dall’intransigente difesa della libertà, è quanto di più ignobile ed immorale ci possa essere. 5. «L’arte come impegno ideologico» e «l’arte per l’arte» non possono separatamente aspirare a render conto della pienezza e dell’incanto di ogni autentica creazione artistica. Sono, propriamente parlando, due errori.

 LA SOLA RICERCA DELLA VERITÀ. «Anche quando si tratti di riconoscere cose non piacevoli e non belle, errori o colpe nella storia della propria, non dirò parte politica, ma, ben più, patria o religione, lo storico degno di questo nome le riconosce. Nessun ideale, per alto che sia, può a questo punto intromettersi, pesare nella ricerca e nella valutazione dello storico, influenzare unilateralmente il suo giudizio, indurlo a parteggiare con animo fazioso» (Federico Chabod, Premessa alla Storia dell’idea d’Europa, Bari 1961). Chabod: ecco un esempio di come salvaguardare ad ogni costo la «pulizia» del proprio lavoro dalle passioni e dai calcoli del «gioco» politico!

16 marzo 1989.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. La vera rivoluzione, non il mito della rivoluzione. Rivoluzione nasce democratica per davvero, o non nasce. Due pensieri su Dio. Dio ce lo meritiamo soffrendo. Dio è come il mare: sorregge chi gli si abbandona. (Guido Morselli) Arte figurativa e mass-media. Nell’età dei mass-media l’arte figurativa non ha certamente più lo stesso valore di informazione che essa aveva in tempi in cui la gente poteva leggere soltanto immagini o soltanto libri. Ma proprio nell’età dei mass-media l’uomo ha più che mai bisogno dell’arte e l’arte ha ora finalmente la sua propria evidenza, forza, efficacia (Hans Küng). La libertà più alta, oltre quella psicologica di fare o non fare. Che cos’è la libertà? È il profondo senso di gioia e di armonia che provi quando sacrifichi qualcosa per un altro essere (Andrej Tarkowsky). La grandezza dell’uomo sta nel poter essere autocosciente. Questo pensiero del proprio pensiero, questa comprensione della propria incomprensione è la più irrefutabile dimostrazione della mia immortalità: c’è in me qualcosa che è cento volte più grande di me, e dunque è la dimostrazione della mia immortalità. C’è in me qualcosa – non corruttibile, certo, ma fondamentale – di Dio stesso (Ivan Bunin). Ciò che ci trascende ci costituisce. Perché la vita abbia senso, bisogna che il suo scopo esca dai confini di quel che l’intelletto umano può comprendere (di Lev N. Tolstoj, Bunin ripeteva spesso queste parole).

UN APOLOGO DI KIERKEGAARD. Come il maestro e l’iniziatore incomparabile al filosofare, Socrate, così ventidue secoli dopo un suo discepolo, Søren Kierkegaard, «Il Socrate del Nord», amava esprimere il suo pensiero facendo ricorso anche all’apologo. Alla nostra incoscienza soddisfatta Kierkegaard ha dedicato il seguente apologo: «Accadde in un teatro che le quinte prendessero fuoco. Il buffone venne a darne notizia al pubblico. Si credette che fosse una battuta di spirito e si applaudì. Egli ripeté l’avviso e il divertimento aumentò ancora. Ecco, penso che il mondo perirà tra il divertimento universale della gente di spirito, che crederà che sia un Witz».

IL VERO PROBLEMA È LENIN. Stalin, beninteso, è quello che è, ma devo confessare l’assoluta incapacità di trovare e di veder dimostrate le sue famigerate deviazioni da Lenin su tutte le questioni essenziali. Il quinquennio leninista è celebrato, ma non studiato criticamente. E si capisce il perché. Quali furono le sue scelte? La terra? La Rivoluzione l’aveva data ai contadini, ma presto la confiscò a beneficio dello Stato. Le fabbriche? Mentre venivano promesse agli operai, quasi nelle stesse settimane, venivano saldamente aggiogate alla direzione centralizzata. I sindacati operai? Servono lo Stato-Partito, non le masse. Le forze armate? Non furono esse a schiacciare le nazioni alle marche di frontiera in Asia Centrale, nel Caucaso, nei Paesi Baltici? E i campi di concentramento istituiti nel triennio 1918-1921? E le esecuzioni senza processo? E il saccheggio, la feroce distruzione della Chiesa? E gli orrori delle isole Solovki, nel Mar Bianco? Tutto questo accade quando Stalin non è ancora al potere. E il massacro dei contadini a Tambov nel 1920-’21 e quello del ‘21 in Siberia? Stalin, riprendendo il progetto della collettivizzazione forzata delle campagne, estese i metodi di Lenin all’intero Paese. E leninista era il programma di industrializzazione pesante a oltranza, comunque lo si voglia giudicare. In un solo punto Stalin s’è allontanato da Lenin: nell’organizzare il massacro del proprio partito. Ma basta questo a contrapporre Stalin a Lenin e a «salvare» l’ideologia?

23 marzo 1989.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. Il miracolo dell’infanzia. Sola bellezza al mondo / che l’anima non sazia, / fiore infantile, / miracolo di grazia. Come una crisalide. Il tuo cuore sente che attende / l’ora del volo? Oltre i difettivi sillogismi. Quando l’istinto tace e l’io si compiace / nella gioia dell’utile non nostro / nell’ebbrezza senz’utile dell’arte / forse ci giunge il pallido riflesso / di una luce remota, della vita / che ci attende al di là… / È la fede che Socrate morente / predicava all’alunno: Datti pace! / Non morirò: seppelliranno l’altro. La pretesa di molti leaders. Se faremo bene, decretate il successo / e se male faremo… applaudite lo stesso. Rifiutare il rifugio nel passato. Sereno è quando parla e non disprezza / il presente pel meglio d’altri tempi: / O figliolo, il meglio d’altri tempi / non era che la nostra giovinezza. (Guido Gozzano)

L’onniscienza degli sciocchi. Solo individui molto sciocchi credono di avere idee chiare su tutto. La bara della non memoria. Senza memoria la vita si disperde insensatamente senza lasciar traccia, come polvere. Non è una merce, è una conquista personale. La verità non è oggettuale, non è astratta, è personale. Epitaffio per il figliol prodigo. Il termine fissato arriverà, / il Signore chiederà al figliol prodigo: / «Sei stato tu felice nella tua vita terrena?» / E io dimenticherò tutto / e per le dolci lacrime non riuscirò a rispondere, / mentre alle pietose ginocchia mi prostro.(Ivan Bunin)

L’EVENTO CULTURALE DEGLI ULTIMI ANNI. «Se ci troviamo in presenza di una crisi dei fini, e se questa crisi dipende dalla determinazione dei fini dell’uomo ad opera dell’uomo, la supereremo solo se sapremo accedere ai fini che ci trascendono. Qui la trasparenza diventa una necessità. L’analisi può essere confermata dalle tante crisi di finalità che possiamo constatare con i nostri occhi: ogni volta il fine si contraddice proprio quando sembra raggiunto. L’ideologia del progresso non progredisce più nella storia. È possibile portare esempi all’infinito. Rifiutando di trasmettere i fini e i valori di questa società, i giovani ne condannano il ripiegamento narcisistico e suicida. Le scienze dell’uomo e la medicina, che hanno lo scopo dichiarato e sincero della lotta per la salute e la vita, provocano manipolazioni dell’uomo, come se egli fosse un animale di cui si decide in via amministrativa se abbia diritto a vivere, a morire, a svilupparsi o meno. La domanda di libertà è in se stessa un fine radicalmente buono: ma, col delirio delle devianze e delle anarchie, produce ogni forma di asservimento. E così via.

Noi possiamo considerare certe finalità fissate da noi come degli autentici fini. Dobbiamo smettere di trasformare in fini la riproduzione frenetica dei nostri desideri. Occorre tentare un procedimento altrimenti originale e difficile: un fine, se è realmente un fine, lo si riconosce e lo si riceve, non lo si produce. È in noi, ma nello stesso tempo ci precede e ci oltrepassa. Occorre accettare un senso e un orizzonte umano che non sia progettato dalla nostra umanità… Forse è questo l’evento culturale degli ultimi anni: la presa di coscienza da parte dell’uomo moderno che la sua umanità trascende la cristallizzazione dei suoi desideri in finalità illusorie e persino la conoscenza ch’egli può acquisire di sé. Il fine dell’uomo non può essere prodotto dall’uomo, come non lo fu la sua origine. Noi assistiamo alla fine di un’epoca iniziatasi in Europa a partire dai primi decenni del secolo XIX, quando l’umanità aveva concepito il progetto favoloso di stabilirsi i propri fini e di darsi i mezzi per raggiungerli. Ora questo narcisismo è diventato impossibile e nello stesso tempo insopportabile. Per assicurare l’umanità dell’uomo nella cultura d’oggi è in gioco ciò che nell’uomo supera l’uomo» (Jean-Marie Lustiger, L’uomo privo di un fine o il terribile paradosso della cultura contemporanea, in Abbiate il coraggio di credere, Cinisello Balsamo 1988).

CHI È VERAMENTE AMICO? Chassid (plurale chassidim) vuol dire «pio». Il termine fu usato per indicare gruppi e movimenti ebraici assai lontani fra loro per caratteristiche ed epoche, aventi però come denominatore comune un’accentuata connotazione mistica. Il chassidismo più noto è quello che ebbe origine intorno alla metà del ‘700 nell’Europa Orientale. Il più grande pensatore ebraico del Novecento, Martin Buber, ne testimoniò la bellezza e profondità nei Racconti dei chassidim (Milano 1979). Eccone uno sulla vera amicizia.

«Due chassidim chiacchieravano tra loro. Il primo disse: – Tu non mi sei amico perché non hai indovinato la pena che ho nel cuore.

Il secondo replicò: – Sei tu che non mi sei amico, perché non hai condiviso la pena del tuo cuore!».

30 marzo 1989.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. Quando il verso ha da dire qualcosa.…soltanto il verso messaggero / va dal finito all’infinito eterno. Magia del pianoforte. … se tu accenni / sui tasti muti, appena! Ecco tragitti / un popolo di sazi e di sconfitti / alle rive del sogno alte e solenni. Non di solo pane. Anche il buon pane – senza sogni – è vano. Inesauribile causa di disgusto. Le buone cose di pessimo gusto. Questo nostro mondo. … la cosa tutta piena di quei «cosi / con due gambe» che fanno tanta pena. L’organo dell’intuizione metafisica. Sente il cuore la voce delle cose prime. (Guido Gozzano)

Al di là di ogni buona intenzione. Nessuno mai potrà capire tutta / l’arcana forza dell’altrui soffrire. La prima spinta. Il poeta procede sempre da un mancato riconoscimento della vita, divinizzando ciò che appare impossibile e privo di senso. Che senso ha dire “è meglio pensare così”. Un meglio non basta quando non è il meglio che si cerca, ma la verità. Oltre la paura e l’amara epoché del dubbio. Dobbiamo sapere che tutto, in questo mondo a noi incomprensibile, deve assolutamente avere un senso, un non so quale altro progetto di Dio, volto a che tutto in questo mondo sia “buono”, e che il dare compimento diligentemente a questo progetto è sempre un nostro merito di fronte a Lui, e perciò anche una gioia e un orgoglio. Il meglio di sé nel tratto finale. Colui che il Creatore ha colmato di grazia / come un arcobaleno, che risplende solo al tramonto, / si accenderà prima della fine. (Ivan Bunin)

SCOPRIRE L’ALTRO COME UN «TU» E NON SOLTANTO COME «NON-IO». C’è bisogno d’intendersi sul significato della parola «dialogo». Per dialogare sul serio occorre saper dire sia «sì» che «no». Gli uomini del no, gli uomini del perenne rifiuto non sono certamente uomini di dialogo; ma non lo sono neppure coloro che tutto bevono e assorbono e dicono sì a tutto, cadendo in un eclettismo confuso, pasticcione e imbelle. Una delle gioie più grandi è essere sollecitati a conquistare un più alto punto di vista su di un problema e la forma più bella di gratitudine è quella che si nutre per coloro che ci hanno arricchito culturalmente e spiritualmente, anche se all’inizio le «loro» e le «nostre» posizioni sembravano antitetiche. Un dialogo serio, vero è un dialogo franco in cui ognuno esprime il significato profondo del suo pensiero, senza ridurre l’onesta ricerca della verità ad un gioco diplomatico in cui le idee sono dimezzate e le diversità annullate. Dicendo sempre quello che penso, io sono perfettamente me stesso nel dialogo; ma del dialogo ho bisogno perché non c’è aspetto della vita umana e dell’umana ricerca del vero in cui io possa sentirmi autosufficiente.

Lo ha detto molto bene Raimon Panikkar in una lucida pagina del suo libro, Il dialogo intrareligioso (Assisi 1900). «Nella ricerca di me stesso, io incontro l’altro. L’altro non è soltanto il mio interlocutore dialettico; egli mi offre anche, possiamo dire, un inatteso riflesso di me stesso. L’incontro fa scattare una doppia reazione: ciascuno suscita nell’altro una nuova presa di coscienza di se stesso. E questo implica qualcosa di più del dialogo dialettico. Si scopre l’altro come un “tu”, e non soltanto come un “non-io”. Ci si rende conto che anch’egli è un soggetto e non un oggetto».

 LA CARNE CREA PROBLEMI. Caro quaeritur, scrive Tertulliano. Le filosofie che vogliono parlare dell’uomo, se tacciono maestosamente di corpo e sesso, come se non ci fossero, grattano le nuvole. L’intimità dell’io alla sua carne è, invece, la caratteristica propria della creatura umana, ciò per cui essa ha uno statuto ontologico che non è quello della bestia, né quello dell’angelo.

La carne crea problemi, non perché non sia di per sé un bene, ma perché sulle questioni fondamentali l’uomo è sempre chiamato a scegliere e le sue risposte possono essere di segno e di valore opposto. Il conflitto, talora la tragedia, nasce dal fatto che spesso amore e desiderio non sono interscambiabili e coincidenti, e l’uno può stare senza l’altro. Nel romanzo-saga I paesi lontani Julien Green ha colto il nocciolo del problema e ha indicato la chiave di soluzione in un passaggio delicato e ardito. La giovane protagonista, Elisabeth, chiede al consorte di non immiserire il loro rapporto in una specie di obbligo-sfogo-consumo senza slancio e senza poesia: degradazione e involgarimento questo a cui il suo essere si ribella profondamente, anche perché perseguito come forma di «perbenismo coniugale» da parte del marito Ned. «Credi che Giulietta e Romeo – protesta Elisabeth – reprimessero i loro ardori?… Romeo non era soltanto un marito, ma un amante… Perché non sei tu il mio amante?». Non è questo convergere di amore e desiderio all’interno della coppia la via più naturale, la premessa elementare per riconciliare eros e agàpe?

 6 aprile 1989.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. Il fanatismo. Il fanatismo è proprio la passione dell’individuo che, rimasto senza individualità, non riesce, se vuol vivere una vita intensa, che a viverla come pura passività. Il compito della nostra epoca. Provvedere alla lenta e dolorosa costruzione del mondo umano della storia: umano, cioè giusto di una giustizia realizzata con mezzi giusti, e libero di una libertà realizzata per mezzo della libertà. Mondo umano della storia: mondo fatto dagli uomini per gli uomini ma umanamente, cioè rispettando l’uomo e le leggi profonde e le profonde esigenze spirituali dell’umanità. (Giuseppe Capograssi)

Letteratura asservita, letteratura avvilita. Ogni grande letteratura è in reale pericolo allorché lo scrittore si trova costretto ad obbedire ad una parola d’ordine. Una letteratura asservita è una letteratura avvilita, anche se la causa che serve è nobile e legittima (André Gide). Ciò che l’Europa ha bisogno di riscoprire. La cultura dello spirito può progredire finché vuole e le scienze della natura crescere, estendersi e approfondirsi, e lo spirito umano arricchirsi; ma non potrà mai andare oltre l’altezza e la cultura e la cultura morale del Cristianesimo quale brilla nei Vangeli (Goethe a Eckermann). Il pericolo di un’alienazione supplementare dell’arte. Da ogni parte si invita l’artista a impegnarsi, a mettersi a servizio di una causa politica concepita come una nuova ‘trascendenza’. Ma l’idea di ‘impegno’ non è precisamente l’origine di un’alienazione supplementare dell’arte? Volendo guarire l’arte da una gratuità che la indebolisce, non la si priva forse della sua ragion d’essere e dell’ossigeno di cui ha bisogno? (André Reszler).

QUANDO LE CATTEDRALI ERANO BIANCHE. È stato per me una vera sorpresa prendere tra le mani un libro del 1937 in cui l’autore si occupa «della grandezza delle cose, della decadenza degli spiriti, dei grattacieli di New York, della necessità di piani e di iniziative comunitarie». L’autore è Le Corbusier e il libro porta il titolo Quand les Cathédrales étaient blanches (Parigi, 1937). Le Corbusier aveva in programma di porre a confronto i grattacieli di New York con le cattedrali di Dio, cercando di intravedere le linee di un’arte attuale, sacra e profana che fosse, sospinta tuttavia dallo stesso slancio verso l’avvenire. Le Corbusier polemizza violentemente contro lo stereotipo di un Medioevo sanguinario ed incolto, esaltando di quell’epoca multiforme ed ampia (oltre un millennio!) le straordinarie vittorie sulle ricorrenti sfide di disgregazione. In particolare egli celebra la fresca novità dopo il Mille della massima arte sacra nella storia del cristianesimo, le cattedrali.

«Quando le cattedrali erano bianche – scrive Le Corbusier nelle prime pagine del libro – L’Europa aveva organizzato le professioni sotto la spinta categorica d’una tecnica del tutto nuova, follemente temeraria, il cui impiego conduceva a sistemi di forme insospettate… Una lingua internazionale regnava dovunque, favorendo lo scambio di idee e il trasferimento della cultura. Dall’Occidente all’Oriente, da Nord a Sud si era diffuso uno stile che trascinava il torrente appassionato del godimento spirituale: amore per l’arte, disinteresse, gioia di vivere creando. Le cattedrali erano bianche perché erano nuove. Le città erano nuove: se ne costruivano di sana pianta, con ordine, regolari, geometriche, piante alla mano… Il grattacielo di Dio dominava sovrano su tutte le città e i borghi da nuove mura. Era stato costruito il più alto possibile, straordinariamente alto; nell’insieme era una sproporzione. Invece no, era un atto di ottimismo, un gesto di coraggio, un segno di fierezza, una prova di maestria! Rivolgendosi a Dio, gli uomini non firmavano il loro atto di abdicazione. Il nuovo mondo cominciava, bianco, limpido, lieto, pulito, chiaro e sena ritorni».

Il maggior architetto contemporaneo, il francese d’origine svizzera Charles-Edouard Jeanneret, noto con lo pseudonimo di Le Corbusier, ha certamente più senso storico dei tanti storici di professione, forniti di erudizione e di settarismo, e ancor oggi, dopo gli apporti e le correzioni della storiografia post-illuministica, incapaci d’intendere l’età che vide nascere l’Europa.

I FIORETTI DEL XVIII SECOLO. Sono quelli riguardanti la vita e l’insegnamento del fondatore dello chassidismo più noto nell’età moderna, Israel ben Eliezer, detto il Baal Shem Tov. C’è in lui il realismo proprio dei veri santi. «Quando la mia mente è fissa in Dio, lascio – diceva il Baal Shem – che la mia bocca dica ciò che vuole, perché allora tutte le parole sono legate alla loro radice celeste». E ancora: «Se tu hai acquistato conoscenza, allora soltanto sai quel che ti manca». «Il mondo è pieno di potenti luci e di misteri e l’uomo se li nasconde con la sua piccola mano». Altre volte è la paura di non essere à la page a erigere in noi muri davanti alla luce.

13 aprile 1989.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. Rimanere se stessi anche assolvendo compiti pubblici. I volti privati nei luoghi pubblici sono più piacevoli e saggi dei volti pubblici in luoghi privati (Wystan Hugh Auden). Vale per chi scrive e conciona, ma ha cessato di cercare e di cercarsi. Gratta l’intellettuale e scopri il cialtrone (così dice Herzog, il personaggio di Saul Bellow). … eri un insetto miope / smarrito nel blabla / dell’alta società (Eugenio Montale). Vita e morte. L’imminenza della morte mette in bella copia il manoscritto della vita (Alfonso Reyes). Musica e poesia. La musica è il vero elemento da cui nasce ogni poesia e al quale essa deve sempre ritornare (Johann Wolfgang Goethe). La dura fatica a cui non ci si deve sottrarre. Il mondo è scardinato! Che tragico destino appartenere a quelli che sono chiamati a rimetterlo a posto (William Shakespeare).

No all’ossessione di unificare. Rifiuto ogni processo di unificazione compiuto a prezzo di non so quale stravolgimento, di non so quale strangolamento operato sulla realtà. Secondo me testo fondamentale è quello di Pascal sui tre ordini. Ci tengo molto a rispettare in ogni settore le leggi che gli sono proprie e sono molto attento all’incompatibilità dei diversi settori. Valori e veleni. Non c’è alcuna ragione di mescolare con gli aspetti positivi e meravigliosi del mondo di oggi anche i suoi germi negativi. Non abbiamo affatto il diritto di essere ingenui davanti a un universo che comporta nello stesso tempo valori e veleni. Speranza o nostalgia? La speranza è una vittoria sulla nostalgia. (Jean Daniélou)

LA CARATTERISTICA DECISIVA DELL’UOMO. L’analisi fenomenologica presenta l’uomo come l’animale più sprovveduto del mondo e nello stesso tempo constata che proprio in questo consiste la chance specifica della natura umana. Non vi è in ciò una contraddizione? Niente affatto. L’animale è propriamente determinato da un preciso complesso di condizioni necessarie alla sua esistenza; nell’uomo, invece, lo sviluppo dell’intelligenza – lo notava Bergson – scompiglia di continuo l’istinto. L’uomo è posto nel mondo senza alcuna determinazione precisa. Privo com’è di mezzi dal punto di vista organico, egli è costretto a provvedere da sé alla propria esistenza. Herder ha definito l’uomo come essere mancante. Ma quell’essere mancante dal punto di vista biologico è, per necessità, l’essere attivo per antonomasia.

Arnold Gehlen nel suo libro più significativo (L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Milano 1983) vede in ciò la caratteristica decisiva dell’uomo ed è per questa ragione che egli ravvisa nell’essere umano, già dal punto di vista biologico, un progetto unico ed irripetibile. Sì che anche quella parte animale, che noi finora abbiamo cercato di spiegare secondo regole biologiche, è già umana, strutturata cioè diversamente rispetto agli animali. La zoologia, insomma, non spiega per nulla l’antropologia. Al contrario, è in quanto inesperto dell’ambiente che l’uomo è diventato l’autodidatta della creazione. La mancanza di specializzazione, l’imperfetto e problematico modo di rapportarsi all’ambiente, l’essere egli «colui che è in grado di dire no» (Max Scheler) evidenziano la prima categoria con cui va analizzato l’uomo e il suo operare: la categoria della possibilità. Questo è il punto a partire dal quale – paradossalmente – la povertà si cambia in ricchezza e la limitazione rende possibile la libertà.

IL CORAGGIO E LA PAURA. Le virtù umane che più mi affascinano sono il coraggio e la capacità di partecipare alle sofferenze degli altri. Esse valgono per sé, ma anche perché il loro esercizio rende possibile l’accesso agli atri valori. Il coraggio ha la sua negazione nella paura, e tuttavia esso non è che il continuo superamento della paura. Certo, esistono tante definizioni della paura. Una di moda è: la paura nasce da mancanza di conoscenza. Esempio banale: se sai andare a vela, non ti spaventi quando la barca sbanda tutta su un fianco, è il suo modo normale di navigare. Se conosci tre mosse di karate, affronti con meno paura l’energumeno che ti provoca. Però, in altri casi, la paura nasce dalla conoscenza: lo scienziato teme il futuro ecologico più dello sprovveduto. E il buon guidatore, quando è ospite a bordo, soffre di più, se la guida è spericolata, di chi non ha la patente e non sa valutare il rischio di una manovra.

La realtà della vita è umile. Luca Goldoni ha scritto: «C’è una definizione molto bella: il codardo muore mille volte, l’eroe una sola. È molto bella e molto fatua. Ho letto le testimonianze dei piloti da caccia dell’ultima guerra. C’erano molti assi, fra di loro, carichi di medaglie e di vittorie. Dunque degli eroi. Ebbene, parlano di tutti i loro attimi di panico: sono morti centinaia di volte, però ogni volta ritrovavano la forza di alzarsi in volo» (Luca Goldoni, Giro di posta, 30 marzo 1989).

20 aprile 1989.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. La stupida gara. Se fossi un direttore di giornale cercherei di sottrarmi alla stupida gara a chi produce più pagine. Meno pagine, ma migliori! Il rischio d’essere incartato. Una quantità esorbitante di carta stampata rischi di incartare tutto e tutti, impedendo soprattutto l’accesso alla vera informazione, che dovrebbe essere qualcosa di estremamente selettivo. (Alberto Ronchey) Tre forme di ipocrisia sessuale. Troppo spesso si è cercato di risolvere la realtà del sesso col non parlarne, o col demonizzarlo, o con l’angelicarlo, rendendo perverso e purulento ciò che era costretto a ristagnare nel buio della repressione (Italo Alighiero Chiusano). Le due sorelle. La separazione è la sorella minore della morte. L’occhio e l’idea. L’occhio cerca la forma, l’idea l’attende. (Osip Mandel’stam) In tempi di ottimismo progressista e in società ubriache di se stesse. Nel momento in cui tutti lodano gl’idoli del giorno, l’intelligenza sta facilmente dalla parte di chi ne dubita (Sergio Quinzio). Il test proiettivo dell’umanità. Parlare di Gesù è il test proiettivo dell’umanità intera. Dimmi come ne parli e ti dirò chi sei. Gesù e il sesso. Gesù non sopravvaluta e non liquida il sesso. Se ciò è vero, è un caso unico. Eppure quella duplice condizione è il solo modo razionale e decente di risolvere il problema. (Giacomo B. Contri) L’Europa, patria comune. Tutti gli europei devono più alla madre comune, l’Europa, che alla loro nazione, persino gli inglesi (Mario Ciriello).

L’INTERVISTA, LA SMENTITA E LA CONTROSMENTITA. Esce l’intervista-bomba, ed una volta valutato l’effetto della deflagrazione, scatta la smentita. Alla smentita segue la controsmentita. La gente è sconcertata. A quale delle due parti deve prestar fede? In questo caso, a De Mita o al settimanale Panorama? Non voglio entrare in merito ai contenuti delle dichiarazioni attribuite a De Mita. Dico solo che questo gioco di pessimo gusto si ripete ormai da troppo tempo e lo ha giocato anche qualcuno dei migliori, con grande disappunto di quanti hanno stima delle sue doti morali oltre che politiche. Perché non accorgersi che in operazioni del genere, al di là e al di sopra della credibilità di chi rilascia interviste che subito dopo smentisce, ne va di mezzo sempre di più la credibilità della democrazia?

«Quando non piango, rido» era il motto di quell’acutissimo spirito che fu Gino Capponi e io sono spesso tentato di farlo mio. E allora ridiamo, con Carlo Luna, il quale avanza su Avvenire del 9 aprile 1989 una proposta… ironica, che qualcuno, ahimè, finirà col prendere sul serio. La proposta, semplicissima, è quella dell’intervista con la smentita incorporata. «Si tratterebbe cioè di un nuovo sistema per far conoscere il proprio pensiero, mettendosi al riparo da conseguenze spiacevoli. Il politico rilascia sia l’intervista-sfogo che la sua smentita. Insomma una sorta di “sceneggiata” nella quale ognuno dei due – intervistato e intervistatore – recita la propria parte». Sistema perfettamente funzionale a coloro che hanno scelto anch’essi la loro parte: quella dei gonzi.

LE DEMOCRAZIE TRASCURANO I GIOVANI. «Le democrazie trascurano i giovani. I partiti non hanno programmi per loro. E chi lascia soli i giovani porta acqua solo al mulino degli estremisti». Il giudizio è di Simon Wiesenthal. Anche noi pensiamo che le democrazie trascurano i giovani e questo loro peccato di omissione è di una cecità incalcolabile. Non è forse vero che con i giovani è già in mezzo a noi l’avvenire? La democrazia è un alto valore etico-politico ed è proprio dell’idealismo dei giovani, della loro sete di giustizia e di solidarietà, che essa ha bisogno per non degenerare, per non trasformarsi in un sistema di scelte illusorie.

 

A CHI RITIENE DI NON AVER MAI NULLA DA RIMPROVERARSI. Nell’epopea religiosa dei chassidim ha un suo posto di rilievo il Rabbi Dov Bär. Ecco uno dei suoi insegnamenti a due fratelli Shmelke e Pinhàs: «Prima di mettersi a letto si fanno i conti di tutto il giorno. E se l’uomo calcola di non aver sciupato neanche un momento, e il suo cuore s’insuperbisce, in Cielo prendono tutte le sue buone opere, ne fanno una palla e la scaraventano nell’abisso».

27 aprile 1989.

 L’INFORMAZIONE SOFFOCATA DALLA SOVRA-INFORMAZIONE. L’editore Pier Luigi Lubrina di Bergamo ha pubblicato il volume Per uscire dal XX secolo di Edgar Morin, un pensatore europeo sempre capace di far riflettere su problemi reali. Come, ad esempio, la qualità carente, la funzione ipnotica, la sovrabbondanza, il bombardamento di notizie che non sorreggono l’attività di pensiero ma la surrogano. Gli attuali mezzi di comunicazione di massa, si sa, costituiscono il miglior sistema di informazione che si possa concepire. In ogni momento abbiamo la possibilità di vedere e di sapere ciò che accade. Eppure noi soffriamo nello stesso tempo di sotto-informazione e di sovra-informazione. «Quando siamo sottoposti a una ininterrotta irruzione di avvenimenti sui quali non si può meditare perché sono subito scacciati da altri avvenimenti, l’informazione viene soffocata proprio dalla sovrabbondanza. Così, invece di percepire i contorni e gli spigoli di ciò che ci viene arrecato dai fenomeni, siamo accecati da una nuvola di informazioni. E se le immagini impressionanti delle carestie, delle miserie, della rovine, dei disastri ci raggiungono ogni giorno – come è avvenuto nel corso della guerra del Vietnam, per la Cambogia e per l’Afganistan – accade che si saturino, che ci saturino, che si banalizzino. Mentre l’informazione dà una forma alle cose, la sovra-informazione ci getta nell’informe».

Chi vuol battere tutti i sentieri, non arriva in nessun luogo. Chi ha l’animo oppresso da miriadi di «sentito dire» mai verificati e di immagini, non pensa, non giudica, non è in grado di scegliere alcunché di serio. È solo un povero essere in cui lo slogan blocca i suoi poteri critici, la pubblicità sostituisce il ragionamento, lo stereotipo fa apparire inutile il dovere di documentarsi. Anche i modi di reagire alla massificazione sono spesso errati. C’è, infatti, chi precipita in uno stato di cronica perplessità, di atonia e smarrimento; e c’è di peggio. Un peggio che alcuni oggi sembrano quasi ammirare: la fuga nell’ipse dixit, nel fideismo cieco, talora criminale nella sua paurosa intolleranza. Allo scetticismo si crede di contrapporre il fanatismo; per noi si tratta di superare l’uno e l’altro.

VICINANZA E LONTANANZA. Uno scolaro chiese al fondatore del chassidismo, Israele ben Eliezer, chiamato Baal Shem tov: «Come avviene che una persona che ama Dio e sa di essergli vicino, provi talvolta un senso di interruzione e di lontananza?». Il Baal Shem Tov spiegò: «Quando un padre vuole insegnare a camminare al suo figlioletto, lo pone prima davanti a sé e gli tiene le mani vicine, perché non cada, e così il bambino avanza verso il padre tra le mani del padre. Ma quando è arrivato al padre, questi si allontana un poco e tiene le mani più discoste, perché il bambino impari a camminare».

ANTIBARBARI. Solo chi è affetto da una spaventosa «barbarie intellettuale» può trasformare la filosofia in una scuola di disprezzo e di ossessivo fraintendimento di una sapienza elaborata nei secoli sul fondamento della tradizione greco-cristiana. Gli «antibarbari» sanno qual è oggi il loro compito più urgente: riproporre vigorosamente l’evangelo della ragione. E chi di loro è credente faccia sua l’invocazione del Salmista: «Intellectum da mihi et vivam». Poiché – ed è un punto fermo – l’uomo vive solo se la ragione non viene calpestata e sofisticata.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Oltre l’emotività, il rigore intellettuale. L’emotività, che con troppa facilità si trasforma in isteria, non può sostituire il rigore intellettuale della Chiesa che ha prodotto san Tommaso d’Aquino e Dante Alighieri. Se attendiamo che ci renda la vita facile. In un’epoca in cui si avanzano molti diritti e si accettano pochi doveri, il Cristianesimo concede pochi diritti, salvo quello della scelta morale, l’unica che conti. Molta gente vuole, invece, che il Cristianesimo condoni e giustifichi la loro condotta di vita, che approvi l’omosessualità, la fornicazione e l’aborto. Ma una religione non funziona a quel modo. Non siamo per nulla obbligati a piegarci alle sue leggi, ma non riusciremo a comprendere la natura di una fede se ci attendiamo che essa ci renda la vita facile. (Anthony Burgess)

Quattro versi alla donna amata. Vieni con me a sedere in riva al fiume. / Fissiamo con calma il suo corso e impariamo / che la vita passa, e non teniamo le mani intrecciate. / Intrecciamo le nostre mani (Ricardo Reis). Le fiabe sono vere. Le fiabe sono vere… sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna (Italo Calvino). Il piacere della critica. Qualcuno ha parlato del ‘piacere della critica’ che vieterebbe di vedere anche le ‘bellissime cose’ che possono esserci nell’opera criticata. In realtà la critica autentica non è mai un’opera di fantasia o di rappresaglia, né un’occasione per adulare. Il piacere che vi si associa non può essere che il piacere della verità. L’ambiguità. L’ambiguità vuol essere una terza via tra il riconoscimento dei valori e la loro negazione. (Nicola Petruzzellis)

4 maggio 1989.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. La complessità del reale e, dunque, della verità. La verità, esposta senza compromessi, ha sempre confini arruffati (Herman Melville). L’inevitabile punto d’appoggio. Anche quando si pensa speculativamente è necessario avere qualche immagine con cui pensare (Aristotele). La soglia. La soglia deve essere distinta nettamente dal confine. Nella parola soglia sono compresi mutamento, flusso, guado… (Walter Benjamin). Il senso della vita e l’artista. Ringrazio Dio di avermi creato artista per amare tutte le forme in cui Egli si manifesta, e piangere di esultanza e di giubilo davanti ad esse (Boris Pasternak).

Che cosa è ‘lo spirito del tempo’. Quel che chiamate spirito del tempo / altro non è che lo spirito proprio dei signori / in cui si rispecchiano i tempi (Johann Wolfgang Goethe, all’inizio del Faust). Massificazione e letteratura autentica. Qualsiasi soluzione di massa agisce sugli uomini con la delicatezza di una ruspa; la diversità umana, invece, è la materia prima della letteratura. Il dono della grande arte. Ogni nuova realtà estetica ridefinisce la realtà etica dell’uomo. (Iosif Brodskij)

GADAMER: PER UNA RAGIONEVOLEZZA RESPONSABILE. È il nobile messaggio di Hans-Georg Gadamer, il decano della filosofia europea nato a Marburg l’11 febbraio del 1900. Gadamer ha visto chiaro che il sapere si presenta in modalità diverse: non c’è solo la controllabilità dell’altro o di ciò che è estraneo, problema fondamentale dell’indagine scientifica. L’ideale della conoscenza scientifica va integrato con l’ideale della partecipazione all’esperienza umana così come si manifesta nella storia e nell’arte, ad esempio. Nella dimensione dell’umano ha una sua centralità – come aveva ben visto Aristotele – l’esperienza pratica e, dunque, la riflessione su di essa. «Il carattere distintivo essenziale dell’uomo – scriveva Gadamer in un articolo del 26 febbraio 1989 – è il fatto che egli conduce la propria vita non seguendo le costrizioni dell’istinto, ma con la ragione. La virtù fondamentale che viene dall’essenza dell’uomo è quindi la ragionevolezza che guida la sua prassi, la phronesis».

La realtà che l’uomo deve con la sua ragione sottoporre a esame per orientarla a un esito umanizzante, a un superamento di pregiudizi e di unilateralità, è il nostro stesso sistema di vita, le valutazioni, le convinzioni, le abitudini più comuni e condivise, ciò che è stato designato col termine di ethos. «Che questo ethos, non sia semplicemente un ammaestramento o adattamento e che abbia niente a che fare con il conformismo di una mediocre coscienza – osserva Gadamer – questo è assicurato proprio dalla phronesis, la ragionevolezza responsabile. Il fatto di riconoscere convinzioni e decisioni comuni nello scambio con i propri simili, nella vita d’insieme, nella società e nello Stato non è affatto conformismo, ma costituisce invece la dignità propria dell’uomo e del suo concetto di sé. Tutto ciò che importa nella società umana è come essa fissa i suoi scopi o, meglio ancora, come raggiunge l’accordo e trova i mezzi giusti per affrontare gli scopi che devono essere perseguiti da tutti. È di importanza decisiva che ogni volta noi presupponiamo un impegno preliminare di tutti per un ideale di ragionevolezza».

È una festa dello spirito, lo confesso, ritrovare in un filosofo novantenne tanta lucidità e senso dell’umano. Ma per il grande vecchio, filosofare non è presupporre e ripetere oracoli dall’alto della propria babilonica presunzione. Il dialogo ha nel filosofare autentico un significato di chiarificazione strutturale e nessuno – se cerca davvero, se non ha sostituito l’esibizione alla passione della verità – può avere e dichiarare la pretesa di essere egli ed egli solo nell’intero della verità. Gadamer sa che si partecipa insieme alla verità e che nessuno può illudersi di dominarla a suo piacimento. Il vecchio Gadamer onora la filosofia; altri, purtroppo, la disonorano.

SAGGEZZA CHASSIDICA. È uno dei grandi principi dello chassidismo, così intimamente evangelico, che l’«uomo dello spirito» sia legato in modo profondo e misterioso all’«uomo semplice». Egli offre quel che riceve dal «tesoro dei doni gratuiti», ma egli dà all’insegnamento la forma che il popolo possa far sua. «Se qualcuno è finito nel pantano – dice Baal Shem Tov – e il suo compagno vuol tirarlo fuori, deve sporcarsi un po’». E ancora: «Il servizio dell’uomo nel mondo, fino all’ora della morte, è appunto quello di lottare volta per volta con le cose profane e volta per volta sollevarle e imperniarle nella natura del Nome divino».

11 maggio 1989.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. Il treno di ogni ora. C’è ogni ora un treno per l’Eterno (Marina Cvetaeva). Non cedere al pessimismo. La rampante forza del male vince le sue battaglie, ma l’esito finale sfugge ad essa. La sconfitta è spesso una vittoria rimandata (Franca Bacchiega). Parola e poesia. La poesia non è una passione marginale, ma un bisogno centrale di interrogare le parole per liberarle dallo strato di menzogne dentro cui rischiano di rimanere sepolte (Antonio Porta). Il bello dell’amicizia. È questo il bello dell’amicizia, poter riandare su e giù lungo gli anni quasi a caso, dove il discorso porta, e ritrovarsi sempre; tacere o parlare è indifferente, ritrovarsi è l’essenziale (Giulio Bedeschi). Sulla cosiddetta ‘angina temporis’. Quelli che fanno il peggior uso del loro tempo sono i primi a lamentarsi della sua brevità (Jean de la Bruyère).

Uno sguardo sincero sull’uomo. Il santo in se stesso sa cosa sia essere uomo e quale sia la debolezza umana. E l’infermità dell’uomo. E cosa sia per l’uomo la tentazione della sua propria debolezza. Se è realmente una virtù, scombina le cose. La vera modestia cristiana non è ottusa, ma per lo più lacerante. (Charles Péguy)

IL MITO DELL’URSS NELLA CULTURA OCCIDENTALE. I due massimi miti (nel senso dispregiativo di illusione irrazionale o cosciente menzogna per cui si conferisce ad una ideologia totalitaria il potere di risolvere per sempre le contraddizioni della storia) nel XX secolo sono stati il comunismo e il fascismo. Ma il fatto più sconcertante è che per combattere l’uno molti siano stati indotti ad abbracciare fanaticamente l’altro. E non finisce lì. Per decenni si è fatto credere che la demistificazione del totalitarismo nazista – quanto mai doverosa e necessaria – suonasse di per sé giustificazione, o attenuante, del totalitarismo comunista. La più rigorosa, legittima e fondata critica del marxismo-leninismo come teoria e della prassi comunista è stata sistematicamente demonizzata e, si badi, non solo dai comunisti.

È lecito chiedersi ancora una volta: come è stato possibile tutto questo nella cultura occidentale e in particolare in quella italiana? Le risposte che si affacciano alla mente sono tante. Una mi pare quanto mai calzante al «caso italiano» e la formulerò con le parole di Vittorio Strada. «C’è anticomunismo e anticomunismo, come c’è antifascismo e antifascismo. C’è un anticomunismo fascista che nella sua opposizione ripete gli schemi mitici (totalitari) dell’avversario e c’è un anticomunismo democratico e socialista che rifiuta il totalitarismo comunista non meno che quello fascista. Per decenni sotto la comoda copertura di un antifascismo ideologizzato, il comunismo ha perseguitato un antifascismo democratico coerentemente antitotalitario. Ora – annota con sollievo Strada – quell’epoca è finita» (Perché l’Urss divenne un mito, in Corriere della Sera del 6 aprile 1989).

IL PROGRESSO ATTRAVERSO LA RINUNCIA. Il coraggio di prendere sul serio le prospettive ecologiche e di tirarne le conseguenze non è molto diffuso. C’è una profonda letargia così come c’è una mentalità consumistica, e l’una e l’altra sono le migliori alleate delle grandi multinazionali del petrolio, dell’automobile e della chimica, poco disponibili allo studio e al rispetto dei problemi ecologici, fintanto che possono registrare sul loro conto come guadagno gli inquinamenti che passano incontrastati. Invece di agire – si deve farlo sempre più a livello europeo – si tende a delineare scenari apocalittici, demonizzando la scienza e la tecnica. Io penso con quelli che giudicano che non c’è un’impossibilità tecnica di trovare una via d’uscita ai pericoli che ci stanno dinnanzi, ma piuttosto l’incapacità della nostra cultura di usare intelligentemente i grandi principi etici di cui dispone e i doni della propria capacità inventiva.

Per questo mi sembra giusto e serio che si cominci finalmente a parlare di una nuova ascesi. Friedrich Cramer, direttore dell’Istituto Max-Plank a Göttingen, parla di «progresso attraverso la rinuncia» come la sola strategia che ci permetterà di vincere una duplice sfida, quella ecologica e quella educativa. «Non si tratta di gettare a mare i beni della civiltà e i beni portatici dallo sviluppo della tecnologia. Né dobbiamo rinunciare alla salute o allo sviluppo sociale. La nuova ascesi esige un distacco dalla mentalità consumistica, la rinuncia a quei beni che non hanno senso, al superfluo, al lusso, alla ricercatezza, alla stupidità delle mode, al mangiare a dismisura, all’alcoolismo da benessere. La formula “progresso attraverso la rinuncia” sta a significare l’auto-affermazione dell’uomo che si libera dall’ideologia del consumismo e progetta il suo futuro in spirito di solidarietà con gli altri uomini». Etica ed ecologia sono alleate tra loro. Il consumatore che dissipa e spreca, al servizio di bisogni inautentici, sporca il creato e rende la terra non vivibile, ma distrugge altresì se stesso e i beni necessari alla vita e allo sviluppo di altri uomini.

18 maggio 1989.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. Uomini e istituzioni. Niente è possibile senza gli uomini, niente è duraturo senza le istituzioni (Jean Monnet, grande europeista). La dimensione storica. Chi non sa rendersi conto / di almeno tremila anni / è un inesperto in mezzo al buio / finché vive (Johann Wolfgang Goethe). Un monito per l’Occidente. I vostri schermi cinematografici e le vostre pubblicazioni traboccano di sorrisi a comando e di calici alzati. Tanta allegria, e perché poi? (Aleksandr Solzenicyn). Sollecitazioni viscerali e vilipendio della razionalità. Un teorico della sinistra rivoluzionaria ha scritto che «bisogna fare del senso dell’orrore il fondamento della propria percezione quotidiana». Chi non cerca di captare altro che una visione di orrore, la troverà sempre, perché essa coincide col suo stesso sguardo (André Reszler).

L’esaurimento spirituale di cui soffre l’Europa. Gli europei non sono in grado di vivere se non sono impegnati in una grande impresa che li unisca. Quando essa viene meno, si avviliscono, si rammolliscono, la loro anima si disgrega (Ortega y Gasset). L’artista: bisogno di comunione, dovere di fedeltà alla propria vocazione. Condividere con gli altri la gioia che egli stesso prova, rappresenta per l’artista un bisogno insopprimibile. Malgrado questa necessità, egli preferisce tuttavia ancora un’opposizione aperta e diretta piuttosto che un consenso solo apparente e basato solo sul malinteso (Igor Stravinskij). La presenza in noi di chi ci ha lasciato. Sei animo nella mia anima, e la liberi. / Ora meglio la liberi / che non sapesse il tuo sorriso vivo (Giuseppe Ungaretti). Il motto di Goethe. Senza fretta, ma senza riposo.

PRIMO DANTE, SECONDO MANZONI. Tuttolibri del 29 aprile ha pubblicato i risultati del referendum sui dieci scrittori più utili per la scuola. Gli oltre diecimila lettori, che hanno partecipato, hanno dimostrato di saper leggere e di individuare gli autori fondamentali per la formazione di ogni coscienza giovanile. Primo Dante, nettamente. Secondo Manzoni. Terzi, a distanza, Leopardi e Pirandello, che è senza dubbio il primo autore del Novecento. L’esito del referendum nessuno l’avrebbe potuto calcolare in anticipo perché – e nei mesi scorsi se n’è avuta la prova anche da parte di commissioni ministeriali che miravano a realizzare un «golpe» strisciante per escludere Virgilio e Manzoni – gli slogan del Gran Rifiuto hanno lasciato le loro tracce per lo meno in quei docenti che ne sono stati travolti negli anni del pregiudizio iconoclastico.

Ed ecco, quando si chiede agli italiani che cosa vogliono si legga a scuola, la risposta scatta corale: la Commedia e I promessi sposi, i cui autori non a caso sono nettamente in testa, fuori dal gruppo. Lorenzo Mondo ha commentato: «I nostri lettori hanno fatto giustizia di certo tartufismo. La loro apertura agli scrittori contemporanei avviene senza sciocche fughe in avanti, senza faziosità o, peggio ancora, senza complicità tra incolti… Hanno avuto il coraggio di proclamare, in tanta confusione, la scandalosità dell’ovvio».

Sì, è stata fatta una buona scelta, che suona invito ai docenti a far amare quei quattro grandi, la cui arte ha dato un’alta e talora sublime espressione a ciò che costituisce la grandezza e il tormento dell’anima umana.

LA SCHIETTEZZA DI GIOVANNI XXIII. È un piccolo episodio che molti ancora oggi ignorano, ma rivelatore come pochi della personalità di Giovanni XXIII. Recatosi al S. Uffizio, volle prender visione del suo fascicolo personale, dove ancora si leggeva: «Questo Roncalli rimane sempre sospetto di modernismo». Vi annotò di suo pugno: «Io Roncalli, Papa Giovanni XXIII, posso assicurare che mai sono stato modernista». Un modo signorile per ridimensionare le pretese esorbitanti di quell’organo della curia romana, che non ha mai cessato di infastidire i figli migliori della Chiesa: Rosmini e Newmann, due tra i più grandi cristiani dell’Ottocento, e nel nostro secolo uomini come Henri de Lubac, Congar, Häring.

ALLA SCUOLA DEGLI CHASSIDIM. Il mondo duplice: «Rabbi Baruch disse una volta: mondo buono e chiaro è pur questo, se non ci si perde in esso; eppure, lo stesso mondo è cupo, quando in esso ci si perde». A nascondino: «Il nipote di Rabbi Baruch, il ragazzo Jehiel, giocava un giorno a nascondino con un altro ragazzo. Egli si nascose ben bene, ma il compagno non si vedeva. Uscì allora dal nascondiglio, si accorse che quello non l’aveva mai cercato e pianse. Corse nella stanza del nonno e si lamentò del cattivo compagno di gioco. Rabbi Baruch, con gli occhi pieni di lacrime, gli disse: “Così dice anche Dio: io mi nascondo, ma nessuno mi vuole cercare”». Tutto può assumere e perdere senso: «Non vi sono parole che in sé siano vane – diceva Rabbi Pinhàs – e azioni che in sé siano vane. Ma si possono rendere vane parole e azioni se vanamente si dicono e vanamente si fanno».

25 maggio 1989.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. Una paura ben giustificata. Non ha tutti i torti chi, profilandosi all’orizzonte una qualsiasi riforma legislativa, esprime la più viva preoccupazione. Poche leggi sono così cattive da non poter essere sostituite da leggi peggior (Gian Carlo M. Rivolta). Il motto del filologo. L’operazione filologica è un costante avvicinarsi di ciò che è lontano e insieme un continuo allontanarsi di ciò che è vicino, un amore romantico per il lontano-vicino. Amor de lonh – la formula verbale del trovatore provenzale – è il motto del filologo (Leo Spitzer). La distanza dal ruolo. Ciò che nella vita ci molesta / rappresentato ci fa piacere (Wilhelm Busch). Poter fare liberamente ciò che di solito si deve fare sul serio. E così noi, rapiti per un istante, / giochiamo alla vita senza pensare all’applauso (Rainer Maria Rilke).

Gratuità dell’esperienza estetica. Il rituale è obbligatorio, ma la danza è volontaria (Jurij M. Lotman). Contrariamente a quanto vorrebbe farci credere la società dello spettacolo. Non esiste alcun nesso, proprio nessuno, tra l’essere nel giusto ed essere attraente (Francis Scott Fitzgerald).

Essenzialità. Il funerale dell’aggettivo superfluo vale una messa cantata. Un sicuro segno di riconoscimento. Gli sciocchi più sciocchi ritengono di dover essere molto pignoli. Ciò che è gradito e ciò che è obbligatorio. La coerenza è gradita, la decenza obbligatoria. (Dino Basili)

CONSUMISMO E PROBLEMA ECOLOGICO. La tecnica di una volta mirava a soddisfare i bisogni. Assai spesso la tecnica di oggi mira a moltiplicare artificiosamente i desideri, facendoli passare per bisogni. Ma più si soddisfano, più i bisogni-desideri aumentano. Ed è proprio questo aumento di pretese a costituire la forza motrice di una produzione in continua crescita. Della crescita economica illimitata s’è fatto un mito e per troppi anni è lì che si è riposto il senso stesso del progresso. Ma la gara fra le pretese crescenti e i costi per soddisfarle non può essere vinta. Quando si dispone di risorse limitate, come si fa ad assicurare un consumo illimitato? Con possibilità non illimitate, come soddisfare pretese illimitate?

Una corsa del genere, se non si ridimensionano le pretese, non può concludersi che con una crisi globale. Anche a sperare nell’eventualità che presto si scoprano nuove fonti energetiche e nuovi tipi di alimentazione, i gravami terribili che già oggi pesano sull’ambiente anche in futuro comporteranno costi assai elevati. È certamente urgente non permettere più tipi di produzione distruttivi dell’habitat naturale e umano e correre ai ripari sviluppando una scienza e una tecnica del disinquinamento. Ma c’è pure – ed è difficile ad essere risolto – il problema della labilità psichica sempre maggiore dei nostri figli e di noi stessi, che ci siamo lasciati travolgere dalla marea montante delle sollecitazioni consumistiche e le abbiamo scambiate per incremento e promozione di umanità. La questione ecologica è questione non solo politica e tecnico-scientifica. È anche questione morale e di riappropriazione dei fini autentici della vita umana.

GIUDIZI SEVERI, MA NON INFONDATI. La storia per i più: «In Italia la storia non esiste, ma è solo un machiavello per dare i nomi alle strade» (Giorgio Manganelli). Lo “spot” permanente e l’altra pubblicità: «Lo spot c’è già nei telegiornali. Fa pubblicità all’impresa-partito» (Luca Goldoni). Oltre la forza del numero, i diritti dei più deboli: «Siamo ormai in Italia, nella cosiddetta “società dei due terzi”, in una società cioè nella quale coloro che hanno interessi da difendere sono la maggioranza e la minoranza è rappresentata invece dalle nuove povertà e dagli emarginati. In una società di questo tipo la democrazia, se è semplice strumento di rappresentanza e di equilibrio degli interessi, non può che funzionare nel senso della tutela dei più forti. La democrazia è nata come forza del numero contro il privilegio dei pochi. Oggi rischia di giocare nel senso opposto» (Pietro Scoppola).

Un feroce ritratto: «Il Capo e Maestro aveva una psicologia da satrapo orientale: se voglio, castigo; se voglio, faccio grazia. Aveva una buona dose di demenza» (in questi termini scrisse di Stalin il grande musicista Dmitrij Sostakovic nel libro autobiografico Testimonianza). Lui sì che lo conosceva bene: «Stalin era capace di dire una cosa oggi e di fare esattamente il contrario domani» (dichiarazione di Andrej Gromyko, per 28 anni ministro degli Esteri in Urss, resa a Donald Trelford, che pubblica le sue memorie a puntate su The Observer dall’aprile 1989).

1 giugno 1989.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. La scoperta di sé nel dolore. Nel dolore buono e verace è ciò che vive (Georg Trakl). Cosa e parola. Nessuna cosa è dove la parola manca (Stefan George). Oltre il sapere, il canto. Molto, a partir dal mattino, / – poiché siamo un dialogo e l’un dell’altro ascoltiamo – / l’uomo ha appreso; ma presto saremo un canto. Così è l’uomo. Così è l’uomo; quando il bene è lì… / quel bene egli non conosce e non vede. / Soffrire prima egli deve; allora egli dà nome a quel che più ama. (Friedrich Hölderlin)

L’aspirazione di chi vuol pensare in profondità. Cogliere il mondo nella sua individualità e nella sua totalità. Il cammino verso il linguaggio. Il linguaggio è in continuo e perenne divenire. Non è un prodotto, un’opera finita, un ergon, ma un’attività produttrice, un’energia. La vera definizione non può essere quindi che genetica. Esso è il perenne lavoro dello spirito volto a rendere il suono articolato idoneo a esprimere il pensiero. (Wilhelm von Humboldt)

Il dire dei mortali è un rispondere. Ogni parola che si pronuncia è sempre risposta: un dire di rimando, un dire ascoltando (Martin Heidegger). L’attesa. Quando all’orizzonte dolcemente calando / s’immerge la rossa palla infuocata, / allora io sosto sulla duna / se mai compaia un ospite caro (St. George). Il metodo ha assunto a proprio servizio le scienze. Ciò che caratterizza il nostro tempo non è la vittoria della scienza, ma la vittoria del metodo scientifico sulla scienza (Friedrich Nietzsche).

LASCIAR FARE E NON LASCIAR PASSARE. «La formula dei fisiocratici – laissez faire, laissez passer – spesso è intesa come se le due raccomandazioni fossero equivalenti. Non lo sono per nulla. Che lo Stato debba lasciar fare ai privati non significa affatto che debba lasciar correre. La prima raccomandazione, laissez faire, dice che i ‘contenuti’ delle scelte van lasciati ai privati; la seconda, laissez passer, sembra dire che, per questo, lo Stato debba astenersi dal controllarle, dallo stabilire ‘in che forma’ le scelte vadano fatte, per impedire che la libertà propria leda l’altrui. Ma un non-intervento del genere è inconcepibile. Purtroppo il nostro Stato fa esattamente il contrario: respinge il laissez faire, stabilendo che in linea di principio, ai privati si deve impedire di fare; compensa poi gli ostacoli che pone all’iniziativa privata lasciando correre. Questa è la tendenza che si dovrebbe esattamente invertire».

Il concetto qui espresso con la solita chiarezza da uno dei più acuti e liberi filosofi italiani, Vittorio Mathieu, su Il Giornale del 21 maggio 1989, è alla radice di ogni visione rigorosamente democratica ed è, purtroppo, uno dei più misconosciuti. Perché? La soggezione della cosiddetta cultura politica ai miti del collettivismo marxista ha la sua parte, ma oggi, dopo tanti guasti, la causa prevalente sembra essere questa: chi ha in mano la cosa pubblica ha interesse ad amministrare ricchezze che nessun privato si sognerebbe di affidargli e i privati che ne abbiano la forza hanno interesse a condizionare le decisioni pubbliche con le lobbies, con la corruzione e via dicendo. La miscela che ne risulta rischia di essere devastante per i suoi effetti. L’arroganza e l’invadenza dello Stato «padre padrone» si coniugano con l’impotenza di uno Stato «servo dei padroni».

MORTE E IMMORTALITÀ. Nelle sue Mémories François René Chateaubriand elenca vent’un personaggi illustri, che avevano partecipato con lui al Congresso di Verona e che nel frattempo erano morti: «L’imperatore di Russia, Alessandro? – Morto. L’imperatore d’Austria, Francesco I? – Morto. Il re di Francia, Luigi XVIII? – Morto…». L’appello dei potenti scomparsi uno dopo l’altro si conclude con una osservazione stupendamente semplice nella sua verità: «Nessuno ricorda i nostri discorsi alla tavola del principe Metternich: ma oh, potere del genio!, nessun viaggiatore udrà mai il canto dell’allodola nei campi di Verona senza ricordarsi di Shakespeare». L’opera shakespeariana Giulietta e Romeo non morirà.

IL GIURAMENTO DI IPPOCRATE. Ippocrate nacque a Cos nel Dodecanneso verso il 460 a.C. ed è per la medicina quello che due suoi contemporanei, Tucidide e Socrate, sono rispettivamente per la storiografia e per la filosofia. Di tutti gli iscritti del corpus ippocrateo il «giuramento» è tuttavia il più necessario perché in esso la più alta personalità medica del mondo precristiano ha formulato una volta per sempre la deontologia della professione medica. Ed è per questo che il «giuramento di Ippocrate» per secoli è stato consegnato insieme al diploma di laurea a chi si accingeva a svolgere la professione medica. «Non darò a nessuno un farmaco mortale – è detto – anche se mi fosse richiesto e ugualmente neppure darò a una donna medicine che possano farla abortire. Conserverò pia e pura la mia vita e la mia arte… In quante case entri, vi entrerò per giovare ai pazienti, tenendomi fuori da ogni ingiustizia volontaria, da ogni guasto, da ogni violazione del segreto».

8 giugno 1989.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. La caratteristica di questa rubrica. Non la retorica del disincanto, ma la tensione dell’etica (Giulio Giorello). Per un controllo incrociato. Occorre rientrare in se stessi e insieme vedere se stessi attraverso gli occhi degli altri (Antonin Liehm). La forza della nostra patria più grande, l’Europa. L’Europa non è il solo luogo in cui esista una consapevolezza delle crisi della tecnica, della scienza o della società industriale. Ma è il solo in cui si sia abbastanza generalizzata la coscienza delle false soluzioni e dei falsi messia (Edgar Morin). Necessità interiore per ogni artista. Fin che è viva, l’arte vuole produrre qualcosa di eternamente nuovo. Non è tracotanza degli artisti, ma necessità interiore, che essi offrano il nuovo, ciò che non è ancora esistito (Jakob Burckhardt).

Per cambiare la politica. Aprire alla cultura, per trovare gli strumenti veri del rinnovamento, comporta prima di tutto la capacità morale di credere che anche la politica si fa con le idee e non solo con il clientelismo o l’intrigo, la cultura di cui abbiamo bisogno è non solo intelligenza di proposte nuove, ma tensione spirituale che ci fa preferire il bene della città ad ogni calcolo e servitù. Una cultura che insegni il primo rimedio ad ogni cedimento: raddrizzare la schiena (Valerio Volpini). La risorsa inesauribile a cui l’arte, nella sua pienezza, torna sempre ad attingere. Nei nostri momenti di grazia artistica, siamo il bambino della nostra prima comunione (Henri Matisse a Pablo Picasso).

MATERIALISMO EDONISMO CONSUMISMO. Ci sono pensatori profondi e originali, di cui si avverte la grandezza e che tuttavia, proprio a causa della loro totale estraneità ai giochi del potere e dell’industri culturale, sono quasi condannati ad essere misconosciuti ed emarginati. Essendo uomini di cultura e di meditazione, non possono certamente essere loro gli idoli di turno delle mode imperanti. È un fenomeno che si è verificato più volte nel campo del pensiero filosofico – un esempio clamoroso per tutti, il destino di Giovan Battista Vico – ed anche nell’arte. Chi però ha avuto la fortuna di incontrare tra i suoi professori un Maestro del genere, ne rimane segnato nello spirito.

Questi pensieri sorgevano spontanei in me, leggendo l’ultimo breve scritto di un filosofo di razza, qual è stato Nicola Petruzzellis. Il manoscritto fu consegnato dall’Autore dieci giorni prima di morire a un illustre amico che ne ha curato la pubblicazione. Il volumetto s’intitola Materialismo edonismo consumismo, Napoli 1989. Sono i tre «ismi» che stanno svuotando di senso le coscienze e la vita di tanti giovani, perché hanno prima avvelenato coloro che – in famiglia, a scuola e nell’esercizio di responsabilità pubbliche – dovevano essere i loro educatori.

Quando si è prossimi al traguardo, anche chi domina il campo della ricerca teoretica come il Petruzzellis – autore di opere rigorose e geniali come Il valore della storia, Sistema e problema – tende a dare al suo discorrere il carattere della veduta d’insieme e un andamento sapienziale, da cui emerge tutta l’ansia per l’uomo e per il futuro dell’umanità. Questo è il tono dello scritto che abbiamo tra le mani ed è ciò che lo rende più prezioso, dominato com’è da cima a fondo da un’autentica passione educativa. Petruzzellis vede l’edonismo e il consumismo come conseguenze logiche del materialismo; ma egli mette altresì in evidenza l’intreccio psicologico di questi atteggiamenti della coscienza e della prassi. «Se in linea logica il materialismo precede l’edonismo e il consumismo, spesso sul piano psichico un deciso atteggiamento edonistico è la latente matrice delle teorie materialistiche». Ci sono materialisti che hanno idee e ideali morali molto elevati, perché gli uomini sono spesso migliori delle dottrine che professano; ma il problema è di «dimostrare la compossibilità di ideali morali con le premesse materialistiche» che li rendono semplicemente impensabili. Il nesso tra produttivismo febbrile, consumismo e edonismo è evidente, sì che l’uno diventa concausa dell’altro. «Posto nel piacere il fine e il valore della vita – scrive con limpida efficacia Petruzzellis – poiché la ricerca del piacere è indefinita, insaziabile, multiforme, crea una domanda di cose, di oggetti, di strumenti, di macchine che possono stimolare, variare, moltiplicare, prolungare, rendere meno labile la fruizione».

 IL PARADOSSO «RELIGIOSO» DEL NICHILISMO. Il nichilismo è la dottrina che afferma la totale mancanza di senso della vita. Alberto Caracciolo ha colto il paradosso del significato strutturalmente «religioso» del nichilismo. «Tutto può essere senza senso – scrive Caracciolo – tranne il principio che rende possibile esperire e rifiutare il non senso». Insomma «anche quando il niente pare affermarsi assoluto, alla radice della parola e oltre la parola che dice non senso (bestemmia, rivolta, dissonanza) sta l’imperativo che il senso deve essere».

15 giugno 1989.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. Troppo comodo far la parte di san Giorgio quando non si rischia. Noi molto spesso – nella nostra vita di tutti i giorni – ci atteggiamo volentieri a cavalieri senza macchia e senza paura: ma dopo esserci assicurati che tutti stanno dalla nostra e che non rischiamo nulla. La “vox publica” non basta affatto. Quando qualcuno è coralmente attaccato a tutti, nostro dovere metodologico oltre che civico è dubitare. Possono anche aver ragione, ma non meritano di averla. I conformisti possono talora aver ragione, ma non hanno nessun merito di averla. In un certo senso non ne hanno neppur moralmente il diritto. (Franco Cardini)

L’Io Esibizionista. Molte persone che considerano estremamente importante esprimere la loro personalità hanno una personalità che potrebbe benissimo rimanere inespressa senza danno né per loro né per gli altri (Lily Brown). Ciò che permane nel mutamento. Non si può dire: tutto muore. Bisogna che qualcosa resti. Se tutto passasse, non ci sarebbe neppure il territorio del passaggio, né la legge che lo regola (Antonin-Dalmace Sertillanges). Non è lecito dissipare la propria esistenza. No, la vita non è un’offerta che non impegni a nulla: non abbiamo che un destino, unico e indeclinabile. Rifiutarlo significa trasformare la nostra natura ragionevole in una decadenza e in una morte (Maurice Blondel).

GRAZIE, PADRE HÄRING! Se mi si chiedesse quali sono i pensatori a cui debbo di più, sarei in difficoltà a fare una scelta, anche solo limitandomi al Novecento; ma se dovessi indicare i teologi con cui mi sono trovato in sintonia e di cui ho amato le grandi opere, non esiterei un istante: Henri de Lubac, Urs von Balthasar, Louis Bouyer e, in campo morale, Bernhard Häring;

Il 7 maggio di quest’anno padre Häring ha potuto ricordare, malgrado il polverone che alcuni hanno creduto di sollevare intorno a lui, mezzo secolo di sacerdozio intemerato e i trentacinque anni dall’uscita di un’opera fondamentale, che costituì per la teologia morale anteriore al Concilio una vera e propria svolta: La legge di Cristo, tradotta dalla Morcelliana (Brescia 1954), presso la quale apparve altresì Il sacro e il bene. Di Häring le Edizioni Paoline hanno pubblicato molte opere, tra cui il capolavoro in cui il redentorista ci ha dato la summa, il punto di arrivo della sua ricerca e del cammino percorso dalla chiesa cattolica dal Concilio in poi: Liberi e fedeli (Cinisello Balsamo 1987).

Di Häring, teologo libero e fedele che conosce la bellezza e la profondità della legge di Cristo e rifiuta il suo svuotamento da parte di chi introduce in essa astrazioni rigoristiche e sottigliezze che il Vangelo non autorizza, mi piace citare qui due illuminanti dichiarazioni. La prima è del 20 agosto 1977 in risposta ad alcune «Osservazioni» della Congregazione per la dottrina della fede al suo libro Etica medica. «Cercherò sempre – scrisse testualmente padre Häring – di onorare la Chiesa, popolo di Dio, ed il Magistero per mezzo di un’assoluta sincerità, anche se questo mi dovrà portare alla sofferenza. Questa lealtà e sincerità mi sarà un obbligo sacro anche in tutte le questioni in cui, dopo seria riflessione e preghiera, non posso accettare alcune spiegazioni piuttosto rigide fatte dalla s. Congregazione, soprattutto se mi trovo d’accordo con molti vescovi, con la maggioranza dei teologi e con molti ferventi fedeli».

L’altra precisazione di cui sono grato a padre Häring è di qualche mese fa. La storia della chiesa ha pur da insegnare qualcosa a tutti, ed è quanto Häring ricorda con l’abituale limpidezza. «La Chiesa – dice l’illustre studioso – non ha il monopolio della verità, ma il compito di approfondire sempre la conoscenza del grande tesoro della Rivelazione che le è stato affidato, oltre a quella della legge naturale, unitamente a tutti gli uomini di tutte le culture. Il campo è ampio e la linea programmatica è ben disegnata dalla Gaudium et Spes che al paragrafo 43 rileva come i Pastori non siano sempre esperti» a tal punto che ad un nuovo problema che sorge, anche a quelli più gravi, essi possano avere pronta una soluzione concreta. «Occorre quindi la grazia del dubbio che la Chiesa tutta deve invocare per l’approfondimento necessario in tante questioni. Se manca la grazia del dubbio in questioni non certe si acquisisce soltanto quella certezza mitica, estranea alla complessità della vita».

Questo modo di pensare, di scrivere e di parlare alle origini dell’esistenza cristiana aveva un nome: «parrhesia», un termine corrente nel Nuovo Testamento e nella letteratura del martirio, su cui Giuseppe Scarpat ha scritto un bel libro. Sarebbe utile rileggerlo per ricordarci come siano inseparabili nel cristiano la sincerità della fede e la libertà di una parola che sgorghi da un’anima in cui il senso della fede dei credenti si fonde con la testimonianza della coscienza.

22 giugno 1989.

 INEA RECTA BREVISSIMA. Si addice agli edificatori della Causa. Da un piccolo seme di verità / fa crescere una pianta di menzogna. Il cristiano. …io, ebreo del Nuovo Testamento, / da duemila anni in attesa del ritorno di Gesù. La poesia che redime. Cos’è la poesia che non salva / i popoli né le persone? / Una complicità di menzogne ufficiali, / una cantilena di ubriachi… / una lettura per signorinette. (Czelaw Milosz)

A certi illuministi angusti, poco illuminati. Rispetta ciò che non capisci. I giovani che rinnovano la speranza. Notte e freddo calerebbero / sulla terra e l’anima si consumerebbe / nell’angoscia se, ad un certo momento, la bontà / degli dei non mandasse giovani / a rianimare la vita degli uomini che avvizzisce. Per chi è avanti negli anni. I consigli più saggi vengono da spiriti giovani. Come uscir di scena. Il mio addio sia lieto di gratitudine. L’essere radicati. Anche le foglie verdi diventano secche / sopra un tronco sradicato. Il compito. Calmo deve agire l’uomo / che pensa, deve spiegare la vita / attorno a sé, accrescerla e renderla serena / poiché piena di alto significato, / piena di forza silenziosa. Chi merita di essere dissetato. La sorgente del Cielo disseta gli umili. (Friedrich Hölderlin)

LA CATASTROFE COMUNISTA. Proviamo a metterla come dicono intellettuali e comunisti del vecchio e nuovo corso: che sulla piazza Tienanmen è morto un comunismo. In un certo senso è vero: lì, con il massacro di migliaia di uomini, è morto il comunismo cinese. Ma se quel regime ha commesso gli stessi crimini di cui si sono macchiati quello russo, quello polacco, quello ungherese, quello cecoslovacco, quello vietnamita, quello cambogiano, e così via per tutti i regimi comunisti che si sono realizzati nella storia, non si dovrà concludere che è morto anche il comunismo? A questa precisa, logica analisi dei fatti che cosa cercano di opporre i comunisti? Il ragionamento di Achille Occhetto è ormai questo: non è morto solo un comunismo, sono morti tutti, però il comunismo non è morto come idea. Strano modo di pensare, in vero. Che cosa avrebbe da obiettare Occhetto se uno dicesse che i regimi fascisti sono morti perché all’Ovest hanno prodotto catastrofi, ma non è morta l’idea fascista? Una cosa sola, suppongo: che egli ritiene che l’idealità comunista non è morta e non deve morire assieme ai suoi regimi, che «hanno portato a soluzioni catastrofiche» (secondo le testuali parole di Occhetto), perché, a differenza di quella fascista, è un’idealità buona in sé.

E qui vengono spontanee alcune riflessioni. Prima. Un’idealità che, ogni volta che s’incarna nella storia, produce il contrario di ciò che predica, come può essere un’idealità buona in sé? Se il comunismo quando diventa politica e regime si trasforma in fascismo, non sarà perché è esso stesso un’idealità perversa? La Collotti Pischel afferma che quello di Deng è un regime fascista e definisce il fascismo «una forma di governo di minoranza, autoritario, privo di meccanismi democratici e pluralistici, volto alla conservazione del potere». Conosce la Collotti Pischel un regime comunista che non soddisfi questa definizione?

Seconda riflessione. Occhetto parla di avviare il comunismo «verso forme di democrazia parlamentare e pluralista». Ma anche questo basta a tenere in piedi l’idealità comunista. Perché, se un’idealità per incarnarsi ha bisogno di un mezzo che è la negazione di se stessa come fine (proprio come la democrazia pluralista è la negazione del comunismo), allora quella idealità è una idealità impossibile. E si capisce allora perché dal comunismo nascano sempre «soluzioni catastrofiche».

Terza riflessione. Sempre Occhetto afferma che i comunisti italiani nel loro ultimo congresso hanno posto al centro della loro politica «non la democrazia come supporto strumentale del socialismo, ma la democrazia come finalità e come valore». È vero. Ma allora c’è da chiedersi, come fa Marcello Pera ne La Stampa dell’8 giugno 1989: «dire che la democrazia è mezzo e fine non equivale a dire che il comunismo è morto anche come idealità? E se così è, a che vale chiamarsi ancora comunisti?».

LE POCHE PAROLE E LA LOGORREA. Riguardando il Policraticus, l’affascinante libro sull’uomo di governo scritto da Giovanni di Salisbury, filosofo e diplomatico del XII secolo, ho pensato di offrire ai lettori questa sua riflessione. «Ciò che abbonda perde valore. Perciò le poche parole di chi apre bocca a ragion veduta sono preziose, mentre la logorrea è un peccato. A chi gli chiedeva come si potesse raggiungere una reputazione degna della sua, Socrate rispose: ‘Agendo nel migliore dei modi e parlando poco’» (Milano 1900).

29 giugno 1989.

 LINEA RECTA BREVISSIMA. Non sempre giuste le prime impressioni. Niente di più difficile che convincere il pubblico a ricredersi di un primo giudizio troppo affrettato (André Gide a Georges Simenon). Sì, sono veri e propri materiali per un romanzo. Le singole rubriche dei giornali, i calendari delle fiere e dei mercati, così come le pagine che si occupano dei trasferimenti e delle vacanze, le notizie di cronaca e gli annunci matrimoniali, i necrologi (certe inserzioni sulla composizione della famiglia) sono veri e propri romanzi (Georges Simenon ad André Gide).

Succede quando si è inautentici. Succede con la maggioranza dei filosofi sistematici, riguardo ai loro sistemi. Sono come chi costruisce un castello e poi se ne va a vivere in un fienile: essi non vivono affatto nella loro enorme costruzione sistematica. Ma nel campo dello spirito ciò costituisce un’obiezione capitale (Søren Kierkegaard). Amore e arte. Dove c’è amore per l’uomo, ivi c’è amore per l’arte (precetto di Ippocrate o della sua scuola). La morale della favola. La morale della favola è che ognuno di noi ha una sorta di conto corrente con ognuno degli altri. Da qualsiasi azione, o non azione, ognuno di noi trae un guadagno o una perdita, ed allo stesso tempo determina un guadagno o una perdita a qualcun altro (Carlo M. Cipolla). Il contrassegno. La facoltà che innalza l’uomo sulla bestia è la parola mossa e riempita dalla ragione. I giovani e il destino di uno Stato. Chi tiene la gioventù tiene lo Stato. (Isocrate)

IL TESTAMENTO DEI MASSACRATI DI PIAZZA TIENANMEN. «Non hanno mai conosciuto in vita la libertà, / ma alzandosi in piedi per morire, sono morti da uomini liberi. / La democrazia è più di una statua di gesso. / Una statua di gesso può essere abbattuta, / ma scaraventarla a terra fa sì che la gente la ricordi. / E il ricordo di una statua di gesso conserverà il ricordo / delle idee per cui sono morti». È l’ultimo disperato messaggio trasmesso da un dazebao di Piazza Tienanmen. I soldati lo hanno strappato, ma una giovanissima studentessa di Pechino lo aveva già imparato a memoria e lo ha passato ad un giornalista americano, John Woodruff, corrispondente del Baltimore Sun, dicendogli: «È la più bella tra le tante cose scritte nei giorni di protesta da quei ragazzi. La faccia conoscere a tutti. È il loro testamento. Il mondo deve assolutamente sapere».

PERCHÉ MAI DENG NON DOVREBBE CHIAMARSI COMUNISTA? «In nessun modo – ha gridato nelle settimane scorse Achille Occhetto – noi riconosciamo a chi ha ordinato l’intervento militare o il massacro il diritto di dirsi comunista». Già, ma il fatto è che l’intera vicenda del comunismo storico è punteggiata da interventi militari contro il popolo: a cominciare da quelli di Lenin che nel 1921, a Kronstadt, fece massacrare migliaia di giovani marinai e operai. Cosa devono pensare allora i comunisti? Che Lenin non era comunista? E Mao, Mao aveva o non aveva, lui, il diritto di chiamarsi comunista? Il Mao che ha procurato alla Cina, tra il ‘58 e il ‘61, una ventina di milioni di morti di fame, secondo stime demografiche americane, per effetto della scelta del famigerato «grande balzo in avanti»? E che dire delle centinaia e centinaia di migliaia di cinesi consegnati durante la «rivoluzione culturale» alla brutalizzazione fisica e psichica, spesso alla morte, ad opera delle Guardie Rosse, agli ordini del Grande Timoniere? Quel Mao non era forse fatto della stessa pasta di Deng? Non veniva egli forse dalla stessa storia? Deng è l’ultimo anello di una catena, di cui il primo è Vladimir Jllie Uljanov. Ed è lecito oggi al Pci, dinanzi al fallimento dei sistemi politici ed economici comunisti – che si fregiano di bandiere rosse e falci e martelli e che sono stati sempre e universalmente dichiarati comunisti, e in quanto tali additati a modelli del nostro futuro – dichiarare che comunisti non erano, perché il comunismo buono è solo quello… non ancora nato? E per quale motivo coloro che hanno da sempre visto la carica oppressiva e l’improduttività radicale del totalitarismo comunista, se osano aprir bocca sono definiti – proprio dai comunisti – «corvi», «becchini», «sciacalli» (sono i termini più ricorrenti sull’Unità e sul Manifesto)? E chi sono coloro che si dissociano – con un ritardo ora di settanta, ora di quaranta, ora di trent’anni – da regimi criminali, se non quelli stessi che li esaltavano? Chi ha ciecamente creduto e soprattutto ha voluto far credere che il totalitarismo rosso fosse l’introduzione al paradiso in terra e la democrazia nient’altro che una fase di transizione per giungere al comunismo, cioè alla società perfetta? Non certo quelli che non si sono arresi alla grande menzogna e alla grande illusione. Ma forse, qualcuno, capovolgendo la logica e la storia, pretende – ed è una ben strana pretesa – che i soli autorizzati a criticare il comunismo siano i comunisti.

La rubrica “Detti e contraddetti” è stata pubblicata sul Giornale di Brescia con cadenza settimanale dal 5 gennaio 1988 al 25 gennaio 2007.