Detti e Contraddetti 1991 – 2° semestre

DETTI E CONTRADDETTI 1991 – SECONDO SEMESTRE

 

4 luglio 1991.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il filtro della riflessione. Effetti contrari. La felicità e il dolore, se si palesano o si diffondono, producono effetti contrari. Il dolore che si palesa, diminuisce; la felicità che si diffonde, si accresce. Ciò che rende migliore la bontà. La bontà è simile all’oro: ha bisogno di un po’ di lega per essere migliore. L’arte non specchio, ma prisma. L’arte non è uno specchio, ma un prisma che rifrange le luci segrete della vita. Spenderla al momento opportuno. La parola è come il denaro. Bisogna saperla spendere al momento opportuno. Ciò che esprime e ciò che ispira. La bellezza ha un suo intrinseco valore, ma vale anche di più per quello che ispira. (Lieo Grassi)

Il modo giusto. La giusta maniera di fare stile non è un concetto vano. È semplicemente il modo di fare ciò che deve essere fatto. Che poi il modo giusto, a cosa compiuta, risulti anche bello, è un fatto accidentale (Ernest Hemingway). Ad uso dei giovani. Si dovrebbe essere sempre un po’ improbabili. La vita e il mero esistere. Vivere è la cosa più difficile al mondo. La maggior parte della gente esiste, e nulla più. (Oscar Wilde)

 

LA NUOVA RESISTENZA. È possibile vincere lealmente? La domanda è di sapore sportivo, ma di contenuto etico. Capita a ciascuno, riflettendo sulle vicende della propria e altrui vita quotidiana, di domandarsi se non ci sia una sproporzione assai grande tra quelli che s’impegnano e lottano volendo mantenersi fedeli a certi criteri morali (e non solo per proclamarli a parole) e quelli che ignorano, o comunque non osservano, altri criteri che non siano quelli della convenienza, dell’efficacia e del risultato.

Se lo chiedeva anche Vittorio Bachelet, proprio la sera prima di essere assassinato dalle Brigate rosse, mentre accompagnava a casa il suo amico Achille Ardigò. Dicevano: non si può accettare l’intreccio tra politica e affari, come non si può accettare la violenza terrorista; e, costi quello che costi, questa era la loro conclusione, nell’un caso e nell’altro non bisogna cedere, anche se non è affatto certo l’esito vittorioso di questa resistenza. Questa è la testimonianza estremamente significativa, resa da Achille Ardigò al direttore di Segnosette, Angelo Bertani, su quel drammatico colloquio.

Anche noi ci chiediamo sgomenti: com’è possibile avere successo nella competizione con altri, se questi usano grandi somme di denaro? Quanto denaro di provenienza sporca inquina la politica? Come può resistere una persona per bene alle sponsorizzazioni miliardarie fatte a favore dei suoi concorrenti? Come competere con quelli che stipulano alleanze occulte assicurando favori o connivenze? E che dire di quei politici che, al Nord non meno che al Sud, pur militando nel partito fondato da Sturzo, sono oggi al vertice della gestione affaristica della politica?

Che cosa rispondere alla tristezza di queste considerazioni? Innanzi tutto che siamo obbligati a far crescere, qui e ora, segni e gesti concreti di verità e di novità, impegnandoci in prima persona, con ostinato rigore, e insieme con gli altri, al servizio del bene comune, che è forma altissima e decisiva di giustizia e di amore del prossimo.

In ogni caso il dovere di resistere ai corrotti, ai prevaricatori ma anche agli scettici, che predicano l’immobilità delle mummie e la rassegnazione al peggio, è qualcosa a cui non ci si deve sottrarre in alcun modo. Questa resistenza, che è innanzi tutto rivolta morale, se sarà sufficientemente ampia, contribuirà in maniera determinante ad arrestare il processo di degradazione e quindi a limitarne gli effetti perversi.

Sui tempi lunghi, persino agli occhi di quanti ora si lasciano ingannare e corrompere apparirà la lungimiranza di quanti, invece, rinunciano a perseguire disonestamente il successo, pur di mantener fede a un progetto di società libera e pulita. Purché i tempi lunghi non siano troppo lunghi!

 

 

11 luglio 1991.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. A che serve l’oscurità voluta. Un’oscurità ben preparata serve spesso a creare l’illusione della profondità e della consistenza. Nella luce del crepuscolo, o attraverso una nuvola, gli oggetti sembrano più grandi di quello che sono (Immanuel Kant). L’inesauribile ‘filosofese’. È un segreto di pulcinella riconoscere che nessun interprete di Hegel è in grado di spiegare, parola per parola, una sola pagina dei suoi scritti (così uno dei maggiori interpreti di Hegel, Theodor Häring). L’oscurità opportuna e addirittura lodevole. Una certa oscurità potrebbe essere permessa, tuttavia è necessario che essa nasconda qualcosa che merita di essere scoperto, e che l’enigma sia decifrabile (Gottfried Wilhelm Leibniz).

Il linguaggio oscuro della critica d’arte. Il nostro paradossale Paese, così pratico, sanguigno, terra terra in tante sue manifestazioni, ha poi però un’inguaribile inclinazione all’astrattezza e alla concettosità enigmatica. Ma in nessun campo, non in quello politico giuridico burocratico sindacale, mafioso, né in quello della critica musicale o letteraria, tale triste pianta ha dato frutti così stupefacenti come nella critica d’arte (Carlo Fruttero e Franco Lucentini). L’inflazione dei ‘prefissi’ alla moda. Certi prefissi hanno oggi un tale prestigio da essere sufficienti a nobilitare tutto ciò che introducono. Basta essere inter o pluri o trans… per essere tutto ciò che si vuole (Olivier Reboul).

 

LA TENTAZIONE DI CHIAMARSI FUORI. Per superare, innanzi tutto nel nostro intimo, il pessimismo o una crisi di rigetto nei confronti della politica, sarebbe necessario ricordare un paio di considerazioni che sono fondamentali anche se estremamente semplici.

La prima è che la realtà politica è una realtà umana, con tutti i caratteri generali e differenziali di questa, con tutte le ragioni che attestano la misera e la grandezza dell’uomo, con le sue ombre e le sue luci. La seconda è che nella coscienza umana e nella storia i valori non sono mai in una perfetta e assoluta attualità, bensì allo stato di esigenza e di relativa attuazione, il che non significa che siano sempre e dovunque assenti. La politica, specialmente se considerata in alcuni aspetti più appariscenti, è esposta, come e di più di ogni altra attività umana, alle possibilità negative degli pseudovalori e dei disvalori; ma neppure il prevalere dell’inautentico sul terreno politico ci autorizza a scambiare le finalità e le esigenze connaturate all’essenza della politica con i fenomeni paurosamente degenerativi che l’esperienza ampiamente ci attesta.

Proprio perché le cose nel nostro Paese non vanno affatto in politica per il verso giusto, è da respingere assolutamente la tentazione di chiamarsi fuori. È per averlo fatto molte volte e in tante situazioni che ci troviamo dove ci troviamo.

 

L’IPOTESI GIUSTA DA CUI PARTIRE. «Tutti abbiamo la debolezza – ha scritto acutamente Karl Popper – di voler avere sempre ragione, e questa debolezza sembra particolarmente diffusa tra i politici, sia professionisti che dilettanti. Ma l’unica via che conduce a un metodo più o meno scientifico in politica è agire secondo l’ipotesi che non vi possa essere nessuna mossa politica senza qualche svantaggio, senza conseguenze poco desiderabili. Tenersi pronti a scorgere questi sbagli, trovarli, metterli bene in vista, analizzarli e imparare da essi, ecco cosa deve fare uno scienziato politico e anche un uomo politico che abbia in giusta considerazione il metodo scientifico. Il metodo scientifico nella politica significa che alla grande arte con cui ci autopersuadiamo di non aver fatto sbagli – o facciamo finta di non vederli, o li nascondiamo, o ne diamo colpa ad altri – sostituiamo l’altra assai più grande di accettare la responsabilità dei nostri sbagli, di cercare di trarne una lezione e di mettere in atto le conoscenze così acquisite in modo da evitare gli stessi sbagli in avvenire».

E Bryan Magee, un filosofo oxoniense, deputato al Parlamento inglese negli anni Settanta, rifacendosi a queste tesi popperiane, precisa in modo limpido perché la politica non può assolutamente rinunciare a darsi una procedura che sia la più razionale possibile. «Tutte le politiche governative, tutte le decisioni a livello esecutivo ed amministrativo – scrive Magee – si fondano su previsioni empiriche: “Se facciamo X, seguirà Y; d’altro canto se vogliamo ottenere B dobbiamo fare A”. Come tutti sanno, tali previsioni spesso risultano sbagliate (tutti commettono errori) ed è quindi normale che debbano venir modificate man mano che vengono applicate. Scoprire in anticipo gli errori e i pericoli nascosti per mezzo dell’indagine critica e della discussione è sempre meglio che aspettare che tali errori e tali pericoli si rivelino nella pratica».

 

 

18 luglio 1991.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. La determinazione a resistere. La resistenza nasce solo dalla resistenza. / Coi gesti formavo un’invisibile corda / e mi arrampicavo e mi reggeva. Sugli angeli. Cinti dalla folgore, leggeri, / vi hanno tolto le vesti bianche, / le ali e perfino l’esistenza. / Tuttavia io vi credo, messaggeri. Quando l’ideologia è al potere. Tremando per lo spavento penso che compirei la mia vita / solo se avessi il coraggio di una confessione pubblica / rivelando l’inganno mio e della mia epoca: / ci era consentito il gracidìo dei nani e dei dèmoni, / ma le parole pure e nobili ci erano vietate / con la minaccia d’un castigo tanto severo, che chiunque osasse proferirne una / già lui stesso sai considerava perduto. Può capitare anche in uno Stato in cui la democrazia si corrompe. Si è riusciti a far capire all’uomo / che, se vive, è solo per grazia dei potenti. / Pensi dunque a bere il caffè e a dar la caccia alle farfalle. / Chi ama la res publica avrà la mano mozzata.

Gzelaw Milosz è poeta polacco, nato nel 1911 in Lituania, insignito del Nobel nel 1980, vivente. Con Rainer Maria Rilke, praghese, e con l’americano anglicizzato Thomas Eliot egli è tra i massimi poeti del nostro secolo.

 

L’ANALOGIA VIETATA. Quando lo storico tedesco Ernst Nolte pubblicò Nazionalsocialismo e bolscevismo, tradotto in italiano dalla Sansoni, fu trattato come un provocatore, che meritava il linciaggio. In realtà Nolte non aveva fatto altro che portare sul piano della ricerca storica un problema semplicemente inevitabile, quello delle analogie e delle differenze tra i due sistemi totalitari che costituiscono la vergogna del nostro secolo. Conosco di persona Ernst Nolte e ho avuto il privilegio di stargli vicino proprio nei giorni in cui, agli inizi di novembre del fatidico 1989, le grandi manifestazioni di piazza a Lipsia e Berlino apparivano ai nostri occhi preludio alla caduta del muro. Nolte ha convinzioni saldamente democratiche, ma rifiuta l’autocensura e il mascheramento opportunistico di quelle parti della storia che sono sgradite ai giochi del momento politico, alla cultura ufficiale e ai miti del «progressismo» marxista. Come al solito, le verità più elementari sono quelle più misconosciute. Lo Stato totalitario – che domanda la trasformazione dell’oppositore in nemico che – deve essere eliminato e della lotta politica in guerra civile – nacque con la rivoluzione comunista e la presa del potere da parte di Lenin.

Varianti successive del modello dello Stato leninista e insieme, dal punto di vista ideologico, suoi antagonisti sono il semitotalitarismo fascista e il totalitarismo nazista. Queste sono proposizioni evidenti, così come è innegabile che il 1917 antecede il 1925 e il 1933, che cioè senza l’avvento del comunismo al potere rimarrebbero semplicemente inspiegabili la nascita e la vittoria del fascismo in Italia e del nazionalsocialismo in Germania. A questo punto non rimane da compiere un ultimo passo: prendere atto che, pur nella diversità dei valori che ognuno dei sistemi totalitari pretende di rappresentare in modo assoluto ed esclusivo, tutti i totalitarismi usano allo stesso modo le stesse categorie formali del diritto, della propaganda, dei mezzi, della partiticità dell’arte, di repressione del dissenso, ecc. Ed in ciò i nemici stanno abbracciati; di più, si rivelano diabolicamente fratelli.

 

PSEUDO-CULTURA DA CLN PERMANENTE. Il rapporto tra nazismo e comunismo viene studiato da decenni in tutte le università del mondo, ma in Italia questo è ancora argomento tabù, di cui non si vuol sentire parlare. Ci si spiega allora perché, ad esempio, una studiosa come Hannah Arendt, che ha consacrato la sua vita a una indagine di struttura del fenomeno totalitario, è estranea alla nostra «pseudo-cultura da Cln permanente», per cui chiunque abbia partecipato alla guerra contro il nazifascismo (e l’Unione Sovietica fu costretta a farlo solo perché l’ex-alleato, con cui nell’agosto del ‘39 aveva pattuito la spartizione della Polonia, l’aveva attaccata il 22 giugno del 1941) è ipso facto nel campo della democrazia. La presupposta equivalenza tra antifascismo e democrazia è chiaramente un falso in campo culturale; ma è una di quelle menzogne convenzionale che, a forza di essere ripetute e presupposte, finiscono con l’essere accettate e credute come vere e col trasformarsi in giudizi politici e in direttive di azione politica. Di qui nei Paesi occidentali l’autocensura a favore dei regimi comunisti e, in Italia, addirittura la soggezione psicologica all’ideologia archetipa del totalitarismo e il continuo corteggiamento del partito che a pieno titolo la rappresentava. In un clima del genere le analogie strutturali tra nazismo e comunismo leninista costituiscono qualcosa che non deve essere pensato e che, comunque, va ancora taciuto.

 

UNA MICROSTORIA. Concludo con una microstoria, un piccolo episodio rivelativo però del carattere diffuso, direi atmosferico, di tanta supina acquiescenza alla pseudo-cultura ancora oggi dominante nel nostro Paese. Nella primavere del 1990 invitai a Brescia il professor Nolte, perché svolgesse il tema: «La guerra civile in Europa 1917-1989». Ed ecco che, alla vigilia della conferenza di Nolte, incontro due amici in libreria che mi rimproverano senza mezzi termini: «Ma non capisci che non è ancora il tempo per analisi di questo tipo? Discussioni del genere spiazzano anche noi che non siamo comunisti». Per la cronaca: il muro di Berlino era caduto già da sei mesi…

 

 

25 luglio 1991.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Contro corrente. Seguire la corrente, e perché? È quasi sempre doveroso risalire la corrente (Levi Appulo). Una falsa deduzione. Avendo Gesù perdonato a tutti i peccatori, qualcuno deduce che in fondo Gesù non detestava il male. La purezza dello sguardo. La purezza dello sguardo è la forza che toglie il velo e permette di intravvedere il mondo invisibile attraverso il mondo visibile. Ma quanto più l’uomo scopre il mondo invisibile attraverso il visibile, più comprende questo mondo. La creazione, infatti, ha le sue delicatezze e non confida i suoi segreti al primo venuto. (Hernest Hello) La parola e il canto. La ragione parla, l’amore canta. Per questo noi cattolici cantiamo il nostro Credo. La fede è credere all’amore (Joseph De Maistre). Se lo fate solo per dovere. Che voi ci amiate o che ci odiate, / lo fate solo per dovere. / Dobbiamo allora contare su di voi? / Ah, meglio di no (Erich Kaestner).

Autopresentazione. Non sono grazie a Dio uno con cui si può / fare ciò che si vuole. / Non sono uno spregiatore del progresso, / ma neanche un adoratore di tutto ciò che è nuovo. / Non sono un militarista, / ma neppure fautore d’una pace malsicura. / Io non desidero scagliare la prima pietra / e per voi voglio sempre e solo il meglio (Peter Handke). Appello. Dilata lo spirito nel silenzio (Stefan George). Il mio solo desiderio. Il mio solo desiderio, o uomo, è di esserti congiunto! (Franz Werfel).

 

VERSI CON DEDICA. Con dedica a chi? A quelle «persone per bene» che però non muovono un dito per il bene comune; agl’instancabili consiglieri di prudenza terrena; a coloro che chiudono gli occhi dinanzi allo scempio dei valori che devono essere cari ad ogni cittadino onesto; a quanti confondono la loro vigliaccheria con la pazienza cristiana (che è, invece, la virtù più necessaria ad ogni autentico operaio della «città dell’uomo»). No, non lo farò. «Voi volete che io chiami la palude, / di volta in volta, / mare in perenne moto / e solida terraferma. / No, non lo farò». Irrecuperabile. «Se non l’aria sorniona e gli ammiccamenti, / propri delle cosiddette persone intelligenti, / sorridessi alle vostre bugie / e bruciassi qualche grano d’incenso / o almeno me ne stessi zitto, / allora sì che sarei / un uomo con cui si può ragionare».

 

UN GENIO FA LA SUA DICHIARAZIONE D’AMORE. Costretto a terminare il manoscritto de Il giocatore per una data molto ravvicinata, Dostoevskij cerca una stenografa e gli viene assegnata la migliore allieva di una scuola di segretarie, Anna Snitkin, che bussa alla porta del celebre scrittore con il cuore in gola. A quarantacinque anni lo scrittore, ormai logorato da una vita fuori dal comune, sogna tuttavia di cominciare un’esistenza serena, se non felice. Un mese dopo l’arrivo della segretaria, egli le racconta la trama di una novella nella quale un anziano artista conosce una fanciulla e poi chiede ad Anna se pensa che psicologicamente, in un caso simile, sia possibile un amore vero. «Rispondete come se io fossi l’artista e voi quella cui egli domanda di diventare sua moglie» – dice Dostoevskij. «Io vi risponderei che vi amo e vi amerò tutta la vita», rispose Anna, con la voce che esprimeva un sentimento profondo, guardandolo diritto negli occhi.

 

BELLO E INVINCIBILE È L’INTELLETTO UMANO. «Bello e invincibile è l’intelletto umano. / Né inferriata, né filo spinato, né libri al macero, / né verdetto di bando possono niente contro di lui. / Egli stabilisce nella lingua le idee generali / e ci guida la mano, scriviamo quindi con la maiuscola / Verità e Giustizia, e con la minuscola menzogna e offesa. / Egli sopra ciò che è innalza ciò che dovrebbe essere. / Nemico della disperazione, amico della speranza. / Non conosce Ebreo né Greco, schiavo né signore, / affidandoci in gestione il comune patrimonio del mondo dall’immondo strepito di parole slabbrate / salva frasi austere e chiare. / Egli ci dice che tutto è sempre nuovo sotto il sole. / Apre la mano rappresa di ciò che è già stato. / Bella e giovane assai è Filo-Sofia / e la poesia sua alleata al servizio del Bene» (Czelaw Milosz).

Leggo e rileggo da anni Milosz ed è una gioia sempre nuova ritrovare nei suoi versi il senso della dignità umana e la fierezza dell’umile testimone.

 

 

8 agosto 1991.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Le lacrime insopportabili. Non sopportiamo sempre le lacrime che facciamo scorrere. Sofferenza e psicologia. Come arriva più avanti la sofferenza rispetto alla psicologia! Lettura e auto-conoscenza. Ogni lettore, quando legge, è lettore di se stesso.  (Marcel Proust) Dalla parola degl’inizi al bla bla. La parola delle origini aveva il potere di nominare le cose ponendole in rapporto con la Parola creatrice. La Parola che degenera, perdendo il contatto con il concreto e con la sorgente divina, si riduce a parola vana, ad abisso della ciarla (Levi Appulo). Galoppa il mio cuore. Galoppa il mio cuore, dice una fanciulla, / quando penso al mio amore. / Non mi permette di camminare come una persona umana / e trasalisce (lirica d’amore dell’Egitto del Nuovo Regno, 1500-1000 a. C.). Il rancore come auto-accusa. Ci sono delle persone che per tutta la vita serbano rancore ai poveri perché non han dato loro niente (Karl Kraus).

Poveri autori che sono ricchi. L’autore povero non ha molti quattrini; il povero autore non ha molto ingegno. Molti poveri autori sono ricchi (Niccolò Tommaseo). Perché è impossibile dichiararci sartriani. Sartre è saltato da una rivoluzione all’altra, cercando sempre la libertà nella prossima, senza preoccuparsi delle dittature e catastrofi provocate dalla precedente (Elena Guicciardi). Al di là del culmine dell’arte. Al di là del culmine dell’arte c’è il naturale (Blaise Pascal). Se è falsa modestia. La modestia è il desiderio di farsi lodare due volte (Luc de Vauvenargues). Gloria e vana gloria. Non sai tu che la gloria vera non ha nulla a che fare con la vana gloria? (Gerlac Peters, mistico dei Paesi Bassi, morto a 33 anni nel 1411, anima gemella di Tommaso da Kempis, l’autore dell’Imitazione di Cristo).

 

CERTI SORRISI IN TV… . Una delle cose che più indispone è cogliere la fulminea trasformazione dei volti di tanti alti esponenti della politica italiana – in riunioni di Governo o di partito – non appena avvertono di essere ripresi dalle telecamere. Scompaiono all’istante ghigni, malumori e divisioni e i signori della politica sorridono felici. Di che cosa poi possono rallegrarsi, di questi tempi, se sono lì a discutere dell’una o dell’altra sciagura toccata in sorte al Paese e se la vuota genericità dei loro comunicati attesta, ancora una volta, confusione di idee, alto tasso di litigiosità e strutturale impotenza ad approntare una terapia adeguata alla gravità del male? Che cosa, ad esempio, ci sia da ridere nel quantificare la voragine del debito pubblico ad un livello di altissimo rischio e la volta successiva nel moltiplicare per cinque-sei volte quella cifra? E tuttavia, di qualsiasi cosa si discuta, i sorrisi larghi e smaglianti e la cordialità più fraterna sono monotonamente esibiti quasi a suggerire ai telespettatori che, con la classe politica che si trova, l’Italia comunque se la caverà.

Certamente non mancano nel Governo e nei partiti persone che denunciano lo stato effettivo delle situazione e i danni incalcolabili che arreca in ogni campo la politica delle mezze misure e del «tirare a campare»; ma i «cinici» sono sicuri che non saranno certo i «piagnoni» a prevalere. E perché mai gli italiani dovrebbero cominciare proprio adesso a prendere sul serio le persone serie? Il futuro a cui va incontro il nostro Paese, malgrado l’alto sviluppo economico, è sempre meno abitato dalla speranza. Anche di questo momento come di altri della nostra storia, vien fatto di dire: «tragico, ma poco serio».

 

SHAKESPEARIANA. Ciò che non capiscono i responsabili della vanificazione della pena. Siamo noi a ordinare le azioni criminose quando assicuriamo il salvacondotto alle male azioni e non la punizione (Misura per misura, Atto I, Scena III). Si può mutare il male in bene e viceversa. Alcuni s’elevano col peccato, altri cadono a causa della loro stessa virtù (ibid., Atto II, Scena I). La tentazione più pericolosa. Pericolosa fra tutte è la tentazione che ci stimola a peccare per amore della virtù» (ibid., Atto II, Scena II). Sapere andare incontro alla morte. Poiché devo morire, voglio andare incontro alla morte come una sposa e stringerla tra le mie braccia (ibid., Atto III, Scena I). L’immondizia che qualcuno si porta dentro. Se si calcolasse l’immondizia che ha dentro, si vedrebbe una cisterna profonda come l’inferno (ibid., Atto III, Scena I). Chi non è coraggioso non può essere buono. La virtù è ardita, la bontà non è mai pavida (ibid., Atto III, Scena I).

 

 

15 agosto 1991.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Ci manca una cultura unitaria e schiettamente democratica. Nel Congresso americano è possibile avere opinioni diverse, ma in un ambito di valori comuni profondamente condivisi: condizione assolutamente assente in Italia (Salvatore Veca). Il “socialismo reale” onnipresente nelle industrie di Stato. Nonostante l’Italia di De Gasperi e di Einaudi abbia imboccato, oltre quarant’anni fa, il cammino dell’economia di mercato, veri e propri elementi di stalinismo economico inquinano oggi il nostro Stato, sì che le prevaricazioni del sistema politico su quello produttivo sono continue e multiformi (Guido Carli, ministro del Tesoro).

Se lo dice la Pravda. Per settantatre anni, parlando di proprietà privata, abbiamo dato a questo concetto toni unicamente negativi. Certo è difficile conciliare la proprietà privata e il sogno dell’uguaglianza umana. Ma un sogno resta un sogno e i risultati disastrosi di quel sogno sono realtà (numero del 19 luglio 1991). Chi ti loda a vuoto. Un fallace inganna un fallace, un vano un vano, un cieco un cieco; e veramente ti copre di confusione chi ti loda a vuoto. Poiché quanto ognuno è agli occhi di Dio, tanto è non più, come diceva l’umile san Francesco (Tommaso da Kempis).

 

IL MESTIERE DELL’ATTORE. Ottanta attori, cinquanta uomini e trenta donne, dai più ai meno noti, dai «grandi vecchi» agli emergenti, sono i protagonisti di Identikit dell’attore italiano, originale libro inchiesta edito dalla Rosenberg & Sellier. Lo ha curato Guido Davico Bonino, per undici anni critico teatrale de La Stampa, docente di letteratura italiana all’Università di Torino. Ciascun attore ha risposto a quindici domande, una fitta «griglia» che consente di esplorare a fondo una professione, una condizione umana. Le risposte più intelligenti e persuasive sono di due attrici.

«Non mi interessa sapere che cosa gli altri pensano del mestiere dell’attore, – dichiara Valeria Moriconi – se lo trovano inutile e superato: mi riguarda, invece, sapere che cosa io penso di questo mestiere, giorno dopo giorno; se l’amore e la voglia di farlo sono sempre intatti; se il crederci va al di là della gratificazione dell’applauso; se le mie scelte hanno aiutato un po’ anche gli altri a studiare se stessi e a capirsi meglio. Continuando così, si arriva a conquistare una sorta di onestà che incute rispetto e rende inattaccabili. È la forza del disarmo disarmante, come è sempre stato l’attore».

Esiste una funzione civile dell’attore nella società di oggi? È giusto portare in palcoscenico il proprio impegno politico? «Operando delle scelte non riduttive», afferma Mariangela Melato, «si può svolgere una funzione, sia pure non importantissima, per migliorare lo stato delle cose in base ad un proprio credo personale. Il pubblico avverte la coerenza, la pulizia di fondo, e questo è più importante dei messaggi diretti, del farsi portavoce di questo o di quel partito politico. La continua tensione a migliorarsi migliora anche tutto ciò che ci sta intorno». È finito l’asservimento all’ideologia e con esso l’esibizione ideologica. L’impegno è diventato più puro ed eticamente fondato. Come non rallegrarcene?

 

SAGGEZZA POPOLARE LATINA. Rileggo alcuni proverbi latini e ne cerco gli equivalenti in italiano. Nescis quid vesper serus vehat, «non sai che cosa la tarda sera porti», è reso molto meno poeticamente in italiano con «non dire gatto finché non l’hai nel sacco». L’epigrafico sat cito si sat bene, «abbastanza presto, se abbastanza bene», corrisponde al più celebre adagio festina lente, «affrettati lentamente», giacché, come noi diciamo, «il presto è nemico del bene». Eloquente e inconfutabile la constatazione che «la necessità non va in vacanza», necessitas caret feriis. L’obbligo di prenderci cura, di persona, di ciò che in primo luogo è affidato alle nostre responsabilità è espresso dalla contrapposizione tra la fronte e la nuca, tra avere dinanzi alla mente le cose e averle alle spalle: frons occipitio prius, «la fonte viene prima della nuca».

 

 

22 agosto 1991.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Sembra tramontare e invece non tramonta mai. Ho la ferma convinzione che il nostro spirito sia assolutamente indistruttibile… Simile al sole che ai nostri occhi terreni sembra tramontare e che invece non tramonta mai, ma continua a splendere ininterrottamente (Johann Wolfgang Goethe). Di norma la donna lavora più dell’uomo. Le donne possono fare tutto, e gli uomini fanno tutto il resto (Proverbio russo). Tanto lavoro per nulla. Verso la fine degli anni Sessanta fu prodotto un modello econometrico di previsioni sull’economia mondiale, con un numero straordinario di dati quantitativi. Questo modello aveva un piccolo errore: non era stato incluso, tra le variabili, il prezzo del petrolio (Alberto Quadrio Curzio). Giovani, non arrendetevi. Quello che vedo crescere, e temo, è un pessimismo diffuso nelle giovani generazioni, una sorte di apatica assenza di aspettative positive. La filosofia deve oggi aiutare la gioventù a proporsi di nuovo delle vie da percorrere e dei fini per cui vivere (Hans Georg Gadamer).

La forza segreta della storia. Colui che paga ha le mani sul timone della storia (Giovanni Crisostomo). Oltre noi stessi. I nostri affetti vanno oltre noi stessi… Noi non siamo mai nei confini di noi stessi, siamo sempre al di là. Fa’ il tuo dovere e conosci te stesso. Fa’ il tuo dovere e conosci te stesso. Ciascuna di queste due proposizioni racchiude generalmente tutto ciò che dobbiamo fare, e racchiude pure l’altra. Chi volesse fare il suo dovere sa che la prima cosa di cui ha bisogno è conoscere ciò che egli è e ciò che gli conviene. (Michel de Montaigne)

 

UNA CIFRA SALVA IL DIRITTO, UN AGGETTIVO LO TRASFORMA IN UNA MERA OPINIONE. È giunta la cosiddetta «interpretazione autentica delle norme sulla legge antidroga». Essa prevede, secondo una dichiarazione del ministro Martelli, che saranno i giudici d’ora in poi a valutare se la droga scoperta a un individuo superi di «un’apprezzabile quantità» la dose media giornaliera.

Prima c’era la «modica quantità» e fu per sconfiggere l’ambiguità di quella dizione che principalmente si fece la nuova, contrastatissima legge. Si disse che occorreva stabilire la dose media giornaliera e si volle fissarla con cifre precise (0,5 grammi di hascisc; 0,10 di eroina; 0,15 di cocaina). Ora si parla di «apprezzabile quantità superiore alla dose media» e basta. Ma così facendo, la presunta «interpretazione autentica» della legge cancella la legge stessa proprio in ciò che più la caratterizzava. Si torna, cioè, al punto di partenza, scaricando tutto sui poteri discrezionali del giudice.

Si fa finta di non vedere che «quando si parla di dosi – come osserva Marcello Pera – una cifra salva il diritto, mentre un aggettivo lo trasforma in un’opinione». La domanda che ci tormenta è: in questo modo dove va a finire la certezza del diritto? E perché chiamare «interpretazione autentica» una norma che viene semplicemente a rendere inesistente la legge votata un anno fa e voluta con particolare accanimento proprio da quel Partito socialista a cui pure appartiene il ministro Martelli? Se si voleva essere più tolleranti, bastava elevare la dose media giornaliera; ed invece, eccoci dinanzi ad un’altra scappatoia che autorizzerà le più inique disparità. Se poi si voleva cambiar rotta, allora perché ricorrere ad autentiche ipocrisie e bugie? E infine: che ci stanno a fare tanti giuristi e avvocati nel nostro Parlamento, per autorizzare uno scempio del diritto così sistematico e avvilente?

 

CONFUTARE CON UN SORRISO. La «battuta» è una sintesi estrema di comicità, assai difficile. Riesce solo quando il controsenso su cui fa leva non fa che cogliere in flagrante o la protervia o l’insipienza, confutandole appunto con il sorriso che suscita. Il sorriso delle ragione.

Forse le «battute» che ci sono più necessarie sono quelle che ci sollecitano all’auto-ironia. Come questa, ad esempio: «Ho dei pensieri che non condivido» di Pino Caruso, o quella di Altan: «Mi piacerebbe sapere chi è il mandante di tutte le cazzate che faccio». Chi vuol illudersi sulla sua inossidabile giovanilità farà bene a ricordarsi, col Saint-Beuve, che «invecchiare è ancora il solo mezzo che si sia trovato per vivere a lungo», o più modestamente con Bob Hope: «Capisci che stai invecchiando quando le candeline costano più della torta».

Ci sono poi battute che da sole valgono intere dissertazioni, o che starebbero bene anche nelle straordinarie Lettere a Lucilio di Seneca, il più umano dei filosofi latini. «La vita – scrive Martin Short, che è un attore e non un filosofo – è come la doccia: un giro sbagliato e sei nell’acqua bollente». E Lec Stanislw raccomanda vivamente a chi abbia tendenze adulatorie: «Ai nani occorre fare un inchino molto basso», se si è proprio costretti a farlo per ragioni che non dipendono dal nostro volere. Né va trascurata la finissima osservazione di un barista di New York: «La gente viene qui per annegare i propri guai. Ma il problema è che i guai sanno nuotare».

 

 

29 agosto 1991.

 

COMUNISTI, ANTICOMUNISTI E FINE DEL COMUNISMO.

 

ANDREOTTI: NON SOLO «PRUDENZA». Nel giorno in cui in Urss la reazione comunista, non paga di tenere in pugno da tempo Gorbaciov, veniva allo scoperto e tentava il colpo di Stato, in tutto il mondo centinaia di milioni di persone sono rimaste incollate al televisore, tremando dinanzi all’orribile prospettiva di un ritorno alla dittatura per i popoli dell’Unione Sovietica e ai guasti della guerra fredda.

Ebbene il nostro presidente del Consiglio da Cortina d’Ampezzo ci ha fatto sapere che non si sentiva di esprimere alcun giudizio su quanto stava accadendo, trattandosi di «un fatto interno dell’Unione Sovietica» (espressione con cui voleva far intendere che non era affar nostro interferire in casa altrui); e poi al povero Gorby le cose in fondo erano andate male del tutto perché «altri prima di lui ci avevano lasciato la pelle». Affermazioni queste sentite, ci assicurano, dall’80% degli italiani nelle varie edizioni del telegiornale di lunedì 19 agosto.

Mercoledì 21 agosto, tutt’altra musica. Dopo il fallimento del golpe, anche Andreotti poteva parlare non come oracolo della Ragion di Stato, ma come noi comuni mortali; e tuttavia, anche mercoledì la sua preoccupazione principale era quella di giustificare ad ogni costo la cosiddetta «cautela» di due giorni prima. La «cautela» c’era, sì, ma non era freddezza o cinismo; era dettata solo dall’obbligo di non pronunciarsi prima di aver sentito i partners europei. Anzi lui aveva subito pronosticato su un settimanale la resurrezione di Gorbaciov, anche se non in tempi così ravvicinati. Il tutto inframmezzato da battute e sorrisi ironici. No, caro presidente, così non va. Io spero che siano molti gli italiani che avvertano come un peso per la loro coscienza il fatto che la sola cosa che moralmente e politicamente era necessario dire il 19 agosto – la condanna senza riserve e attendismi del golpe comunista – non c’era proprio nelle dichiarazioni del presidente del Consiglio.

 

«CINICA EUROPA, IMPARA DA BUSH», L’UNITÀ DEL 22 AGOSTO 1991. Anche sul quotidiano che per anni e anni è stato una specie di Pravda in edizione italiana si possono leggere in questa memorabile settimana della rivoluzione democratica russa cose del genere. In questi giorni nessun parlamentare di Fondazione comunista o del Pds-exPci ha osannato ai golpisti comunisti, perlomeno in pubblico. Nessuno ha gridato «Viva l’Armata Rossa!» come fece l’onorevole Giancarlo Pajetta, «il ragazzo rosso», quando nel novembre del ‘56 i carri armati con la stella rossa massacrarono gli ungheresi. Anzi, l’articolo centrale di prima pagina il giorno dopo il fallimento del colpo di Stato comunista in Urss recava il titolo già citato ed esponeva considerazioni che era follia sperare apparissero mai nel «giornale fondato da Antonio Gramsci», il Lenin italiano.

«L’ultima battaglia combattuta per le vie di Leningrado (corrige: San Pietroburgo) e sulle piazze di Mosca – scrive lucidamente Angelo Bolaffi – ha chiuso un’intera epoca storica. Ieri, 21 agosto, si è conclusa una grande tragedia: quella del ‘900 europeo… La fiducia nei valori della libertà e della democrazia dimostrata da Eltsin ha avuto ragione del cinismo della realpolitik: sono loro ad aver capito che Mosca non era Praga del ‘68 e che pertanto l’Urss non poteva e non doveva essere normalizzata».

«Mentre molti politici europei – per lo meno quelli del continente – già si apprestavano ad abbandonare al suo destino il processo di rinnovamento dell’Urss, Bush sceglieva di seguire l’esempio dei suoi grandi predecessori antiisolazionisti: con la stessa convinta coerenza di interventista democratico con la quale si era opposto all’annessione del Kuwaqit da parte di Saddam Hussein ed aveva poi imposto la riapertura del dialogo in Medio Oriente, si è immediatamente schierato dalla parte della difesa dei diritti delle autorità legali e costituzionali della Russia. E tale scelta ha funzionato non solo da possente deterrente nei confronti dei golpisti sovietici, ma anche di una pericolosa, possibile deriva da parte del vecchio continente».

La conclusione di Bolaffi, che ci trova pienamente consenzienti, deve però aver scombussolato, vecchi e nuovi lettori dell’Unità, per decenni nutriti quotidianamente di odio antiamericano, odio esploso alla luce del sole anche nei primi tre mesi di quest’anno con la guerra nel Golfo. Di più Bolaffi dice ai compagni che occorre chiudere definitivamente non solo con lo stalinismo o il neo-stalinismo, ma con il comunismo in quanto tale, in quanto ideologia totalitaria e prassi di dominio politico. «L’ingloriosa fine del tentativo di reimporre in Urss un regime dittatoriale, e in tal modo di bloccare il processo di superamento della divisione del mondo in due campi contrapposti, è l’ultima, definitiva conferma della irriformabilità del sistema comunista. Come già negli altri Paesi dell’Est, anche dall’Urss viene la riprova che la riforma di quella società è radicalmente incompatibile con le pretese totalitarie dell’ideologia e della pratica di potere del partito comunista».

Tutto questo è molto giusto. Ma noi che avevamo intravisto questi esiti (erano inscritti nelle premesse, cioè nei principi stessi del marxismo-leninismo) e che abbiamo sempre resistito a viso aperto alla più atroce menzogna del nostro secolo, fino a ieri non eravamo forse additati al disprezzo come retrogradi incapaci di cogliere il senso della storia?

 

24 AGOSTO 1991: CONCLUSA LA STORIA DEL COMUNISMO. Non avrei mai potuto sperare di vedere con questi miei occhi la fine di un incubo chiamato comunismo, che era diventato dal novembre del 1917 un discrimine per tutti. E invece la rivoluzione democratica della terza settimana d’agosto ha incalzato Gorbaciov e lo ha costretto alla scelta che più gli ripugnava. Alle ore 22 di sabato 24 agosto il mondo veniva a sapere dal telegiornale sovietico che il segretario generale del Partito comunista sovietico si era dimesso dal Pcus e ne aveva confiscato i beni, invitando il Comitato centrale a sciogliersi. Gli emissari del partito padre e padrone erano cacciati finalmente dall’esercito, dal Kgb e dagli alti ranghi della burocrazia. «Fuori il partito dallo Stato», ecco la frase che sintetizza meglio di ogni altra la morte del comunismo nell’Urss.

«È l’ultimo atto – scrive l’Unità del giorno seguente – di quella storia iniziata il 7 novembre del 1917 e che ha segnato questo secolo in tutti gli avvenimenti che lo hanno percorso… Tutto ciò oggi, è finito. Davvero si chiude un’era della storia dell’Europa e del mondo». L’aver separato il socialismo dalla democrazia, dall’esercizio dei diritti di libertà delle persone e degli organismi sociali, è la ragione vera del crollo del comunismo.

Sì, dagli eventi che si sono rapidamente succeduti dal 4 giugno 1989 – Piazza Tienamen e cancellazione di ogni candidato comunista nelle prime elezioni parzialmente libere in Polonia – alla resa di Gorbaciov alla richiesta di cacciare il Pcus dallo Stato e di non concedergli più potere e corsie preferenziali nella lotta politica, dopo settantaquattro anni di dittatura e di oppressione, viene «una lezione chiara» che l’Unità del 25 agosto così sintetizza: «Soltanto nella democrazia potranno essere costruite le risposte alle domande di giustizia, di libertà, di affermazione individuale che pone l’umanità». Ma questa certezza, a cui oggi gli ex-comunisti sono finalmente pervenuti, non era la ragione profonda del rifiuto del comunismo da parte dei democratici?

In questi giorni qualcuno ha ricordato il «coraggio temerario» di Berlinguer, che aveva constatato l’esaurirsi della spinta propulsiva del comunismo in Urss; ma, al di là dell’uso iperbolico degli aggettiva caro ai retori di ogni parte, i problemi veri del comunismo riguardano non la sua efficacia storica, bensì la falsità dei suoi principi, la natura totalitaria del suo sistema. A noi basterebbe che ci si dicesse apertamente, senza i soliti contorcimenti, una cosa semplice: «Noi, ex-comunisti, non abbiamo più nulla a che fare con quella ideologia totalitaria e manichea che obbliga i credenti in essa a trasformare il confronto politico in atto di permanente guerra civile. Quell’ideologia si chiama marxismo-leninismo ed è l’unica vera matrice di ogni movimento autenticamente comunista».

Insomma chi diventa democratico, lo diventa perché non è più comunista. Occorre perciò smetterla, se la conversione alla democrazia è sincera, di ripetere con albagia, ad ogni occasione, che i comunisti italiani non hanno nulla della loro storia di cui vergognarsi, da Gramsci a Occhetto, nulla a cui rinunziare. Un linguaggio del genere, così fastidiosamente auto-giustificazionistico, non lo può usare nessuno. Nessun uomo e nessun gruppo sociale lo può. Tanto meno i comunisti, o gli ex-comunisti in cammino verso la democrazia. Altrimenti, come si spiega quell’ex?

 

 

5 settembre 1991.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il grido di un poeta. Amate l’esistenza delle cose più delle cose stesse. L’uomo ha bisogno del silenzio, ma lo fugge. Non sopportiamo tendersi il silenzio. / L’imperfezione dell’anima, in fondo, dà fastidio! / In mezzo allo scompiglio è apparso il dicitore / e noi lo abbiamo accolto con calore: Avanti! La voglia di dire la verità. E quanta voglia ho di lasciarmi andare, / di fare un po’ di chiacchiere, di dire la verità, / di prendere qualcuno per mano e dirgli: / Sii gentile, visto che andiamo per la stessa strada. Nascita del sorriso. Quando sorride un bambino, / gli angoli delle sue labbra giocano gloriosi / e non si può dire quanto sia beato. Il richiamo del cielo. Quando, finita la mia parte, morrò, / amico in vita di tutti i viventi, / risuoni più largo e più alto il richiamo / del cielo nell’arco del mio petto. (Osip Mandel’stam, ebreo russo morto nel 1939 in un lager comunista dell’Estremo Oriente)

Umana ambivalenza. Natura cattiva, bassa e cieca, tu sai essere cara e cortese; / io lo voglio gridare, / sai essere cara, cara e cortese. Il porto del cielo. Ho desiato andare / ove le fonti non vengono meno. L’abito della perfezione. Eletto silenzio, canta per me / sul tuo flauto conducimi a calmi pascoli, / sii tu la musica che io curi di ascoltare. / Non formate labbra alcun pensiero, siate / soavemente mute: / Il silenzio soltanto vi fa più eloquenti. Perché pregare. La preghiera cercherà l’eterna misericordia. (Gerard Manley Hopkins, 1844-1889)

 

IL FALSO ASSOLUTO: LA MILITANZA IDEOLOGICA. Vittorio Foa ha ottant’anni ed è senatore della Sinistra indipendente. Incarcerato fra il 1935 e il ‘43 per attività antifascista, fu tra i fondatori del Partito d’azione. Quel raggruppamento, di cui grande fu nella Resistenza l’apporto alla guerra partigiana e alla elaborazione politica, era intimamente scisso fra l’ultrasocialismo di Emilio Lussu e la rigorosa fede democratica di Ugo La Malfa e alla prima consultazione elettorale, il 2 giugno del ‘46, non raccolse che l’1,46%. Foa, deputato socialista e poi padre dello scissionista Pdup, divenne con Di Vittorio e Santi uno dei leaders della Cgil. Meritano di essere meditate le riflessioni conclusive di una sua intervista pubblicata dalla Stampa del 13.7.1991.

«La mia vita è stata segnate – dice Foa – da un senso del dovere: il dovere di dare una risposta al nazifascismo. E io l’ho data. Ho fatto ciò che dovevo fare. Ma è stato come se mi trovassi su delle rotaie, per cui mi domando se non ne fossi limitato. Hitler mi costrinse a una linea di replica, ma quella replica doverosa era un sentiero stretto. Per cui oggi mi domando non tanto se ho perduto delle cose, ma se ci fossero cose che non ho potuto trovare. Per esempio, io non ho mai accostato l’idea religiosa e so che qualcosa ho perduto… Sono un laicista, un figlio dell’illuminismo, però è possibile che io non capisca alcune cose. E capisco di non capirle. Io mi illudevo che la militanza politica fosse la pienezza della vita, invece ci si può rendere conto che per perdere la militanza può voler dire guadagnare altre cose».

 

«A BRESA Î SGÒBA, A ROMA Î RÒBA». Queste parole le ha scritte a caratteri giganteschi una mano ignota nei pressi di Piazza Cremona, a Brescia. Lo slogan è molto efficace e, nella sua perentorietà, catturante. Ma fino a che punto è vero?

Sulla prima affermazione non ci piove: a Brescia si lavora sodo, eccome. La seconda – a Roma si ruba – non vale né sempre né per lo più.

Mi assale poi un dubbio atroce: e se, a Roma, tra i grandi ladri, tra i saccheggiatori emeriti del denaro pubblico, tra gli onnipotenti «Signori delle tangenti» ci fosse un qualche settentrionale e, perché no, un qualche bresciano?

 

SHAKESPEARIANA. Il premio dell’amore. Più amore a te concedo, più ne possiedo (Romeo e Giulietta, Atto II, Scena II). Dedizione amorosa e purezza. Il timido amore, fattosi ardito, veda nell’atto dell’amore sincero un gesto di semplice pudore» (ibid., Atto III, Scena II). Che cosa c’è in un nome? Quella che noi chiamiamo rosa, anche chiamata con un’altra parola avrebbe lo stesso odore soave (ibid., Atto II, Scena II). I messaggeri più veloci. I messaggeri d’amore dovrebbero essere i pensieri, che corrono dieci volte più veloci dei raggi del sole (ibid., Atto II, Scena V).

 

 

12 settembre 1991.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. I nani che abbaiano. Quando un critico vuole emergere ad ogni costo, a volte fa come quei cani di piccola taglia che, per sembrare grandi, abbaiano come quattro pastori bergamaschi messi insieme e cercano sempre di mordere (Edda Neri). Autolesione. Se vivo per costruire trappole all’altro, l’altro potrà forse cadere in una di quelle trappole, ma io vi sono già caduto (Levi Appulo). L’ultimo degli innumerevoli “scandali-tipo” di questa nostra degenerata democrazia. Il coperchio è stato sollevato e già dal pentolone delle grandi opere pubbliche incompiute di Ancona e Macerata escono i dati che confermano la vastità dello scandalo. Gli ingredienti della ennesima maxi-truffa ai danni dello Stato, per la quale il costruttore Longarini è finito sotto inchiesta, sono quelli classici in materia di appalti: prezzi esorbitanti, revisioni astronomiche dei costi, tempi di esecuzione infiniti, mancanza di controlli da parte del Ministero dei lavori pubblici, coperture interessate di amministratori pubblici (La Repubblica del 14.8.1991). L’attuale situazione dell’Unione Sovietica. La nostra situazione fa pensare al risveglio di un enorme vulcano che dormiva. Avvertiamo le scosse, assistiamo all’eruzione di lava, alle pericolose emissioni di gas tossico, ma qual è il vulcanologo capace di dire per quanto tempo durerà l’eruzione e come finirà? Io certamente non sono in grado di pronunciarmi (Il giudizio è di Eduard Shevardnadze, già ministro degli Esteri e protagonista della perestroika, uscito nel luglio scorso dal Partito comunista sovietico. Lo si legge nell’articolo del 14.8.1991, Un giorno strapperemo il potere al Pcus…).

 

KARL POPPER: TUTTI I COMUNISTI, DA LENIN IN POI, LA PENSAVANO COSÌ. «Meraviglioso, meraviglioso!». L’esile voce di Karl Popper, intervistato da Riccardo Chiaberge dopo la vittoria della rivoluzione democratica in Urss, tradiva una gioiosa eccitazione. Il golpe di Mosca sbaragliato dalla resistenza popolare, il leviatano comunista estromesso dal potere in poche ore, la falsa profezia di Marx e di Lenin finita nella discarica della storia. Per il filosofo austriaco, che a partire dagli anni Trenta ha compiuto ininterrottamente la sua battaglia contro il totalitarismo nazista e comunista, per uno dei più cari maestri del pensiero liberal-democratico, è il sogno di tutta la vita che si avvera allo scoccare del suo ottantanovesimo compleanno. «Ora spero – ha dichiarato il grande vegliardo – che pubblicheranno La società aperta e i suoi nemici anche in Unione Sovietica. La traduzione è pronta e manca soltanto il disco verde dell’autorità».

Per un breve periodo, tra i quindici e i sedici anni anche Popper fu attratto dal pacifismo della propaganda leninista; ma ben presto vide chiaro. «Lenin – precisa Popper – mi aveva colpito per l’acutezza di alcune sue osservazioni sull’idealismo filosofico di cui aveva colto tutta l’assurdità. Ma anche Lenin era marxista e da buon marxista sapeva usare il linguaggio come un mezzo per ottenere certi risultati pratici, non essendo interessato alla ricerca della verità. Alla radice della mentalità comunista, infatti, c’è proprio questo: la certezza che la profezia di Marx si avvererà e che tutto è giustificato se serve alla causa. Anche la violenza, l’assassinio, la guerra nucleare. Tutti i comunisti, da Lenin in poi, la pensavano così. Anche Kruscev, che voleva annientare il capitalismo e portò il mondo sull’orlo della guerra nucleare nei giorni della crisi di Cuba. Persino il grande Sacharov, finché fu comunista, fu con Stalin e con Beria. In seguito cambiò idea, certo, ma troppo tardi» (Corriere della Sera del 28 agosto 1991).

 

BEN UMILIANTI «PROLOGHI» ALL’ANTIGONE E AL TIESTE. Come prologo alla rappresentazione dell’Antigone di Sofocle e al Tieste di Seneca nel teatro greco di Segesta, questa estate, i rispettivi registi, Jean-Marie Straub e Walter Pagliaro, hanno raccomandato al pubblico, attraverso l’altoparlante, di non profanare né il luogo, né lo spettacolo lasciando intorno «testimonianze della nostra cultura» (cioè lattine, cicche, pacchi vuoti di sigarette, giornali, ecc. ecc.) e usando radioline e telefonini portatili durante lo spettacolo. Perché un dramma non dovrebbe meritare lo stesso rispetto meditante di un concerto di musica classica?

 

SHAKESPEARIANA. C’è, ma chi la conosce? C’è una sorta di cifra nella tua vita, che all’osservatore rivela appieno la tua storia (Misura per misura, Atto I, Scena I). Il politico che corrompe. Tu sei come quel santocchio di pirata, che si mise in mare coi dieci comandamenti, ma ne rischiò uno, Non rubare» (ibid., Atto I, Scena II). Per i miopi seguaci della realpolitik. Non giudicare impossibile quello che ora sembra improbabile (ibid., Atto V, Scena I). Il pedante lo fa molto bene. Ogni pedante sa sdottorare magistralmente (Otello, Atto I, Scena I). L’essere e il sembrare. Gli uomini dovrebbero essere quello che sembrano; o se no, non sembrare neppure uomini (Otello, Atto III, Scena III).

 

 

19 settembre 1991.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il mistero. Sia atteso il mistero. / Io lo saluto i giorni che incontro, / lo adoro quando lo comprendo. Che la pioggia giunga alle radici. Mandami, o Signore della vita, / manda la pioggia / alle mie radici. I poeti e la preghiera. Le migliori preghiere sono scritte dai poeti, anche se in altre loro composizioni con il buono si mescola una forte dose di insensatezza e qualche tratto di ribellione. (Gerard M. Hopkins)

Dubbio invincibile. Chi è affettato, chi è sempre terribilmente serio, è assai difficile che faccia mai sul serio (Levi Appulo). Ciò che non si trova nei manuali di logica e di metodologia. Uno studio attento dei ragionamenti impiegati dai pensatori creativi e originali, sia nella scienza che nella filosofia, rivelerebbe che essi sono infinitamente più vari di ciò che si può trovare nei manuali di logica o metodologia (Chaïm Perelman). Perché si possa veramente stare ai fatti e venire ai fatti. Il capocomico. Veniamo al fatto, veniamo al fatto, signori miei! Queste son discussioni! Il padre. Ecco, sissignore! Ma un fatto è come un sacco: vuoto, non si regge. Perché si regga, bisogna prima farci entrar dentro la ragione e i sentimenti che lo han determinato (Luigi Pirandello).

 

QUESTA È L’ORA DELLA RIVOLTA MORALE. Nata dall’esigenza di dare una proiezione politica ad alti valori morali, la democrazia può riacquistare la sua vitalità solo attraverso una rinnovata fedeltà alle ragioni per cui è sorta. E se la democrazia tende, invece, a farsi regime e a bloccare il ricambio sociale, se si riduce ad un costoso sistema per l’accapparramento del consenso, se non pone se stessa sotto l’impero della legge, se non si apre ad un’ispirazione etica che garantisca un punto comune di incontro tra le diverse forze politiche al di là dei meschini giochi di convenienza? Allora la rivolta morale contro i traditori della democrazia diventa un dovere. Ma per limitare i guasti dello svuotamento etico-politico della democrazia, per imprimere una vigorosa inversione di tendenza per uscire dall’entropia del sistema occorre farsi carico, in ogni campo, dell’obbligo e dei rischi di una partecipazione tenacemente disinteressata e coraggiosa. Se non salveremo la democrazia nella nostra città e nel nostro Paese, il nostro Paese e la nostra città non si salveranno.

 

OCCORRE STRAPPARE NOI STESSI DAL «MONDO DELLA FUGA». Anche chi abbia la volontà di tornare in se stesso e di interrogarsi sulle cose essenziali, oggi più che in passato, deve lottare per ritagliarsi uno spazio interiore, un tempo di riflessione durante la giornata. Eppure, oggi più che mai, tutti abbiamo bisogno di coniugare quei tre verbi in cui Rosmini morente condensò per Alessandro Manzoni, accorso a Stresa per riabbracciare un’ultima volta il suo più caro amico, le vie per un approfondimento dell’esistenza: «Tacere, adorare, godere».

A un secolo di distanza da quel 1855, nell’immediato dopoguerra, un filosofo svizzero riproponeva in un contesto storico radicalmente mutato quell’alto programma di vita di contro alla divorante dispersione del nostro tempo, analizzando i nostri «modi di fuggire» davanti a noi stessi e davanti a Dio. Ho riletto in questi giorni il libro forse più celebre di Max Picard, La fuga davanti a Dio, tradotto nel 1948 per le Edizioni di Comunità. La difficoltà propria del nostro tempo al formarsi di persone che abbiano una salda vita interiore è ben colta sin dalla densa ouverture, nella prima pagina.

«Davanti a Dio l’uomo è fuggito in tutti i tempi. – scrive Picard – Ma tra la fuga di oggi e ogni altra fuga c’è una differenza. Una volta la fede costituiva l’universale, esisteva prima dell’individuo e c’era un mondo oggettivo della fede; la fuga si svolgeva perché il singolo, con un atto di decisione, si staccava dal mondo della fede; era costretto a crearsi da sé la propria fuga, se voleva fuggire.

Oggi avviene il contrario: la fede come mondo esterno, come spirito oggettivo è distrutta, in ogni momento l’individuo deve ricrearsi la fede con un atto di decisione, staccandosi dal mondo della fuga; perché la fuga, non più la fede, esiste oggi come mondo oggettivo, come ethos, ed ogni situazione in cui l’uomo può venire a trovarsi è a priori, senza che l’uomo contribuisca a crearla, una situazione di fuga, ormai naturale. In questo mondo tutto esiste soltanto sotto forma di fuga. È vero che si può trasformare, con un atto di decisione, qualsiasi situazione di fuga nella corrispondente situazione di fede, ma non è facile. Ed anche se a un singolo uomo riesce di strapparsi dal mondo della fuga e di giungere alla fede, riesce a lui solo, al singolo. Il mondo della fuga esiste indipendentemente dalla sua decisione».

 

 

26 settembre 1991.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Impegnarsi in qualcosa di bello e disinteressato. L’onore è irraggiato da un’impresa. Il linguaggio poetico di un’epoca. Mi sembra che il linguaggio poetico di un’opera debba essere il linguaggio corrente, sebbene elevato a ogni grado e in un certo senso reso dissimile da se stesso, ma non un linguaggio desueto. Ciò che ammiriamo in Shakespeare. In fondo è l’ampiezza della sua umana natura che noi ammiriamo in Shakespeare. Giusta e nobile aspirazione. Coltivare esternamente la normalità e desiderare che la bellezza dell’amore emani dal di dentro. (Gerard M. Hopkins)

Il respiro dell’uomo. Il respiro è il nostro memento mori (Levi Appulo). L’interiore distacco perché l’opera sa compita. Non ti è possibile terminare la tua opera, se non sei libero di staccartene. Qui solo la serenità della coscienza. Se avrai meditato sulla Torah, questo ti procurerà un largo compenso, perché il padrone che ti ha assunto è fedele e ti darà il giusto salario. Sappi però che le ricompense dei giusti saranno date nel tempo futuro. (Rav Tarfon)

 

IL CORAGGIO DI ELENA BONNER. Colui che dette l’atomica all’Unione Sovietica, Andrej Sacharov, assicurò al totalitarismo comunista un altro trentennio di dominio, e non solo in quell’immenso Paese. Sacharov allora era comunista. Poi venne la tormentosa fase del dubbio e, nel contempo, dell’illusione assurda di poter lavorare alla umanizzazione del comunismo. Infine, la scoperta della priorità di valore dei diritti umani e dell’impegno etico-politico per la loro difesa a partire dall’Urss, là dove erano più sistematicamente calpestati. Direi che Sacharov è diventato sempre più deciso e intransigente col passare degli anni nel rifiuto del comunismo come ideologia e come prassi di governo, né ha avuto esitazioni nel denunciare gli equivoci di fondo che avrebbero vanificato le speranze suscitate dal nuovo corso gorbacioviano se non ci fosse stata la rivoluzione democratica dell’agosto 1991. Nel vecchio caseggiato in cui Sacharov ha abitato a Mosca, dopo il ritorno dal confino e le persecuzioni subite, all’altezza del primo piano c’è oggi una targa in bronzo, col profilo del grande combattente dei diritti dell’uomo e la scritta: «Qui visse Andrej Sacharov». Sotto la targa vi è una piccola mensola di pietra, su cui la gente viene a posare i fiori.

Ma avrebbe Sacharov affrontato per anni e anni una persecuzione asfissiante e rischi tanto gravi se al suoi fianco non avesse avuto una donna coraggiosa come Elena Bonner? «Quando Sacharov era vivo – ricorda Sergio Romano, l’ex ambasciatore italiano a Mosca – i due formavano un tandem perfetto. Lui si rannicchiava in poltrona, i piedi infilati nelle ciabatte, e denunciava il regime a bassa voce, bevendo il tè a piccoli sorsi. Lei sedeva diritta, fumava, beveva caffè e interrompeva continuamente il marito per correggere, accentuare, commentare. Erano ambedue corridori di fondo, capaci di battersi instancabilmente per un lungo periodo, ma lei a differenza di Sacharov, non riusciva a trattenersi dalla voglia di scattare in avanti, con un giudizio tagliente ed un commento ironico… Ogni qualvolta Elena Bonner scattava in avanti, Andrej Sacharov la guardava con tenerezza spesso le accarezzava una mano». È stata Elena Bonner che mercoledì 21 agosto 1991 ha parlato con Eltsin e con Shevardnadze alla folla dei moscoviti che difendevano il Parlamento russo dall’attacco dei golpisti comunisti. Ed è stata lei a dichiarare: «Non abbiamo difeso Gorbaciov, abbiamo difeso la legge». Ed ancora lei, Elena Bonner, a battersi perché i golpisti d’agosto non siano condannati a morte. «Di sangue il comunismo ne ha versato a fiumi».

 

DUE GIUDIZI SULLA FINE DELLA TRAGICA ILLUSIONE. «Dell’impresa bolscevica non resta e non resterà null’altro che un immenso mucchio di cadaveri torturati, la creazione inaugurale del totalitarismo, la perversione del movimento operaio internazionale, la distruzione del linguaggio che è proprio degli uomini non ancora alienati dall’ideologia, la proliferazione sul pianeta di una quantità di regimi di schiavitù sanguinaria. E, al di là di questo, una possibilità: la possibilità di riflettere su questo sinistro contro-esempio di quel che non è una rivoluzione» (Cornelius Castoriadis, Le monde morcéle, Paris 1990). «La volontà di giustizia dei popoli d’ora in poi non sarà mai più associata al comunismo» (Willi Brandt il 26 agosto 1991 a Rai Uno).

 

 

3 ottobre 1991

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Quando il cuore veglia anche di notte. Mi accade spesso di svegliarmi e comincio a pensare a una serie di gravi problemi e decidere di parlarne col Papa. Poi mi sveglio completamente e mi ricordo che io sono il Papa (Giovanni XXIII). Una raffinata voluttà. Passare per un idiota agli occhi di un imbecille è una voluttà da fine gourmet (Georges Courteline). La regola e l’eccezione. Voi dite che l’eccezione conferma la regola, ma non azzardatevi a dimostrare come. Non è in vostro potere (Gustave Flaubert). L’amico. Un amico è uno che sa tutto di te e nonostante questo gli piaci (Elbert Hubbard). I termini scientifici. Un termine scientifico non spiega neanche un fatto; lo designa. Come potrebbe spiegare una vita? (Marie Yourcenar).

Fare come Copernico. Tutti i buoni scienziati, medici, osservatori e pensatori fanno come Copernico: capovolgono i dati e il metodo, per vedere se non sia meglio (Novalis). Non escludere a priori nessuna via. I progressi nella scienza si ottengono con tanta difficoltà, che deve essere usato qualsiasi espediente utile (William Henry Beveridge).

 

LA FRASE AD EFFETTO DI TURNO: «NON SI CANCELLA LA STORIA». Da impenitente discepolo di Socrate, il più grande tra i nati da donna, ho sempre provato un piacere vivissimo a sgonfiare ciò che Pascal designava come les mots d’enflure,quelle parole e frasi che ci intimidiscono tutti perché, nell’atto in cui vengono pronunciate, pretendono d’imporsi per una propria intrinseca evidenza. In queste settimane di dibattiti, dopo la rivoluzione democratica di agosto in Urss, la frase che abbiamo sentito ripetere in modo ossessivo dai Soloni di più parti, è stata: «Non si cancella la storia». Qualcuno usa quella frase col solito, inguaribile pedagogismo, col tono cioè di chi – malgrado le dure repliche… della storia – crede ancora di avere sempre da insegnare tutto a tutti e di detenere il monopolio della infallibilità; e ciò infastidisce non poco. Ma quella frase che cosa sta propriamente a significare?

Per un verso dice una cosa ovvia; nessuno può negare che ciò che è stato è stato e che si possa prescindere da una realtà di fatto. Per un altro verso, però, si tenta di sovrapporre a questo primo significato, di per sé evidente, il canone storicistico, tutt’altro che evidente ed anzi falso, per cui tutto ciò che è accaduto doveva accadere ed è sempre giustificato. Ed è quest’uso sofistico e aberrante di quella frase, tanto solenne quanto equivoca che deve francamente ripugnare al nostro senso critico e alla nostra coscienza morale. Con quella frase ad effetto ancora una volta chi ha avuto torto si auto-assolve e tenta di negare ai suoi interlocutori la possibilità stessa di giudicare i fatti e di rapportarli ai valori. Liquidare come «meschino» il diritto-dovere di trarre le conseguenze dal bilancio paurosamente fallimentare del totalitarismo comunista, negare ancora oggi alle innumerevoli vittime di quella barbarie mitizzata il diritto a cancellare i segni di settantaquattro anni di oppressione e, dunque, di ingiustizie e di sofferenze, significa solo rimanere nell’ambiguità più repellente, non avere né cuore né onestà intellettuale.

 

LA VEDOVA DEL GIORNALISTA CASALEGNO, ASSASSINATO DALLE BRIGATE ROSSE, SCRIVE A COSSIGA. «Egregio presidente, La ringrazio per il cortese messaggio che ha voluto inviarmi durante il Suo passaggio a Torino. Se ho ben compreso il Suo scritto, Ella ribadisce la Sua ferma convinzione della grazia a chi ha organizzato o ispirato l’assassinio di concittadini – fra i quali mio marito – considerati avversari politici, possa chiudere un tragico periodo storico. Mi consenta quindi di esprimerLe il mio accorato dissenso da tale valutazione. Questo dissenso va oltre il dolore per la perdita di mio marito, dolore che certo non sarebbe lenito dal perdurare dell’espiazione di qualsiasi condanna, ma che comunque risulterebbe esacerbato dal significato implicito di un non-opportuno atto di clemenza. Io ritengo che l’iniziativa di elargire una grazia, che oltretutto l’interessato non si è peritato di chiedere, finirebbe per significare riconoscimento di una qualche liceità a quel genere di politica che si estrinseca nell’ammazzare a tradimento gente inerme in temo di pace». Dedi Casalegno Andreis. (La Stampa 29.8.1991). Siamo con lei, signora Casalegno!

 

 

10 ottobre 1991.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Non lasciamoci automatizzare. Ci minaccia la tendenza a trovare rifugio nella selva dei prodotti tecnologici. Allora il nostro corpo cede progressivamente all’ozio dei muscoli e la mente si esaurisce in alcune funzioni automatizzate, specializzandosi in esse (Levi Appulo). Cittadino e compagno. Fino al 21-24 agosto 1991 era rischioso non usare l’espressione comune della società socialista «compagno», tovarish. Chi non accettava la norma – ed erano tanti – doveva ricorrere a gesti muti, da handicappato. Comunque bisognava evitare con cura la parola «cittadino», grazhdanin. Tutti sanno che il secondino non si sarebbe mai rivolto all’ospite involontario della cella chiamandolo «compagno». Era di rigore, appunto, chiamarlo «cittadino» (Giulietto Chiesa). Avanti, ma in direzioni opposte. Il saggio progredisce verso l’alto, l’uomo volgare progredisce anche lui ma verso il basso (Confucio).

Quello che mi è parso da sempre il compito della filosofia. Quello che mi è parso da sempre il compito della filosofia è penetrare dalla singolarità immediata del dato allo strato dei significati spirituali ultimi (George Simmel). La pretesa anticristiana. Voler dimostrare che l’importante non è la bontà o meno di Gesù, ma il fatto che Gesù in quanto persona non è mai esistito. L’io, gli altri, il cane. Il guaio è che sei troppo rinchiuso in te stesso e non hai più alcuna fiducia negli uomini. Non si può, ammettilo, riporre tutto il proprio affetto in un cane. (Michail Bulgakov)

 

LA SCOPERTA DI BULGAKOV NARRATORE. Può esistere uno scrittore metapolitico se il tempo e il luogo in cui egli vive è dominato dall’ideologia, se nel suo tempo e nel suo luogo la politica è diventata fato e tragedia? Questa è la domanda che mi son posta, e a cui ho cercato di rispondere, dopo aver letto i Romanzi di Michail Bulgakov, ora raccolti dall’Einaudi in un volume della «Biblioteca dell’Orsa». Bulgakov, di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita, morì nel marzo 1940 e pertanto nell’arco della sua vita il periodo del più alto vigore creativo cadde proprio negli Anni Venti o Trenta, nei due decenni più tremendi della storia della Russia-Urss. Di Bulgakov, quando ancora era agli inizi della sua attività, un amico disse con profonda intuizione: «Egli afferrerà il proprio destino, che non potrà sfuggirgli». Ma a quale prezzo!

La fama di Bulgakov fino al 1966 era molto relativa e comunque riguardava solo il drammaturgo; il capolavoro, Il Maestro e Margherita, cominciò a circolare a partire solo da quell’anno e in testi orrendamente mutilati dalla censura. Ancora una volta anche questo grande scrittore fu conosciuto in patria grazie all’edizione integrale e alle traduzioni tempestive e accurate che l’Occidente fece del romanzo. E fu sempre in Occidente che furono pubblicate le altre opere narrative di Bulgakov, solo di recente rese accessibili anche al lettore russo. Michail Bulgakov, come Boris Pasternak, in un grave momento spirituale e non solo politico della vita europea hanno saputo indicare un’uscita di sicurezza per l’uomo e per le sue più profonde esigenze di contro alla pretesa totalitaria del comunismo. Per questa ragione Bulgakov si definiva «scrittore mistico» e nel suo capolavoro il vero protagonista non è il Maestro, che il lettore ama perché lo vede schiacciato dalle gerarchie ideologiche, ma Ponzio Pilato, il procuratore romano della Giudea diventato diverso grazie all’incontro con Gesù. Diversità che lo porta a capire che l’impulso della verità è oltre la ragion di Stato e che la società, gli interessi, il potere non esauriscono l’uomo. Oltre l’orizzonte terreno e dentro di esso c’è ed è operante un’altra sfera di realtà.

 

REVISIONI: LA CADUTA DEGLI DEI. È fresca di torchio quest’ultima Storia della letteratura italiana. Prendo il grosso tomo dedicato al nostro Novecento. Cerco Moravia. Oh guarda, non è più il numero uno, l’immortale denigratore della borghesia italiana, l’immoralista che lavora a suscitare una più alta coscienza morale! «Scrittore pop», si dice di lui. Ha saputo, certamente con maestria, impadronirsi di temi e filosofie alla moda, ma senza il sale e il pepe della vera, grande letteratura. Insomma, la sua è una scrittura «senza slanci e priva di vibrazioni». Molto meglio la sua ex-moglie, Elsa Morante. Molti avevano visto il Moravia migliore nelle prime opere; qui, invece, di lui non si salva nulla.

I giudizi sono di Giulio Ferroni, docente di letteratura contemporanea all’Università di Roma. E l’editrice che ha osato tanto, sia pure due anni dopo la rivoluzione del 1989, è l’Einaudi.

 

 

17 ottobre 1991.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Invito al sano realismo. I pioppi non crescono fino al cielo (Proverbio ungherese). Perché sono moralmente delegittimati. Il ruolo degli intellettuali nelle dittature comuniste è stato quello del secondo violino in un’orchestra (Rita Kaizinger). La spazzatura super-venduta. La politica aggressiva praticata in questi anni dalle grandi case editrici, che hanno fabbricato libri di successo da imporre al consumatore, ha avuto un solo risultato: i best seller hanno sottratto spazio nelle librerie ai libri di qualità. La spazzatura super-venduta ha coperto, fino a nasconderle, le proposte più interessanti (Giovanni Bianco). A che cosa debbono mirare gli studi su di un autore. La biografia, la ricerca storico-letteraria, la psicologia di un autore, la critica letteraria della sua produzione sono vie diverse per introdurre a qualcosa che è oltre: per svelare lo spirito di un autore, chiarirne la profonda intuizione del mondo e ricostruire la sua concezione del mondo (Levi Appulo).

Il Divino e il politico. Tu vorresti il Divino come uno specchio, nel quale giustificare l’esistenza del tuo potere. Ma il Divino è ciò che non ti lascia a te stesso e ti impedisce di dimenticarti. Il Divino è il continuo lacerarsi delle tue maschere. La separazione diabolica. Voi smentite il vostro cuore… Cuore e cervello devono essere in consonanza. Ma voi avete acconsentito alla separazione. (Hugo von Hofmannsthall)

 

VORREI FOSSE IL MIO E IL VOSTRO RITRATTO. «… I suoi interessi erano estremamente agili, vasti, multiformi, ed egli prestava la sua viva attenzione a tutto quel che incontrava lungo il cammino. Curioso e mai stanco d’indagare, uomo dall’intelletto vivace e dall’animo irrequieto, era costantemente spinto a migliorarsi; nei suoi frequenti ripensamenti e dubbi sapeva sempre trovare uno sbocco…

L’ironia in lui sempre si fondeva con un grande sentimento, le sue stoccate colpivano nel segno, talvolta erano caustiche e pungenti, ma mai offensive. Il suo disprezzo non era diretto contro le persone: egli odiava la presunzione, l’ottusità, il conformismo, la monotonia, il carrierismo, l’insincerità e la menzogna; qualunque fosse la forma in cui queste ultime si manifestavano: nelle azioni, nelle lusinghe, nelle parole e persino nei gesti. Nelle sue opinioni era ardito e immancabilmente schietto. L’iniquità per lui mai avrebbe potuto trasformarsi in giustizia. Procedeva con coraggio e abnegazione lungo il cammino intrapreso».

Questo è il ritratto che di Bulgakov traccia nella prima, inedita biografia dello scrittore il suo amico P.S. Popov nella primavera del 1940, all’indomani della morte.

 

DEFINIZIONI. La fluviale intervista di Gianni Minà a Fidel Castro. «La più lunga intervista in ginocchio della storia del giornalismo» (Valerio Riva). La “via Maestra” del fisco in Italia. «Il nostro è un popolo di evasori, ma alla fine, per fretta o per le solite cause di forza maggiore, tutto quello che si riesce a fare è aumentare il carico fiscale sulle spalle di quelli che già pagano» (Giuseppe Turani). Il garantismo all’italiana. «Il garantismo all’italiana obbliga a trattare i diseguali – un ladro di mele, un boss mafioso o un assassino – in modo uguale» (Levi Appulo).

 

L’INATTESA PATATA BOLLENTE. Il Paese in cui la menzogna apologetica sui regimi comunisti ha toccato il primato assoluto è stato il nostro. Quello che è stato scritto, ad esempio nei libri di storia per i licei, fatte pochissime eccezioni, o in alcune pseudo-storie del Novecento, attesta o la malafede dei loro autori o la loro sostanziale incapacità a documentarsi, in modo serio e il più possibile oggettivo quando l’argomento sfiora l’ideologia nella quale si deve credere, alla cui ispirazione si deve obbedire e per il cui trionfo si deve combattere. Insomma, se come dicono, il comunismo è morto, che fare dei libri che lo hanno propagandato, mentendo? «È moralmente accettabile per un editore, rischio economico a parte, – si domanda Luciano Gallino – pubblicare opere che incorporano il nucleo classico del pensiero comunista, o ne riprendono la storia, o propongono varianti contemporanee, dopo che tale pensiero pare essere stato bollato dagli stessi avvenimenti come uno dei maggiori inganni culturali e politici del secolo? Un’insolita patata bollente per dirigenti e consulenti di case editrici».

Si tratta, in verità, non di sostituire una censura o un’auto-censura ad un’altra, a quella esercitata in Italia dall’egemonia marxista-leninista, ma il metodo critico all’infatuazione ideologica. Pensare è sempre pesare le ragioni di tutti e anche i torti. Pensare onestamente sarà sempre un esercizio, un tirocinio faticoso e bellissimo con cui si cerca di dare a ciascuno il suo. Unicuique suum!

 

 

24 ottobre 1991.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Non perdere mai di vista l’insieme. Se guardi l’albero non vedi la foresta (Proverbio tedesco). Il giudizio e l’azione. La vita può essere capita solo in retrospettiva, ma dev’essere vissuta guardando in avanti (Søren Kierkegaard). Felici, ma ognuno a modo suo. Tutte le famiglie felici si rassomigliano, ma ogni famiglia felice lo è alla propria maniera (Lev Tolstoj). Il costo umano del denaro. Il danaro spesso ha un prezzo troppo alto (Ralph Waldo Emerson). Il teorema di Sherlock Holmes. Quando hai eliminato tutto ciò che è impossibile, qualunque cosa rimanga, per quanto apparentemente improbabile, dev’essere la verità (Arthur Conan Doyle). Le prime apparenze, l’apparire e l’essere. Molti sono tratti in inganno dalle prime apparenze, o dai tenaci pregiudizi del proprio tempo; ma, a chi sa veder bene, le cose sono sempre quali si mostrano. I profeti minori non sono minori. Tra le pagine in assoluto più alte della Bibbia ci sono quelle dei cosiddetti profeti minori. Ma non è giusto continuare a chiamarli «minori» dal momento che ci dicono verità altissime in modo estremamente conciso. (Levi Appulo) Cause sempre molteplici, anche se di diverso peso. Nessuno fa qualcosa spinto da un solo motivo (Samuel Taylor Coleridge). Per non perdere un treno. L’unico modo sicuro di prendere un treno, che io abbia mai scoperto, è quello di perdere il treno precedente (Gilbert Keith Chesterton).

 

BULGAKOV SCRIVE A STALIN. «Chiedo al Governo sovietico di considerare il fatto che io non sono un uomo politico, ma un letterato». Così scriveva Michail Bulgakov a Stalin, il 28 marzo 1930. Bulgakov non è Pasternak o Solzenicyn, non getta la sua anima nella fornace ardente della difesa dei perseguitati e del «no» alla dittatura. Egli non aspira che ad essere lasciato in pace a scrivere, cioè a svolgere l’unico compito di cui, a ragione, si sente capace.

Ma le dittature ideocratiche non consentono neppure questo. Di qui la necessità di rivolgersi all’onnipotente despota per non morire di fame, per chiedere un qualsiasi posto di lavoro, e la cessazione degli attacchi da parte della critica ufficiale o la possibilità di soggiornare per qualche tempo all’estero.

Delle tante Lettere a Stalin – così s’intitola la loro raccolta edita dal Melangolo di Genova – quella del 28 marzo 1930 fu una delle due o tre inviate, e comunque fu la sola che ebbe una risposta. Il despota gli rispose per telefono, sfruttando la sorpresa e prendendo così contropiede lo sbalordito Bulgakov, il quale di lì a poco sarebbe stato assunto come aiuto regista – lui che era già un famoso drammaturgo – in un teatro della capitale.

Perché mai Stalin rispose a Bulgakov invece di far sbrigare la pratica col solito metodo, quello dell’internamento in un lager? Quando giunse la famosa telefonata era il 18 aprile e ventiquattro ore prima si erano svolti i funerali di Majakovskj, l’alfiere della rivoluzione comunista finito suicida. In quel momento il paventato suicidio di un altro scrittore sarebbe stato disastroso per l’immagine che il regime comunista voleva dare di sé in Urss e soprattutto tra gli artisti e gl’intellettuali comunisti o filocomunisti dell’Occidente.

Dopo il breve sollievo procuratogli dalla telefonata di Stalin, le pesanti limitazioni imposte alla sua attività, sia di aiuto regista che di autore teatrale, fecero ripiombare Bulgakov in un profondo smarrimento. Di qui l’ultimo disperato progetto, quello di far pervenire al despota una specie di lettera-confessione in cui esporgli le ragioni per cui uno scrittore condannato a vivere in Urss aveva assolutamente bisogno di recarsi all’estero. La lettera, che non fu mai spedita, porta la data del 30 maggio 1931 e comincia secondo lo schema rigido di una «supplica al sovrano»; ma poi esplode in una sfogo di nobile fierezza e di inesorabile denuncia. «Nella vasta arena della letteratura russa – scrive Bulgakov – in Urss io ero l’unico lupo. Mi hanno consigliato di tingermi il pelo. Consiglio assurdo, sia tinto sia tosato, un lupo non assomiglierà mai ad un barboncino. Braccato dentro un cortile chiuso, secondo le regole del vivaio letterario, alla fine sono crollato. Anche una belva può stancarsi… Ma uno scrittore che rifiuta la sua professione, uno scrittore che tace vuol dire che non è un vero scrittore».

Bulgakov era un vero scrittore e non tacque. Scrisse invece il suo capolavoro, Il Maestro e Margherita. Apportò al romanzo le ultime correzioni e aggiunte il 13 febbraio 1940. Pochi giorni dopo, il 10 marzo, morì.

 

I DETTI DI SHMELKE DI NIKOLSBURG. L’essenza del ritorno a Dio è l’offerta della vita. Tutte le anime sono di una stessa radice. Possono dunque diventare una sola cosa anche sulla terra, se prendiamo su di noi il comandamento: Ama il prossimo tuo come te stesso!». «La forza del ravvedimento non dimora nella tristezza. Sono fiori questi colti da I racconti dei Chassidim di Martin Buber.

 

 

31 ottobre 1991.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. La legge di sublimazione che deve esistere nell’universo. Le cose inferiori devono esistere nelle cose superiori, ma in una maniera più nobile che in se stesse (Gottfried Wilhelm Leibniz). La natura profonda di ogni filosofia. Tutte le filosofia sono delle interrogazioni su Dio. La maggior parte delle filosofie sono delle purificazioni dell’idea di Dio. Fede e ragione. Prima delle fede, occorre ben sviluppare la facoltà nella quale la fede deve giustificare se stessa. Una filosofia è indispensabile come una preparazione introduttiva ad ogni discorso teologico. Un libro come una Bibbia. Un libro dev’essere come una Bibbia: un luogo (lieu) e un legame (lien) di tutti i nostri pensieri. (Jean Guitton) L’apostolo Pietro contro la mentalità e il metodo integrista. Non abbiate paura di alcuno e non vi turbate. Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza, con rispetto e con retta coscienza (San Pietro).

Il compito della filosofia. È il compito della filosofia comprendere tutto, anche la religione (Jules Lachelier). Il nemico di ogni verità e conquista morale. Il valore diventa realtà di un’esistenza solo attraverso una lotta continua contro tutto ciò che è facile e comodo. Questo è vero tanto per la vita morale o per la ricerca scientifica quanto per la creazione artistica. Ritroviamo sempre di fronte allo spirito di verità il suo eterno nemico: l’autocompiacimento (Gabriel Marcel).

 

BREVE LETTERA AD ARNALDO FORLANI SUL CANCRO CHE STA FACENDO MORIRE IL NOSTRO PAESE. «Egregio Signore, ho il dovere d’informarLa di quanto segue: uomini politici che, fra l’altro si vantano di essere suoi amici, sono al centro di una rete affaristica. Sarebbe penoso se l’ultimo a venirlo a sapere fosse proprio Lei. I suoi amici procedono indisturbati e, come tanti altri, molto difficilmente finiranno in galera perché, come Lei ha più volte constatato, è impossibile in Italia, a causa del sistema politico-giuridico che ci siamo dati, portare in tribunale i corruttori e non rovinare, nello stesso momento, coloro che – per ottenere un permesso, un lavoro, un’autorizzazione senza quei ritardi che mandano in rovina un’impresa – sono costretti a pagare la tangente.

Le chiedo: che cosa Lei intende proporre al Parlamento per combattere questa piaga? Se poi Lei mi risponde, col solito scetticismo, che non c’è da far nulla e che non c’è da prendersela più di tanto giacché anche altri partiti rubano servendosi delle istituzioni della Repubblica, allora Le dirò francamente che ciò non mi consola affatto e, anzi, mi obbliga a replicare con le parole del drammaturgo: “Parlino gli altri della loro vergogna, io parlo della mia”. Se Lei non prova ribellione dinanzi a certi fatti e si rassegna alla proliferazione cancerosa della “delinquenza organizzata di Stato” esercitata da alcuni uomini del suo partito, allora vuol dire che anche Lei ha tradito quei valori che dovrebbero animare l’esercizio della sua responsabilità in politica e che la mia fiducia in Lei era, tutto sommato, mal riposta. Con profondo dolore. M. P.».

 

WOJTYLA CONTRO IL CLERICALISMO. «Partecipare alla vita politica è funzione propria dei fedeli laici. Tale responsabilità deve essere esercitata con la piena autonomia personale di cui godete quali cittadini della città terrena e come figli di Dio…».

«È un fatto evidente che un’interferenza diretta da parte di ecclesiastici o religiosi nella prassi politica, o l’eventuale pretesa d’imporre, in nome della Chiesa, una linea unica nelle questioni che Dio ha lasciato al libero dibattito degli uomini, costituirebbe un inaccettabile clericalismo».

«Ma è anche ovvio che incorrerebbero in un’altra forma non meno pregiudizievole di clericalismo quei fedeli laici che, nelle questioni temporali pretendessero di agire, senza alcuna ragione o titolo, in nome della Chiesa, come suoi portavoce, o sotto la protezione della gerarchia ecclesiastica».

Queste affermazioni il Papa le ha fatte giovedì 17 ottobre 1991 a Campo Grande, nel sud del Brasile, parlando in cattedrale al laicato cattolico. Noi pensiamo che pure il laicato cattolico in Italia, in Polonia e in ogni altra nazione europea attendesse da troppo tempo, assai più che il laicato brasiliano, quelle parole chiarificatrici di contro alle confusioni e al millantato credito dei neo-clericali.

 

SHAKESPEARIANA. Difficile dare consigli a chi è nel dolore. «Sopporta bene i consigli chi non ne attende che un conforto superfluo: ma è ben diversa quando, a forza di dura pazienza, bisogna sopportare insieme i consigli e il dolore» (Otello, Atto I, Scena III). Bando alla lagna per ogni nonnulla. «Chi soffre per un dolore inutile è come se derubasse se stesso» (ibid.). Le cose mostruose nascono da idee atte a generarle. «L’idea c’è. Poi l’inferno e la notte porteranno alla luce questo parto mostruoso» (ibid.).

 

 

7 novembre 1991.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Distinzione necessaria. Voler riuscire vigorosi non aspri. A certa gente è meglio non essere simpatici. La simpatia dei malvagi è tanto infida quanto lo sono essi stessi. Non avere invidia. Provo una certa sensazione di piacere, se vedo sovrabbandonare in un amico quelle gioie che non sono concesse a me. Rifiutare il suicidio. È davvero la più luttuosa delle morti quella che non appare opera della natura o del destino. Gli amici lodarli con schietta sobrietà. È proprio di chi ama non sovraccaricare di lodi colui che egli ama. L’autorità vera, quella della ragione. Sono pronto a mutare la mia opinione, se tu non sarai d’accordo; ti chiedo però una cosa soltanto, di spiegarmi bene le ragioni del dissenso. Se infatti è giusto che io ceda alla tua autorità, tuttavia ritengo sia meglio, nelle cose veramente importanti, essere convinto dalla ragione anziché dall’autorità. Il metro autentico. Un’anima grande non regola mai i suoi atti sull’ambizione, ma sulla propria coscienza. (Plinio il Giovane)

Tornare all’essenziale e lasciar cadere gli orpelli. V’è una notevole parte di cattolicità che si nutre di rivelazioni assai più che delle Scritture, per cui veramente gli intermediari obnubilano la figura del Redentore (Arturo Carlo Jemolo). La giustificazione razionale lascia sussistere il mistero. Noi conosciamo veramente Dio solo quando crediamo che Egli sia superiore a tutto quello che l’uomo possa pensare di Lui (Tommaso d’Aquino).

 

«IL SABATO» E LE ERESIE. In alcuni teologi il senso profondo dell’incarnazione di Cristo si è stemperato o si è perso del tutto. È una constatazione dolorosa che spiega il dilagare delle confusioni e la crisi di identità di non pochi cristiani. La questione è seria, ma a trattarla si è fatto avanti Il Sabato e, invece di un dibattito, ne è venuta fuori una forsennata caccia all’eretico. E questa volta il malcapitato è uno dei pensatori più radicati nella tradizione bimillenaria della filosofia cristiana: Rocco Buttiglione.

Il Sabato ha deciso che tutti coloro i quali scrivono «il Cristo» non credono nella verità dell’incarnazione e negano, in modo subdolo, la divinità di Gesù, il Verbo che si è fatto carne. Certamente nell’antica liturgia e nei Padri latini non c’è mai l’espressione «il Cristo», ma per una semplice ragione: nella lingua latina non esistono affatto gli articoli. Quando però si è cominciato a tradurre dal latino nelle varie lingue nazionali, e il Concilio Vaticano II ha dovuto farlo, molti hanno preferito l’espressione che Il Sabato giudica blasfema e l’hanno usata anche per un altro motivo, che non è di secondaria importanza: la lingua del Nuovo Testamento è il greco e in greco l’articolo «il» dinanzi a Cristo c’è. Basti controllare il testo greco della professione di fede di Pietro nella divinità di Gesù: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Matteo 16,15).

D’altra parte, Cristo non è il cognome di Gesù e – significa – «Messia»; quindi l’articolo «il» ci sta benissimo a designare, appunto, «il Messia».

 

L’AMMISSIONE DI GIDE. «Ti è difficile, tu dici, affermare che Dio è. Ma dimmi se non ti sia difficile ancora affermare che Dio non è» (André Gide, Journal, 22 febbraio 1918).

 

 

14 novembre 1991.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Quando la pena viene vanificata. Dove manca la correzione, / abbonda la corruzione (Marcello Marchesi). Che cosa erano una volta i proverbi. I proverbi erano il codice civile, penale e morale della famiglie contadine; un patrimonio di sentimenti e di stati d’animo trasmesso di padre in figlio, di generazione in generazione. L’ossessione del regalo. La gente meno si vuol bene e più fa regali. (Cesare Marchi) Lo hanno dimostrato anche il 1989 e il 1991. La storia non ama le soluzioni ovvie e ha più immaginazione dei politologi (Arrigo Levi). La crudele transizione. Ogni transizione, per riuscire deve essere pressoché iniqua (Lester Thurow). Il primissimo Lenin critica nel 1905 il Lenin del 1917-1924. Chiunque voglia andare al socialismo per ogni altra via che non sia quella della democrazia politica arriverà inevitabilmente a conclusioni assurde e reazionarie sul piano sia economico che politico (così Lenin la pensava nel 1905, ma poi fece il contrario, ignorando la sua stessa profezia e i moniti dei suoi critici).

Il grido d’invocazione. Leva la tua voce! Ad ascoltare sin dal profondo la tua anima c’è sempre qualcuno, Dio (Sant’Agostino). Questo è l’ardente appello ai governanti. Riflettete con impegno una buona volta / e lasciatevi correggere, o potenti della terra. Una delle preghiere più intense. Custodiscimi, Jaweh, come la pupilla dell’occhio. La poesia dei salmi. Voglio cantare, voglio inneggiare. / Destati, anima mia, / destati, arpa e lira: / voglio destare l’aurora. (Libro dei Salmi)

 

LA DIFFICILE UNITÀ LINGUISTICA DEL NOSTRO PAESE. «Adottando criteri di grande larghezza si può concludere che negli anni dell’unificazione coloro che fuori di Roma e della Toscana erano giunti ad apprendere l’italiano erano circa l’8 per mille della popolazione, ossia circa 160.000 persone disperse, per così dire, in una massa di 20 milioni di individui. Altro era il caso di Firenze (con le restanti città toscane) e di Roma: per ragioni storiche, infatti, sia in Toscana che a Roma i dialetti locali erano particolarmente vicini alla struttura fonologica, morfologica e lessicale alla lingua comune. (…) Ai 160.000 italofoni di altre regioni, vanno dunque aggiunti circa 400.000 toscani e 70.000 romani. In conclusione, negli anni dell’unificazione nazionale gli italofoni, lungi dal rappresentare la totalità dei cittadini italiani, erano poco più di 600.000 su una popolazione che aveva superato i 25 milioni di individui: a malapena, dunque, il 2,5% della popolazione» (Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Roma-Bari 1979, p. 18).

Ecco un dato fra i tanti che dovrebbero far capire, anche agli antiunitari arrabbiati, quanto sia stato difficile per la classe politica post-risorgimentale, da Minghetti a Giolitti, mettere in cammino quest’Italia dalle molte vite e dalle molte storie sulle vie della modernità, facendole recuperare attivamente gli enormi ritardi accumulati in ogni campo rispetto ad altri Stati europei.

 

«PERCHÉ L’ITALIA STA MALE? CHIEDIAMOLO AL RISORGIMENTO». Con queste parole La Repubblica ha lanciato una sua iniziativa che pure è di per sé lodevole. La frase, però, è quanto mai equivoca e incoraggia un malcostume e una mentalità per tanti aspetti deleteri. Per ragioni di malgoverno, a causa del vuoto etico-politico di questi ultimi lustri e per l’incapacità di questo Stato a farsi leggi giuste ed effettivamente eseguibili, ponendo fine a privilegi consolidati e a disservizi generalizzati, è tornata a galla la vecchia stolta abitudine a cercare nel passato remoto le responsabilità del disastro di oggi, sì che le colpe dei pronipoti dovrebbero ricadere sui… bisnonni. Si ripete insomma la sceneggiata: non queste e quelle disgraziate decisioni prese, non l’ideologia e la prassi dello Stato assistenziale che sinistramente hanno dominato la politica italiana succube del collettivismo marxista, non le riforme sbagliate e quelle che erano assolutamente necessarie e non sono state mai fatte sono chiamate in causa per spiegare l’attuale processo di entropia, ma i nostri lontani avi, anzi gli stessi padri del Risorgimento nazionale quasi che quella somma di lotte, speranze, dolori, ardimenti, pensieri che portarono all’unità statuale costituisca ciò di cui ci si debba vergognare, il nostro peccato originale.

Siamo ormai al punto in cui l’Anti-risorgimento è diventato una moda e viene esibito sia dagli antiunitari di oggi, come ad esempio i seguaci della Lega Lombarda, sia da quanti celebrano fanaticamente gli antiunitari di ieri, senza avere però il coraggio di dirci chiaramente dove credono di andare e che cosa vogliono per questo Paese che è pure il loro. E tra questi ultimi non mancano, purtroppo, gruppi di cattolici, o meglio di neo-clericali, la cui sub-cultura li rende ignari dell’apporto decisivo dato proprio dai cattolici – da Santorre Santarosa a Marco Minghetti, da Vincenzo Gioberti ad Alessandro Manzoni – alla nascita dello Stato italiano.

 

 

21 novembre 1991.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. La preoccupazione più tenera. Uomo, bada al piccolo che tiene la tua mano (Poema dei Gilgamesh). Io-tu. Che io possa saziarmi / del mio continuo andare / alla tua presenza. Che cos’è la fede. La fede è tale proprio in quanto lascia che Dio resti Dio (idea che Lutero esprime spesso in diversi modi e contesti). La laicità cristiana. La laicità cristiana non è una vita cristiana a prezzo ridotto (Ives Congar). L’occhio prevale. Gli uomini prestano meno fede a quello che odono, in confronto a quello che vedono (Erodoto). La simulazione. Odioso m’è colui / ch’altro nasconde in cuore ed altro parla (Omero, Iliade). L’analogia tra il mondo e la scena. L’uno costituisce per l’altro un pubblico abbastanza numeroso (Epicuro). Pittura e poesia. La pittura è poesia muta, la poesia è pittura che parla (Simonide).

 

GIORGIO BOCCA E IL SUO «DOPPIO». C’è il momento in cui si deve parlare, e perfino gridare, e c’è il momento in cui il silenzio è più fecondo di bene. Non tutto può esser detto a chiunque; ci sono, infatti, obblighi di discrezione e di riservatezza a cui non ci si deve sottrarre a cuor leggero, come spesso si fa oggi. Ci sono poi tempi di maturazione e di attesa, perché un’idea in sé giusta possa apparire tale anche alla maggioranza dei cittadini. In alcuni casi, dunque, è bene tacere o dire il meno possibile; ma in nessun caso è lecito mentire. È lecito talora dissimulare, non far trasparire le proprie intenzioni, ma non simulare ingannando gli altri deliberatamente. Chi mente pratica la «doppia verità»: in pubblico, per gli altri, dice il contrario di quello che pensa e dice realmente in privato. C’è però un livello di condotta ancora più sconcertante: quello di chi formula giudizi di valore e assume atteggiamenti pratici di segno radicalmente opposto ai giudizi e agli atteggiamenti precedentemente espressi, senza tuttavia neppure cogliere l’intrinseca contraddittorietà di un siffatto modo di pensare e di agire. È come se un altro io, o se si vuole «il doppio del nostro io», entrasse in scena, ma a nostra insaputa, rendendo schizofrenica la nostra vita, dal momento che noi non percepiamo minimamente il nostro sdoppiamento.

Un esempio tra i molti possibili. Si prenda in mano l’autobiografia di uno dei nostri migliori giornalisti, Il provinciale di Giorgio Bocca, e si leggano le pagine sulla tragedia Moro. Sono pagine implacabili, da cui è assente ogni sforzo di comprensione e ogni senso di pietà. A Bocca ripugna il fatto che uno statista non abbia saputo affrontare la terribile prova con la serenità e la forza d’animo che nobilitarono il sacrificio di tanti patrioti nel Risorgimento e nella Resistenza. Si può certamente essere d’accordo con Bocca, o dissentire da lui, o anche solo mettere in discussione la sua tesi interpretativa; ma quella tesi è chiara ed è altresì indicativa di alcuni valore fondamentali a cui si ispira il giornalista piemontese nella sua visone della vita. È questi il Bocca, diciamo così, numero uno.

Ma ecco, nello stesso libro e sullo stesso argomento, venirci incontro un «altro» Bocca, il suo «doppio», il Bocca numero due. Quando, infatti, parla del suo personale atteggiamento di fronte alle Bierre negli anni in cui il terrorismo era all’ordine del giorno, il secondo Bocca non ha alcun ritegno ad affermare che lui non se la sentiva di fare la fine di Carlo Casalegno, il giornalista de La Stampa di Torino assassinato dai terroristi rossi proprio a causa del suo lucido coraggio e della sua alta passione civile e morale. Il «doppio» di Bocca cerca inoltre, sia pure involontariamente, il rimpicciolire la figura di Casalegno, prendendo le distanze da quella sua «mentalità da giudice protestante», e confessa apertis verbis che egli, invece, scriveva delle Bierre in modo tale da… portare a casa la pelle. Restando, cioè, il più possibile nell’ambiguo.

 

RITRATTO D’INCANTEVOLE, TOTALE GRATUITÀ. Data: intorno al XXIII secolo a. C. Si tratta di un poemetto sumerico. Un messaggero si deve recare a Nippur e l’autore del poemetto lo prega di salutare sua madre; e poiché il messaggero non la conosce, il poeta gliela descrive, offrendoci un ritratto d’incantevole, totale gratuità. «Mia madre è tutta bontà e bellezza, – dice – pienezza e gioia. / Mia madre è come pioggia tempestiva, prima acqua del seminato, / giardino rigoglioso pieno di delizie, / pino ben irrigato adorno di pigne, / frutto di primavera, del primo mese di primavera, / dattero mielato di Dilmun, il migliore tra i datteri». Non è forse intimamente poetica l’idea stessa di un madrigale per interposta persona, di un identikit dettato dal cuore di un figlio?

 

 

28 novembre 1991.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Virtù e felicità. Prima di tutto bisogna aver presente che l’uomo virtuoso non è per questo necessariamente felice. Infatti la forza della virtù non è soggetta ad alcuno, essendo autonoma, mentre, ad esempio, le lunghe malattie e la perdita degli organi di senso distruggono la felicità. Accresciuta possibilità di malanni più gravi. All’anima nuoce tanto la lieta che l’avversa fortuna, quando lo colga impreparata. Tuttavia le apporta malanni più gravi quella che si suol chiamare prosperità, la quale, come il vino, ubriaca quasi l’anima. Anche l’anima di coloro che prima erano stati virtuosi. L’eccesso del benessere. La luce abbagliante offende la vista, l’eccesso del benessere rende ottusa la mente. Il vero capo. Il vero capo sarà tale se non farà nulla per suo interesse, ma tutto per il bene della cittadinanza, giacché anche la legge è fatta non per se stessa, ma per coloro che le sono soggetti. Chi ha più danaro non deve sfuggire alla pena. Se a chiunque violi la legge si dà il castigo, i cittadini cureranno il giusto e l’onesto; se invece i colpevoli se la caveranno con multe e versamento di denaro, molti terranno più in conto il danaro che la legge. Noi lo chiamiamo Dio. Il Principio che si muove da se stesso, invisibile agli occhi corporei, questo Primo che tutto muove, non solo dev’essere intelligenza, ma dev’essere al di sopra dell’intelligenza. Noi lo chiamiamo Dio. (Archita di Taranto vissuto nel 428-347 a. C., in Frammenti filosofici, Taranto 1965)

 

DAL SISTEMA POLITICO AL REGIME. Un sistema politico può aver svolto in un difficile periodo storico un ruolo positivo, ma i meriti acquisiti non conferiscono ad esso il diritto all’immortalità. Sono periture le civiltà, possono dunque ben morire i partiti o i sistemi politici che non sanno più rispondere alla domanda di valori e di buon governo che sale nell’opinione pubblica di una nazione. Quando un sistema politico tende in primo luogo a perpetuare se stesso, rende impossibile il ricambio della classe dirigente e consegna lo Stato alle consorterie e agl’interessi corporativi. Allora il regime si è sostituito al sistema politico, svuotando di contenuto le istituzioni, e la democrazia ha ceduto il posto alla partitocrazia.

Ma, in progresso di tempo, anche un regime è costretto a entrare in agonia. E i primi segni di uno stato pre-agonico sono la totale incapacità del Parlamento ad autoriformarsi, l’immobilismo, la prassi scettica (e spesso cinica) del «tirare a campare». L’Italia è ormai da qualche anno in questa situazione, con una democrazia bloccata e una crisi istituzionale che appare sempre più senza sbocchi.

Ai cittadini che non vogliono rassegnarsi al peggio, ma ridare slancio e capacità di futuro al Paese, non rimane dunque che servirsi dello strumento del referendum. «Oggi come oggi è così – ci confida Mario Segni, in un colloquio a Brescia. – Lo dico con profonda amarezza, ma chi sente il dovere di non cedere alla stanchezza e alla disperazione non ha altra via».

 

È LECITO CAMBIARE OPINIONE NEL CORSO DEL TEMPO? Quando ragione ed esperienza ci inducono a cambiare punti di vista e opinioni, è non solo lecito farlo, ma doveroso. Ogni uomo, infatti, in primo luogo deve obbedire al giudizio e al comando della propria coscienza, lavorando, beninteso, a rendere quel giudizio e quel comando sempre meglio fondati e illuminanti.

Non si può quindi accusare di «trasformismo» chi corregge, o addirittura capovolge, sue precedenti valutazioni e scelte in base a fatti nuovi di cui venga a conoscenza in modo serio e documentato. Mutamenti del genere sono, anzi, salutari. Attestano la buona fede delle persone e, indirettamente o indirettamente, danno un loro contributo a raddrizzare quel mondo in cui siamo e operiamo. La disponibilità ad imparare dai fatti e a mutare nel proprio intimo è una prova della libertà interiore e della grandezza della persona umana.

 

RITRATTO DEL TRASFORMISTA. Chi è, invece, trasformista e qual è il suo modo di procedere? Trasformista è colui il quale cambia opinione sulle questioni più importanti solo perché la sua opinione è diventata improponibile, o sembra non sia più prevalente. Il trasformista, in realtà, non ha mai nulla di cui debba pentirsi, proprio perché intimamente «questo e quello per lui pari sono» ed egli si adegua a quanto ritiene utile che gli altri credano di lui.

Fa anche di peggio. Il trasformista, infatti, non solo si dà senza problemi una nuova identità tutte le volte che ritenga opportuno farlo; egli è di volta in volta impegnato, altresì, a far credere che la nuova identità sia stata, a veder bene, quella effettiva e vera, quella di sempre… anche quando era costretto dalla malizia dei tempi a tenerla celata.

 

SULLA TERRA BEN SALDO. «A proposito delle parole della Scrittura: Una scala, appoggiata sulla terra, e il suo capo tocca il Cielo, Rabbi Aronne di Karlin diceva: Se l’uomo si tiene interiormente unito e sta saldo sulla terra, allora il suo capo tocca il cielo» (da I racconti di Chassdim).

 

 

5 dicembre 1991.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Non avremmo avuto né Mozart, né Manzoni. Se ci fosse stato l’Ordine dei musicisti, non avremmo mai avuto Mozart. E se ci fosse stato l’Ordine degli scrittori, non avremmo avuto Manzoni (Francesco Cossiga, 7 novembre 1991). Giustizia e misericordia. Il giusto è vicino / al cuore degli uomini, / ma il misericordioso è vicino / al cuore di Dio. Sei creatura. La lanterna che reggi / non è tua. / Benché porti la luce, / non sei la luce. Per arrivare all’alba. Per arrivare all’alba, / non c’è altra via / che attraversare la notte. / Nella notte la tua gioia / o il tuo dolore / diventano grandi. (Kahlil Gibran)

L’artista di fronte a Cristo. L’artista vede sempre in Cristo qualcosa della sua immagine e della sua storia. Meglio ancora: egli sente che nel desiderio di riprendere quell’immagine è spinto dal bisogno di arrivare all’essenza stessa della vita e alle ragioni prime del nostro destino (Carlo Bo). La sua storia sublime. La storia sublime di Cristo continua ad interpellarci oggi non meno che duemila anni fa. La sua parola e la sua vita non cessano di illuminare le nostre categorie morali e filosofiche. Egli è in ogni epoca il contemporaneo per eccellenza di ogni uomo (Levi Appulo).

 

LE COSE CHE VERAMENTE CONTANO. Quando per le più diverse circostanze ci viene richiesta una nota biografica, l’imbarazzo è grande. Costretti a rimeditare la nostra vita, ci si chiede – quali siano stati gli eventi e gli incontri che più hanno contato, caratterizzandola. Ci si accorge, allora, che non è stato decisivo il curriculum degli studi, ma l’aver scelto come guida uno o due autentici maestri di implacabile lealtà metodologica e insieme di schietta umanità; e così pure, non conta molto un qualche successo o una pubblicazione fortunata, ma la meditazione appassionata sui «libri della decisione». Penso in questo momento all’Apologia di Socrate del giovane Platone, alle Confessioni di Agostino, ai Pensieri di Pascal, al Diario di Kierkegaard, a I fratelli Karamazov di Dostoevskij, alla Critica della Ragion Pratica di Kant, ai Principi della Scienza morale e alla Storia comparativa e critica dei sistemi di morale del nostro Rosmini, a Le due sorgenti della morale e della religione di Bergson, a Lo spirito della filosofia medioevale di Gilson. E come tacere i doni straordinari che ci sono venuti da tanti poeti e musicisti?

In un’autopresentazione anticonformista, se abbiamo un animo ancora capace di gratitudine, dovremmo ricordare anche per quale tramite abbiamo intuito e accolto il messaggio del Vangelo (e di qualche santo a noi particolarmente congeniale); quali sono i cristiani autentici che abbiamo incontrato nel nostro cammino; chi ci ha insegnato a cercare la verità e ad anteporla sempre al fanatismo per la causa e all’ossessione del denaro e della carriera. Alla fin fine, sono proprio queste le sole realtà che contano davvero, perché generano la libertà interiore, da cui viene ogni cosa buona.

 

VIRGILIO E I BATTITI DELL’ADOLESCENZA. Tutto, anche la memoria, col tempo dilegua; / ripenso quando ragazzo cantavo / spesso ai lunghi tramonti e come poi / di tante canzoni mi sono scordato. (Omnia feri aetas, animum quoque, saepe ego longos / cantando puerum memini me condere soles; / nunc oblita mihi tot carmina…). Dalla Nona Egloga, trad. di Enzo Cetrangolo.

 

TESTIMONIANZA SU ELIO VITTORINI. «Vittorini morì il 12 febbraio 1966. Prima di morire, Elio, con commossa cautela, chiese al padre servita De Piaz se voleva confessarlo. Camillo De Piaz era uno dei cinque cattolici frequentatori di casa Vittorini; gli altri erano Carlo Bo, Leone Piccioni, Gennarini e io. De Piaz non cedette alla tentazione; si limitò a benedirlo. Era convinto che fosse più importante vivere che morire da cristiano; e a suo giudizio, Elio, che aveva rispettato sempre l’amore e la libertà, era vissuto da cristiano». Il brano qui riportato è il frammento 119 del volume Le parole del padre di Raffaele Crovi (Milano 1991).

 

RITRATTO DELLA DONNA AMATA. Inventi parole, corteggi il mio cuore, / cancelli il dovere, disegni l’amore. / Rondine, grillo, cicale, / mia pupilla, mia ala, / abbatti il dubbio e la sua prigione / con l’innocenza fatta canzone. Sono versi di Raffaele Crovi.

 

 

12 dicembre 1991.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Soltanto allora si può chiamare classico. Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire (Italo Calvino). Da noi sono proprio tanti. Tra i più sgarbati? Quelli che telefonano senza dire chi sono, ma soltanto quello che vogliono (Camilla Cederna). La baggianata e l’applauso, direttamente proporzionali. Una sinistra euforia percorre le trasmissioni televisive. Più sono brutte, sporche e cattive, più sono applaudite dal pubblico presente in sala. Per qualunque baggianata, la scritta che si accende negli studi invita al battimano. La celebrazione della rissa. La televisione ha assunto il pollaio come modello di civiltà. L’insegna della maleducazione televisiva. Sarò greve, per motivi di audience. (Aldo Grasso)

Nietzsche confuta se stesso. Al di fuori dei suoi limiti l’uomo non esiste; può esistere al suo posto uno spettro o un mostro… Non esiste la sua vera forza, o se si vuole la sua potenza, ma appena una debolezza mascherata dalla velleità (Friedrich Nietzsche). Una dolorosa domanda. È peggiore il mafioso che si serve di politici corrotti, o il politico corrotto che usa i sistemi dei mafiosi? (Levi Appulo). Le radici del nostro futuro. L’Europa fonda nel patrimonio tradizionale della religione di Cristo la superiorità del suo sistema giuridico, la nobiltà delle grandi idee del suo umanesimo, così come la ricchezza e i principi che distinguono e vivificano la sua civiltà (Paolo VI).

 

IL PRIMO E L’ULTIMO WALESA. Nell’agosto del 1980 il nome dell’elettricista di Danzica, che sfidava il potere comunista nel suo Paese e la stessa Urss, divenne caro al 90% dei polacchi, a milioni di oppressi e agli uomini liberi di tutto il mondo. Quando, a conclusione di una straordinaria battaglia, il 4 giugno 1989 – lo stesso giorno del massacro di Piazza Tienanmen – ci fu un rinnovo parziale del Parlamento polacco, le liste di Solidarnosc vinsero dappertutto e il Partito comunista polacco ebbe un solo deputato eletto dal popolo.

Poi l’intuito del vincitore di tante battaglie si obnubilò e il protagonismo gli prese la mano. Spaccò deliberatamente Solidarnosc nel momento più difficile, in cui più necessaria era l’unità anche politica del movimento, si contrappose con ogni mezzo a Mazowiecki e volle candidarsi alla presidenza della Repubblica. Il risultato di tanti errori si è visto alle elezioni polacche di ottobre. La maggioranza assoluta dei cittadini ha manifestato il suo risentimento più che giustificato disertando le urne; e chi ha votato, ha disperso il suo voto in decine di liste, sì che il partito di maggioranza relativa risulta essere quello che ha toccato poco più del 12%! Devono essere stati proprio ciechi, nella loro illusione di stravincere comunque, coloro che hanno consigliato a Walesa una linea di condotta così scriteriata.

Spiace dirlo, ma l’ultimo Walesa (quello esaltato da noi, in Italia, in tanti articoli apparsi su Avvenire, Il Sabato, 30 Giorni) è riuscito solo a rendere infinitamente più drammatica la già difficile situazione polacca e ha distrutto una coalizione di forze che aveva fatto tremare l’Unione Sovietica, avviando il processo di dissoluzione dell’impero comunista. Com’è difficile ritirarsi al giusto momento, o anche solo saper essere fedeli alle amicizie all’indomani di una vittoria! Perché Walesa non è uscito di scena con la stessa nobile semplicità con cui vi era entrato?

 

LA «QUERELA» DI BERLINGUER A SCIASCIA. Leonardo Sciascia rivelò che anche Enrico Berlinguer, il segretario del Pci, era convinto che tra i finanziatori delle Brigate Rosse ci fosse, attraverso il Kgb, il Partito comunista sovietico (cioè lo stesso Pcus che finanziava da anni i comunisti italiani). Berlinguer non si limitò a una smentita, ma dichiarò tutto il suo sdegno e il suo stupore per l’inqualificabile menzogna di cui si era reso colpevole lo scrittore siciliano e lo querelò.

Oggi sappiamo da un collaboratore e amico di Berlinguer, il senatore Macaluso, che quanto Sciascia aveva detto rispondeva effettivamente al pensiero del segretario del Pci, peraltro espresso in diverse occasioni ai compagni più fidati.

Come giudicare allora la «querela» a Leonardo Sciascia? A mio avviso, Berlinguer era in una situazione che lo obbligava a «dissimulare», cioè a non manifestare il suo intimo convincimento, essendo il segretario politico di un partito come il Pci. Rimane, però, l’interrogativo: perché, spingendosi oltre quanto la sua funzione politica richiedesse, decise anche di «simulare», fino al punto di essere disposto ad affermare in tribunale il contrario di quanto realmente aveva detto e pensava?

 

 

19 dicembre 1991.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Che cosa è la santità. La santità è la immissione in Dio di tutto ciò che vogliamo, pensiamo, facciamo, amiamo, speriamo e produciamo (Giorgio Papasogli). Gli aristo-graffiti, o l’inutil vita dei fatui plurimiliardari. Una cascata di cognomi doppi e tripli, di località esclusive, di balli e sballi (Levi Appulo).

L’insegnamento di Francesco di Sales. Fare tutto per amore, niente per forza. Siamo uomini, fragili uomini. Chi può tutto prevedere, chi può schivare i futuri mali? Se ledono persino i mali previsti, come non ci feriranno, e gravemente, quando arrivano improvvisi? Siamo uomini, non siamo altro che fragili uomini. La libertà da ciò che ci impaccia e può ischiavirci. Ecco, il cibo la bevanda le vesti e le altre cose sono utili e necessarie al sostentamento del corpo. Occorre però usarne temperatamente e non restarvi dentro impacciati dal troppo desiderio. Buttar via tutto non si può, bisogna sostentar la natura; ma il Vangelo proibisce di cercare il superfluo. Rifiuto di ciò che può privarci della libertà interiore. A seconda dell’amore e dell’affetto che le porti, ciascuna cosa più o meno ti si attacca. Se l’amore tuo sarà puro, semplice, ben ordinato, non sarai prigioniero delle cose. Non desiderare ciò che non è lecito avere. Non voler avere ciò che ti può impacciare e può privarti della libertà interiore. È bello e dà pace. È bello e dà pace non credere indifferentemente a tutto e non discorrere con superficialità di ogni cosa, ma esprimersi in poche parole e non lasciarsi portare di qua, di là, dal vento delle chiacchiere. (Tommaso da Kempis)

 

«SIGNOR COPPOLA, CHE COS’È LA MAFIA?». Uno dei giudici romani, nel 1980, va a trovare Fernando Coppola, appena arrestato, e lo provoca. «Signor Coppola, che cosa è la mafia?». Il vecchio, che non è nato ieri, ci pensa su e poi ribatte: «Signor giudice, tre magistrati vorrebbero oggi diventare procuratore della Repubblica. Uno è intelligentissimo, il secondo gode dell’appoggio dei partiti di governo, il terzo è un cretino, ma proprio lui otterrà il posto. Questa è la mafia…». Chi racconta l’episodio è Giovanni Falcone, il famoso giudice antimafia, in Cose di Casa Nostra (Milano 1990), scritto in collaborazione con il corrispondente da Roma per Le Nuovel Observateur, Marcello Padovani.

Già l’ouverture del libro ti comunica il senso della tragicità del fenomeno mafia, fin dalle prime battute. «Mi viene a trovare a casa il collega Paolo Borsellino. “Giovanni – mi dice – devi darmi immediatamente la combinazione della cassaforte del tuo ufficio”. “E perché?”. “Sennò quando ti ammazzano come l’apriamo?”». Giovanni Falcone ha il coraggio di non cedere ai luoghi comuni. La mafia non cade dal cielo, non è affatto un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di coltura di Cosa Nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione.

 

LA RISPOSTA DELLO STATO ALLA MAFIA. Di fronte a una così grave ed estesa minaccia, qual è la risposta dello Stato? Come noi affrontiamo la mafia? «In un modo tipicamente italiano – precisa Falcone – cioè attraverso una proliferazione incontrollata di leggi ispirate alla logica dell’emergenza. Ogni volta che esplode la violenza mafiosa con manifestazioni allarmanti, o l’ordine pubblico appare minacciato, con precisione cronometrica viene varato un decreto legge tampone volto a intensificare la repressione, ma non appena la situazione rientra in un’apparente normalità, tutto cade nel dimenticatoio e si torna ad abbassare la guardia. Le leggi non servono se non sono sorrette da una forte e precisa volontà politica, se non sono in grado di funzionare per carenza di strutture adeguate e soprattutto se le strutture non sono dotate di uomini professionalmente qualificati».

 

L’ONESTO SCIASCIA. L’ultimo Sciascia lo aveva detto con forza: «Finiamola di rifugiarci nei facili alibi che coprono inerzia e rassegnazione, per cui la mafia sarebbe in primo luogo un fenomeno socio-economico e, dunque, non potrebbe essere efficacemente repressa senza un radicale mutamento della società, della mentalità, delle condizioni di sviluppo». «Ribadisco al contrario – precisa Falcone, questa volta in pieno accordo con Leonardo Sciascia – che senza repressione non si ricostituiranno le condizioni per un ordinato sviluppo. E, lo ripeto, occorre sbarazzarsi una volta per tutte delle equivoche teorie della mafia figlia del sottosviluppo, quando in realtà essa rappresenta la sintesi di tutte le forme di illecito sfruttamento delle ricchezze».

 

 

25 DICEMBRE 1991, ORE 19,33: COMINCIA UNA NUOVA STORIA

 

LA BANDIERA ROSSA NON SVENTOLA PIÙ SUL CREMLINO. Il giorno di Natale abbiamo assistito ad un avvenimento di straordinaria rilevanza storica. La bandiera rossa con falce e martello, che da 74 anni sventolava sul Cremlino, è stata ammainata il 25 dicembre 1991, alle ore 19,33. È l’atto-simbolo della fine di un’epoca, il simbolo della caduta dell’ultimo impero e del comunismo, la più tragica delle illusioni del nostro tempo.

È un grande giorno, il giorno in cui il primo e il più oppressivo dei totalitarismi che hanno imbarbarito la storia del ventesimo secolo, è morto anche ufficialmente, non vinto per aver perso una guerra, ma travolto dalla propria incapacità a costruire una società aperta, economicamente avanzata, libera nell’era delle comunicazioni radiotelevisive di massa in cui il mondo diventa un villaggio globale rendendo inevitabili i confronti e ineliminabile il contrasto fra le chiacchiere e i fatti.

L’Urss, la patria-mito dei comunisti di tutto il mondo, non esiste più e con essa scompare l’incubo di una permanente tensione internazionale, di un possibile confronto nucleare e del continuo moltiplicarsi di conflitti in ogni continente, ovunque trovassero accoglienza l’ideologia, le armi e il denaro dell’Unione Sovietica.

In questo alto momento della storia il nostro pensiero, turbato e commosso, va in primo luogo a quelle donne coraggiose e a quegli uomini di ogni età, che la dittatura comunista per settant’anni ha fisicamente eliminato, ha sepolto nei lager, ha internato nei manicomi, ha costretto all’emarginazione in patria o all’esilio. Il loro numero, come ormai si riconosce anche da parte comunista, è nell’ordine di parecchie decine di milioni. Chi mai asciugherà le loro lacrime, chi se non Dio tramuterà in gioia le loro atroci, immeritate sofferenze? Né come cristiani possiamo dimenticare che mai nella storia dell’umanità un regime ha perseguitato i credenti in modo così implacabile, al punto che il martirologio di venti secoli di cristianesimo non è che una piccolissima cosa di fronte all’esercito dei nuovi martiri della fede, che hanno testimoniato Cristo di fronte al totalitarismo ateo dello Stato leninista.

 

MUOIA L’IMPERO, MA VIVA LA RUSSIA. «L’orologio del comunismo ha cessato di marciare. Ma il suo edificio di cemento non è ancora crollato. E che noi, piuttosto che liberati, non si finisca schiacciati sotto le sue macerie». Queste parole con cui si apre uno dei libri più appassionanti e profetici, ed insieme estremamente realistici, Come ricostruire la nostra Russia? di Solzenicyn mi tornano continuamente in mente. Il crollo del sistema comunista, infatti, lascia dietro di sé tremendi problemi, la cui soluzione è pregiudicata dallo svuotamento pressoché totale delle forze vive del popolo e da decenni di economia collettivistica. La transizione della Russia a una società nuova sarà quindi quanto mai dolorosa, ma la Russia non può assolutamente perdere l’ultima chance che le si offre alla fine di questo millennio. E, d’altra parte, gli Stati e i popoli dell’Occidente che non si adoperassero attivamente e subito, prima che sia troppo tardi, per la nuova Russia, affinché la strada della libertà risulti vincente per il suo popolo, mostrerebbero un’assenza preoccupante di realismo politico prima ancora che di senso morale. È, infatti, nell’interesse di tutti che la Russia regga alla tremenda prova e porti in salvo la sua identità culturale e spirituale di cui l’Europa e l’umanità hanno bisogno. Sarebbe folle che l’estrema gravità dei problemi lasciati in eredità dall’Unione Sovietica, diventasse un motivo per rimpiangere l’Urss e il comunismo! Crolli, dunque, l’impero ex-sovietico e i popoli fino a ieri costretti a farne parte decidano del loro futuro come meglio crederanno, assumendosi i costi e i rischi dell’indipendenza. Ciò è inevitabile e l’Occidente farà bene a prenderne atto, comprendendo finalmente quanto fossero tardivi e inefficaci i progetti di salvataggio dell’Urss dell’ultimo Gorbaciov, quello del «dopo-golpe». Ora l’essenziale è che la Russia sia aiutata a vivere, insieme agli altri popoli slavi, e che possa essere acquisita per sempre alla libertà. Cioè all’Europa e alla civiltà.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. Programma di ogni giorno. Svegliarsi e veder chiaro, / spazzare dal cuore il pattume verbale / e vivere senza intasarsi in anticipo. No alla zuppa delle finzioni. Bere la zuppa delle finzioni / fa nausea come un pesce putrefatto. Domanda ai bambini intenti a giocare. Miei cari, qual millennio / è adesso nel nostro cortile? I libri che rileggiamo. Quanto più nero e più sfogliato è il libro, / tanto più il suo fascino è cordiale. Autoritratto. Tu non fuggi soltanto gli arricchiti: / tutto ciò che è gretto ti ripugna. Nausea per la retorica del potere ideologizzato. Con il carro del progetto / ci ha schiacciato l’uomo nuovo. Non lasciarsi schiacciare dalla malizia dell’oggi. Un giorno intero tramonta, / giorni interi sono in vista. Il mistero che ci avvolge. Noi siamo in preda a una stessa / sbigottita fedeltà al mistero. Arrivare alla sostanza. In ogni cosa ho voglia di arrivare / sino alla sostanza. / Nel lavoro, cercando la mia strada, / nel tumulto del cuore. / Sino all’essenza dei giorni passati, / sino alla loro ragione, / sino ai motivi, sino alle radici, / sino al midollo. / Eternamente aggrappandomi al filo / dei destini, degli avvenimenti, / sentire, amare, vivere, pensare, / effettuare scoperte.

(Dalle Poesie di Boris Pastenak).

 

 

27 dicembre 1991.

 

LINEA RECTA BREVISSIMA. La bocca dei falsari. La bocca dei falsari è colma / d’una lava di ghiaccio che mozza il respiro. Sogno e risveglio. Sognavo… / Scendeva il mio cuore nella tua mano. / Io mi svegliai… / e il sogno si spense come un’eco di campane. Confessione di un innamorato. Quel giorno tutta dai pettini ai piedi, / come un attore tragico in provincia un dramma di Shakespeare, / ti portavo con me e ti sapevo a memoria, / e, girellando per la città, ti ripassavo. Il valore del silenzio. Silenzio, tu sei il meglio / di tutto ciò che ho udito. È un pericolo sempre incombente. Non sbriciolarti per nutrire i sensi. L’assiduità del mio compito. L’assiduità perpetua del mio compito, / che preme dalla prigionia dei giorni, / si chiami pure vita sedentaria: / anche se è tale, per essa io sospiro.

Errore in cui incorriamo molto spesso. Moltiplichiamo / il bisogno per la tenerezza, l’inferno per il paradiso. La grazia di un’incredibile semplicità. Vi sono nell’esperienza dei grandi poeti / tratti di tale naturalezza, / che non si può, dopo averli conosciuti, / non finire in un silenzio completo. / Imparentati a tutto ciò che esiste, convincendosi / e frequentando il futuro nella vita d’ogni giorno, / non si può non incorrere alla fine, come in un’eresia, / in un’incredibile semplicità. / Ma noi ne saremo risparmiati, / se non sapremo tenerla segreta. / Più di ogni cosa è necessaria agli uomini.

(Dalle Poesie di Boris Pastenak).

 

QUANDO DIO NASCE IN NOI. Il «presentimento» di Dio si ha nella commossa intuizione della bellezza e nella gioia più intensa, quando cerchiamo Colui a cui dire: «grazie!». Dio nasce in noi nel momento in cui sentiamo e sperimentiamo di essere partecipi in qualche modo di una verità che ha valore assoluto, di un principio morale a cui gli uomini non possono rinunciare se non diminuendo o distruggendo se stessi.

Dio nasce in me quando colgo il mio «io» nell’Essere e ogni esistente in Lui, in cui siamo e ci muoviamo e operiamo, poiché il nulla non è e dal nulla non può venire alcunché. E se non si trattasse del mio Dio – principio della mia realtà, del mio dovere, della mia speranza – non lo cercherei come l’Alfa e l’Omega del mio vivere; e insieme come Colui che è al di sopra, infinitamente, di ciò che io possa pensare di Lui ed è più interiore a me di quanto io possa esserlo a me stesso. Superior summo meo, interior intimo meo.

Dio nasce in noi quando ci rendiamo conto che non è il contenuto del nostro agire che veramente importa, ma l’intenzione animatrice che lo struttura interiormente: intenzione per cui ogni azione può essere intimamente orientata a Dio, e dunque a Lui donata, tale cioè che Dio possa accoglierla e darle compimento. Dio nasce in ogni uomo in modi sempre nuovi e imprevedibili, che nessuno potrà mai pretendere di descrivere e imprigionare, e si fa nostro interlocutore quando la sofferenza e il silenzio dissipano le nebbie delle pretese arroganti da cui eravamo avvolti. La mia ragione e il mio cuore trovano Dio, sempre di nuovo, semplicemente per la «via» insegnataci dal Vangelo: Gesù Cristo.

 

NATALE CON UN IGNOTO AUTORE DELL’VIII SECOLO. Penso in questi giorni alle parole semplici e profonde con cui un ignoto autore dell’VIII secolo celebra il mistero dell’Incarnazione nell’inno Jesu, redemptor omnium. Eccone la traduzione italiana.

Gesù, redentore di tutti, / prima che la luce / avesse origine, / uguale alla sua stessa gloria / il Padre supremo ti generò./

Tu, luce, splendore / del Padre / tu, speranza perenne di tutti / ascolta le preghiere / che per l’universo / innalzano i tuoi umili figli./

Ricordati, Creatore / del mondo / che un giorno, nascendo / dal seno benedetto / della Vergine, tu rivestisti / la stessa natura / del nostro corpo./

Questo giorno, che l’anno / nel suo corso riconduce, / attesta che tu solo / dal seno del Padre / sei venuto a salvare / il mondo./

Gli astri, la terra, il mare, / e quanto sta sotto il cielo / l’autore della nuova salvezza / salutano con cantico / nuovo./

E noi, aspersi dall’onda beata / del sangue di Dio / nel giorno del suo natale / sciogliamo il tributo di lode./

Sia gloria a te, Gesù, / che sei nato dalla Vergine, / al Padre e allo Spirito Santo, / nei secoli dei secoli.

Amen.

 

La rubrica “Detti e contraddetti” è stata pubblicata sul Giornale di Brescia con cadenza settimanale dal 5 gennaio 1988 al 25 gennaio 2007.