Detti e Contraddetti 1994 – 2° semestre

DETTI E CONTRADDETTI 1994 – SECONDO SEMESTRE

7 luglio 1994.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il miracolo dell’essere è estraneo all’ideologia. Un’ideologia è alla lettera quel che il suo nome dice: la logica di un’idea. Il suo oggetto è la storia passata, presente e… futura a cui viene applicata l’idea. Mai le ideologie s’interessano al miracolo dell’essere (Hannah Arendt). Nessuna idolatria: anche Pietro è un uomo. Avvenne che, mentre Pietro stava per entrare (nella casa di Cornelio), questi andandogli incontro si gettò ai suoi piedi. Ma Pietro lo rialzò, dicendo: «Alzati: anch’io sono un uomo!» (Atti degli Apostoli). La fonte vera dell’autorità. L’autorità che un altro ha su di noi non viene né dalla sua posizione né alla sua fama. Nasce spontaneamente e a prima vista in colui di cui sentiamo docilmente la superiorità (Odilon Redon). Cosa direbbe oggi Jemolo? A parte i guai personali c’è lo schifo di vivere in un mondo così sporco, al quale non mi so proprio adattare. (È lo stralcio di una lettera di Arturo Carlo Jemolo del 22 gennaio 1977 ad Alessandro Galante Garrone. Sono passati sedici anni). I maestri di prim’ordine e quelli di second’ordine. I maestri di prim’ordine si danno a conoscere dal fatto che, nel grande come nel piccolo, sanno trovare in modo perfetto la fine, sia la fine di una melodica o di un pensiero, sia il quinto atto di una tragedia o di un affare di Stato. Quelli di second’ordine, invece, diventano, verso la fine sempre più inquieti (Friedrich Nietzsche).

IL PECCATO DI ANACRONISMO. Non bisogna sforzarsi di conservare forme e schemi interpretativi quando il loro tempo è passato. Ireneo già nel II secolo aveva mostrato che l’aspetto temporale, il Kairòs, interviene in modo decisivo nel giudizio di valore su di una realtà storica. Voler conservare forme superate è propriamente ciò che si potrebbe chiamare «peccato di anacronismo». Ed è peccato grave perché assolutizza il relativo, eternizza il contingente, impedisce ogni reale rinnovamento. Peggio, fa del cristiano un hegeliano inconsapevole, per il quale alla fin fine tutto ciò che è, è sempre quello che doveva essere, impegnando altresì la Chiesa in un’operazione di retroguardia a difesa di istituzioni e uomini assai spesso tutt’altro che difendibili. A dirla in breve: l’errore non consiste nel fatto che la Chiesa spinga, come è suo dovere, i cristiani a incarnare il messaggio evangelico nelle diverse civiltà e realtà storiche; l’errore comincia al momento in cui si vuole identificare il Cristianesimo stesso, e comunque la Chiesa, con una ed una sola tra esse.

Il Cristianesimo si incarna in civiltà successive, ma queste diverse incarnazioni, soprattutto quelle politico-sociali, sono sempre parziali e imperfette, caduche. Mi sia permesso di riprendere in senso inverso un’espressione marxista: il Cristianesimo è la struttura che permane nel mutamento, le cristianità sono le sovrastrutture che mutano, sì che forme fino ad un certo punto erano state buone, prima o poi, cessano di esserlo inevitabilmente. Dopo lo slancio e la testimonianza creatrice giunge sempre, puntualmente, il momento in cui una sovrastruttura entra in crisi e diventa addirittura una contro-testimonianza: Péguy diceva che tutto è mistico all’inizio, ma poi tutto finisce in politica e denaro. È l’agonia di un certo tipo di cristianità e di ciò che nella Chiesa è solidale con essa. Non c’è ragione di rallegrarsi, ma neppure di gridare all’avvento dell’Anticristo. Finisce un mondo, un’epoca storica, ma non è la fine del mondo.

L’ITALIA CHE NON DEVE ESSERCI PIÙ. La sera del 28 dicembre 1993, alle 21,10, il treno numero 388 partì da Lecce, diretto a Zurigo e a Stoccarda via Bologna. Pare che vi fossero su di esso circa 800 passeggeri, ed è presumibile che molti, nel corso della notte, abbiano dormito o dormicchiato. La mattina del 29, alle 6,30 per la precisione, quelli che si svegliarono e guardarono fuori del finestrino si accorsero con stupore di essere a Sibari, città della Calabria, e non nei pressi di Bologna, città dell’Emilia, dove il treno sarebbe dovuto arrivare un’ora più tardi. Che cosa era successo? Era successo che la stazione di Barletta era stata occupata dai dimostranti, nel corso di una manifestazione indetta per ottenere che Barletta diventi un capoluogo di provincia. Il treno numero 388 era stato dirottato pertanto su Taranto e Napoli, per raggiungere Bologna lungo la linea tirrenica. Il dirottamento implicava un ritardo di dodici ore.

L’ANGOLO DI SENECA. La sola vera libertà. L’impegno più solenne per una retta coscienza è proprio quello di diventare buono. Ma non voglio lasciarti ingannare! Questa scelta è niente affatto comoda e facile. Siamo nati per un combattimento che non può esserci risparmiato. «Allora, tu dirai, come ne verrò fuori?». Non puoi sottrarti ai condizionamenti negativi, ma li puoi vincere. Ci si fa strada a viva forza. Sarà la saggezza a farti strada. A lei rivolgiti se vuoi essere salvo, sicuro, felice; se vuoi essere, ed è ciò che più conta, libero. La saggezza è la sola vera libertà ed è una sola la via diritta che porta ad essa. Va’ con passo sicuro! Se vuoi sottomettere tutto a te, sottometti te stesso alla ragione! (Ad Luc. 37, 1, 4 passim).

14 luglio 1994.

RECTA BREVISSIMA. Il bisogno dell’Oltre. L’uomo non si rassegna / a nessuna morte, / e nessuna gloria lo disseta (Corrado Alvaro). Il malinconico è colui che… Aristotele, divulgato da Ficino, ha fondato una definizione durevole: il malinconico è colui che, meglio di un altro, può innalzarsi ai più alti pensieri; ma se la bile nera, da ardente com’era, finisce col consumarsi e si raffredda, diventerà glaciale e si convertirà, secondo i termini ripresi da Baudelaire, in nero veleno. Ma sì: la depressione, per gli scrittori, è un veleno o un farmaco (Jean Starobinski). Non ci sono parti riservate. Il cristianesimo non è dottrina esoterica, non ci sono parti riservate a pochi. Tutto è per tutti… Il cristiano più mediocre partecipa di quell’atmosfera ove respirano un san Bernardo e un san Giovanni della Croce… Abbiamo il diritto e il dovere di profittare dei santi (Paul Claudel). Il poeta e il suo tempo. Il grande poeta nello scrivere se stesso scrive il suo tempo (Thomas S. Eliot).

UN CERTO MODO DI ESSERE ECUMENICI. Padre Aleksandr Men’ era famoso in Russia per la sua apertura alle altre confessioni cristiane, e particolarmente al cattolicesimo. Le sue convinzioni ecumeniche avevano preso forma in modo definitivo nel 1958, in seguito a lunghe riflessioni e ricerche. Le opere di Solov’ev hanno certamente avuto un’influenza determinante. La personalità di Giovanni XXIII aveva ugualmente prodotto una viva impressione su di lui. Egli amava ripetere le parole di monsignor Platon, metropolita di Kiev morto nel 1891, secondo cui «i nostri steccati non arrivano fino al cielo». A suo modo di vedere, la separazione delle Chiese era stata determinata da differenze d’ordine politico, nazionale, etnico-psicologico, culturale. «Sono arrivato alla convinzione che in realtà la Chiesa è una, e che i cristiani sono stati divisi soprattutto per la loro ristrettezza di vedute e per i loro peccati. Certo ci vorrebbe un miracolo perché l’unità reale fra i cristiani venga ristabilita. Per il momento, però, si può almeno superare l’incomprensione, l’atteggiamento aggressivo degli uni verso gli altri. Se i membri delle differenti comunità si conoscessero meglio, la cosa finirebbe per portare i suoi frutti».

Sfortunatamente non tutti i cristiani sono capaci di riconoscere ciò che è valido nelle altre confessioni. Quelli la cui fede è incerta, che non sentono un terreno solido sotto i piedi, preferiscono ripiegarsi su se stessi. Una volta, un giovane che aveva cominciato ad assistere qualche volta a delle assemblee battiste, gli aveva chiesto consiglio. Il padre gli aveva spiegato che poteva restare ortodosso anche essendo aperto alle altre confessioni. «Oh, quant’è scomodo!» gli aveva risposto il giovane. E alla fine dei conti, si era fatto battista. «Vede, aveva commentato padre Aleksandr, questo ragazzo non poteva che diventare un battista che non riconosce gli ortodossi, o un ortodosso che maledice i battisti. Aveva bisogno del suo piccolo rifugio. C’è una malattia psichica che si chiama agorafobia. Sembra che lo zar Pietro il Grande ne soffrisse. Si faceva sempre costruire delle case piccole, delle camere piccole. Beh, questa malattia esiste anche nella storia delle religioni!». Aveva raccontato questa storia nell’ultima intervista che aveva rilasciato, qualche giorno prima del suo assassinio, che avvenne il 9 settembre 1990. Aveva anche aggiunto che di recente due o tre persone avevano abbandonato la sua parrocchia per farsi cattoliche. La giornalista, allora, gli aveva domandato se lui stesso non avesse mai pensato a questa possibilità. Aveva risposto con una frase lapidaria: «Per me la Chiesa è una. Penso che una cosa del genere non abbia senso».

L’ANGOLO DI SENECA. Il tramite della poesia. Sono molti i poeti che dicono ciò che i filosofi hanno detto o potrebbero dire (Ad Luc. 8, 8). Filosofia e interiorità. Il bene più alto non esige, per attuarsi, mezzi estrinseci; si coltiva in casa, dipende interamente solo da noi stessi (Ad Luc. 9, 15). Accettare la vecchiaia. Dovunque ci volgiamo, scorgiamo le prove del nostro invecchiare. Accogliamo la nostra vecchiaia e amiamola: essa può dare tanta gioia per chi ne sappia usare bene. I frutti sono più che mai graditi quando cominciano a mancare; la fanciullezza è molto bella quando sta per finire; a chi piace il vino, piace di più l’ultimo sorso, quello che dà il colpo di grazia e inebria; ogni piacere ha il suo momento culminante quando volge al termine. Piacevolissima è l’età che già declina, ma non scende ancora a precipizio; tuttavia persino l’ultimo periodo della vita ha i suoi piaceri o, almeno, ha il vantaggio di non sentirne il bisogno (Ad Luc. 121 e 4-5).

21 luglio 1994.

LINEA RECTA BREVISSIMA. L’azzurra infinità. Respirare l’immenso cielo azzurro. È Hugo che scrive. Respirer l’immense atmosphère. Ciò che manca ai cristiani. Ciò che manca ai cristiani è di pensare a quello che credono. (Levi Appulo) Come Mosè. Mosè si rapportava all’Invisibile come se lo vedesse (San Paolo). Il perché di tanta desolazione. La terra è desolata perché non c’è più alcuno che voglia riflettere seriamente (Libro di Geremia). Gli insegnamenti della storia. Quali sono gli insegnamenti della storia? Almeno quattro. 1. Quando gli dei vogliono distruggere qualcuno, prima lo ubriacano di potere. 2. I mulini del Signore macinano lentamente, ma con straordinaria finezza. 3. L’ape feconda il fiore che deruba. 4. Quando è abbastanza buio, si possono vedere le stelle (Charles Austin Beard).

Perché si scrive. Perché si scrive? Io scrivo per chiarirmi a me stessa e nella speranza che il lettore si riconosca, venga aiutato a capirsi e a riflettere su sé stesso. Lo scopo è questo, se no tutto è inutile (Natalia Ginzburg). I peccati e la noia. La noia è un problema d’importanza vitale, giacché almeno la metà dei peccati commessi dagli uomini derivano dalla paura della noia (Bertrand Russell). Legittima aspirazione. Beato me, se mai potrò la mente / posar quieta in più sereni obietti / e sparger fiori e ricambiare affetti / soavemente (Giuseppe Giusti).

FAMIGLIA SENZA PADRE, SOCIETÀ SENZA FAMIGLIA. Dall’ultimo libro di Edward Luttwark, C’era una volta il sogno americano, apprendiamo che nella città di Washington il 42% di tutti i neri tra i 18 e i 35 anni o è in prigione, o è in attesa di processo. Le cause di una simile tragedia? Molte, evidentemente, ma una è nettamente prevalente: la maggior parte di quel 42% è costituita da figli senza padre perché ormai nei ghetti neri il padre non c’è più. Infatti, i figli generati fuori del matrimonio quasi sempre non sanno mai chi sono i loro padri.

Mi chiedo se, quali che siano le differenze del contesto sociale, non stia preparando un destino analogo per la famiglia e per la società in Occidente l’affermazione sempre più diffusa di certi aspetti della cultura radicale e di quelle correnti estreme del femminismo, che coltivano un’ostilità aggressiva verso l’uomo-padre, in quanto tale. Una donna convinta che il figlio sia soltanto suo, e non anche del partner maschile, degradato a mero strumento per la procreazione ma inutile e dannoso per tutto il resto, non può che tendere a una famiglia senza padre.

Evidentemente il nostro mondo è divenuto così snaturato e capovolto al punto di trasformare una disgrazia e una privazione negativa, l’orfanatezza, la non esistenza del padre, in una sorta di norma e di traguardo ideale. Noi, invece, pensiamo che alle bestialità di un maschilismo becero non si possa opporre la follia perversa della esclusione sistematica dell’uomo e del padre. Forse all’origine di tanto disordine mentale e morale, di cui i figli pagano inesorabilmente le conseguenze, sta l’aver perduto il senso stesso del rapporto uomo-donna, in cui ognuno dei due è «con» e «per» l’altro. Sta l’oblio delle grandi, gioiose parole della Genesi: «Quando Dio creò l’uomo, maschio e femmina li creò» (5, l-2); «Dio plasmò la donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: Essa è carne della mia carne» (2, 22-23). E ancora «abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una carne sola» (2, 24).

UOMO E DONNA. Le donne non vogliono per marito un bambino cresciuto. Hanno come ideale un uomo forte, gentile e coraggioso, con cui affrontare a fianco a fianco le difficoltà della vita. Di questo stesso tipo di uomo giusto e responsabile, hanno bisogno i figli come padre (Francesco Alberoni).

L’ANGOLO DI SENECA. Le sciocche sottigliezze. Spesso noi intellettuali diamo l’impressione di esercitare a vuoto il nostro ingegno e di perdere tempo in dispute che non approdano a nulla. Ci gingilliamo, giochiamo con sciocche sottigliezze e, così facendo, provochiamo lo sdegno, più che la discussione (Ad. Luc. 113, 1, 15). L’erudizione. L’erudizione, questo inutile studio di cose inutili, è quella cosa che, se la tieni per te, non serve per nulla alla vita interiore della coscienza; se la comunichi agli altri, ti fa apparire non più dotto, ma più scocciante (Brev. 13). La filosofia come medicina. La filosofia è un rimedio, non un diletto (Ad Luc. 117, 35).

28 luglio 1994.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Facile consigliare gli altri. A chi ha il piede fuori dalla sventura riesce facile dare consigli a chi soffre. Le parole dure. Le parole troppo dure si pagano sempre duramente. Il soffrire e il conoscere. La saggezza si conquista attraverso la sofferenza. (Eschilo, greco di Eleusi, 525-456 a.C.)

Perché si sprofonda. Uno Stato in cui la violenza e l’arbitrio dei singoli restano impuniti finisce per sprofondare nell’abisso. Le due sorelle. La stupidità è sorella della malvagità. Fa’ quello che il bene del Paese comanda. Merita solo disprezzo l’uomo politico che, per qualsiasi ragione, ha paura di fare ciò che ritiene meglio per lo Stato. Sono più forti. I buoni ragionamenti sono più forti di due mani robuste. (Sofocle, ateniese, 496-406 a.C.)

Occorre lucidità. Bisogna saper dare per perduto quello che si vede bene che si è perduto. Con occhi bendati. Ognuno ha il suo difetto, ma non se lo vede. Segno di grossolanità. Non c’è niente di più inopportuno di una risata inopportuna. (Catullo, 84 85 a. C.)

Ciò che bisogna aspettarsi. Aspettati dagli altri quello che agli altri hai fatto. La miglior parentela. L’affettuosa intesa degli animi è la migliore parentela. Dal sopruso all’arroganza. Colui al quale è consentito più del normale, vuole anche più di quanto è consentito. (Publilio Siro, I sec. a.C.)

AUTORITRATTO DI GIOVANNI PAPINI. «24 aprile 1931. Penso a me stesso. Chi sono: uomo di cinquant’anni, nato a Firenze. Scrittore celebre e tutti i giorni insultato dai giornali. Ma ho qualche originalità. Unico, forse, fra tutti gli italiani, non ho mai rivestito una montura né frack, né divisa, né domino, né toga, né tonaca. Nessuna livrea, neppure quella della patria. E sono l’unico, credo, che non ha mai sparato un’arma (in questi tempi di guerre e rivoluzioni, neanche per chiasso): non ho mai ammazzato né uccelli né lepri, né uomini! E non sono nulla neanche cavaliere, neanche giurato, neanche accademico, neanche cittadino o presidente onorario. Non ho mai messo un distintivo al mio occhiello. Mai una tuba sul mio capo. Non appartengo a nessun partito, a nessun club, a nessuna confraternita. Posso dire, però, di conoscere la vita comune, tutta. Ho abitato a Parigi e Bulciano. Ho assistito a sommosse, a rivoluzioni e a guerre. Ho frequentato la sala anatomica e l’ospedale (a Torino). Ho conosciuto un nonno e una nonna. Ho avuto un fratello e una sorella. Sono marito, padre, suocero, nonno, zio. Fui nipote e genero. In campagna ho vissuto da castellano (da Gordigiani in Mugello) e da contadino (dal Giovagnoli). Ho conosciuto la miseria assoluta e ho regalato diecine di migliaia di lire. Non sono contento della Chiesa alla quale appartengo (la fede sì, ma gli uomini no) né del paese dove son nato, né dello Stato al quale appartengo e neppure delle mie opere. Non sono contento del mio tempo, non son contento di me. Ed ho amato tanti amici che non credo più all’amicizia» (Scritti postumi, vol. II: Pagine di diario e appunti, Milano 1966, pp. 65-66).

Papini ha dato alla cultura italiana riviste come Leonardo, Il Regno, La Voce, Lacerba, L’Ultima. Scrittore di razza, polemista spesso unilaterale ma sempre capace di dissolvere miti e luoghi comuni, Papini è stato programmaticamente condannato all’oblio dopo il 1945. È ora che i giovani di oggi (e coloro che non son più tali) incontrino colui che ha scritto L’Uomo finito, La Storia di Cristo, Giudizio universale.

L’ANGOLO DI SENECA. La conversazione amichevole. Giova moltissimo una libera conversazione, perché s’insinua a poco a poco nell’anima. I discorsi già preparati e pronunciati in pubblico dinnanzi a un uditorio, hanno più risonanza, ma sono meno cordiali. La filosofia non è che un buon consiglio e un buon consiglio non si dà mai ad alta voce. In alcuni casi, se si deve dare una spinta a chi è in dubbio, può servire una certa elevatezza del discorso; ma se si tratta di istruire l’interlocutore, allora è bene usare parole più dimesse. Esse, infatti, più facilmente entrano nell’animo e vi rimangono impresse. Non molte devono essere, ma efficaci (Ad Luc. 38, l).

4 agosto 1994.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Se vuoi che diventi realtà. Il modo migliore per realizzare un sogno è quello di svegliarsi. (Pau1 Valéry). Per ringiovanire niente bla bla. Passare del tempo in silenzio ringiovanisce individui e popoli. (Cesare Pavese). La prima Intifax della Seconda Repubblica. Il governo è stato nei giorni scorsi messo per così dire in minoranza dai fax, da una irresistibile massa di fax contro il decreto Biondi. La prima Intifax della storia (La Stampa, 23 luglio 1994).

«AH, QUEL GALANTUOMO DI GIUDA!». «Ah, quel galantuomo di Giuda! Ha detto: ho tradito il sangue di un innocente: Più sincero di così! Oggi si usa tradire, prendere i soldi, non riconoscerlo, tenerseli». Il giudizio qui riportato è di Oscar Luigi Scalfaro e lo si può leggere in un opuscolo stampato qualche anno fa. Ma il presidente Scalfaro la pensa ancora così? Lui che ha ripetuto, più e più volte, che non avrebbe permesso il «colpo di spugna» su Tangentopoli, il 14 luglio ‘94, «all’alba» secondo il Corriere della Sera o alle 8 del mattino per le fonti governative, ha firmato un decreto che cancellava dalla lista dei reati gravi, per cui era possibile la carcerazione preventiva, nientemeno che la corruzione, il peculato, la truffa, la bancarotta fraudolenta e il falso in bilancio cioè tutti, ma proprio tutti, i reati tipici dei tangentisti, dei corruttori di Stato, dei grandi evasori fiscali, dei politici affaristi, degl’intrallazzatori di alto rango.

In risposta ad un mio telegramma sull’argomento, il presidente Scalfaro ha avuto la bontà di inviarmi un biglietto con il testo del comunicato ufficiale del 19 luglio 1994, in cui, nella parte conclusiva, si precisa: «Nel caso del decreto legge di cui si discute, le obiezioni e le osservazioni sono di merito e, perciò, escluse dalla competenza del capo dello Stato». Questo è, in sintesi, l’argomento fondamentale che Scalfaro adduce per giustificare la firma apposta al decreto Biondi.

Io rispetto l’interpretazione che il presidente dà dei suoi poteri costituzionali; mentirei, però, alla mia coscienza se dicessi che l’applicazione fattane in questo caso sia da condividere ed approvare. L’aperta violazione del principio etico-giuridico di uguaglianza dei cittadini dinnanzi alla legge, essendo privilegiati dal decreto gli autori di quei reati che più disonorano il Paese, e minano le basi del patto sociale, era ed è, a mio avviso, motivo grave e costituzionalmente fondato per non firmare.

INSIEME APPASSIONATAMENTE. A fine agosto ci sarà il Meeting di Rimini. All’inizio era un’autentica occasione di cultura e di incontro tra culture. Poi le spericolate, invadenti manovre correntizie del Movimento popolare e l’egemonia esercitata al suo interno dal famoso binomio Formigoni-Sbardella lo hanno screditato. Quest’anno sono stati invitati l’ex nemico di sempre, il cardinal Carlo Maria Martini, e l’amico-patron di sempre, quell’Andreotti che Il Sabato salutava con l’appellativo di divo Giulio. Ora si dice che il Movimento popolare non c’è più, ma i suoi uomini sono ancora tutti lì, e non in seconda fila. Comunione e liberazione e, in genere, i cattolici italiani, dovrebbero aver finalmente l’onestà di non affiancare Andreotti a Martini, ma di scegliere fra il primo e il secondo. Io sono tra coloro che si rifiutano di cantare la celebre aria del Rigoletto: «Questa e quella per me pari sono».

L’ANGOLO DI SENECA. Scrivo per i posteri… Per i posteri scrivo cose che possono tornare utili a loro. Affido ai miei scritti consigli salutari, quasi fossero ricette di medicine efficaci, da me già sperimentate sulle mie piaghe che, sebbene non siano del tutto guarite, pure hanno cessato di estendersi. La strada giusta, che io ho scoperto tardi, ormai sfinito dal vagabondare, la mostro ora agli altri (Ad Luc. 8, 2 3).

11 agosto 1994.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Le circostanze e il grand’uomo. Occorrono talvolta circostanze particolarmente tragiche a formare un grand’uomo (Vincenzo Cardarelli). Tre parolette brevi. «Tuus esto ubique». È un’espressione di San Bernardo ed è bellissima. Come renderla in italiano? «Sii te stesso in ogni situazione». Oppure più liberamente: «Sii sempre interiormente presente a te stesso e padrone di te stesso». Chi non conquista la sua interiorità non conoscerà mai l’ospite divino che l’abita (Levi Appulo). Il sublime e il banale. C’è sempre un punto critico, dove il sublime si decompone in banale (Alberto Cavallari).

COSA C’È DIETRO L’ILLIMITATA AUTO-STIMA? Malgrado la Caporetto sul decreto Biondi (o a causa di essa?), giovedì sera 21 luglio ‘94 il presidente del Consiglio Berlusconi dichiara testualmente in televisione: «Ho un complesso di superiorità che devo frenare». La frase è riportata anche dalla Stampa del 23 luglio. De Mita pensava la stessa cosa di sé. Craxi pure. Ma, precedenti poco edificanti a parte, quali giochi copre o scopre chi si lascia andare a una confessione pubblica di illimitata auto-stima?

Due le interpretazioni più accreditate. La prima, molto drastica, è dello psicanalista Aldo Carotenuto. «Chi si lascia andare a simili dichiarazioni denuncia senza volerlo il complesso esattamente contrario. In termini strettamente clinici chi afferma di soffrire di un complesso di superiorità in realtà patisce un drammatico senso di inadeguatezza. E, per sfuggire alla sua inadeguatezza non confessata, alla fine pretende di voler parlare ogni giorno al Paese a reti unificate». La seconda diagnosi è più sfumata. A tracciarla è Alessandro Meluzzi, psichiatra e deputato di Forza Italia. «Berlusconi sta vivendo il passaggio decisivo dall’adolescenza della politica alla maturità adulta». Ossia? «Vuol dire, spiega Meluzzi, che i rovesci degli ultimi giorni stanno insegnando con dolore e sofferenza a Berlusconi che per diventare adulti bisogna essere disposti a riconoscere il senso del limite. Berlusconi è entrato in politica con un sentimento di onnipotenza, e adesso sta scoprendo di essere entrato in una dinamica a lui estranea e che la relazione con l’oggetto è difficile e dolorosa». «L’importante, prosegue Meluzzi, è che il dolore venga elaborato e riconosciuto come tale». Faccia presto, però, signor presidente, per il bene del Paese e suo!

L’ANGOLO DI SENECA. Nessun esibizionismo, nessuna stravaganza. Che tu, abbandonata ogni altra cosa, ti impegni a renderti ogni giorno migliore, mi fa piacere, l’approvo e non solo ti esorto alla perseveranza, ma la pretendo da te. Ti avverto, però, di non essere stravagante nei tuoi atteggiamenti e nel tuo modo di vivere, come fanno coloro che bramano non di progredire, ma di farsi notare. Evita gli abiti rozzi, i capelli lunghi, la barba incolta e in genere le stranezze che, per vie traverse, sono tutte originate dal desiderio di attirare l’attenzione (Ad Luc. 5, l-2). Non allontanare gli altri dalla ricerca della saggezza. Lavoriamo a rendere sempre migliore il nostro animo, ma il nostro aspetto esteriore si accordi con quello dei più. Preoccupiamoci che la nostra vita sia migliore di quella del volgo, non contraria; altrimenti allontaniamo da noi e ci rendiamo estranei proprio quelli che vorremmo veder migliorare (Ad Luc. 5, 4).

18 agosto 1994.

LINEA RECTA BREVISSIMA. L’uomo è qualcosa di più. L’uomo è sempre qualcosa di più di ogni affermazione sull’uomo. Cristianesimo e mondo. Il Cristianesimo non risolve i problemi del mondo, ma aiuta il mondo a risolvere i suoi problemi. Contro l’unitarismo scriteriato. Bisogna distinguere per unire se si vuol cogliere meglio, traendone tutte le conseguenze sul piano pratico, l’autonomia delle realtà create e il valore delle realtà penultime. Non è altro che… Le tesi riduzionistiche sono sempre assertorie ed esclusive. Feuerbach e Marx eccellono nel formularle, ricorrendo di continuo a un’espressione che tronca ogni dubbio, ogni diversa ipotesi di spiegazione: «… non è altro che…». Cari libri, amici miei. Amo la vita, ma è vita anche la riflessione, la vitae meditatio. Si può dire di me come del giovane Pantagruelle: «Il suo spirito era tra i libri così come il fuoco tra i rami». (Levi Appulo)

L’ITALIA CHE NON DEVE ESSERCI PIÙ.

1. Assenteismo organizzato. Napoli, 23 giugno 1994. 182 spazzini firmano il cartellino, ma se ne vanno per i fatti loro. Sono finalmente arrestati per assenteismo. All’uscita dal carcere sono festeggiati da parenti e amici.

2. Ferrovie statali, carta igienica contro i ladri. Eccetto che sui tratti Milano-Napoli e Torino-Venezia, in cui i macchinisti sono dotati di telefono, il personale delle Ferrovie dello Stato è impossibilitato a comunicare con chicchessia in caso di emergenza. Di fronte al malore di un viaggiatore, a un’aggressione, a un furto, a un danno meccanico anche grave, il controllore, o chi per lui, non ha che un mezzo per chiedere soccorso: lanciare dal treno in corsa, dinanzi alla stazione per cui si transita, un rotolo di carta igienica in cui sia stato introdotto il biglietto che motivi la richiesta di aiuto. Non è una scena d’un film di Totò, ma è una disposizione del regolamento FS. E questo nell’era dei telefoni cellulari!

3. Da De Gasperi ad Andreotti. Dichiarazione ufficiale fatta in tivù: «Negli otto anni di De Gasperi gli addetti alla Presidenza del Consiglio erano duecento. Ora sono cinquemila!». Ogni Presidente del Consiglio ha avuto certamente la sua parte di responsabilità in questa proliferazione cancerosa; a noi, però, piacerebbe conoscere nei dettagli l’apporto decisivo che ad essa ha dato Andreotti, Presidente-simbolo del regime partitocratico.

UN BIGLIETTO A DI PIETRO. «Ho seguito sin dall’inizio con viva partecipazione la Sua difficilissima battaglia. La scongiuro: non si arrenda! Il nostro Paese ha bisogno di uomini come Lei, solidi, liberi e tenaci, che abbiano il senso dello Stato e del bene comune. Lei non è solo. La solidarietà affettuosa e la riconoscenza di milioni di persone oneste non le verranno mai meno. Suo, Matteo Perrini».

«FOGLI DI DIARIO» DEL 1974. Vent’anni fa. Ritrovo un’agenda del 1974 con appunti e annotazioni. Ne riporto qualcuna. La Bibbia, i Padri, l’ecumenismo. Ho letto Attualità dei Padri della Chiesa di André Benoit (Bologna 1970). Mi hanno colpito due osservazioni nel paragrafo conclusivo. La prima: «La patristica è attuale perché ci orienta all’ecumenismo e ci pone in modo incisivo la questione dell’unità ecclesiale». La seconda: «I Padri appartengono a tutti: ai cattolici romani come agli ortodossi, agli anglicani e ai protestanti. Studiare insieme i Padri equivale a trovare, dopo la Bibbia, un terreno comune sul quale possiamo restare uno accanto all’altro… I punti di vista potranno così avvicinarsi e il dialogo troverà un impiego più autentico». Benoit, protestante e vir justus.

Una domanda legittima. Non è forse vero che il divenire res, cosa, la «reificazione» dell’uomo e della donna, si attua attraverso la reciproca degradazione sessuale più che attraverso alienate strutture economiche? (A distanza di due decenni devo riconoscere che la domanda non si pone più. La nostra è diventata, come aveva temuto Bergson, una civiltà afrodisiaca)

25 agosto 1994.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La mente e la salute. In tutti gli uomini è la mente che dirige il corpo verso la salute o verso la malattia, come verso tutto il resto. La vita non è una pedina. Diversamente dalle pedine della dama, la vita, una volta giocata, non è possibile rimetterla giù per giocarla di nuovo, anche se ci si pente di come la si è giocata. (Antifonte detto il Sofista)

Non solo i virus. La maggior parte delle malattie traggono origine da un dispiacere. I capelli bianchi non bastano. Non basta avere i capelli bianchi per essere una persona assennata. Il nobile e il bastardo. Non ci sono né figli legittimi né bastardi, ma solo uomini. Anzi, una stirpe vale un’altra e, se si valuta bene, nobile è chi è virtuoso e bastardo è chi è malvagio. L’albero vecchio. È difficile trapiantare con successo un albero vecchio. (Menandro)

Se la decisione da prendere è seria. Bisogna valutare a lungo ciò che si deve decidere una volta per sempre. Dalla pazienza alla rabbia. La pazienza messa troppe volte alla prova diventa rabbia. A chi loda se stesso. Chi si loda trova in fretta chi lo copre di ridicolo. L’avaro. L’avaro non è buono nei confronti di nessuno, ma è pessimo nei confronti di se stesso. All’avaro manca sia ciò che ha, sia ciò che non ha. (Publilio Siro)

RESTO COMUNQUE ITALIANO. «Mi piacciono le pesche, le mangio volentieri e cerco, come posso, di assimilare il loro nutrimento. Ma non ho nessuna pretesa di diventare una pesca solo perché mi piacciono le pesche. Mi piacciono gli inglesi, nutro una grandissima stima per la cultura anglosassone, e penso che abbia silenziosamente vinto la sua guerra contro le filosofie continentali in questi anni di tracolli ideologici. Ma, anche se cerco come posso, di assimilare il segreto di quella cultura (che forse è una ragionata diffidenza per le astrazioni e un uso discreto dei simboli), non mi travesto da inglese e non tento di passare per anglosassone. Sono nato in Italia, vale a dire in Europa, e pur continuando a parlare italiano cerco di interessarmi come posso alle altre lingue e alle altre culture, a quella francese o spagnola o tedesca non meno che a quella inglese, insomma a tutto ciò che occorre per non affogare nel lavandino di casa. Resto comunque italiano, anche se conosco i difetti del mio Paese e li detesto».

Con queste dichiarazioni Saverio Vertone chiude il suo libro La trascendenza dell’ombelico (Milano 1994). Un libro intelligente e coraggioso, da leggere con rispetto e simpatia, perché animato da un profondo civismo.

DUE PENSIERI ILLUMINANTI. Ci sono riflessioni su cui occorre fermarsi perché racchiudono una luce insospettata e sono feconde di importanti conseguenze pratiche. Ne propongo due ai lettori, traendole da un pensatore di prima grandezza, Tommaso d’Aquino.

  1. «L’uomo è per sua natura coniugale più ancora che politico» (Suppl. q. 41, a. 1).
  2. «Le cose che attengono alla legge naturale sono pienamente custodite dal Vangelo» (Ea quae sunt de lege naturae plenarie in Evangelio traduntur, S. Th. 1, II q. 94, a. 4ad 1).

L’etica cristiana dà forza al contenuto e alle ispirazioni della legge naturale, nell’atto di slargarne l’orizzonte. Insomma, lo specifico cristiano sta insieme con l’umano e l’oltre, non è mai un contro.

NEL MONDO E OLTRE IL MONDO. L’uomo è sempre proteso oltre ogni esperienza, oltre ogni situazione nella quale si trova. Egli è aperto oltre il mondo, cioè oltre l’immagine momentanea che egli ha del mondo e perfino oltre la ricerca di qualsiasi immagine del mondo. Se il nostro destino non ci spingesse al di là del mondo, non proseguiremmo nella nostra ricerca continua (Che cosa è l’uomo, Wolfhart Pannenberg, Brescia 1974).

L’ANGOLO DI SENECA. La vera gioia. La vera gioia tocca solo a chi è saggio (Ad Luc. 59, 2). Oltre il rigorismo stoico. Delle gioie di tutti rallègrati, delle tristezze di tutti sii partecipe (Ad Luc. 40, 12). L’uomo saggio non è insensibile. Come dice Zenone, anche nell’animo del saggio, e persino quando la ferita è risanata, resta la cicatrice (De Ira 1, 16, 7). Filosofia e retorica. Ammetto che il sapiente abbia anche facilità di parola. Non la pretendo, però (Ad Luc. 40, 12).

1 settembre 1994.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Quando è il giudice a essere condannato. Quando viene assolto un colpevole, è condannato il giudice. Se son loro a comandare. La disonestà di pochi è il danno di molti. Il coraggio di osare. Un pericolo non si supera mai senza pericolo. Le spine e la rosa. Anche le spine sono gradite se tra esse si vede spuntare la rosa. (Publio Siro)

Diffidare delle apparenze. Non bisogna mai credere troppo all’apparenza. Accettare il limite. Non tutti possiamo fare tutto. La forza più grande. L’amore vince tutto. È dolce il ricordo. Talora, a distanza di tempo, anche il ricordo delle cose che più ci hanno fatto soffrire può sembrare dolce. La brama esecranda. L’esecrabile brama dell’oro costringe l’animo degli uomini a fare le cose più terribili. Perché cercare la pace. Non c’è salvezza nella guerra. (Virgilio)

UN RAPPORTO SBAGLIATO CON LA PROPRIA STORIA. «Si ha l’impressione che il continuo parlare del fascismo e il continuo girarci intorno (anche da parte di storici dilettanti) sia il segno di un rapporto malato che gli italiani hanno con la loro storia. In altri Paesi europei di grandi tradizioni, il passato, nel bene e nel male, fa parte della identità culturale di quelli; ne è, per così dire, il fondamento intuitivo comune, cioè il sentirsi così e non in un altro modo. E non credo, ad esempio, che la rivoluzione di Cromwell in Inghilterra, le guerre di religione e le rivoluzioni in Francia, la guerra dei contadini e il nazismo in Germania, la guerra civile in Spagna, il tempo di Vichy ancora in Francia (tutte lunghe e sanguinose vicende) siano pagine della storia meno traumatiche del fascismo italiano, anzi. In verità quegli eventi fanno parte di un problema, di un processo di conoscenza, di un travaglio culturale, anche inavvertito, dei francesi, dei tedeschi, degli inglesi, degli spagnoli che non può essere costantemente ricondotto, come invece avviene in Italia, ai successi e ai fallimenti di una eterna Destra e di una eterna Sinistra e alla loro conflittualità, poiché in ogni caso la Destra e la Sinistra di quei Paesi sono incardinate nella complessità della loro storia e non hanno la nevrotica elementarità e la fragilità dimostrate dalle pur forti destre e sinistre italiane. Dunque non riusciamo più a percepire le distanze temporali e mai come in questo periodo di transizione politica siamo impigliati in un tempo immobile, senza ancoraggi nella storia e senza grandi idee».

Queste riflessioni, apparse su La Repubblica del 24 giugno 1994, sono di Lucio Villari, uno storico marxista, e mi sembrano degne di essere sottoscritte.

UNA INFEZIONE GRAVE. In un libro di Eugène Dévaud, che risale al lontano 1938, ho trovato una riflessione che tante volte ho fatta io stesso, con immutato dolore. Si tratta di un fenomeno, di una infezione grave dell’anima dei lavoratori e dei loro figli, una specie di «borghesia acuta». «La scuola, scrive il pedagogista elvetico, ha nuociuto ai giovani, presentando il lavoro solo come mezzo di evasione dal lavoro: invece di aiutare il futuro lavoratore a comprenderne il valore umano, essa sviluppa in lui la mentalità del “piccolo borghese” che si sente uomo solo nel momento in cui cessa di sentirsi lavoratore». Né meno acuta è l’ossessione su come un valore alto, qual è la cultura, possa diventare coefficiente di disintegrazione della persona: «La cultura non utilizzata per nutrire la vita interiore o per dirigere gli atti esteriori può essere un fermento di disordine, di malcontento e di insuccesso: può fare di un uomo uno spostato» (E. Dévaud, La scuola affermatrice di vita, VII ed., Brescia 1961, p. 115).

L’ANGOLO DI SENECA. Come colui che è lì lì per cadere. In tutte le cose mi accompagna la debolezza di un’anima che pure nutre buoni propositi e in quella incostanza temo di scivolare giù. Mi pare di perdere sempre, come colui che è lì lì per cadere. Son travagliato non da una tempesta, ma dal mal di mare. Io soffro ancora, pur essendo in vista della terraferma (De tranquillitate animi 1, 16 e 18).

8 settembre 1994.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Se il tuo parlare è incontrollato… Chi dice ciò che vuole deve aspettarsi in risposta ciò che non vuole. Chi nasce deve pur morire. Per tutti i mortali morire è un dovere. Voce dal sen fuggita. Non è facile fermare un sasso quando è uscito dalla mano, né un discorso quando è uscito dalla bocca. Il vecchio e la sposa giovane. Per un uomo vecchio una sposa giovane non è una moglie ma una padrona. È inevitabile. Parla in modo sensato a uno stupido e questi ti chiamerà stupido. Ciò che da molti anni i politici italiani hanno mostrato di non capire. Le belle parole e i discorsi speciosi sono la rovina degli Stati. Non si deve piacere agli orecchi: si devono dire cose. Il silenzio come risposta. Per il saggio il silenzio vale una risposta. (Euripide)

Nulla di più pericoloso. Nulla è più pericoloso di un pazzo che sembra savio (Crizia). La semina e la mietitura. Ciò che si semina con disamore, si miete con danno. Il riso e la serietà. La serietà di un avversario va disarmata con il riso e il riso con la serietà. (Gorgia da Lentini)

UNO DEI PEGGIORI MAESTRI. Sono passati dieci anni dalla morte di Julius Evola, il più famoso tra gli intellettuali dell’estrema destra italiana, che Almirante definiva «il nostro Marcuse, ma più bravo», ed è un gran bene che di lui si parli molto poco. Certamente nelle sue opere vi sono singole analisi e osservazioni acute che colgono bene, in politica come in estetica, l’uno o l’altro aspetto deteriore della modernità; tuttavia la sua visione del mondo nel suo insieme è qualcosa che deve profondamente ripugnare. Noi che da giovani fummo lettori di Evola, negli anni 1939-43, un debito verso di lui l’abbiamo: siamo stati, infatti, aiutati proprio dai suoi scritti a capire quanto fossero radicali l’antiumanesimo e l’anticristianesimo delle ideologie di destra se colte, per così dire, allo stato puro, e non smussate dalle convenienze e dalle necessità cui inevitabilmente soggiace l’azione politica.

Evola proietta nel futuro dell’umanità come ideale un passato assai remoto, la leggenda indogermanica e la società chiusa di Sparta (o tutt’al più della Roma arcaica dei patres). Egli è soprattutto un pagano per il quale, come del resto per Marx, la levatrice della storia è la violenza, «unica soluzione possibile e ragionevole» dei problemi d’interesse generale, purché esercitata da quelle ristrette élites, presso cui pone le sue tende lo Spirito! Ma, a veder bene, se si riesce a districare dai miti pseudo-storici, che pure gli conferiscono una parvenza di grandiosità, il pensiero di Evola è già esposto nelle linee essenziali e con la massima crudezza da Callicle, nel Gorgia di Platone. Esposto, e una volta per sempre confutato, per bocca di Socrate; ed è a quel dialogo che rimandiamo i nostri lettori, soprattutto i più giovani.

Evola non esita a scrivere che le sue «élites dello spirito» devono costituire un vero e proprio ordine o corpo sul modello delle… SS naziste, alle quali dedica pagine e pagine di estasiata ammirazione. E, come le SS, Evola, il cosiddetto «visionario folgorato» (ma da chi e a pro di che cosa?), professa il più deciso antisemitismo. «L’Ebreo in Italia, scriveva nel 1941, è stato messo al bando soprattutto per via dell’azione corrosiva e disgregatrice in sede sociale e culturale che la razza ebraica esercita spesso perfino senza volerlo, per natura, allo stesso modo che al fuoco è proprio il bruciare e ad una vipera il mordere e l’avvelenare». Il titolo, poi, con cui sono stati ripubblicati di recente gli scritti degli anni 1936- 1941 è agghiacciante: «Il genio di Israele. L’azione distruttrice dell’ebraismo». Come se quell’abisso di orrore e di vergogna che ha nome Auschwitz non ci fosse mai stato.

L’ANGOLO DI SENECA. Testimoniare la verità. Il vero saggio non è chi professa, ma chi testimonia la verità (Ad Luc. 20, 9). Insieme, incontro alla verità. Noi cerchiamo la verità con quelli stessi che ce la insegnano (De otio 3, 1). Non cercare guai. Io non la penso come quelli che avanzano tra i flutti e che, puntando tutto su una vita tormentata, si fanno carico con grande coraggio delle difficoltà di ogni giorno. Il saggio sopporterà questo modo di vivere, ma non lo sceglierà; vorrà vivere in pace piuttosto che in uno stato di guerra continua (Ad Luc. 28, 7).

15 settembre 1994.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Non c’è alibi per l’ignavia. Vincenzo Gioberti in una lettera del 23 agosto 1843 a Terenzio Mamiani scriveva: «Occorre non cercare nei vizi dei governi la scusa della propria ignavia». È un monito valido per ogni tempo, e dunque anche per il nostro. Più leggi, meno libertà. Il 25 giugno 1860 Terenzio Mamiani, ministro della Pubblica Istruzione, si dava la seguente regola d’azione: Con poche leggi e con molta libertà. Nei 133 anni di vita statuale, la classe politica italiana ha fatto esattamente il contrario: moltiplicando fino all’assurdo le leggi, le ha rese ineseguibili e, nella stesso tempo, ha ristretto sempre di più per i cittadini onesti la sfera delle libertà. (Levi Appulo)

Noi ne siamo convinti. Il primato dello spirituale rappresenta l’insostituibile base del primo riscatto dell’uomo da ogni servitù (Frédéric Ozanam). Che il fuoco arda. L’anima mia è un fuoco che soffre se non fiammeggia (Stendhal). Dimmi come ti rapporti alla parola. La moralità di un uomo si riconosce dal suo atteggiamento verso la parola (Lev Tolstoj).

CINQUE BREVI RIFLESSIONI.

1. L’evangelico «non voltarsi indietro». Bisogna ben vedere ciò che è morto e ciò che è vivo per accogliere l’invito del Vangelo a non voltarsi indietro, se abbiamo messo mano all’aratro, e a lasciare che i morti seppelliscano i morti. «Sottraetevi a questa roba morta; / amiamo ciò che è vivo!».

2. Una nuova arte tirteica. È possibile una nuova arte tirteica, non moralistica né bellicista, un’arte autenticamente umana, capace di commuovere e di elevare spontaneamente gli animi, suscitando in essi il gusto di vivere e di affrontare con slancio le dure lotte della vita? Péguy non è forse l’iniziatore nel XX secolo di una siffatta poesia?

3.Tre evidenze. «Aliquid existit, ergo Deus est». Qualcosa esiste, dunque Dio c’è. «Cogito, ergo sum». Penso, dunque sono. «Amo, ergo Tu es». Io amo, dunque Tu sei.

4. Segno dei tempi. Un’espressione bella, fortemente allusiva, ma tremendamente bisognosa di chiarimento. Occorre distinguere, infatti, tra i segni dei tempi, le virtualità nobili e degne di un’epoca e le novità reali che esse comandano, da una parte; dall’altra, le mitologie e i disvalori che purtroppo ogni tempo si porta appresso, genera, o rilancia.

5. La via antropologica sì, l’antropocentrismo no. Si parla di «svolta antropologica». Ma in che senso? Certo per lo meno a partire dalle Confessioni di Agostino ogni discorso su Dio è un discorso che muove dall’uomo e dal suo modo di cercare Dio. Ma il metodo dell’interiorità, da Agostino a Blondel, non conclude affatto all’antropocentrismo.

MARC BLOCH «ACCOMPAGNAVO A STOCCOLMA HENRI PIRENNE…». «La solidarietà dei tempi ha tanta forza che le relazioni di intelligibilità tra essi sono veramente orientate in due sensi. L’incomprensione del presente nasce fatalmente dall’ignoranza del passato. Forse, però, non è meno vano tentar di comprender il passato, ove nulla si sappia del presente. L’ho già raccontato altrove: accompagnavo a Stoccolma Henri Pirenne, il quale all’arrivo mi disse: “Che cosa andiamo a vedere prima di tutto? Mi pare ci sia un municipio nuovissimo. Cominciamo di là”. E poi aggiunse, quasi volesse prevenire il mio stupore: “Se fossi un antiquario, non avrei occhi che per le cose vecchie, ma sono uno storico. Ecco perché amo la vita”. Questa facoltà di apprensione di ciò che vive: ecco la massima virtù dello storico». A questa mirabile pagina mi piaceva far ricorso quando volevo far intuire agli studenti il concetto: Ogni storia è storia contemporanea.

L’ANGOLO DI SENECA. La misura del tuo profitto. Lascia che la filosofia penetri nella profondità della tua anima. Misura il profitto che ne trai non tanto da quello che dici o che scrivi, ma dalla fermezza dell’anima e dalla diminuzione delle passioni (Ad Luc. 20, 1). Se sei saggio. Se sei saggio, misura tutto secondo l’umana condizione ((Ad Luc. 1 10, 4). Ambiguità del termine apatia. Il termine greco apatia suggerisce una pericolosa ambiguità. Infatti non è la stessa cosa un animo libero da passione, ed in tal senso invulnerabile, ed un animo insensibile, del tutto incapace di soffrire. Il saggio, secondo noi, vince ogni affanno, ma lo sente (Ad Luc. 9, l-3).

29 settembre 1994.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Solita storia. Lavoro eterno! / Paga il governo (Ugo Foscolo). La lingua e la nazione. Il Leopardi non dubitò di affermare che «la lingua, l’uomo e la nazione per poco non sono la stessa cosa». Ed ha ragione, perché la nazionalità è il pensiero e la coscienza dei popoli: e quello non può significarsi agli altri, né questa conversar seco stessa senza l’aiuto della favella. Per la qual cosa il senso che ha il popolo del suo esser individuale come nazione, e il bisogno di autonomia politica importano e presuppongono necessariamente il senso dell’autonomia letteraria e l’aborrimento di ogni vassallaggio, così nel pensare, come nel parlare e nello scrivere (Vincenzo Gioberti).

LA NAZIONE NON SI SALTA. In un racconto di Pavese un giovane chiede al suo professore: «Ma lei ama l’Italia?» E il professore risponde: «Amo gli italiani». Il commento di Saverio Vertone nel suo libro La trascendenza dell’ombelico (Milano 1994) è quanto mai acuto e attuale. Il professore di Pavese dà, infatti, una risposta che contiene, avviluppati e arruffati, chilometri di equivoci culturali che tendono a cancellare il nome stesso Italia. Le nazioni, si sa, sono abbreviazioni e dunque simboli storico-geografici e culturali, abbreviazioni concettuali ed emotive. Ma sono abbreviazioni e simboli anche gli individui. Scrive ironicamente Vertone: «Se una signora chiedesse al marito “Tu mi ami?”, e il marito rispondesse “Amo i tuoi organi, anzi amo le tue cellule, i tuoi atomi, i tuoi neutroni…”, che cosa penserebbe la signora?».

La risposta di Pavese è ambigua, elusiva e sostanzialmente insincera, perché egli non vuol negare un certo legame con i suoi connazionali, ma nello stesso tempo rifiuta il simbolo che li riassume, la nazione. La nazione, però, è un carattere profondo dell’Europa moderna, in cui la democrazia si è sviluppata sui due cardini simmetrici dell’individuo e dello Stato, destinati a contrapporsi, ma anche a integrarsi necessariamente nella collettività nazionale. La nazione non si salta.

LA PREGHIERA DI SOCRATE NEL FEDRO. «Che io possa essere bello nell’intimo e che tutte le cose esterne siano in armonia con quelle interiori. Possa io considerare ricco solo l’uomo saggio; e possano i miei beni non essere maggiori di quanto è sufficiente ad un uomo temperante» (279 b 8-c 3). Quando leggo queste parole non posso fare a meno di associare il vecchio sileno ai santi e invocarlo, come faceva Erasmo: Sancte Socrates, ora pro nobis!

L’ANGOLO DI SENECA. Nessun esibizionismo, nessuna stravaganza. Che tu, abbandonata ogni altra cosa, ti impegni a renderti ogni giorno migliore, mi fa piacere, l’approvo e non solo ti esorto alla perseveranza, ma la pretendo da te. Ti avverto, però, di non essere stravagante nei tuoi atteggiamenti e nel tuo modo di vivere, come fanno coloro che bramano non di progredire, ma di farsi notare. Evita gli abiti rozzi, i capelli lunghi, la barba incolta e in genere le stranezze che, per vie traverse, sono tutte originate dal desiderio di attirare l’attenzione (Ad Luc. 5, l-2). Non allontanare gli altri dalla ricerca della saggezza. Lavoriamo a rendere sempre migliore il nostro animo, ma il nostro aspetto esteriore si accordi con quello dei più. Preoccupiamoci che la nostra vita sia migliore di quella del volgo, non contraria, altrimenti allontaniamo da noi e ci rendiamo estranei proprio quelli che vorremmo veder migliorare. Il risultato che rischiamo di conseguire non è certo quello sperato: coloro che temono di doverci imitare in tutto, non vorranno somigliare a noi in nulla (Ad Luc. 5, 4).

6 ottobre 1994.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il bene più grande. Di tutti i beni che la saggezza procura per una completa felicità della vita il più grande è l’amicizia. Il criterio di fondo. Dei desideri alcuni sono naturali e necessari, altri naturali ma non necessari, altri poi né naturali né necessari. La libertà dai desideri. Bisogna considerare un grande bene la libertà dai desideri, non perché dobbiamo sempre volere solo il poco, ma perché, se non abbiamo il molto, sappiamo accontentarci del poco. Come si vince la natura. Non bisogna far violenza alla natura, ma persuaderla. Tutti abbiamo una città senza mura. Gli uomini possono difendersi da tutto e da tutti, ma per quello che riguarda la morte, noi tutti abitiamo una città senza mura. (Epicuro, greco di Samo, nato nel 341 a.C. e morto in Atene nel 270 a.C.)

SI TORNA ALLA GUERRIGLIA? Nella città che più di ogni altra ha sofferto negli anni del terrorismo, a Milano, sabato 11 settembre 1994 c’è stato un ritorno di fiamma. Alla manifestazione, organizzata dal centro Leoncavallo, hanno partecipato migliaia di compagni giunti da tutt’Italia, in assetto di combattimento, viso coperto, tute di cellofan bianche, cubetti di porfido, mazze ferrate. Ed è stata guerriglia. Questo ritorno ai metodi violenti di un passato che speravamo sepolto per sempre a chi può giovare in termini di consenso politico? Forse a Rifondazione Comunista, che sogna un nuovo Sessantotto questa volta di formato neo-staliniano; sicuramente alla coalizione governativa, alla cui legittimazione danno un contributo assai rilevante il riaffacciarsi minaccioso dell’ultra-sinistra e l’incapacità della sinistra democratica a prendere apertamente, a muso duro, le distanze da essa. Come diceva Hegel, molto spesso «i nemici lottano stando abbracciati». Ho scritto altre volte in questa rubrica che il terrorismo ebbe un solo risultato: generò il consociativismo, ritardando di vent’anni la scoperta di Tangentopoli e la fine di un regime corrotto. Speriamo che qualcuno apra gli occhi in tempo sui guasti che reca al Paese la sottocultura brutalmente eversiva.

L’ANGOLO DI SENECA. Corpo e anima. È naturale amare il proprio corpo e averne cura. Concedo anche si abbia per esso una certa indulgenza, ma nego che si debba esserne schiavi. Molti padroni avrà, infatti, chi si fa schiavo del suo corpo, preoccupandosi troppo di esso e ad esso riferendo ogni cosa. Dobbiamo comportarci pensando di non dover vivere per il corpo, ma di non poter vivere senza il corpo. Se gli stiamo troppo dietro, ci turbiamo con eccessivi timori, siamo appesantiti da troppe preoccupazioni ed esposti anche alle offese. Il bene morale diventa cosa di poco valore per l’uomo a cui sta troppo a cuore il suo corpo. Abbiamo pure per il corpo il massimo riguardo possibile, ma siamo pronti a gettarlo nel fuoco quando lo esigerà la ragione, la dignità, la fedeltà (Ad Luc. 14, 1-2).

13 ottobre 1994.

LINEA RECTA BREVISSIMA. È un bene per chi lo venera. La venerazione del saggio è gran bene per chi lo venera. Il poter contare su qualcuno. Non abbiamo tanto bisogno dell’aiuto degli amici quanto del fatto di poter contare sul loro aiuto. Vero, verissimo. Non dobbiamo sciupare ciò che abbiamo col desiderio di ciò che non abbiamo. No al suicidio. Assolutamente uomo da poco è colui che accampa molti buoni motivi per abbandonare la vita. Non può bastarci il sembrare. Non fingere di essere saggio, ma sii saggio davvero: non abbiamo bisogno di apparire sani, ma di esserlo veramente. Darci da fare. Partecipiamo alle sventure degli amici non piangendo e lamentandoci, ma dandoci da fare. Nel caso che gli altri lo sappiano. Non fare nulla nella tua vita che possa procurarti paura o vergogna nel caso che gli altri ne vengano a conoscenza. Saper prevedere le conseguenze. Di fronte ad ogni desiderio bisogna porsi questa domanda: che cosa accadrà se il mio desiderio sarà esaudito, e che cosa accadrà se non lo sarà? La serenità. L’uomo sereno procura serenità a sé e agli altri. (Epicuro)

L’ITALIA CHE NON VORREMMO. Istruzione e magia. Giovedì, 1 settembre 1994, Tg 2 delle ore 20. Quindici milioni d’italiani consultano i maghi almeno una volta all’anno. Il 30% dei clienti è formato da laureati e il 40% da diplomati. La superstizione, come si vede, non è un residuo dell’arretratezza culturale del mondo contadino.

Un uomo Rai per ogni due gambe. Venerdì, 2 settembre 1994, Il Giornale titola: Incredibile: 90 inviati Rai per Miss Italia. Un esercito di 90 persone, fra tecnici e coreografi, è sbarcato a Salsomaggiore dalla capitale per le riprese televisive del concorso di Miss Italia. In pratica due uomini Rai per ogni «bellissima». Costo della spedizione? Un miliardo e mezzo.

La buonuscita da nababbi, alla faccia del popolo italiano. Non bastavano i miliardi intascati con le tangenti. Ai grandi inquisiti di tangentopoli è stata versata anche una «indennità di inserimento». E che indennità! Si va, come documenta una tabella riportata su Il Giornale del 10 settembre 1994, dai 516 milioni di Remo Gaspari ai 456 di Arnaldo Forlani, dai 326 di Bettino Craxi ai 288 di Antonio Gava, dai 240 di De Michelis e Pomicino ai 156 di De Lorenzo e Di Donato. I nostri legislatori hanno provveduto al loro ritiro dalle camere con la stessa preveggente sollecitudine con cui hanno… azzerato il debito pubblico. Trattandosi di inquisiti, i presidenti delle Camere non potevano bloccare il versamento di quelle somme fino alla emissione delle sentenze da parte della magistratura?

15 giorni di carcere, tre per ogni stupro. «Torna a colpire il bruto della Valtellina. Sesta vittima del maniaco. Per cinque stupri fece solo quindici giorni di cella» (Corriere della Sera, 11 settembre ‘94).

I FIGLI DELLA GIOVINEZZA. «Come le frecce in mano d’un guerriero / sono i figli della giovinezza» (Salmo 127, 12-13). Ad ogni età le sue gioie, le sue responsabilità, i suoi affanni. I giovani non devono rinviare, come oggi fanno, il più lontano possibile la nascita delle loro creature, anteponendo altre considerazioni a un evento di così straordinaria importanza, perché ai figli bisogna poter dare il fiore dei propri anni ed essere anche loro compagni di gioco. E i figli della vecchiaia? I vecchi, ed io sono uno di loro, devono essere nonni e non mamme e papà. I ritmi della natura, quelli biologici, ma anche quelli psicologici, vanno rispettati, senza presumere di alterarli a nostro arbitrio. I figli dei capelli bianchi rischiano di essere condannati alla condizione di orfani o a quella, non meno infelice, di enfants gatés.

L’ANGOLO DI SENECA. La signoria dello spirito. Il corpo è un fardello necessario di cui ci si deve far carico, non da amici compiacenti, ma da tutori. La piena padronanza del corpo è compito difficile che esige un continuo esercizio, perché lo spirito si sottomette a quello a cui è stato posto come signore. Nessuno è libero se serve il corpo (Ad Luc. 92, 33). Il primato dell’intenzione. In ogni azione chi è saggio guarda l’intenzione, non il risultato. Il momento in cui essa ha inizio dipende da noi, mentre del seguito dispone la fortuna (Ad Luc. 14, 15-16). L’aver desiderato di compiere il male. Anche questo è un gran delitto, l’essere stati così prossimi a compierlo (Phoenissae IV, 52).

20 ottobre 1994.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La verità scherzando. Niente impedisce di dire la verità scherzando. Ci sono precisi confini. C’è una misura in tutte le cose: ci sono precisi confini, al di là e al di qua dei quali non può esistere il giusto. Ciò che non dipende e ciò che dipende da noi. Avere guai per colpa del destino non è la stessa cosa che averne per colpa propria. I tipi peggiori. Chi dice male dell’amico assente, chi non lo difende quando lo accusano, chi ama far ridere la gente con oscenità per essere considerato spiritoso, chi inventa cose inesistenti e chi non sa tenere un segreto: questi sono i tipi peggiori, quelli da evitare a tutti i costi. Cancellare e riscrivere. Cancella spesso se vuoi scrivere cose che siano degne di essere lette più di una volta. Inevitabile in un mondo pazzo. È irragionevole temere di essere presi per matti in un mondo di matti. Il prezzo dell’onestà. Odiamo gli onesti quando sono vivi e li rimpiangiamo quando non ci sono più. Il deficit permanente. Molto manca a chi troppo pretende. Diritto e morale. La legge senza morale è vuota. Avere testa. Bisogna avere coraggio di avere giudizio. Pulizia interiore. Se il vaso non è pulito, qualunque cosa vi versi dentro puzza. (Quinto Orazio Flacco, 65-8 a.C.)

ANDREOTTI E MONTANELLI, L’INTERVISTA IMMAGINARIA. Montanelli finge che Andreotti sia morto e che dall’aldilà accetti di farsi intervistare. Nell’intervista immaginaria la vecchia volpe parla del passato, ma anche del presente e, dal canto suo, l’intervistatore non fa nulla per sottrarlo al severo giudizio della Storia.

Andreotti: «Ho fiducia che i nostri successori riusciranno, se non proprio a farci rimpiangere, per lo meno a…». Montanelli: «Forse. Temo però che stavolta lei si faccia delle illusioni. I successori saranno quel che saranno. Ma voi gli avete lasciato un tale patrimonio di esecrazioni che ci possono campare sopra per anni». Andreotti: «Quanti? Anche noi morti abbiamo la televisione, sa?». Montanelli: «Lei in ogni caso i conti con la Storia dovrà farli. Lei si preoccupa della Storia?». Andreotti: «Quando si occupa un proscenio politico per quarant’anni, con la Storia bisogna fare i conti. Intendiamoci: alla tentazione d’incarnare in noi tutti i difetti e le perversioni della Prima Repubblica nessun storico resisterà, anche perché io ho fatto tutto il possibile per avallare questa identificazione. Ma bisogna vedere su quali parametri mi si misurerà. Certo, se mi prendono le misure sulla taglia di De Gasperi, dovranno infliggermi il rogo in effigie. Ma se le prendono su quelle dei miei successori… Io seguito a non aver fiducia negli uomini. Ma nella loro stupidità, sì» (La Voce, 30 agosto 1994).

C’È UN’INVESTITURA ELETTORALE, MA CE N’È PURE UNA MORALE. Chi ama questo Paese non può non volere la distinzione e l’armonia tra i poteri legislativo, esecutivo, giudiziario. Ma il binomio esecutivo-legislativo non ha autorevolezza e dignità solo perché alla sua fonte c’è l’investitura da parte degli elettori. Questa è condizione assolutamente necessaria, ma non sufficiente. Ci vogliono leggi giuste, occorre che le decisioni siano prese in primo luogo in obbedienza all’imperativo del bene comune. Solo così il Parlamento, e con esso il Governo e la maggioranza, acquistano quell’investitura morale che il voto di per sé non può dare. Anche il Parlamento della passata legislatura, sarà bene ricordarlo, era stato liberamente eletto, e ciò nonostante dal punto di vista morale era delegittimato, in considerazione dell’alto numero di elementi che via via furono inquisiti e della manifesta incapacità di autoriformarsi.

L’ANGOLO DI SENECA. È l’intenzione che conta. Tu dici: «Che cos’altro potevo fare? Finora ce l’ho messa tutta». Il punto principale è proprio questo, ben di più di quanto si crede citando il proverbio «chi ben comincia è a metà dell’opera» È l’intenzione che conta: la bontà, in gran parte, consiste nel voler essere buoni (Ad Luc. 34, 3). Mezzi e fine. Cerchiamo in qual modo si possa pervenire alla virtù, quale via già di per sé virtuosa ci conduca ad essa (Ad Luc. 113, 26). Il logos in noi. La natura ci ha creati con una spontanea disposizione ad apprendere e ci ha dato una ragione imperfetta, ma perfettibile (Ad Luc. 49, 11).

27 ottobre 1994.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La cosa ti riguarda e molto. Se brucia la casa del tuo vicino, la cosa ti riguarda, e molto. Programma di vita. Possa io avere sempre quello che ho oggi, per quanto poco sia, e anche meno, se è necessario. Possa io vivere per me il tempo che mi rimane, se ancora un po’ me ne rimane. Possa avere una bella scorta di libri e, di cibo, quello che di volta in volta basta perché non debba sentirmi angosciato. Ma forse sarebbe sufficiente pregare Giove per quelle cose che può dare e togliere: la vita e i mezzi per vivere. Quanto al resto, a rendermi sereno l’animo penserò io. (Orazio)

DAVIDE NON È LEIBNIZ. I versi dei Salmi sono un inno di lode e di ringraziamento che il salmista, accompagnato dall’arpa, canta instancabilmente alla gloria del Creatore e delle sue opere. La gloria del Creatore è scritta in tutta la creazione; sì, tutto racconta questa gloria divina, e la terra e il cielo; lo splendore del sole e l’orbita degli astri e la corsa delle comete scrivono in lettere di fuoco le lodi del Signore. «Alleluia! Lodate l’Eterno nelle sfere celesti… lodate l’Eterno su tutta la distesa della terra». L’uomo dice sì a tutto quel che vede, alla margherita nei campi, alla fioritura dei ciliegi e celebra pure le meraviglie della notte.

La glorificazione dei salmi non è, come la teodicea, una laboriosa giustificazione dell’armonia generale: la teodicea del teologo, infatti, è una perorazione molto poco spontanea, molto poco convincente di un avvocato molto poco convinto; Leibniz ragiona troppo per credere veramente che il nostro mondo è il migliore dei mondi possibili: il suo ottimismo ci fornisce un gettone di consolazione più che esprimere un’adesione entusiasta alla cosa creata.

Davide, invece, non ha bisogno né di perorazioni indirette né di prove cosmologiche né di ragioni secondarie per credere. Dio, splendore risplendente, è presente tutt’intero nello splendore riflesso; è dunque per una visione immediata che leggiamo la gloria di Dio nella visibilità della luce. Lo stupore della creatura di fronte alle meraviglie sacramentali della creazione esprime soprattutto la fiducia e la gratitudine. «Io vi benedico foreste, valli, maggesi», dice il poeta Aleksej Tolstoj. E il salmo 19: «I cieli raccontano la gloria di Dio e il firmamento proclama l’opera delle sue mani. Il giorno ne fa il racconto al giorno, la notte ne dà notizia alla notte».

L’ANGOLO DI SENECA. Guardare il cielo. Nessuno è così indolente, ottuso, curvo verso la terra da non drizzarsi e da non innalzarsi con tutta la sua anima verso il cielo (Quaestiones naturales VIII, 1, 1). Il progresso nella conoscenza. I misteri della natura non si svelano che progressivamente (Nat. quaest. VII, 30).

3 novembre 1994.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il mondo e la storia. La creazione è l’origine assolutamente radicale di ogni cosa creata, ma il libero peccato della creatura è l’origine relativamente radicale della storia. L’imprevedibilità. Ha ragione Bergson nell’indicare nella imprevedibilità il solo carattere capace di rendere reale il divenire, il mutamento e dunque il tempo. L’imprevedibilità è l’elemento indomito e irriducibile, inquietante e appassionante, in una parola l’elemento aleatorio che costituisce il rischio dell’essere che si fa nel tempo. Quando non si sa di che sarà fatto il domani, il cuore batte più forte. Lo spirito come l’amore. L’amore, dice La Bruyére, incomincia con l’amore. Si potrebbe dire ugualmente che lo spirito incomincia con lo spirito. Eloquenza e reticenze. L’eloquenza della vita è fatta soprattutto di reticenze. La dialettica dissolvente. C’è una dialettica dissolvente che converte in misteri persino le evidenze più comuni. (Vladimir Jankélévitch)

Perché non dovremmo farlo anche noi? Io non descrivo l’essere, descrivo il passaggio (Michel de Montaigne). Una bellezza indicibile. Spesso mi sveglio a me stesso e, straniero ad ogni altra cosa, nell’intimità di me stesso, vedo una bellezza il più possibile meravigliosa (Plotino). Il tempo, ladro di giovinezza. Quanto presto il tempo, abile ladro di giovinezza, ha afferrato con le sue ali i miei anni! (John Milton).

UN ESEMPIO DI CATTIVO GIORNALISMO: IL «CASO BAGGIO». Nel quaderno del 6-20 agosto scorso de La Civiltà Cattolica uscì una breve informazione sulla presenza del buddismo in Italia. La stampa anticipò la notizia sin dalla fine di luglio, quando da poco si erano conclusi negli Stati Uniti i «mondiali» di calcio con la sconfitta ai rigori dell’Italia da parte del Brasile. Poiché uno dei maggiori protagonisti della squadra italiana era stato Roberto Baggio, il pezzo de La Civiltà Cattolica, in cui c’era un fugace accenno al suo nome, venne visto come un attacco personale al calciatore a motivo della sua professione buddista. «Baggio e Sabina, apostati», titolò a grossi caratteri il Corriere della Sera del 29 luglio, aggiungendo che, per i gesuiti, «i buddisti nostrani vanno scomunicati». Non fu da meno il Giornale dello stesso giorno: «Su Baggio il buddista i fulmini dei gesuiti: scomunicato». Alla «scomunica» irrogata a Roberto Baggio dai gesuiti si contrapponeva l’«assoluzione» del Vescovo di Vicenza: «Ma il vescovo di Vicenza, Nonis, lo assolve: “Roberto è un bravo cristiano”» (il Giornale, 29 luglio 1994).

Che cosa dire di questo modo d’informare i lettori da parte della stampa? Semplicemente questo: che probabilmente nessuno degli autori dei pezzi giornalistici ha letto il testo de La Civiltà Cattolica «in fonte», ma ci si è accontentati di riprendere quello che ne dicevano le agenzie di stampa, costrette a comprimere i fatti e a ridurli a qualche notizia giornalisticamente più «appetitosa.» Ora, essendo Roberto Baggio «l’uomo del giorno», che cosa c’era di più allettante per il pubblico che fargli giungere, da parte dei gesuiti, una bella scomunica per apostasia della fede cristiana? Senonchè, La Civiltà Cattolica non ha mai parlato di «scomunica» e, quanto a R. Baggio, contiene solo un accenno, in cui si dice testualmente che la setta buddista giapponese Soka Gakkai «conta sette milioni di fedeli in Giappone e in Italia 14.000 aderenti (il calciatore Roberto Baggio e l’attrice Sabina Guzzanti appartengono a questa tradizione buddista)». È tutto. Dunque. La Civiltà Cattolica fa il nome di Baggio, ma solo perché egli stesso ha affermato di appartenere alla Soka Gakkai. Non dà invece nessun giudizio sulla qualità religiosa della sua adesione, e perciò non lo si accusa né di «apostasia» né di essere incorso nella «scomunica». Il dialogo, il libero confronto tra diverse visioni religiose della vita è un compito a cui non ci si deve sottrarre, soprattutto nel nostro tempo; ma inventare un caso e fare questione di persone invece che di princìpi, sollevando accuse di intolleranza contro il mondo cattolico italiano, e indirettamente sulla Chiesa, è perlomeno grave scorrettezza.

L’ANGOLO DI SENECA. L’uomo saggio non ha il cuore di pietra. L’uomo saggio giudica le malevolenze, le offese e le ingiurie nei suoi confronti non disgrazie, ma molestie dell’animo e perciò non se ne cura. Sono ben altri i guai che colpiscono il sapiente, anche se non lo abbattono: la sofferenza fisica, l’invalidità, la perdita di amici e figli, le sventure della patria. Queste cose, lo ammetto, fanno soffrire il sapiente: non gli vogliamo imporre l’insensibilità della pietra o del ferro (De constantia sapientis 10, 4).

10 novembre 1994.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La poesia come la pittura. La poesia è come la pittura: c’è quella che ti seduce maggiormente se la esamini da vicino e c’è quella che invece ti conquista se la osservi un po’ più da lontano. Se vengono meno i buoni costumi. I forti nascono dai forti e dagli onesti. Poi, gli studi sviluppano la forza innata e una retta educazione rafforza gli animi. Ma se vengono meno i buoni costumi, la colpa macchia anche chi era nato al bene. Un pizzico di follia ci vuole. Finché si può, bisogna mescolare una punta di follia alla saggezza: è piacevole lasciarsi un poco andare al momento giusto. (Orazio)

IL RISCHIO MORTALE PER LA DEMOCRAZIA. Bergson nella sua ultima grande opera, Le due fonti della morale e della religione, richiama l’attenzione su una delle antinomie fondamentali del nostro tempo: la non coincidenza e anzi la divaricazione fra giustizia e libertà. La democrazia tende a realizzare l’uguaglianza, è uno dei suoi scopi primari; ma le modalità concrete della lotta politica e sociale, a cui essa sempre più spesso fa ricorso, sono tali da modificare le inclinazioni e le idee dei popoli in senso edonistico. Gli interessi individuali e di gruppo prevalgono allora inevitabilmente sui principi e sui valori. Così, sovrapponendo di continuo i desideri ai bisogni ed elevando i desideri a diritti, le società pseudo-democratiche non aiutano gli uomini a diventare più liberi e più giusti, ma li omologano perfettamente alle «offerte» del consumismo. La democrazia ugualitaria ha, dunque anch’essa i suoi rischi e i suoi esiti negativi,come la progressiva restrizione, negli ambiti più diversi, delle libertà dell’uomo e del cittadino e lo svuotamento morale delle coscienze, con tutti i guasti che ne conseguono.

Su questo argomento che è di estremo interesse, le analisi più originali e fortemente anticipatrici sono quelle svolte da Alexis de Tocqueville nel suo capolavoro, Della democrazia in America, apparso nel 1835 (ora in Oeuvres complétes, vol. 1, Parigi 1951; trad. it. Torino, ristampa 1981, e Milano 1992). Negli anni tra le due guerre mondiali, anche a causa dell’affermarsi dei totalitarismi ideologici (comunista, nazionalfascista e nazionalsocialista), il problema del rapporto giustizia-libertà si impose drammaticamente all’attenzione degli spiriti più riflessivi. Il punto di vista di Bergson, illustrato ampiamente nel capitolo finale delle Due fonti, è come dare un «supplemento d’anima» alla democrazia, cioè come rinvigorire nel profondo l’ispirazione etico-religiosa che l’ha generata, perché solo ritrovando lo slancio originario la democrazia sarà in grado di neutralizzare i meccanismi perversi che ottundono negli uomini la volontà di essere liberi e di costruire, in virtù di uno sforzo sempre rinnovato, una società fraterna.

ANCHE PER HORKHEIMER L’ANTITESI È REALE. Sul rapporto giustizia-libertà insiste, soprattutto negli ultimi scritti, anche il filosofo tedesco Max Horkheimer (1895-1973), il fondatore della Scuola di Francoforte, che tra il 1924 e il 1947 elaborò una «teoria critica della società», cioè un metodo di ricerca interdisciplinare e di auto-riflessione della società sulle sue strutture e sui suoi pregiudizi, insomma una sorta di diagnosi dei rapporti sociali alienati (ad esempio l’autoritarismo, l’antisemitismo, la discriminazione sociale) in vista del loro superamento. Per il filosofo tedesco la meta a cui tendere è diventata sempre più chiara: si deve sempre operare perché nel mondo il massimo di giustizia sia unito al massimo di libertà possibile. Nello stesso tempo, però, per risparmiare agli uomini atroci disinganni e un indebito surplus di sofferenze, occorre rigettare una volta per tutte il mito della società perfetta e prendere lucidamente coscienza di una verità che l’utopia nega,del fatto che giustizia e libertà sono, in ultima analisi, due concetti antitetici la cui conciliazione diventa in ogni campo, sul terreno delle scelte decisive, sempre più ardua.

Ancora nel 1970 Horkheimer ribadiva questo suo punto di vista in termini molto netti: «Non dobbiamo dimenticare, scrive Horkheimer, che tra libertà e giustizia esiste un rapporto dialettico. Quanto maggiore è la giustizia, tanto più è necessario limitare la libertà; quanto maggiore è la libertà di cui si gode, tanto più viene posta in pericolo la giustizia, perché i più forti, i più intelligenti, i più abili finiscono con l’opprimere gli altri. Questa antitesi di libertà e giustizia deve essere sempre presente alla nostra coscienza, anche quando pensiamo alla società del futuro. Per quel che mi riguarda, io ho sempre avuto una certa tendenza – pur desiderando ardentemente il miglioramento della società – a seguire la lezione di Schopenhauer, secondo cui il vero bene non si raggiunge mai in questo mondo reale» (Rivoluzione o libertà?, Milano 1972, p. 34).

L’ANGOLO DI SENECA. Il saggio non può vivere senza i suoi simili. Molti a torto scacciano il saggio da ogni luogo e lo confinano dentro la sua pelle. Ma finché può disporre liberamente delle sue cose, egli desidera avere vicini di casa e compagni di studio, prende moglie, vuole figli, coltiva amicizie. Rinuncerebbe a vivere se fosse costretto a vivere senza i suoi simili (Ad Luc. 9, 13; 17). Nei giorni di festa. Nei giorni di festa chi è saggio non si tiene lontano dagli altri, non cerca di distinguersi dalla folla e nemmeno di adeguarsi supinamente ai suoi atteggiamenti. Fa le stesse cose che fanno gli altri, ma non nello stesso modo. Partecipa alle festa, ma senza intemperanze (Ad Luc. 18, 4).

17 novembre 1994.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Fa’ conto che ogni giorno sia l’ultimo. Tra speranze e affanni, tra paure e rabbie, fa’ conto che ogni giorno sia l’ultimo a splendere per te: gradite saranno tutte le ore che seguiranno e che non ti aspettavi più. Il metro della ragione. Il saggio meriterebbe il nome di pazzo e il giusto quello di iniquo se andassero oltre la misura, fosse anche nella ricerca della virtù. Il tempo è galantuomo. Il tempo porterà alla luce del sole tutto ciò che nasconde e seppellirà e cancellerà tutto ciò che oggi alla luce del sole brilla. Chi ama gli elogi non meritati? Solo chi ha molte colpe e molte cose di cui vergognarsi, ama gli elogi non meritati. La fuga da se stessi. Cambia cielo, non stato d’animo chi corre di continuo da un luogo all’altro. Chi odia la propria vita. Chi invidia la vita altrui, è chiaro che odia la propria. (Orazio)

FALSA CASTIGATEZZA. Cattivo gusto o sozzura morale devono farci orrore sempre, e ripugnarci intimamente. Attenzione, però, a tenerci lontani dai puritani e a non confonderci mai con i denigratori del piacere di professione, quasi sempre affetti da ipocrisia e da pruderie. Come la signora di quel racconto che chiama ripetutamente la polizia per protestare perché ci sono dei ragazzi che fanno il bagno nudi davanti a casa sua. La polizia li fa allontanare, ma la gentildonna continua a protestare. «Ma signora – dice l’ispettore – li abbiamo mandati a più di un chilometro di distanza». E la puritana replica indignata: «Sì, ma con il binocolo li vedo ancora!».

ESISTE UNA «QUALITÀ TEOLOGICA» DELL’ARTE? La domanda è molto impegnativa e ha sollecitato parecchie risposte, almeno da Platone in poi. Tuttavia le parole più alte su quell’argomento le ha pronunciate colui che sta all’inizio della poesia moderna, Charles Baudelaire. Il brano cui mi riferisco è una riflessione, in cui il poeta esce allo scoperto e mette a nudo la sua anima, come egli solo sa fare. Occorre leggerlo e rileggerlo per coglierne la dimensione profonda e la verità. Eccolo.

«È questo mirabile immortale istinto del Bello che ci fa considerare la Terra e i suoi spettacoli come un cenno, una corrispondenza del Cielo… È al tempo stesso con la poesia e attraverso la poesia, con la musica e attraverso la musica, che l’anima intravede gli splendori posti dietro la tomba; e quando una poesia squisita fa spuntare le lacrime agli occhi, tali lacrime non sono il segno di un eccesso di gioia; sono piuttosto la testimonianza di una malinconia irritata, di una sollecitazione dei nervi, di una natura esiliata nell’imperfetto, che vorrebbe possedere immediatamente, su questa terra stessa, un paradiso rivelato» (Charles Baudelaire, Théophile Gautier. L’art romantique, Calmann-Levy, Parigi 1885).

CHI È VERAMENTE BAUDELAIRE? Cercherò di dirlo attraverso due giudizi che condivido pienamente. Egli rimane una pietra di paragone. Ha scritto Ernest Raynaud: «Charles Baudelaire è il Mane-Thekel-Phares, che si inscrive nella sala del festino e fa balzare di spavento i convitati, ingozzati e satolli». E André Saurès, con penetrante acume: «Chi ascolta Beaudelaire, ode l’uomo che grida verso il Dio invisibile. Come un basso continuo, il De Profundis della coscienza regge tutta l’opera di Beaudelaire». Sono ragioni più che sufficienti per dire grazie al Dostoevskij francese.

PERCHÉ IL MONDO DIVENTA UN DESERTO. All’inizio il mondo era tutto un giardino fiorito. Dio, creando l’uomo, gli disse: «Ogni volta che compirai una cattiva azione, io farò cadere sulla terra un granellino di sabbia». Ma gli uomini, che sono malvagi, non ci fecero caso. Che cosa avrebbero significato uno, cento, mille granellini di sabbia in un immenso giardino fiorito? Passarono gli anni e i peccati degli uomini aumentarono: torrenti di sabbia inondarono il mondo. Nacquero così i deserti, che di giorno in giorno diventarono sempre più grandi. Ancor oggi Dio ammonisce gli uomini dicendo loro: «Non riducete il mio mondo fiorito ad un immenso deserto!».

Questa è una parabola araba breve, deliziosa, ricca di significato.

L’ANGOLO DI SENECA. Non far mercato della filosofia. Sono meno disonesti i ciarlatani che si tengono a distanza dalla filosofia rispetto a quelli che ne fanno mercato (Ad Luc. 29, 7). Che ti darà la filosofia? Che ti darà la filosofia? senz’altro ti metterà in grado di preferire l’attestazione interiore della coscienza a quella esteriore della gente e di pesare il valore dei consensi invece che di contarli. Ti insegnerà a vivere senza paura (Ad Luc. 29, 12). La vera gioia. Scriverò cose che possono giovare sia a te che a me. Ti esorterò alla saggezza, il cui fondamento e il cui vertice sono ben individuati da queste parole: «Non godere di cose vane» (Ne gaudeas vanis)! Ha raggiunto la vetta più alta chi sa di che cosa godere e non pone la sua felicità nelle mani degli altri (Ad Luc. 23, 1 – 2).

24 novembre 1994.

LINEA RECTA BREVISSIMA. È l’esperienza che ce lo dice. È la stessa induzione che ci permette di affermare che è una legge che ogni cosa abbia una legge. Ciò che sta al di là del vero e del falso. Una proposizione priva di senso non è né vera né falsa. È semplicemente inintelligibile. (John Stuart Mill) L’interiorità religiosa libera. A una fede autentica, che rapporta tutto a Dio, è strettamente collegata la formazione di una interiorità autonoma che si eleva sopra le complicazioni del mondo. Interiorità, che libera l’uomo dal fascino del successo, mostrandogli in sé medesimo il primo scopo da raggiungere, e stabilisce tra le anime la possibilità di una perfetta comunanza nel sentire e nel fare, legame questo più saldo di quello che potrebbe produrre qualsiasi altro fattore (Rudolf Eucken).

La fatica quotidiana, di cui è sorella l’ispirazione. L’ispirazione non è che la ricompensa dell’esercizio quotidiano. Le droghe. Esse sono uno dei più terribili e sicuri mezzi di cui dispone lo Spirito delle Tenebre per arruolare e asservire la disgraziata umanità, non solo, ma una delle sue più perfette incarnazioni. (Charles Beaudelaire)

IL CORAGGIO DELLA VERITÀ. Il fatto. Nelle ore in cui il leader laburista inglese Tony Blair prospettava una svolta radicale per il sistema pensionistico tale da far rimpiangere, alla sinistra della sinistra, le ricette dei conservatori, in Italia gli studenti manifestavano a Napoli innalzando striscioni come questo: «Vogliamo la pensione dai 18 ai 65 anni. Poi ci arrangiamo».

Il commento. «Un caso? Fino ad un certo punto. Perché i due fatti testimoniano dell’abissale divario, culturale prima ancora che di politica economica, che separa ancora oggi, alle soglie del Duemila, l’Italia dall’Inghilterra. Due Paesi occidentali e industrializzati che si trovano entrambi a dover fare i conti con la crisi dello Stato sociale, ma che reagiscono in modo opposto. Si dirà: quello slogan surreale, certamente provocatorio, urlato a Napoli, non ha niente a che fare con le richieste, e le proteste, del movimento sindacale che ha portato in piazza con lo sciopero generale contro la legge finanziaria milioni di persone. Vero. Ma siamo sicuri fino in fondo che l’eco della filosofia dei diritti comunque acquisiti e della “gratuità diffusa” delle prestazioni pubbliche, come la chiamava Guido Carli, si sia spento del tutto dopo aver imperversato per decenni e contribuito forse più di ogni altra cosa a fiaccare il senso dello Stato e la solidarietà autentica con il prossimo?» (Guido Gentili, Corriere della Sera, 26 ottobre 1994).

A CHE COSA SERVE LA LOGICA. «Non sono sicuro che la logica possa fare un granché per abituare e allenare gli studenti a pensar chiaramente. Ma certo la logica, per lo meno, non dovrebbe inoculare delle confusioni fondamentali nelle loro teste appassionate e fiduciose. Se questo precetto negativo sembrasse a qualcuno irrilevante, gioverà ricordare che i metodi ospedalieri moderni furono rivoluzionati, credo, da Florence Nightingale, proprio per il fatto che essa insistette su questa raccomandazione: quale che sia per altri versi la funzione degli ospedali, per lo meno essi non dovrebbero diffondere le malattie» (Morris Raphael Cohen).

L’aforisma appena citato potrebbe degnamente entrare in quella ampia collana di massime che meriterebbero di essere scolpite sui muri di tutte le scuole in cui s’insegna filosofia, perché è vero che la logica – questa scienza filosofica che appare, tra tutte le sue consorelle, come la più chiara, rigorosa, distaccata – viene troppe volte adoperata più per confondere che per chiarire le idee.

1 dicembre 1994.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il volto parla. Spesso, anche se si tace, si parla col viso. Amabile, amato. Sii amabile se vuoi essere amato. La vera arte. Quando si parla o scrive la vera arte consiste nel nascondere l’arte. Il vento può cambiare da un momento all’altro. Il vento che gonfia le vele della nave non è sempre lo stesso. I venti troppo favorevoli. I venti troppo favorevoli spesso fanno affondare la nave. Restii a credere. Siamo sempre restii a credere a ciò che ci fa soffrire credere. Non difendere mai ciò che hai il dovere di condannare. Una causa non buona diventa peggiore se si cerca di difenderla. Sano pragmatismo. Solo il risultato dimostra la bontà di un’iniziativa. Le pene meritate e quelle immeritate. Le pene meritate bisogna sopportarle di buon animo; difficile da sopportare, invece, è la pena che si patisce senza colpa. Nessuno può essere pio se odia la pietà. Non è pio colui cui rincresce esserlo. Spesso, troppo spesso è così. I potenti hanno le mani lunghe. Fonte inquinata. Fonte degli onori è il denaro. Non curvare la schiena e guardare il cielo. Dio ha dato all’uomo la statura eretta e gli ha ordinato di guardare il cielo e di ergere il volto verso le stelle. (Publio Ovidio Nasone)

LA POESIA, UNA NECESSITÀ PER NOI E PER GLI ALTRI. «Amici dalla barca si vede il mondo / e in lui una verità che procede intrepida, / un sospiro profondo» (Mario Luzi).

Nella nostra storia incontriamo le voci poetiche più diverse che possiamo sentire, ora sorprendentemente vicine ora lontane, alcune impegnate a cercare, dentro le contraddizioni della realtà, le verità possibili sull’uomo e sull’universo, altre più rinunciatarie, altre ancora animate da un’aspra volontà di negazione; eppure noi siamo portati, quasi di slancio, a cogliere in ogni vero poeta una disposizione d’animo verso il mondo e verso di noi del tipo di quella espressa nei versi di Luzi: un profondo affetto per la realtà umana, un’intensa volontà di conoscenza e di immersione nelle cose, un bisogno, a volte disperato a volte più sicuro, di dialogo con noi per comunicarci le sue emozioni e le rivelazioni che gli sono state concesse.

E allora, anche se, di fronte a indicibili sofferenze individuali o collettive, noi possiamo avere la sensazione che occuparsi di poesia costituisca quasi un ingiusto privilegio (e privilegio comunque lo è), nello stesso tempo ne avvertiamo la necessità per noi e per gli altri e ci lasciamo incantare dal desiderio che Dante ha espresso nel famoso sonetto giovanile Guido i’ vorrei che tu e Lapo ed io…; sentiamo che il Poeta con quelle parole propone una rotta che non è privata e individuale bensì comunitaria e corale, di comunicazione della propria persona nel coro dell’amicizia, come precisa il critico Gianfranco Contini.

Compagni di viaggio sono infatti i poeti per noi: essi sanno anzitutto ascoltare; penetrano nelle stanze del nostro animo per leggervi quelle domande inespresse che ci accomunano tutti; se prevale la stanchezza, non smettono – sentinelle vigili e generose – di guardare lontano. E sempre la parola poetica, anche quando è testimonianza di un naufragio più che restaurazione di un senso, annuncia, con il solo fatto di esserci, la speranza (per l’uomo e per l’universo) di un’inversione».

Queste considerazioni, così vere e profonde, sono di Paola Paganuzzi e si leggono nella sua nota introduttiva al bel volume Da Dante a Pascoli. Lettura di testi esemplari della lirica italiana, pubblicato a Brescia dalla Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.

L’ANGOLO DI SENECA. Il bene morale non è una metrica del piacere. Quelli che pongono al di sopra di tutto il piacere, ritengono che il bene sia sensibile; per noi, invece, che lo attribuiamo all’anima, appartiene all’ordine intelligibile. Se i sensi dovessero giudicare di ciò che è bene, noi non rifiuteremmo alcun piacere: non ve n’è uno, infatti, che non abbia una sua attrattiva, che non provochi un qualche diletto. Per le stesse ragioni non ci assoggetteremmo mai volontariamente al dolore, perché ogni dolore offende la sensibilità. Se il piacere è un bene, perché dovremmo biasimare chi ama troppo il piacere e teme soprattutto il dolore? Se si è coerenti al presupposto, non si vede proprio qual è il peccato di cui si macchiano i golosi, i lussuriosi, quelli che per paura di soffrire si ritirano da ogni virile ardimento (Ad Luc. 124, 2-3).

8 dicembre 1994.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Neppure col passar degli anni. L’uomo onesto, con l’andar degli anni, facilmente diviene insensibile alla lode e all’onore, ma non mai, credo, al biasimo né al disprezzo. La fatica dell’opera prima. È più facile ad un libro mediocre di acquistar grido per virtù di una reputazione già ottenuta dall’autore, che ad un autore divenire in reputazione per mezzo di un libro eccellente. I giovani e l’amicizia. I giovani sono, per mille ragioni, più atti all’amicizia che gli altri. (Giacomo Leopardi) I giovani devono leggere i classici. Occorre leggere da giovani i grandi capolavori del passato, per non doverli leggere più tardi, quando c’è altro da fare. E soprattutto per questo: che nella maturità ce li troveremo diventati nostro patrimonio, come ripensati, ricordati, sgombri dalle parole (Massimo Bontempelli).

L’ADDIO TRA MANZONI E ROSMINI. L’ultimo dialogo tra i due grandi amici, Manzoni e Rosmini, ce l’ha raccontato Cesare Cantù in una delle pagine più alte della storia di questo nostro Paese.

«… Il Rosmini deperiva, e il giugno 1855 era a fin di vita. Manzoni andò a visitarlo, e “Deh, come trovo il mio caro Rosmini! Come sta?”. “Sto nelle mani di Dio, e però bene. Ella ha voluto fare atto di vera amicizia. Il Manzoni sarà sempre il mio Manzoni nel tempo e nell’eternità. Speriamo che il Signore la voglia conservare ancora tra noi, e darle tempo di condurre a termine tante belle opere che ha cominciate. La sua presenza tra noi è troppo necessaria”. “No no! Nessuno è necessario a Dio. Le opere che Dio ha cominciate, le finirà lui coi mezzi che sono nelle sue mani. Quei mezzi sono un abisso, al qual non ci possiamo affacciare che per adorarlo. Quanto a me, son affatto inutile: anzi temo esser dannoso: e questo timore mi fa non solo esser rassegnato alla morte, ma anche desiderarla”. “Oh per amor del cielo, nol dica. Che faremo noi”. Rosmini rispose: “Adorare, tacere e godere”. E colta la mano del Manzoni, la baciò. L’altro per una di quelle sue sottigliezze, non volle far altrettanto perché non paresse far egli uguale e volle baciar il posto dei piedi».

NÉ TROPPO STATO, NÉ TROPPO INDIVIDUALISMO. Sarebbe un grave errore liquidare il neoliberalismo come una semplice ideologia della restaurazione plutocratica. Il rallentamento della crescita economica, l’eccessiva espansione della burocrazia pubblica, gli effetti perversi dell’assistenzialismo indiscriminato sono fenomeni reali. Essi pongono all’ordine del giorno il problema di modificare sia la forma, sia l’organizzazione dell’intervento statale. È però ugualmente sbagliato teorizzare arrogantemente, come fanno gli ideologi della cosiddetta «rivolta blu», che la conciliazione fra libertà e giustizia è impossibile e che bisogna rinunciare una volta per tutte al progetto ugualitario e accettare il capitalismo per quello che è: un sistema che «non promette redistribuzione, ma crescita economica» (Irving Kristol). La sintesi di libertà e giustizia è, invece, per l’umanità di oggi un ideale normativo a cui la democrazia non deve mai rinunciare, se non vuol lavorare alla propria rovina. La critica serrata dei guasti dell’assistenzialismo e dello statalismo in economia non ha nulla a che vedere con la cancellazione dei doveri di solidarietà tra i cittadini e con la caduta dello Stato sociale.

Diciamolo a chiare lettere: l’«oltre il Welfare State» si deve basare su due negazioni – né troppo Stato né troppo individualismo – e su un’affermazione: sì al «terzo settore», che dovrebbe svilupparsi anche grazie al pieno e razionale utilizzo delle tecnologie leggere. E che questo discorso non sia irrealistico lo dimostra la previsione di uno dei maggiori studiosi delle nuove tecnologie, Norman Macrae, secondo le quali «la rivoluzione dei microcomputer porterà alla estinzione quasi completa dei dinosauri – le megaimprese – e alla formazione di un arcipelago di microimprese in cui sarà possibile la riappropriazione degli strumenti di produzione da parte dei produttori diretti».

L’ANGOLO DI SENECA. I cardini della vita morale. Sono quattro i cardini su cui gira la vita morale: frenare la cupidigia (cupiditas refrenari / temperanza), dominare la paura (metus comprimi / fortezza), prendere decisioni sagge (facienda provideri / prudenza), dar a ciascuno il suo (reddenda distribui / giustizia). Questi sono gli elementi di ogni vita onesta e l’uomo che li assume su di sé ha riconosciuto la virtù dai segni che la rivelano. La virtù ce la mostrano l’ordine stesso che è in lei, la sua bellezza, la costanza dei suoi principi, l’armonia che regna tra le sue azioni e quella grandezza che su tutto la innalza (Ad Luc. 110, 11).

15 dicembre 1994.

LINEA RECTA BREVISSIMA. C’è pure un pudore sciocco. Sciocco è il pudore che induce a non farsi curare le piaghe per non mostrarle. Il giusto mezzo. La virtù sta nel mezzo, tra due vizi opposti, ben lontana da entrambi. Orecchie grandi, bocca larga. Bada sempre con chi parli, di chi parli e che cosa dici. Evita le persone curiose, che vogliono sapere sempre tutto: sono anche chiacchierone, perché chi ha le orecchie grandi ha anche la bocca larga. (Orazio).

Il peso si alleggerisce, comunque. Diventa lieve il peso che si porta con rassegnazione. Agitare al vento la fiamma dei nostri ideali. Se si scuote la fiaccola, la fiamma agitata diventa più forte: invece se nessuno la scuote, la fiamma muore. Corrono gli anni. Fugge via volando inavvertito il tempo, e rapidi corrono lontani gli anni. La fatica più grande. Niente è meno faticoso di stare zitti. (Publio Ovidio Nasone)

LA NUOVA VIA: UN’ECONOMIA DI MERCATO PARTECIPATIVA. L’evoluzione in atto della tecnologia è quanto mai necessaria per mutare la direzione e la struttura dell’economia; tuttavia essa non è sufficiente, da sola, per aggredire la crisi attuale. Dice molto bene Luciano Pellicani: «Occorre sviluppare una strategia globale che faccia funzionare meglio lo Stato sociale, deburocratizzi l’economia e accresca i livelli di partecipazione». E le tre cose si tengono a vicenda.

Anni addietro le linee essenziali di una siffatta «strategia» furono espresse da Olof Palme, il compianto premier svedese e leader socialdemocratico. «Se le nostre società altamente industrializzate – egli dichiarò nel 1978 – vogliono andare avanti, devono riuscire a mantenere i loro investimenti sempre a un livello molto alto. Ma come ottenere questo risultato in una situazione caratterizzata da una grande presenza sindacale, quindi dalla impossibilità di imporre con la forza una politica dei redditi? A nostro giudizio, è possibile farlo attraverso l’elemento positivo, convincendo gli operai a rinunciare a una parte dei loro aumenti salariali, poiché in cambio ottengono partecipazione crescente alla proprietà delle aziende in cui lavorano».

Come dire: non inceppiamo la macchina produttiva, ma sviluppiamo la democrazia nelle aziende in modo da trasformare gradualmente l’economia di mercato capitalistica in un’economia di mercato partecipativa.

IL CRITERIO DI LUIGI EINAUDI. Vorremmo sinceramente sbagliare, ma siamo costretti a registrare l’impressione che in Italia ci sia qualcuno che vorrebbe esercitare il potere, elargendo sorrisi a trentadue denti e mietendo, a piene mani, elogi dall’opposizione non meno che dalle forze di maggioranza. Ai nostri occhi una siffatta pretesa appare illusoria; ma illusoria non è, evidentemente, per chi la sente rinascere in sé ogni giorno per vederla poi ogni giorno svanire. Di qui le accuse, le lamentele ricorrenti: la «colpa» sarebbe dei giornali che travisano pregiudizialmente parole e gesti del capo dell’Esecutivo nonché dei componenti della sua «squadra» essendo i giornalisti incapaci di comprendere sia le dichiarazioni ufficiali e ufficiose, sia le smentite o i ridimensionamenti che ad esse seguono l’indomani. Ed evidentemente la stessa incapacità affligge i telespettatori, rei di sentire oggi quello che domani, dalle stesse reti e dalle stesse persone, si assicurerà non esser stato mai detto.

L’Italia ha avuto un maestro di cultura, di vita morale e di politica veramente liberale: si chiamava Luigi Einaudi (1874 – 1961). Ecco quello che nel 1944, mezzo secolo fa, scriveva quel grande sulla libertà di stampa e sul problema dell’obiettività dei giornalisti.«Esiste un solo criterio per giudicare se un’affermazione, o un principio, o una notizia sia vera o falsa: la libertà di contraddirla. Chi afferma che può esistere un giudice della verità, della tendenziosità, della capziosità, afferma necessariamente, trattandosi di sinonimi, che è lecita la censura della stampa. Dobbiamo dunque rassegnarci alle notizie tendenziose, se non apertamente false e ai commenti capziosi, se non chiaramente calunniosi? Ebbene sì. La tendenziosità e la capziosità sono inevitabili in ogni notizia ed in ogni commento o giudizio… Chi si lagna della infedeltà dei rendiconti giornalistici dimostra di essere uomo di cattivo gusto».

22 dicembre 1994.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Quanto vale la sapienza. Pregai e mi fu elargita la prudenza; implorai e venne in me lo spirito della sapienza. Stimai un nulla la ricchezza al suo confronto; non la paragonai neppure a una gemma inestimabile, perché tutto l’oro al suo confronto è un po’ di sabbia e come fango sarà valutato di fronte ad essa l’argento. L’amai più della salute e della bellezza, preferii il suo possesso alla stessa luce, perché non tramonta lo splendore che ne promana (Libro della Sapienza). Il motto di John Henry Newman. Cor ad cor loquitur / Il cuore parla al cuore. Non solo dieta, sport e tempo libero. Prendiamoci cura una buona volta delle nostre anime. E non soltanto della dieta, dello sport, della moda, del godimento, del tempo libero… Non rinviamo a domani o a più tardi, perché – come dice San Paolo – il tempo stringe (Levi Appulo).

L’insegna dell’anti-integralismo. Fratelli, tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri. E il Dio della pace sarà con voi. La parola di Dio penetra nei cuori. La parola di Dio è viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non v’è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a lui noi dobbiamo rendere conto. (San Paolo)

DINANZI AL MISTERO DEL VERBO INCARNATO. Auguro ai cari lettori di ritagliarsi per Natale un po’ di spazio dell’anima e di sostare, in silenzio, dinanzi al mistero del Verbo incarnato. A Betlemme l’umanità fu sollevata nella speranza e da allora è stata aperta una vita che nulla avrebbe potuto più chiudere. Cristo ci ha rivelato «la profondità di Dio» (1 Cor 2, 10) e il suo incomparabile amore ed è questo certamente l’evento più alto della storia, il fatto che cambia l’esistenza, obbligando ognuno a mettersi in discussione, a mutare il cuore del proprio cuore, a ritrovare la misura smarrita e l’impegno di una vita nuova. I testi della natività in Luca e il prologo del Vangelo di Giovanni possono restituirci pienamente lo spirito del Natale. Ad essi mi permetto di aggiungere la preghiera di una santa e la lirica di un grande poeta contemporaneo. La prima, di una semplicità tanto commovente quanto radicale, è di Teresa di Lisieux. «O Piccolo Bambino, io non voglio altra gioia che quella di farti sorridere».

La seconda è di Czeslaw Milosz, poeta polacco vivente. «È vero, non mi è capitato di veder trionfare la giustizia / e le labbra degli innocenti restano mute. / Tu, Dio, non moltiplichi ai virtuosi pecore e cammelli / e nulla tagli per l’omicidio e lo spergiuro. / Ti sei nascosto tanto a lungo / che ci si è dimenticati che Tu apparisti / nel roveto ardente e nel petto d’un giovane ebreo / pronto a soffrire per tutti, / per tutti quelli che furono e che saranno».

«CARO TONINO…». Le delusioni che ci piovono addosso sono tante. Abbiamo poche persone da ringraziare per il bene che fanno a questo scombinato Paese; Di Pietro è uno di quei pochi. Lo facciamo con le commosse parole che il suo collega Piercamillo Davigo gli rivolse attraverso La Voce l’8 settembre, il giorno dopo il suo addio alla toga.

«Antonio carissimo, lavorare con te è stato un’esperienza unica ed entusiasmante. In tutti questi anni – per il carattere di entrambi – non ci siamo mai lasciati andare a slanci retorici o patetici. Nei momenti più belli come in quelli più difficili abbiamo interrotto le brevi divagazioni su ciò che accadeva al di fuori del nostro mondo dicendo: “Andiamo a lavorare”. Oggi che te ne vai ho però difficoltà a pensare al lavoro e ai problemi concreti di cui sono piene le nostre giornate, facendo finta che nulla stia accadendo. Non me ne vorrai quindi se rompo quel costume di pudore e di silenzi. Comprendo le ragioni che ti inducono a lasciare la Magistratura e vedo il tormento che provi. Dicono che – come per il sacerdozio – chi sia stato magistrato tale rimarrà per sempre nel suo intimo. Non so se sia vero e non so se la toga che hai portato con tanto onore e orgoglio ti mancherà. So però che tu mancherai alla Magistratura, che per tuo merito ha acquisito credibilità e considerazione nella pubblica opinione italiana e internazionale. Il debito che tutti abbiamo verso di te è immenso, e non ci sono gesti o parole che possano adeguatamente manifestare la riconoscenza che ti è dovuta».

L’ANGOLO DI SENECA. Nudità di Dio. Dio non possiede nulla, Dio è nudo. Nessuno conosce Dio e molti impunemente ne parlano a sproposito. Dio è la perfezione assoluta e l’onnipotenza e tuttavia porta lui stesso l’universo (Ad Luc. 31, 10).

29 dicembre 1994.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il cristiano tra i pagani. Conducetevi onestamente in mezzo ai Gentili, affinché nel momento stesso in cui vi calunniano come se foste dei malfattori, considerando le vostre opere buone, glorifichino Dio (San Pietro). La luce. La luce non si dimostra invisibile. Chi annuncia una verità sgradita paga caro. Noi cerchiamo di dimenticare che i Profeti, grandi annunciatori di verità derise e sgradite, finiscono male, anzi molto male. Elia fu continuamente perseguitato da Achat e Gezabele, Isaia, segato in due dal re Manasse, Geremia gettato in prigione e esiliato, Zaccaria ucciso tra il tempio e l’altare (Levi Appulo). Lui era precristiano. Solo il giusto è beato. I forti sono miti (Platone).

«OH, COME SAREMMO VISSUTI BENE NOI TRE INSIEME, SE IL DESTINO E LA MORALE…». Tutti gli epigrammi di Thomas More (1478 – 1535) sono stati ora pubblicati in traduzione italiana, con il testo latino a fronte, dall’editrice San Paolo. Mi ha colpito in particolare uno degli epigrammi, Iscrizione funebre sulla tomba di Jane, la prima moglie di More.

L’attacco è certamente insolito, persino sconcertante nell’ipotizzare una vita coniugale a… tre, ma evidenzia subito la straordinaria schiettezza e umanità del santo avvocato e statista, a cui re Enrico VIII fece tagliare la testa: «Qui giace Jane, cara mogliettina di Thomas More: destino questa tomba alla mia seconda moglie Alice e a me stesso. L’una, che mi fu legata nei miei verdi anni, ha fatto sì che un ragazzo e tre ragazze mi chiamino padre; l’altra si è dedicata ai figliastri – vanto raro per una matrigna – com’è difficile che una madre si dedichi ai propri figli. L’una visse al mio fianco e l’altra ci vive in modo che non saprei dire se quella mi fu più cara o non lo sia questa. Oh, come saremmo vissuti bene noi tre insieme uniti, se il destino e la morale lo consentissero! Possa la morte darci quello che non poté darci la vita».

IL PRIMO AMORE DI THOMAS MORE. More concentra poi il suo ricordo sul giorno in cui, sedicenne, vide per la prima volta Jane e ne fu preso per sempre. È una pagina palpitante di commozione, che fa memoria di un’esperienza che sicuramente è stata vissuta da tanti lettori e lo sarà finché allignerà la pianta uomo, fino a quando ci saranno adolescenti che hanno un cuore puro, libero da ciò che può spegnere la bellezza e lo slancio dei loro sogni:

«Jane, tu sei colei che nei miei primi anni ho amata più di me stesso! Quando ti incontrai ero quasi un ragazzo e oggi che ti rivedo sono quasi vecchio. Avevo sedici anni e tu all’incirca due di meno, quando il tuo viso mi rapì in un amore innocente. Mi torna alla memoria l’immagine che un tempo mi fu tanto cara… Quell’avvenenza del tuo volto che tante volte trattenne i miei occhi, adesso mi occupa il cuore. È usuale che un fuoco languente, soffocato dalla sua stessa cenere a soffiarci su si ravvivi; così anche tu fai sì che al recente richiamo l’antica fiamma sfavilli. Ed ecco mi sovviene di quel giorno lontano in cui ti vidi per la prima volta mentre giocavi in un gruppo di fanciulle, quando i tuoi capelli biondi si sposavano al candore del collo, le guance erano come neve, come rose le labbra. Quando i tuoi occhi stellanti catturarono i miei, tu mi giungesti fino al cuore e io rimasi a lungo imbambolato, come se mi avesse colpito la folgore, a pendere dal tuo viso.Un amore così ingenuo e semplice, così mal celato, spingeva al riso i miei compagni e le tue amiche. Così fui preso dalla tua bellezza, fosse essa perfetta, o che a me paresse maggiore di quanto non era, con quell’ardore che accompagna di solito l’inizio della pubertà…».

ITALIA MIA, BUON 1995! CHE SI POSSA SALDARE INSIEME CIÒ CHE LA STORIA HA DIVISO. È una nostra maledizione che il fascismo abbia squalificato l’attaccamento alla nazione con la dittatura, affossando la democrazia; che i partiti del dopoguerra abbiano squalificato la democrazia con una corrotta inefficienza, affossando la nazione; e che l’assistenzialismo abbia squalificato la solidarietà sociale, affossando il mercato.

Bisogna riconoscere che in Italia occorre saldare ciò che la storia ha purtroppo diviso. E dunque la solidarietà sociale con il mercato, l’efficienza con l’amministrazione dello Stato e la democrazia con un profondo e sano attaccamento alla nazione.

Merita di vincere solo chi riuscirà a compiere questo miracolo. E finiremo per perdere tutti, se nessuno riuscirà a compierlo.

La rubrica “Detti e contraddetti” è stata pubblicata sul Giornale di Brescia con cadenza settimanale dal 5 gennaio 1988 al 25 gennaio 2007.