DETTI E CONTRADDETTI 1996 – PRIMO SEMESTRE
4 gennaio 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Raramente ci capita di volerlo. Se siamo liberi tutte le volte che vogliamo di tornare in noi stessi, raramente ci capita di volerlo (Henri Bergson). Che cos’è il metodo? Non esiste metodo filosofico che sia sostanzialmente e coscientemente distinto dalla meditazione sulla vita. L’errore fondamentale. Si estende abusivamente alle realtà spirituali, mentali e vitali, agli organismi un metodo che riesce solo sul piano delle realtà materiali, dei meccanismi. (Vladimir Jankélévitch)
Interrogarsi su tre questioni. Ogni giorno esamino me stesso su tre questioni: 1. se agendo per gli altri sono stato leale; 2. se trattando con gli amici sono stato sincero; 3. se metto in pratica ciò che trasmetto agli altri. Per tener lontana ogni animosità. Essere sostanzialmente esigenti con se stessi e poco con gli altri; allora si tiene lontana ogni animosità. Persino se si vive fra i barbari. A casa essere rispettosi; nel trattare gli affari essere riverenti, e nei rapporti con gli altri essere leali. Persino se si vive fra i barbari, non si può rinunciare a queste qualità. Non cedere. Per quanto riguarda la virtù dell’umanità non si deve cedere neppure davanti al proprio maestro. (Confucio)
IL DATO: SEI MILIONI E MEZZO DI ITALIANI SONO POVERI ED EMARGINATI. Secondo il Rapporto Censis del 1993 sono il 7/8% della popolazione; ma l’ultima relazione della Commissione sulla povertà e l’emarginazione, istituita dalla Presidenza del Consiglio, assicura che la cifra si aggira ormai intorno al l0%, cioè quasi a sei milioni e mezzo di persone. Tante quante oggi da noi girano portandosi in tasca il telefonino cellulare
IL COMMENTO.
1. Dal punto di vista economico e sociale va subito osservato che se il 10% della popolazione italiana sta male, il 90% vuol dire che sta bene. Altrove il rapporto era letteralmente rovesciato, ed in più c’era la dittatura. È, dunque, un successo della democrazia italiana l’aver raggiunto quel traguardo; gli anni di fango, la prassi di «addolcire» il bilancio dello Stato per nascondere il baratro del debito pubblico, i guasti morali e materiali del sistema di corruzione esteso a tutto il Paese non possono farci dimenticare i risultati a cui prima si era pervenuti.
2. Però quei sei milioni e mezzo di cittadini ridotti alla disperazione costituiscono il dato, il problema da cui si deve partire prima di ogni altra considerazione. Chi chiude gli occhi su quel punto è cieco del tutto. Se ancora siamo italiani e cristiani, quel numero dovremmo scriverlo a caratteri cubitali e ricordarlo a noi stessi il più possibile, per esempio all’inizio e alla fine di ogni telegiornale Rai e Fininvest. Quel numero, insomma, deve tormentarci. Qual è, invece, la mia impressione? Lo dico con profonda amarezza, ma nei discorsi che si fanno un po’ dovunque e soprattutto in tanti articoli e scritti di vario tipo, si deve registrare l’esplosione di un egoismo aggressivo che unisce in una sola indiscriminata condanna i crimini dello statalismo in economia e della corruzione clientelare con i doveri della più elementare solidarietà.
3. In un clima di incrinatura del patto sociale, com’è quello che sta incanagliendo gli animi oggi nel nostro Paese, il pericolo più grande non è l’insurrezione dei diseredati, bensì la tendenza di larga parte di quel 90% a «scaricare» quelli che fanno più fatica a vivere. Si direbbe che il nuovo dovere per i ceti sociali appartenenti a coloro che hanno oltrepassato la soglia del benessere sia quello di elevare a categoria politica, e persino morale, l’insensibilità sociale e l’utilitarismo più gretto. Ma si è ancora un popolo e una nazione, se si scinde dalla libertà la solidarietà, se non si lavora a rendere concretamente operante il senso di appartenenza a una stessa storia e a un destino comune?
DUE CONSIGLI AI GIOVANI.
1. Il confronto leale come metodo. Vi possono essere fra due punti di vistale divergenze più nette. Ma questo non fa che accrescere l’interesse per il confronto e per la ricerca di onesti punti d’incontro.
2. Per non far sorgere equivoci. Molto spesso un termine del linguaggio, sia di quello corrente sia di quello dotto, è preso in due o più sensi fra loro molto differenti. Di qui le confusioni, gli equivoci, l’incertezza interpretativa. Il rimedio c’è e va praticato drasticamente: restringere l’uso di quel termine a uno solo dei significati e designare gli altri con altre parole.
11 gennaio 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Tu non farai… Tu non farai accomodante il giudizio, non userai parzialità verso nessuno, non accetterai nessun dono, perché i doni accecano anche gli occhi dei saggi, e pervertono le parole dei giusti (Libro del Deuteronomio). Illuminare non incendiare. La ragione è un lume; la natura vuol essere illuminata dalla ragione, non incendiata (Giacomo Leopardi).
Convenzionale non è naturale. La tentazione di accreditare frontiere convenzionali in limiti naturali è grande. La chiave. L’istanza suprema e l’unica giurisdizione del filosofo è l’esperienza interiore. (Vladimir Jankélévitch)
Le tre cose da cui guardarsi. Da tre cose l’uomo superiore deve guardarsi: quando è giovane e la sua vitalità è in fermento deve guardarsi dalla lussuria; quando è adulto e la sua vitalità è robusta deve guardarsi dall’irascibilità, quando è anziano e la sua vitalità è indebolita, deve guardarsi dalla cupidigia. L’uomo superiore e l’uomo dappoco. L’uomo superiore è calmo senza essere arrogante; l’uomo dappoco è arrogante senza essere calmo. L’uomo superiore aiuta gli altri a completare ciò che è buono in loro e non ciò che è cattivo. Il contrario fa l’uomo dappoco. La musica. Si cresce grazie alla musica. (Confucio)
CIÒ CHE È DI CONFUCIO. L’originalità della civiltà cinese è totale. Nata nel bacino centrale e inferiore del Fiume Giallo, essa si è irradiata in Mongolia, Corea, Giappone, Paesi nei quali ha stabilito per sempre la sua influenza. La cultura, ma anche le armi e l’amministrazione della Cina – ecco quello che non si mette nel dovuto rilievo – furono per l’Estremo Oriente ciò che la cultura greca, le armi e l’amministrazione di Roma furono per l’Occidente. Anche in Asia allora, non meno che in Europa, incombeva la minaccia dei barbari: là si chiamavano gli Unni, che premevano dal nord, e gli Aborigeni a sud. Quel tempo è designato dalla storiografia come «periodo dei regni combattenti», o «secolo di ferro».
Ebbene in una situazione così pericolosamente precaria e violenta assume uno straordinario rilievo, per contrasto, la mite figura di Confucio (551 – 479 a.C.), attraverso la quale l’umanesimo trovò in Oriente la sua espressione più alta e, in ogni caso, più storicamente efficace. Confucio crede ad un ordine superiore al quale l’uomo deve cooperare, contribuendo a sua volta al realizzarsi dell’ordine sociale attraverso il perfezionamento della sua condotta. La morale confuciana è quindi, innanzitutto una morale sociale, una forma di superiore civismo, la quale si accorda sia con le leggi del cosmo, sia con l’ideale di una società garbata.
CIÒ CHE È DI SOCRATE. Il lettore occidentale dei Dialoghi di Confucio, farà bene a vedere nel padre spirituale della Cina non solo «il restauratore di antiche tradizioni in un momento di grave crisi» – come si fa oggi anche in Cina – ma il grande educatore, il cui messaggio di salvezza si è esercitato ininterrottamente per due millenni e mezzo. Confucio, insomma, è una forza spirituale che ha aiutato una parte considerevole della famiglia umana a giudicare le vicende della vita da un più alto punto di vista. Anche noi, del resto, faremmo bene a trarre profitto da molti dei suoi insegnamenti.
Bisogna, però, non cercare in lui quello che non può darci perché gli è intimamente estraneo, costituendo, invece, il cuore, l’essenza dello spirito occidentale. A Confucio non possiamo certamente chiedere la critica del ritualismo e del fariseismo, il rifiuto di una forma mentis conservatrice, la coscienza della libertà compito degli individui e delle società di cui essi fanno parte, la preminente dimensione interiore dell’agire morale, l’esame del pro e del contro come il primo dovere della ragione, la capacità di congiungere obbedienza alle leggi e obiezione di coscienza, l’interrogazione sul destino dell’uomo. Tutte queste cose le possiamo chiedere non a Confucio, ma a Socrate (469 – 399 a.C.) e, per la parte che loro compete, ai Profeti d’Israele. E l’uno e gli altri sono a fondamento della nostra visione della vita.
POESIA DEL NOSTRO TEMPO. Plenilunio. Come sull’altare / l’ostia, / sta sopra il monte / la luna. Secondo principio di Wittgenstein. Ciò di cui / tutti chiacchierano, / va taciuto. Il sugo della storia. Sognando e rincorrendo / potere e opulenza, / ci siamo rovinata l’esistenza. Il fiume della vita. Noi siamo impastati / di futuro e d’infanzia. / Scorre / tra memoria e speranza / il fiume della vita. (Levi Appulo)
18 gennaio 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Assetata di sangue e distruzione è la belva umana. Corrono veloci quando si tratta di uccidere, / e dove passano lasciano distruzione e miseria. / Non conoscono la via della pace / e vivono senza alcun timore di Dio (Libro di Isaia). Universalismo cristiano. Dio forse soltanto il Dio degli Ebrei? No! Egli è anche il Dio di tutti gli altri popoli. È chiaro infatti che vi è un solo Dio, che mette nella giusta relazione con sé tutti quelli che credono, ebrei e non ebrei. Fuori dalla schiavitù. Il peccato non abbia più potere su di voi. Non ubbidite più ai vostri desideri perversi. Non trasformatevi in strumenti di male. Ciò che vuole lo Spirito. Quelli che si lasciano guidare dallo Spirito si preoccupano di ciò che vuole lo Spirito; quelli invece che non si lasciano guidare dallo Spirito, ma dal proprio egoismo, cercano di soddisfarlo. Seguire l’egoismo conduce alla morte, seguire lo Spirito conduce alla vita e alla pace. (San Paolo)
UN’INCLINAZIONE CHE CI RENDE QUERULI E SUPERFICIALI. Occorre denunciare l’inclinazione molto forte del nostro spirito e gridare subito allo scandalo del disordine e del male, perché giudichiamo attraverso la nebbia di stati affettivi. In realtà quello che chiamiamo «disordine» è quasi sempre ciò che risulta dall’interferenza tra loro di due o più tipi di «ordini» molto diversi (ad esempio, quello geometrico e quello vitale, l’ordine meccanico e quello originato da un atto di volontà). Altre volte è il risultato del nostro incoerente oscillare fra un tipo di considerazioni e un altro. Può anche sorgere per l’impossibilità di ricondurre ad un’unica legge, che per noi è l’«ordine», aspetti diversi di un fenomeno o più fenomeni. Se poi non si riesce a cogliere l’intreccio complesso di «ordini» molteplici, allora rifugiarsi nell’idea di disordine, invece di disporsi alle fatiche di una lunga e difficile ricerca, appare addirittura inevitabile.
TRE PERICOLI PER LA DEMOCRAZIA. La democrazia è il più alto traguardo etico-politico per una società e per uno Stato; ma il varco alla sua attuazione, anche se imperfetta, è tenuto aperto solo da chi quell’ideale testimonia con il pensiero e la vita. Molti sono i pericoli che minacciano la democrazia, ma tre mi sembrano oggi particolarmente incombenti.
Il primo è di cedere agli interessi di parte e agli egoismi meglio organizzati. Il secondo è di pensare che la democrazia riesca automaticamente, grazie ai suoi meccanismi, a guarire dei suoi mali. Nulla di più falso. Occorre tener conto, invece, del sussistere nella «società che si apre» di tendenze proprie della «società chiusa», e sono tendenze egoistiche. Il terzo pericolo sta nel degradare la democrazia a sistema di pubblicità politica, a una tecnica per procurarsi il consenso e vincere le elezioni. Ogni società, e in primissimo luogo ogni società democratica, ha invece assoluto bisogno di veder garantite, negli ordinamenti e da ogni forza politica in campo, alcune cose che hanno valore prioritario: ad esempio il riconoscimento, anche attraverso la loro presenza determinante nelle più alte istituzioni, dell’aristocrazia del talento, della competenza e soprattutto dell’autorità morale. «Tutto il problema della organizzazione della democrazia è lì: noi non l’abbiamo risolto» – diceva Bergson il 24 febbraio 1918 nel discorso di reception all’Accademia francese. Ma noi, in Italia, possiamo dire di averlo risolto?
POESIA DEL NOVECENTO. Un vecchio al bar. Nel frastuono del bar, là sul fondo, / un vecchio seduto, curvo sul tavolino, / senza compagnia, con un giornale davanti. Sa di essere molto vecchio, lo sente, lo vede. / Ripensa il tempo della giovinezza, / quando c’era nerbo, bellezza, eloquio. / Sembra ieri. Che spazio breve, che spazio effimero. Ma l’intensità del pensiero e del ricordo / l’ha stordito. Il vecchio si assopisce / curvo sul tavolino del caffè (Konstantìnos Kavàfis).
L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Nel volume Preghiera e poesia (Brescia 1991) leggo questi versi di Paul Celan: «Siamo vicini, Signore, / vicini e afferrabili. / Già afferrati. Signore, / aggrappati l’un altro, / come fosse il corpo di ognuno di noi, / il tuo corpo, Signore». E poco dopo: «Te / io feci attendere, / Te! / Per amor tuo vogliamo / fiorire / incontro / a Te».
25 gennaio 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Credulità scientista e incredulità preconcetta. Non c’è nulla che la gente non sia disposta a credere oggi, purché le sia presentato come scienza, e nulla che non sia disposta a rifiutare di credere, se le è presentato come religione. Io stesso ho incominciato così, e ora finisco ricevendo ogni affermazione scientifica con ostinato sospetto, mentre prendo molto rispettosamente in considerazione l’ispirazione e la rivelazione dei profeti e dei poeti. Chi sono i martiri da onorare? I martiri di ogni tempo sono coloro ai quali la luce interiore fa intravedere la possibilità di un mondo migliore basato sull’esigenza spirituale di una vita più nobile e più ricca, non per sé stessi a spese degli altri, ma per tutti. L’autentica gioia della vita. È questa l’autentica gioia della vita, l’essere usati per uno scopo da noi riconosciuto predominante; l’esserci consumati al massimo prima di essere gettati nella spazzatura; l’essere una forza della natura invece di un inquieto, egoista mucchietto di malanni e di insoddisfazioni, che si lagna perché il mondo non vuole dedicarsi alla sua felicità. (George Bernard Shaw)
DUE MODI OPPOSTI DI PENSARE. Quando si affronta un problema, bisogna scendere dalle altezze dei principi astratti e trasferirsi nel campo dell’esperienza, rinunciando così ad avere subito la soluzione radicale. Bisogna scegliere fra un ragionamento puro, che mira di colpo a un risultato definitivo, non perfezionabile perché ritenuto già perfetto, e un’osservazione paziente che dà risultati approssimativi, però suscettibili di essere corretti e completati indefinitamente. Il primo metodo, avendo voluto fornirci subito la certezza, ci condanna a restare sempre nel meramente probabile, o nel possibile. Il secondo fin dall’inizio non mira che alla probabilità, ma poiché opera su un terreno in cui la probabilità può crescere all’infinito, ci porta a poco a poco a un punto che praticamente equivale alla certezza. Fra questi due modi di pensare – e perciò stesso di filosofare – io ho fattola mia scelta. Sarei felice se avessi potuto contribuire, anche se di poco, a orientare la vostra. Chi volesse leggere un libro, in cui i grandi problemi sono affrontati con il secondo metodo, si procuri Il cervello e il pensiero di Bergson, Roma 1990. Un’avvertenza: il titolo originale, in francese, è L’énergie spirituelle.
OGGI, 27 GENNAIO 1996, IN GERMANIA. A partire da quest’anno, il 27 gennaio sarà «il giorno del ricordo» per il popolo tedesco. In quella data nel 1945 fu liberato il campo di Auschwitz e il mondo cominciò a conoscere il più orrendo crimine che la storia abbia mai registrato. «Auschwitz – ha detto il presidente federale Roman Herzog – è il simbolo del genocidio, delle persecuzioni, delle torture, dell’immenso dolore inflitto dal nazismo agli ebrei. La nostra memoria non deve rimuovere, ma ricordare. Il ricordo serve da avvertimento alle future generazioni». La decisione, che onora il popolo e il governo della Germania, era stata sollecitata dai sedici presidenti dei Laender tedeschi.
POESIA DEI NOSTRI GIORNI. Un sogno in testa. Non disprezzare chi passa, / avendo un sogno in testa. / Tu non puoi certo essere fiero / della tua onesta nullità. Interlocutore silente. Sto sulla soglia / della tua coscienza, / interlocutore silente, / per le poche cose / che contano. / Attendo sempre / la lettera mai spedita, / io che non ho mai cessato di parlarti. La prova. Più infuria il vento, / sui piccoli crinali di sabbia, / più l’erba incrostata di sale / si rafforza. (Levi Appulo).
L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Signore, mio Dio, ascolta la mia preghiera, la tua misericordia esaudisca il mio desiderio, perché esso non arde solo per me, ma vuol essere utile ai fratelli nell’amore: tu vedi dentro il mio cuore che è così. Che io ti offra il servizio del mio pensiero e della mia parola. Tu dammi la materia dell’offerta. Fa’ che io possa meditare le profondità della tua Parola. Libera da ogni avventatezza e da ogni menzogna la mia bocca e il mio cuore. La tua parola è la mia gioia, io l’amo e quest’amore me l’hai dato tu. Non lasciare nell’abbandono i tuoi doni, non disdegnare questo tuo filo d’erba assetato (Sant’Agostino, Confessioni XI, 2, 2).
1 febbraio 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il Dio oro. Fate v’avete Dio d’oro e d’argento (Dante Alighieri, Inferno 19, 38). La mia voce è molesta? Ché, se la voce tua sarà molesta / nel primo gusto, vital nodrimento / lascerà poi, quando sarà digesta (Paradiso 17, 130 – 132). La creazione. La gloria di Colui che tutto move / per l’universo penetra, e risplende / in una parte più, e meno altrove (Paradiso 1, 1 – 3). Se diventiamo una sola cosa con Dio. Appressando sé al suo disire, / nostro intelletto si profonda tanto, / che dietro la memoria non può ire (Paradiso 1, 7 – 9).
C’è amore senza eroismo? La verità è che si deve passare attraverso l’eroismo per giungere all’amore. Il passaggio. Tra l’anima chiusa e l’anima aperta c’è l’anima che si apre. Il primitivo che è in noi. Se la civilizzazione ha profondamente modificato l’uomo, ciò è avvenuto accumulando nell’ambiente sociale, come in un serbatoio, delle abitudini e delle conoscenze, che la società versa nell’individuo ad ogni nuova generazione. Proviamo a raschiare la superficie, a cancellare quanto ci viene da un’educazione costante: in fondo a noi stessi ritroveremo l’umanità primitiva. (Henri Bergson)
LA QUESTIONE MORALE. Allo scrittore Vitaliano Brancati è attribuito un aneddoto molto istruttivo sul modo in cui il danaro si fa strada nella coscienza di un uomo. Un imprenditore propone un affare a un alto funzionario, che gli dà questa risposta: «Ho ascoltato attentamente la sua proposta. Abbia un po’ dì pazienza! Aspetti un momento. L’onestà mi passa presto. Devo stringermi le tempie e pensare a mio padre che è morto in un pigiama rattoppato. E l’onestà passa. Aspetti ancora un minuto e la sua proposta, che mi sta rivoltando lo stomaco e che mi dà la voglia di cacciarla fuori a pedate, io l’accetterò».
Un altro autore ignoto racconta la variante simmetrica dello stesso aneddoto. La risposta del funzionario è radicalmente diversa: «La sua offerta è allettante. Avrei molte ragioni per accettarla; ma sento che mi fa rivoltare lo stomaco. L’onestà non mi passa facilmente. Penso a mio padre che ha lavorato vent’anni in miniera per farmi studiare ed è morto povero: l’affare che mi propone mi colpisce nella sua memoria, che è anche la mia storia. Per queste radici dico no con forza e con disgusto alla sua proposta».
Le stesse radici, la stessa storia, una reazione opposta alle suggestioni del denaro. È solo un sottile filo psicologico che divide l’onesto dal corrotto? No, è una scelta propriamente morale fra la dignità, che non si può né vendere né comprare, e ciò che ha prezzo, e dunque si può vendere e comprare.
APOLOGO SULL’ONESTÀ NEL PAESE DEI CORROTTI. Nel 1980 Italo Calvino pubblicò un racconto che porta appunto il titolo Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti. In esso lo scrittore ci dette il ritratto di questo nostro strano Paese e la formula epigrafica della nostra cleptocrazia: «Un sistema nel quale moltissime persone potevano trovare il loro vantaggio pratico senza perdere il vantaggio morale di sentirsi con la coscienza a posto». Provate a pensare a quante persone, tra i vecchi e i nuovi leader, queste parole si attagliano perfettamente. Sono su loro misura.
CIVISMO E CRETINISMO. Primo episodio. Fine aprile 1948. Arrivo a Brescia da Taranto. Mi trascino due valigie cariche di libri. Prendo la filovia e mi accorgo, con grande disagio, di non avere le monetine per l’acquisto del biglietto. Il conducente non può cambiarmi la banconota da cinquemila. Paga di tasca sua la mia corsa e mi dice: «Lei faccia lo stesso con chi si trovasse nella sua situazione. L’importante è non frodare». La patria di Tito Speri mi mostrò così, al primo impatto, il suo volto più bello.
Secondo episodio. Chieti 1996, 16 gennaio. «Nel 1992 un’anziana commerciante pagò un tributo, con il quale chiudeva definitivamente i conti con l’esattoria. Oggi si è vista recapitare una cartella con la quale le si ingiunge il pagamento di lire una, quale corrispettivo della differenza tra la somma pagata e quella dovuta. Il figlio dell’ex-commerciante è riuscito a procurarsi, cosa ormai rarissima, una moneta da una lira e, dopo un’ora di fila davanti allo sportello dell’esattoria, ha saldato il debito» (Il Giornale, 17 gennaio 1996).
L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Sullo scoglio del dolore. Soccorri me, Signore, / che sullo scoglio del dolore / non so che cosa fare. / Aiutarmi da solo vorrei, / ma non posso. / Abbi pietà di me, dolce Gesù (Francis Quarles, poeta metafisico inglese del Seicento).
Il vestito di porpora. Ti hanno lasciato nudo, mio Signore! / Aprendo il tuo fianco, / non potevano darti un abito migliore / di questo da indossare, / un abito fatto col tuo stesso sangue (Richard Crashaw, da Steps to the Temple, 1946).
8 febbraio 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Come ago al polo. La vista mia… / volsesi al segno di maggior disio (Dante Alighieri, Paradiso 3, 124, 126). È la vita eterna, non quella di Fellini. E differentemente han dolce vita (Paradiso 4, 35). Nessuno può volere al nostro posto. Ché volontà, se non vuol, non s’ammorza (Paradiso 4, 76). Se Dio non ci illumina. Io veggio ben che già mai non si sazia / nostro intelletto, se ‘l ver non lo illustra / di fuor dal qual nessun vero si spazia (Paradiso 4, 124 – 26).
ELOGIO DELLA GENTILEZZA. La gentilezza è innanzitutto ripugnanza per tutto ciò che è rozzo e indiscreto. Chi è gentile si rifiuta di ferire gli altri nel loro intimo con l’indifferenza, misconoscendone i sentimenti, le legittime attese, il valore personale. La gentilezza bisogna imparare a praticarla in tanti modi e in ogni ambiente, a cominciare dalla famiglia, fin da ragazzi. La gentilezza, che a livello elementare si manifesta come buona educazione, oltrepassa nettamente la sfera sociale delle regole di comportamento per attingere l’interiorità del cuore e farsi delicata attenzione, partecipazione profonda ai sentimenti degli altri. Da sola, la gentilezza delle buone maniere non è che una vernice superficiale; ma se penetrata dalla gentilezza del cuore, diviene tatto, signorilità, preveggente delicatezza, grazia.
CHE COSA MINACCIA OGGI IN ITALIA L’ETHOS POLITICO? Giriamo la domanda a una delle più alte autorità morali del nostro Paese. La sua risposta si articola in cinque punti.
1) «L’emergere di una certa figura del primato del soggetto si traduce in un privilegio di fatto per chi sa rivendicare, con la forza del suo peso economico e sociale, i propri diritti individuali o di gruppo. Si tratta di un atteggiamento che contesta la funzione dello Stato nella tutela dei più deboli e alla fine mette a rischio lo stesso patto sociale che sottostà alla Costituzione, a vantaggio di assetti contrattuali più facili a piegarsi alle convenienze e alle maggioranze del momento».
2) «La fortuna, nell’opinione pubblica e nel costume, di una logica decisionistica non rispetta le esigenze di una paziente maturazione del consenso o cerca di estorcerlo con il plebiscito generalizzato o si illude di operare col sondaggio dei desideri, semplificando la complessità della politica, dei suoi tempi e delle sue mediazioni».
3) «Si fa strada un liberismo utilitaristico che non mette ordine nelle attese e nei bisogni secondo una gerarchia di valori, ma eleva il profitto e l’efficienza o la competitività a fine, subordinando ad essa le ragioni della solidarietà».
4) «C’è un crescendo della politica fatta spettacolo, fatta scontro verbale accompagnato anche da minacce; una politica intesa come luogo del successo e palcoscenico di personaggi vincenti, che richiedono deleghe a governare non sulla base di programmi vagliati e credibili, bensì sulla base di promesse o prospettive generiche».
5) «C’è, da ultimo, una logica della conflittualità che tutto intende nel quadro della relazione amico-nemico, dove con l’amico si ha tutto in comune, col nemico nulla. Tale contrapposizione sarebbe la sola capace di stabilire correttamente minoranze e maggioranze e di sconfiggere la degenerazione consociativistica. Il consociativismo, accordo spartitorio di potere che non ricerca valori comuni da far crescere insieme, ma spazi da gestire da questa o da quella forza politica, va ben distinto dalla ricerca di valori presenti in varie forze, in vista di una compattazione della città. In una logica di conflittualità, chi vince si sente invece autorizzato a prescindere del tutto dalle ragioni dell’altro semplicemente perché ha vinto».
Questi giudizi sono stati espressi da Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, il 6 dicembre 1995, nel discorso per la festa di sant’Ambrogio.
BRICIOLE DI SAGGEZZA. La prima rivelazione di Dio è il creato. Una volta, mentre stavo tenendo un discorso, il maestro citò un antico poeta. Una giovane donna andò più tardi a dirgli che avrebbe preferito una citazione tratta dalle Scritture. «Quell’autore pagano che hai citato conosce davvero Dio?» domandò.
Ragazza mia, rispose il maestro severamente, se pensi che Dio sia l’autore del libro che chiami Scritture, ti informo che è anche l’autore di un’opera molto precedente chiamata Creazione (Anthony De Mello, Shock di un minuto. Per vivere a 360 gradi, Milano 1995).
15 febbraio 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Ciò che si teme e ciò che non si osa sperare. Dio è colui che perdona quello che la coscienza teme e che dona quanto la preghiera non osa sperare. Il sigillo. Il sigillo più bello di una vita, o di un’impresa degna sta nel poter dire: Abbiamo fatto quanto dovevamo fare. Una lingua senz’anima. Una lingua è impegnata dall’anima del popolo che la parla. Ma qual è l’anima di coloro che vorrebbero parlare l’esperanto? (Levi Appulo)
Per dialogare con noi stessi. Ci sarà sempre un’ora nella quale un uomo prenderà un libro in mano ed in quel momento potrà scoprire qualcosa di sé o il modo per ritrovarsi (Enzo Biagi). L’appello. Risplendete come astri nel mondo, tenendo alta la parola della vita (San Paolo).
ELOGIO DEL BUON SENSO. Sul finire del secolo scorso fu chiesto a un professore di tenere una conferenza alla Sorbona sul tema: «L’ideale cui deve tendere l’educazione». Quel professore designò sinteticamente il valore più alto del processo formativo con una espressione di straordinaria modestia: il buon senso. La cosa irritò profondamente il ministro della Pubblica istruzione francese, che era presente. Ma tra il professore, che amava la scuola ed era un autentico genio, e il ministro, tronfio di retorica che cercava parole altisonanti, era il primo che aveva ragione.
Che cosa si deve, infatti, intendere per buon senso? Il buon senso non è il senso comune che recepisce qualche valido consiglio per la vita mescolato ai molti pregiudizi correnti. È apertura dello spirito alla realtà, bisogno di rompere le clausure della specializzazione, capacità di «apprendere ad apprender». Il buon senso è sempre socratica ignoranza consapevole, un sapere di non sapere che si accompagna al coraggio della sincerità e alla ferma determinazione di voler pervenire alla conoscenza vera, su misura dei fatti osservati. Il buon senso è un’intensificazione della volontà che produce insieme penetrazione intellettuale, chiaro senso del limite e, nei rapporti umani, rispetto, aspirazione alla giustizia, gusto per le sfumature. Non la riuscita immediata è un valore, bensì la riuscita che è frutto del risveglio dello spirito e dello sforzo creatore. Il buon senso, insomma, è il solo pragmatismo degno dell’uomo.
INDIVIDUARE IL GIUSTO MOMENTO. C’è un testo biblico in cui l’invito al discernimento, a cogliere il momento adatto per ogni cosa, suona forte e chiaro. È in uno dei libri sapienziali, il Qohelet (3, 1 – 8), che nella Bibbia, in un tempo non lontano da noi, era chiamato, secondo la tradizione latina, l’Ecclesiaste. Gustiamolo insieme.
«Per ogni cosa c’è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo. C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante. Un tempo per uccidere e un tempo per guarire, un tempo per demolire e un tempo per costruire. Un tempo per guarire e un tempo per ridere, un tempo per gemere e un tempo per ballare. Un tempo per gettare sassi e un tempo per raccoglierli, un tempo per abbracciare e un tempo per astenersi dagli abbracci. Un tempo per cercare e un tempo per perdere, un tempo per serbare e un tempo per buttar via. Un tempo per stracciare e un tempo per cucire, un tempo per tacere e un tempo per parlare. Un tempo per amare e un tempo per odiare, un tempo per la guerra e un tempo per la pace».
LA LUCE NELLE TENEBRE. Anche dal male si può trarre il bene? «Un giorno il maestro disse: Non sarete pronti a combattere il male finché non riuscirete a vedere il bene che esso fa. Ciò lasciò i discepoli in una considerevole confusione, che il maestro non fece nulla per dissipare. Il giorno dopo presentò loro questa preghiera, trovata scarabocchiata su un pezzo di carta da pacchi nel campo di concentramento di Ravensbruck: Signore, ricorda non solo gli uomini e le donne di buona volontà, ma anche tutti quelli di cattiva volontà. Non ricordare solo tutte le sofferenze che ci hanno inflitto. Ricorda i frutti che abbiamo prodotto grazie a questa sofferenza… la nostra solidarietà, la nostra lealtà, la nostra umiltà, il nostro coraggio e la nostra generosità, la grandezza di cuore che tutto questo ha ispirato. E quando saranno al tuo cospetto per essere giudicati, fa’ che tutti questi frutti che abbiamo generato siano la loro ricompensa e il loro perdono» (Antony De Mello, Shock di un minuto. Per vivere a 360 gradi, Milano 1995).
22 febbraio 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Un verso come augurio. Con miglior corso e con migliore stella (Dante Alighieri, Paradiso 1, 40). L’aldilà. Lì si vedrà ciò che tenem per fede, / non dimostrato, ma fia per sé noto (Paradiso 2, 144). La luce interiore. Come letizia per pupilla viva (Paradiso II, 144). A testa alta. Leva’ il capo a proferer più erto (Paradiso 3, 6). Occorre farne esperienza, come i mistici. Di vita etterna la dolcezza senti, / che non gustata non s’intende mai (Paradiso 3, 38 – 39). La nostra pace. In sua voluntate è nostra pace (Paradiso 3, 85).
Le grandi figure dell’umanità. Le grandi figure morali che hanno inciso nella storia si danno la mano al di sopra dei secoli, al di sopra delle nostre città umane: insieme compongono una città divina, nella quale ci invitano a entrare (Henri Bergson). Vero e falso ordine. Detesterei che il mio amore per l’ordine beneficiasse del significato che pigramente si presta a questa parola (Jean Cocteau – Jacques Maritain).
QUANTI MORTI IN PIÙ, QUANTI STORPI IN PIÙ? La cifra è ufficiale: tra il 1954 e il 1993 l’Italia ha speso per infortuni sul lavoro 1.600.000 miliardi di lire, in media 40.000 miliardi l’anno. Si sa, una disgrazia è imprevedibile e casuale, ma come chiameremo le tantissime morti e le mutilazioni per assenza o inadeguatezza colpevole di misure preventive? Nel 1994 l’Europa si è data una nuova legge, la direttiva n. 626, in materia di prevenzione sul lavoro, ma il Parlamento italiano continua a rimandarne l’entrata in vigore. In risposta a un’intervistatrice, il sottosegretario al lavoro, Matelda Grassi, ha dichiarato a Telemontecarlo, venerdì 19 gennaio 1996, alle ore 20.50: «Abbiamo subito fortissime pressioni da parte degli imprenditori, sia per ritoccare il decreto, sia per ritardarne l’applicazione».
Quanti morti in più, quanti storpi in più vanno messi sul conto di questo rinvio? E qual è il suo costo per lo Stato, e dunque per la collettività, anche solo in termini finanziari?
IL TEMPO CHE IN UN GIORNO TU RISERVI AL SILENZIO. È una domanda che non va elusa, chi non sa stare in silenzio, chi non riflette, chi non prega nel segreto del suo cuore, chi non sa stare zitto, in un angolo tutto suo, rischia grosso: rischia la perdita della sua interiorità. Ma nascondere a noi stessi il nostro io profondo, significa lasciarci assorbire dall’io superficiale, per il quale la parola si fa chiacchiera ed esistere è soprattutto un lasciarsi andare al luogo comune, alla ripetitività, al sentito dire, al «si dice».
Silenzio e parola, quando sono veri e fecondi, non si trovano su due piani antitetici, escludentisi a vicenda, né si situano l’uno rispetto all’altra come se si trattasse di due linee parallele destinate a non incontrarsi mai. Pur essendo due cose diverse, esse si compenetrano e interagiscono. L’uno richiama l’altra, come ben vide Max Picard in un suggestivo saggio, ormai introvabile.
«Il silenzio – scrive il pensatore elvetico – non consiste soltanto nel fatto che l’uomo, a un certo punto, cessa di parlare. Il silenzio è qualche cosa di più di una semplice rinunzia alla parola, è qualche cosa di più di un semplice stato nel quale ci sì possa trasferire a proprio piacimento. Il silenzio invero comincia dove la parola finisce. Però non comincia perché la parola finisce, ma soltanto in quel punto si manifesta. Il fenomeno è un fenomeno a sé. Non quindi si identifica con la cessazione della parola, non è qualche cosa di ridotto, ma qualche cosa di integro, che sta a sé, produttivo al pari della parola: esso, infatti, forma l’uomo non meno della parola, sebbene in misura diversa. Il silenzio appartiene alla struttura fondamentale dell’uomo… Parola e silenzio sono legati: la parola sa del silenzio, come il silenzio sa della parola» (Max Picard, Il mondo del silenzio, Milano 1975).
POESIA DEL NOVECENTO. La speranza. Speravo in me stesso: ma il nulla mi afferra. / Speravo nel tempo: ma passa, trapassa; / In cosa creata: non basta, e ci lascia. / Speravo nel ben che verrà, sulla terra: / Ma tutto finisce, travolto, in ambascia, / Ho peccato, ho sofferto, cercato, ascoltato / la Voce d’Amore che chiama e non langue: / ed ecco la certa speranza: la Croce. / Ho trovato Chi prima mi ha amato / E mi ama e mi lava, nel sangue che è fuoco, / Gesù, l’Ognibene, l’Amore infinito, / l’Amore che dona l’Amore, / L’Amore che vive ben dentro nel cuore […] (Clemente Rebora).
29 febbraio 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Volontà e grazia. La nostra carità non serra porte / a giusta voglia (Dante Alighieri, Paradiso 3, 43 – 44). L’eccesso di desiderio confonde le idee. Quasi com’uom cui troppa voglia smaga (Paradiso 3, 35). Il primo amore. Quel sol che pria d’amor mi scaldò il petto (Paradiso 3, 1). L’unica cosa necessaria. Tenersi dentro a la divina voglia (Paradiso 3, 80). Se sono così, perché dovremmo sceglierli? Uomini, poi, a mal più ch’a bene usi (Paradiso 3,106).
La Chiesa e le questioni più urgenti. Quando la Chiesa affronta urgenti questioni di attualità, deve necessariamente far appello a scopi comuni. Ma lo deve fare a modo suo, in modo diverso dai politici. Essa deve svolgere il suo ufficio di guardiano, in primo luogo nei confronti di coloro che si vantano di essere suoi alleati temporali. L’esperienza attesta che, da questo punto di vista, non pochi uomini di Chiesa mancano singolarmente di senso critico (Oscar Cullmann). Il comandamento essenziale dell’ecumenismo. Non spegnete lo Spirito. Esaminate tutto. Tenete ciò che è buono (San Paolo).
L’EVENTO NUOVO CHE PREPARA IL FUTURO. Fra quattro anni comincia il terzo millennio dell’era cristiana. Il primo millennio vide la comunione fraterna della fede e della vita sacramentale. Nel secondo millennio si produsse la rottura violenta dell’unità e si innalzarono muri di divisione tra le nuove confessioni, l’ortodossa e la protestante, e la Chiesa Cattolica. A partire, però, dalla seconda guerra mondiale, accomunati nel martirio e nella persecuzione, i cristiani hanno concepito un grande sogno, quello di realizzare tra i credenti delle tre grandi confessioni una nuova unità visibile. E il metodo, la via maestra per giungere a quell’alto traguardo, si chiama «ecumenismo».
L’impresa è quanto mai ardita. Gli ostacoli da superare sono tanti e riguardano tanto il passato quanto il presente. Occorre, infatti, pervenire a una storia implacabilmente onesta delle vicende da cui si originarono gli scismi e che seguirono al distacco dal papato; ma occorrono anche lungimiranza, coraggio e delicatezza insieme per vincere la tentazione, sempre rinascente, dell’autarchia confessionale. Chi ha senso storico comprende, pertanto, perché ad ogni balzo in avanti possano succedere irrigidimenti e fasi di ristagno; nelle coscienze i tempi della maturazione non si saltano e una fermata non è necessariamente un cedimento o una rinuncia a riprendere il cammino. La riprova è sotto i nostri occhi, se guardiamo a quello che si è fatto negli ultimi cinquant’anni. In appena cinque decenni è cambiato il modo stesso di impostare il problema dei rapporti tra le Chiese cristiane ed è questa la cosa che più conta, l’avvenimento che da solo supera le nostre più ardite speranze. Gli eretici di ieri nei documenti del Concilio Vaticano II sono designati col termine fratelli separati; ed ecco che nell’Enciclica «Ut unum sint», nei paragrafi 41 – 42, a trent’anni della conclusione del Concilio, sono chiamati fratelli ritrovati.
POESIA DI NOSTRI GIORNI. È peccato non vivere. Se morire non è peccato / è peccato non vivere / il tempo destinato / con l’entusiasmo della gratitudine (Liana De Luca, Il posto delle ciliegie, Torino 1995).
Bellezza e sudore. Il gelsomino irradia il suo profumo, / il roseto rena al sole, / l’albero del cedro / scopre poppe gialle prosperose, / le spighe fan sperare un buon raccolto. / Lo sguardo non si posa indifferente / in superficie; / intuisce un lavoro di pazienza, / di sudore, di ansie (Giuseppe Benedetto, Parole scritte, Foggia 1994).
7 marzo 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Non c’è solo la dimensione spaziale della realtà. Dietro ai sensi / vedi che la ragion ha corte l’ali (Dante Alighieri, Paradiso 2, 56 – 57). Il gaudio della verità. Dentro dal ciel de la divina pace (Paradiso 2, 112). Abbellito da tante stelle. Il ciel cui tanti lumi fanno bello (Paradiso 2, 130). Quando si parla con lo sguardo. Io mi tacea, ma ‘1 mio disir dipinto / m’era nel viso (Paradiso 4, 10 – 11).
LE DUE FACCE DI UN FALSO MISTERO. La politica spettacolo, incessantemente alimentata dalla televisione, forse farà audience, ma di certo serve a far dimenticare agli italiani menzogne, latrocini e crimini di cui non pochi attori della vita politica di ieri e di oggi dovrebbero render conto, se il nostro fosse uno Stato di diritto.
Si prenda, ad esempio, il caso Ustica. I morti del Dc 9 furono tanti e i loro familiari non conoscono ancora la verità su una strage che ogni giorno di più assume i contorni di un inutile segreto di Stato, di un tragico errore di cui non si vogliono far conoscere le cause. Ma a quella sciagura si accompagna un enigma ben più orrendo: alla lista dei morti del Dc 9 si aggiunge, infatti, quella dei militari testimoni della strage, marescialli ed alti ufficiali dell’aeronautica in servizio ai radar di controllo in Sicilia e in Calabria. In questi ultimi anni molti di essi sono passati rapidamente a miglior vita, uno dopo l’altro, come in una sequenza cinematografica, vittime di assurdi incidenti e di acrobatiche impiccagioni. C’è, poi, un particolare agghiacciante, riportato a suo tempo sulla stampa e poi letteralmente sparito dalla memoria collettiva; ed è un particolare che alla tragedia mescola la farsa più indecente. Un caccia libico è abbattuto nello stesso frangente in cui si verifica la strage di Ustica e va a schiantarsi sulla Sila. Il medico della zona certifica il giorno e l’ora in cui è spirato il pilota di Gheddafi; ed ecco, due agenti dei servizi segreti lo rintracciano e lo convincono a… risuscitare il morto per farlo defungere in altra data, una settimana più tardi.
Una breve, amarissima riflessione. Pare proprio che il più efficace dei depistaggi nel nostro Paese abbia un duplice aspetto: da un lato, si fa di tutto per isolare, le une dalle altre, le notizie relative a una stessa vicenda, almeno quelle che non si possono più occultare; dall’altro, si gioca su tempi tanto lunghi da far smarrire la percezione non solo della gravità di un fattaccio, ma la sua stessa esistenza. Per questo ricordare, non tacere, non lasciarsi menare per il naso è nel nostro Paese un dovere per chiunque abbia ancora senso dello Stato e sete di giustizia.
È UN PRIMO PASSO, MA VA FATTO SUBITO. La televisione non è destinata a scomparire ed è anche improbabile che cambi al punto da diventare un ambiente ragionevolmente accettabile per la socializzazione dei ragazzi. Queste realtà vanno accettate. Possiamo modificare i contenuti, migliorare la qualità dei programmi a disposizione dei bambini, ma l’esigenza più importante è scoraggiare i ragazzi dall’usare la televisione come fonte di informazione sul mondo. Però se insistiamo con i nostri figli affinché guardino meno la televisione, dobbiamo offrir loro altre idee su come passare il tempo. I ragazzi hanno bisogno di conoscere se stessi tanto quanto hanno bisogno di conoscer il mondo; e queste informazioni si ottengono soltanto agendo nel mondo, cioè tramite l’interazione reale fra esseri umani. I ragazzi hanno bisogno di più esperienza e meno televisione.
«È necessario far capire ai genitori – scrive lo psicologo e scienziato delle comunicazioni John Condry – che la televisione non può insegnare ai bambini ciò che debbono sapere via via che crescono e diventano adolescenti e poi adulti. La televisione è un mezzo pubblicitario; in quanto tale ha un posto che le spetta legittimamente. Può essere divertente; nell’intrattenimento non c’è nulla di intrinsecamente sbagliato. La televisione può essere informativa, e questo è un bene. Tuttavia, come strumento di socializzazione, è carente; occorre capire questo fatto e prenderne spunto per agire. La scuola e la famiglia debbono fare meglio di quanto facciano attualmente e a tal fine hanno bisogno di tutto l’aiuto disponibile. Ridurre l’influenza esercitata dalla televisione nella vita dei ragazzi è un primo passo. Questo passo va fatto subito». (Da Cattiva maestra televisione, Roma 1994).
14 marzo 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Ciò che distingue la persona umana. [Le creature] ch’hanno intelletto ed amore (Dante, Paradiso 1, 120). Ci incatena alla terra la libertà, se sviata da falso piacere. … come forma non s’accorda / molte fiate a l’intenzion de l’arte, / perch’a risponder la materia è sorda, / così da questo corso si diparte / talor la creatura, ch’ha podere / di piegar, così pinta, in altra parte; / e sì come veder si può cadere / foco di nube, sì l’impeto primo / l’atterra, torto da falso piacere (Paradiso 1, 127 – 135).
L’esperienza e il sistema. Non si può sacrificare l’esperienza alle pretese di un sistema (Henri Bergson). Può capitare. Cessando di essere pazzo, diventò stupido (Marcel Proust). Sognare, essendo desti. Fosti saggia a destarmi. E tuttavia / tu non spezzi il mio sogno, lo prolunghi (John Donne). Se si tratta di vera conversione. Ho potuto pienamente toccar con mano ciò che dice il Newman, ossia chi ha nutrito sinceramente una fede, sente, avvicinandosi al Cristo, che non rinuncia a nulla di tutto ciò che di buono vi era in essa, ma lo ritrova approfondito, potenziato, illuminato (Giovanni Modugno).
TELEVISIONE, LADRA DI TEMPO E BUGIARDA. Oggi molti ragazzi hanno gravi problemi e uno dei motivi è che trascorrono una parte eccessiva del loro tempo a guardare la televisione. La televisione è una ladra di tempo: deruba i ragazzi di ore preziose, essenziali per imparare qualcosa sul mondo e sul posto che ciascuno vi occupa. E questo sarebbe già abbastanza negativo. Ma la tv non è soltanto ladra: è anche bugiarda. Per quel po’ di verità che la televisione comunica, c’è molto di falso e di distorto, sia in materia di valori che di fatti reali.
«La televisione esercita un potente influsso sui preadolescenti proprio perché al momento altre istituzioni che dovrebbero prendersi cura di loro funzionano male. In un tempo e in un luogo diversi, la televisione potrebbe non aver avuto l’influenza di cui gode oggi. Per molti bambini piccoli, la televisione ha sostituito le fiabe con racconti moderni, omogenei ma meno coerenti. Il tempo trascorso a guardare la televisione allontana il bambino dalla lettura; la capacità di leggere è scarsamente sviluppata, e il valore della lettura trascurato. I bambini vengono abbandonati a una serva infedele che li espone a “vicende sconnesse raccontate da persone sconnesse”» (John Condry, Cattiva maestra televisione, Roma 1994).
POESIE DEL «SAI COME SI DICE». Sai come dice l’avvocato. Dice l’avvocato: / tu dimmi la verità, / e io racconterò bugie. Ho visto di tutto. Ho visto di tutto. / Ho provato di tutto. / Mi sono reso conto di tutto. / E ti dirò una cosa: / La tua testa / non scambiarla con nessuno. Dio e il diavolo. Sai come si dice: / Dove Dio fa una chiesa, / il diavolo subito fa una cappella. Se vuoi essere lodato. Sai come si dice: / Se vuoi essere lodato, / devi morire. I bambini e gli stupidi. Sai come si dice: / I bambini mostrano il sedere, / gli stupidi i soldi.
L’autore di questi sapidi versi, dal tono campagnolo, è Ivan Golub, poeta e teologo croato vivente. L’intera sua produzione è raccolta nel volume L’uomo di terra, Milano 1995.
21 marzo 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. La favilla e l’incendio. Poca favilla gran fiamma seconda (Dante Alighieri, Paradiso 1, 34). Se non te ne liberi, diventi ottuso. Tu stesso ti fai grosso / col falso immaginar, sì che non vedi / ciò che vedresti se l’avessi scosso (Paradiso 1, 88 – 90). Come Beatrice parlava a Dante. Per le sorrise parolette brevi (Paradiso I, 95). Non poltrire! Maraviglia sarebbe in te se, privo / d’impedimento, giù ti fossi assiso, / com’a terra quiete in foco vivo (Paradiso 1, 139 – 141).
Io voglio essere là. Sì, io voglio essere là dove non esistono ricordi e rimpianti e reminiscenze e la paura e la vigliaccheria sono represse dal fertile movimento delle membra e la mente è libera di vagare nelle solerti vallate della creatività. Sì, io voglio essere là dove le farfalle vivono intensamente il breve attimo fuggente del loro volo e la loro preoccupazione di vivere è soltanto una questione di futile formalità (Paul Gauguin). Siamo uomini o formiche? Gli esseri umani si distinguono dalle formiche perché hanno la facoltà di esprimere le proprie opinioni più o meno liberamente e perché non tutti hanno la stessa opinione di fronte allo stesso fatto. Questa facoltà evidentemente non è concessa alle formiche. Ma ci sono esseri umani che hanno il cervello da formiche. Questi ultimi hanno la pretesa che tutti dovremmo pensarla allo stesso modo: cioè come loro, cioè come formiche (Albert Eistein).
PERCHÉ CHI È SUPERFICIALE FA COLPO E PARE AVER RAGIONE? «Ascoltate discutere insieme due filosofi, di cui uno tiene per il determinismo e l’altro per la libertà. È sempre il determinista che sembra aver ragione. Non importa che sia alle prime armi, mentre l’avversario è uno sperimentato. Egli può sostenere senza preoccupazione alcuna la sua causa, mentre all’altro tocca sudar sangue. Di lui si dirà sempre che è semplice, chiaro, vero e lo è in modo facile e naturale, non dovendo far altro che mettere insieme pensieri già pronti e frasi fatte: la scienza, il linguaggio, il senso comune, l’intelligenza tutta è a suo servizio. La critica di una filosofia intuitiva è così facile, così sicura di essere ben accolta, che costituirà sempre una tentazione per il principiante. Più tardi potrà sopraggiungere il dispiacere di aver ceduto, a meno che non vi sia un’incomprensione nativa, un risentimento personale nei confronti di tutto ciò che non è riconducibile alla lettera e che è propriamente spirito. Questo succede, perché la filosofia ha anch’essa i suoi scribi e i suoi farisei».
Queste osservazioni, evidentemente autobiografiche, Bergson le scriveva nel 1922 in uno scritto che fu pubblicato nel 1934, nel volume Il pensiero e il diveniente. Che cosa direbbe oggi il filosofo francese dei cosiddetti «dibattiti» televisivi, in cui la teatralità, l’apparire in quanto tale, il tagliare le gambe ai fatti, il discredito delle idee altrui, la frase a effetto e la maleducazione sono i mezzi usuali per «far luce» su di un qualsiasi problema? In regime televisivo quanto più serio è il problema in discussione, tanto più si deve temere per la verità e il buon senso.
MUSICA E SILENZIO. La musica di per sé non è silenzio, ma poche altre cose hanno il dono di generare il silenzio in noi, disponendoci totalmente a rientrare in noi stessi, ad ascoltare nel silenzio più profondo. Infatti non v’è nulla di più irritante dello sciocco cicalare durante l’esecuzione di un concerto. La musica autentica, come la grande poesia e la preghiera, comunica misteriosamente, ma effettivamente, con la profondità dell’anima, col nostro sub-conscio spirituale. Lì è la sua prima e più pura sorgente e lì ci riconduce. Nel segreto di noi stessi, nel nostro «io» raccolto in se stesso.
POESIA DEL NOVECENTO. O infinito silenzio. Signore, per te solo io canto / onde ascendere lassù / dove solo tu sei, / gioia infinita. / In gioia si muta il mio pianto / quando incomincio a invocarti / e solo di te godo, / paurosa vertigine. / Io sono la tua ombra, / sono il profondo disordine / e la mia mente è l’oscura lucciola / nell’alto buio, / che cerca di te, inaccessibile luce, / di te si affanna questo cuore / conchiglia ripiena della tua eco, / o infinito silenzio (David Maria Turoldo).
28 marzo 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Una cosa inconcepibile. È uno spettacolo ripugnante per me vedere uomini in preda all’odio verso altri uomini cantare la Nona di Beethoven. È sbagliato cercare il dolore. Avevo imparato ad amare il dolore. Più tardi ho imparato che è sbagliato cercare il dolore. Quando, però, già ci è stato inflitto, allora sta a noi accoglierlo in un certo senso volontariamente, cioè con un atteggiamento di accettazione e di offerta. Il raggio di luce. Nelle ore buie che ci toccano, la cosa più importante è far sì che penetri sempre un raggio di luce. Non abbatterti. Non devi abbatterti, la prova durerà il suo tempo. Ma anche se dovesse durare tutta la vita, non dobbiamo lasciarci sviare dalla nostra strada. Sei disposto a farti lievito? Il futuro dipende dalla piccola percentuale di quelli che ora vogliono e possono avere l’effetto del lievito, che sono cioè disposti a diventare strumento di una superiore volontà di amore.
I passi sono tratti da Una piccola luce – Lettere della famiglia Scholl dal carcere nazista, a cura di Aicher-Scholl, Milano 1995.
È ACCADUTO UNA VOLTA. Fu settant’anni fa. Il 9 novembre 1926 la Camera dei Deputati approvò una mozione, presentata dal segretario del partito fascista, per la quale si dichiarava la decadenza del mandato parlamentare di centoventi deputati. Subito dopo, nella stessa seduta, in aperta contraddizione con la tradizione liberale, furono istituiti la pena di morte e il Tribunale Speciale. Al Senato, che era allora di nomina regia, quarantanove senatori si opposero alle leggi liberticide. Il grande giurista Francesco Ruffini rilevò che per effetto di quella legge, comminante in un suo articolo gravi pene persino a chi facesse propaganda di idee, alcuni insigni servitori della Patria – come Giolitti e Orlando – erano ricacciati d’autorità tra i sovversivi e gli anti-nazionali. Il 20 novembre anche il Senato dette la sua approvazione.
Il Tribunale Speciale, si badi, era presieduto da un generale e formato da cinque consoli della Milizia fascista, cioè di una formazione militare di partito; esso adottava la procedura di guerra e contro le sue sentenze non era ammesso ricorso. Il legislatore fascista fece di più: passò sopra anche al principio che esclude la retroattività della legge penale, in quanto avocò all’istituendo Tribunale Speciale i provvedimenti già in corso per delitti passati. Avvertì, però, il bisogno di mentire: dichiarò, infatti, che la nuova legge doveva aver vigore per cinque anni. Durò, invece, finché scomparve il regime fascista.
Insieme al Tribunale Speciale entrò in azione, come organo avente piena autonomia, alle dirette dipendenze di Alfredo Bocchini, la polizia politica segreta, la cosiddetta Organizzazione volontaria per la repressione antifascista, l’Ovra. In meno di sedici anni l’Ovra consegnò al Tribunale Speciale 5.139 italiani: 42 furono i condannati a morte, 23.000 gli anni di carcere inflitti.
EVVIVA, È CADUTO UNO DEI TABÙ DEL CONSUMISMO. Mentre i soliti furbi – la pubblica Telecom in primissima fila – ce la mettono tutta per ritoccare all’insù i prezzi, facendo crescere l’inflazione, finalmente qualcuno si è fermato in quella corsa verso il precipizio. Lo ha fatto la Barilla, prendendo una decisione che ha un enorme valore economico ed anche politico: il 14 febbraio u.s. l’azienda leader nel settore paste-forno ha ridotto mediamente i suoi listini del 12%!
La domanda che sorge spontanea è: com’è stato possibile un «miracolo» del genere? E la risposta è semplicissima. La Barilla ha tagliato nettamente i costi promozionali delle agevolazioni fasulle e ha rinunciato a praticare quella concorrenza sleale che procede a colpi di bollini e concorsi. La Barilla ha capito che bisogna ricondurre finalmente produttori e consumatori al buon senso e, così facendo, ci ha dato un esempio, una lezione di etica e di economia. La concorrenza leale, infatti, non può che ispirarsi ad un unico criterio, la miglior qualità al prezzo più basso, e non già puntare sull’infantilismo dei consumatori. La decisione della Barilla potenzialmente ha dato straordinaria carica innovativa, ma i consumatori capiranno una buona volta dov’è il loro vero vantaggio? Se lo facessero darebbero anche un contributo decisivo a fermare l’inflazione. Non sappiamo che cosa potrà derivare da una decisione così giusta e necessaria ma, vada come vada, uno dei tabù dell’incretinimento consumistico di massa è caduto a pezzi. E noi facciamo festa.
4 aprile 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il torchio e la gioia. L’essere umano più nobile e puro è quasi sempre colui che è passato attraverso il torchio della sofferenza. Ma ogni purificazione è finalizzata alla gioia. Il senso del patire alla fine è la gioia. Com’è possibile? Come può essere ammissibile che si sia felici con chi è felice e si pianga con quelli che piangono, come può essere che questa gioia e questo dolore alberghino contemporaneamente nell’anima? Andare incontro al futuro. Non è giusto attendere il futuro con una semplice alzata di spalle o con pessimismo, senza andargli incontro con una sorta di accondiscendenza interiore. Se l’amicizia è sincera. Un’amicizia senza difficoltà e rimproveri non va bene, è costruita sulla sabbia. Ma gli amici devono costantemente sentire che il giudizio severo è sempre accompagnato dall’indulgenza. Degrada l’uomo. Non amo il motto: il bastone e la carota. Degrada l’uomo (Inge Scholl).
I pensieri qui riportati sono tratti dallo splendido volume Una piccola luce – Lettere della famiglia Scholl al carcere nazista, a cura di Inge Aicher-Scholl, Milano 1995.
«UN CAMMINO VERSO LA FEDE». Ci sono i santi e i mistici dentro la Chiesa; ma ci sono anche coloro che hanno ricevuto la difficile, singolarissima vocazione di «vivere un cammino verso la fede», senza varcare la soglia della Chiesa, che pure rimane l’interlocutrice continuamente presente. E tra essi, tra i cristiani senza Chiesa, vi sono anche grandi anime. La «santa dei senza chiesa» nel nostro secolo è stata Simone Weil (1909 – 43), la cui vita eroica e i cui scritti hanno toccato il cuore di tante persone in ricerca, ma anche di uomini come Angelo Roncalli, Giambattista Montini, Robert Schumann, Julien Green, tutti saldamente dentro l’ortodossia cattolica. Quest’anno chiedo a lei una riflessione sulla Pasqua.
LA CROCE COME PATRIA. Weil considera il centro del Vangelo, «la sua parola più penetrante», il grido di Gesù: Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Com’è possibile che un Dio lanci quel grido se, almeno per un istante, lo Spirito non si sia allontanato da lui? «Dio stesso, dato che nessun altro avrebbe potuto farlo, è andato alla distanza massima, ha toccato la distanza infinita da se stesso. Questa distanza infinita fra Dio e Dio, lacerazione suprema, dolore a cui nessun altro è paragonabile, meraviglia dell’amore, è la crocifissione. Questa lacerazione, in cui l’amore supremo pone il legame della suprema unione, risuona perpetuamente attraverso il cosmo, al fondo del silenzio come due note separate e fuse in un’armonia pura e straziante. È questa la parola di Dio. La creazione tutta intera non ne è che la vibrazione. Quando la musica umana nella sua più grande purezza ci attraversa l’anima, è questo che noi avvertiamo per suo tramite. Quando abbiamo appreso ad ascoltare il silenzio, è questo che noi cogliamo, più distintamente, per suo tramite». L’universo e tutta l’esperienza umana della sventura non è che un’eco di quel grido. «In qualunque epoca, in qualunque Paese, dovunque c’è una sofferenza, la croce di Cristo ne è la verità» (Pensées sans ordre concernant l’amour de Dieu, Parigi 1962).
L’IMMAGINE BIFRONTE DELLA POLITICA. «Un motivo di tristezza che, purtroppo, si rinnova, è l’immagine bifronte della politica: da un lato, essa promette riforme, giustizia, civiltà; dall’altro, essa produce “nuovi padroni”, “nuovi scambi” di favori oscuri, “nuovi eletti”… Si, mi pare questo il costume che ancora dura col sopraggiunto “nuovo”. Ma c’è pure una “carriera”, che deve continuare: quella di saper preparare, coi principi e con l’azione, i giovani alla politica autentica; quella di negare la fiducia agli uomini che hanno se stessi come programma; quella di non disperare mai e di lavorare, per il bene comune, nella libertà, sino alla fine della vita» (Angelo Scivoletto in Supplemento d’anima, 1996, n. 59).
11 aprile 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il messaggio della ridicolaggine. Nessuno è esente dal dire cose prive di senso. Il guaio è farlo con solennità (Anthony De Mello). La verità come l’acqua sorgiva. Cerco una verità che continuamente si rinnovi in me e in ciascuno di noi (Carlo Maria Martini). Il tradimento degli intellettuali. Non vi è per l’intellettuale che una forma di tradimento o di diserzione: l’accettazione degli argomenti dei politici senza discuterli, la complicità con la propaganda, l’uso disonesto di un linguaggio volutamente ambiguo, l’abdicazione della propria intelligenza alla opinione settaria, in una parola il rifiuto di comprendere, e in tal guisa di apportare agli uomini l’aiuto prezioso di cui la cultura sola è capace, l’aiuto a infrangere i miti, a spezzare il circolo chiuso di impotenza e di paura, in cui si rivela la contagiosa inferiorità della ignoranza (Norberto Bobbio).
LA FILOSOFIA E LA SEMPLICITÀ. Nello scritto L’intuizione filosofica Bergson, nell’atto di chiarire un aspetto fondamentale del suo pensiero, ci dice come la filosofia non dovrebbe essere concepita e neppure insegnata. È errato – afferma Bergson – ridurre un nuovo orientamento filosofico ad un «assemblaggio» di idee preesistenti, a un «lavoro di mosaico»; così ci si illude di spiegare una filosofia con l’ambiente, ossia con ciò che fu attorno ad essa.
Certamente un pensiero nuovo deve manifestarsi, per forza di cose, attraverso le idee che incontra davanti a sé e che trascina nel suo movimento; in questo senso, esso può apparire relativo all’epoca in cui il filosofo è vissuto. Ma una veduta del genere non considera che «le cose già dette da altri filosofi il filosofo le pensa a modo suo» e che «non si può confondere la materia, di cui il filosofo doveva servirsi per dar forma concreta al suo pensiero, con l’elemento costitutivo della sua dottrina» (Oeuvres, Parigi, 1970[3], pag. 1349). Orbene, l’elemento costitutivo di una dottrina, il suo significato profondo altro non è che l’intuizione originale che ne costituisce il cuore o, se si vuole, il punto di forza. Afferrare l’intuizione che anima dal di dentro una filosofia è la prima e la più importante condizione per intenderla e per insegnarla con il rigore e la passione disinteressata che essa esige.
Non ci si deve, però, dimenticare di un paio di cose. La prima è che «un filosofo degno di questo nome non ha mai detto che una cosa sola: meglio, ha cercato di dirla piuttosto che dirla veramente» (ibid. 1350). E la seconda:la filosofia è una forma di sapere in cui l’approfondimento va di pari passo con la semplificazione. «Occorre che la complicazione della lettera non faccia perdere di vista la semplicità dello spirito» (ibid. 1345).
TELEVISIONE, SERVA PADRONA. I ragazzi non fanno forse quel che hanno sempre fatto, cioè osservare la società per capire meglio che posto occupano al suo interno? La televisione non li informa forse sugli usi e sui costumi esattamente come in passato i ragazzi acquisivano tali informazioni osservando le persone che li circondavano?
«La risposta è semplice: sì e no. Sì, i ragazzi fanno quello che hanno sempre fatto, con meno aiuto che mai da parte degli adulti; no, la televisione non li informa sul mondo, anzi spesso li disinforma. La televisione non è concepita per fornire ai ragazzi informazioni circa il mondo reale. Quando viene usata per questo scopo, fa un pessimo lavoro. La tv moderna, specie nel modo in cui viene attualmente utilizzata, ha un unico obiettivo: vendere merci. La televisione è fondamentalmente uno strumento commerciale. I suoi valori sono i valori del mercato; la sua struttura e i suoi contenuti rispecchiano tale obiettivo. Lo scopo dei responsabili della programmazione televisiva è catturare l’attenzione del pubblico e trattenerla abbastanza a lungo per propagandare un prodotto. Considerato il funzionamento della psiche umana, non è compito facile. Gli esseri umani si annoiano e si desensibilizzano facilmente. Per conquistare la nostra attenzione, la televisione è costretta a trasformarsi di continuo. Se quel che attrae l’attenzione è distorcere la realtà, vi sarà distorsione. Scopo primario della televisione, anche di quella sua parte che si definisce “istruttiva”, è conquistare l’audience. Anche la tv istruttiva compete con la tv commerciale per l’attenzione del pubblico. La televisione è governata dall’orologio. Qualsiasi elemento drammatico e qualsiasi incertezza che vengano introdotti debbono essere risolti e soddisfatti entro la fine del programma. Ci sono i prodotti da vendere. È il tempo che detta il passaggio ad un altro programma, ad altri prodotti» (John Condry – Testo riportato dal prezioso volumetto Cattiva maestra televisione, Roma 1994).
18 aprile 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA Se la parola è alta e verace. Io veglio sulla mia parola per darle compimento (Libro di Geremia). L’Iddio di Abramo, Isacco, Giacobbe. Io sono con te per salvarti (Libro di Geremia). Come dire sì a Dio. Per amore della tua Parola e secondo il tuo cuore (2 Libro di Samuele).
La parola libera. La parola libera è vittoria sulle forze di derisione e di oppressione; ma è innanzitutto il superamento della propria paura (Levi Appulo). Un tempo per tacere e un tempo per parlare. C’è un tempo adatto per tutto: un tempo per tacere e un tempo per parlare. Devi tacere quando non trovi un interlocutore disponibile; devi parlare quando il Signore ti concede una lingua sapiente, così da rendere efficace il tuo discorso nel cuore dei tuoi ascoltatori (Sant’Ambrogio). Lo spazio dello spirito. Il silenzio è lo spazio dello spirito, là dove esso può dispiegare le sue ali (Antoine de Saint-Exupery).
DALLA MEMORIA STORICA LA SPINTA VERSO IL FUTURO. Non si può parlare di Europa senza chiedere: che cosa è l’Europa, che cosa significa essere europei? L’interrogativo è non solo inevitabile, ma decisivo perché noi attendiamo dalla nostra memoria storica e dal nostro modo di porci dinanzi ad essa, dalla nostra capacità di riscoprire il nostro patrimonio comune, la spinta più decisiva e l’orientamento ai valori che devono guidarci nella costruzione della nuova Europa, l’Europa del Terzo Millennio. Essere o divenire europei, infatti, non è tanto un dato originario, o un luogo di nascita, quanto una forma mentis e una visione della vita, e dunque una scelta, una vocazione, un compito che si può accettare o tradire; è riconoscersi in certi valori ed è rifiutare, di conseguenza, i disvalori e i contro-valori che li negano.
Dal punto di vista geografico non siamo che «un promontorio dell’Asia», come diceva Paul Valèry. Dal punto di vista razziale siamo il risultato di un processo di commistione durato almeno quattromila anni: dapprima tra le popolazioni indigene e gli indoeuropei; poi tra le popolazioni romanizzate e i germani; infine, tra il IX e l’XI secolo, entrano a far parte della comune civiltà a Est gli slavi e gli ungheresi, a Nord i danesi, i vichinghi, i normanni. Non esiste dunque geograficamente un continente europeo che abbia una fisionomia distinta come l’Africa o le Americhe, o l’Australia; e non esiste neppure un Urvolk, una razza pura europea. Esiste, però, ed è fatto di immensa portata, un’Europa culturale, morale, politica con sue proprie radici e con sue proprie caratteristiche, ed è in quelle radici e in quelle specifiche caratteristiche che si identifica la realtà storica del nostro continente.
QUATTRO VERSI DA NON DIMENTICARE. Antonio Machado nasce a Siviglia nel 1875, pubblica la sua prima raccolta di poesie nel 1927 e l’ultima nel 1936, quando nella sua patria scoppia la guerra civile. Si schiera con la Repubblica contro Franco; ripara in Francia nel ‘39 e in quello stesso anno muore. Nei Campi di Castiglia si leggono questi versi di straordinaria profondità: «O tu ed io stiamo giocando / a rimpiattino, Signore, / o la voce con cui ti chiamo / è la tua voce».
L’ANGOLO DI AGOSTINO. Non montiamoci la testa. Cambieremo in meglio, a condizione che riconosciamo di non essere altro che uomini. È l’umiltà che ci eleva. Se invece ci illudiamo di essere chissà chi, non solo non riceveremo quello che ancora non siamo, ma perderemo anche ciò che siamo. (Commento al Vangelo di Giovanni 1, 4). La parola che rimane dentro. A forza di parlare, le parole perdono valore: risuonano, passano e non sembrano altro che suoni. C’è, però, anche nell’uomo una parola che rimane dentro; dalla bocca, infatti esce soltanto il suono. È la parola che viene pronunciata autenticamente nello spirito, quella che tu percepisci attraverso il suono, ma che non si identifica con esso (ibid. 1, 8). Sulla Parola di Dio. Dio è una parola tanto breve: tre lettere e due sillabe! Ma quanto è grande il significato di ciò che esprime. Che cosa c’è nel tuo cuore quando tu pensi a colui che è la vita, l’eterno, l’onnipotente, l’infinito, l’onnipresente, colui che è ovunque nella sua interezza e che non è in alcun modo circoscritto? (ibid. 1, 8).
25 aprile 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Essere è amare. L’amore è criterio d’esistenza – è criterio di verità e di realtà. Ove non è amore non è verità. Ed è qualche cosa soltanto colui che ama qualche cosa – non essere niente e non amare niente è la stessa cosa. Quanto più uno è, tanto più egli ama, e viceversa. L’uomo completo. L’arte, la religione e la filosofia o scienza, sono soltanto i fenomeni o le rivelazioni della vera essenza umana. Uomo, uomo completo e vero è solo colui che ha senso estetico o artistico, religioso o etico, filosofico o scientifico. È uomo, nel senso generale del termine, solo chi non esclude da sé nulla di essenzialmente umano. Homo sum, humani nihil a me alienum puto. La vera dialettica. La vera dialettica non è un monologo del pensatore solitario con se stesso, è un dialogo tra io e tu. (Ludwing Feuerbach)
LÌ SONO LE NOSTRE RADICI. L’esistenza dell’Europa culturale, morale e politica è attestata da un sistema di vita e di educazione che ha creato nel corso dei secoli una somiglianza di consuetudini sociali e forme di vita per cui, come notò nel secolo scorso François Guizot, «nessun europeo potrebbe essere completamente esule in alcuna parte d’Europa», e una cert’aria di famiglia si avverte tanto a Brescia, a Firenze, a Vienna, a Budapest come a Cracovia, a Praga, a Londra, a Barcellona. La nostra, infatti, è una civiltà, le cui radici e i cui grandi influssi formatori sono gli stessi, in Italia come in Polonia e in Ungheria: sono la Grecia classica, Roma e il Cristianesimo. E finché in Europa ci saranno europei, eredi cioè e continuatori della più alta e multiforme civiltà che la storia conosca, sarà ancora e sempre lì, su quelle fondamenta, che il nostro continente ritroverà le ragioni delle sue identità, il suo ubi consistam.
La Grecia classica ha fondato in ogni campo, dalla poesia alla scienza, dalla filosofia alla storiografia, la nostra tradizione culturale e ha forgiato per sempre il tipo dell’uomo europeo. Grazie a Socrate la Grecia ha inaugurato la civiltà del dialogo e il metodo della discussione critica quale solo strumento di cui disponiamo per avvicinarci alla realtà. E tuttavia, malgrado il suo splendore, la paideia greca era confinata tra l’Egeo e l’Adriatico, tra Atene, Antiochia e Alessandria. Ci volle Roma per allargare la superiore paideia greca a tutto l’occidente barbarico, dando così al nostro continente la sua unità culturale. Fu questa la missione più alta di Roma, unitamente alla creazione del diritto, alla cui certezza non v’è alternativa se non quella dell’arbitrio e della disumanità, dentro gli Stati e fra gli Stati. Senza Atene e senza Roma, dunque, niente Europa; e tuttavia l’Europa non sarebbe ugualmente senza il Cristianesimo e senza la Chiesa Cattolica, suo tramite storico e centro propulsore della sua unità; ed è stato ed è tuttora il Cristianesimo a dare all’Europa la sua unità morale e religiosa.
«PROVERBI E CANTARI» DI ANTONIO MACHADO. L’io e il suo doppio. Cerca nel tuo specchio l’altro, / l’altro che va con te. Le cose buone. Buona è l’acqua e la sete; / buona è l’ombra e il sole; / il miele del fior di rosmarino, / il miele di campo senza fiore. Perché si mente. Si mente più del previsto / per mancanza di fantasia: / anche la verità bisogna cercarla. Quello che importa. Oltre il vivere e il sognare / c’è quello che importa: / svegliarsi.
L’ANGOLO DI AGOSTINO. Intima appartenenza. Una parola tu puoi averla nel tuo cuore e allora essa è come un’idea nata nella tua mente, qualcosa che la tua mente ha partorito come sua prole (Commento al Vangelo di Giovanni 1, 9). Il rischio. A forza di usarle, le parole perdono il loro valore (ibid. 1, 9). Creazione e nuova nascita per grazia. Se per colpa tua vieni meno a ciò che devi essere, ti rifaccia colui che ti ha fatto. Se per colpa tua decadi, colui che ti ha creato ti ricrei (ibid. 1, 12). Riconosci che cosa sei. Quando s’insuperbisce e si innalza contro Dio, l’uomo, pur non essendo altro che un uomo, rifiuta di riconoscere nei suoi simili il suo prossimo. È mortale, ma calpesta esseri mortali come lui. Che cos’è mai, o uomo, questa superbia che ti gonfia? Riconosci quello che sei (ibid. 1, 15).
1 maggio 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Parlarsi con gli occhi. Fissa con li occhi stava; e io in lei (Dante Alighieri, Paradiso 1, 65). Il trasformarsi dell’umano nel divino. Trasumanar significar per verba / non si poria… (Paradiso 1, 70-71). Dio è amore, non solo oggetto d’amore. Amor che ‘l ciel governi (Paradiso 1, 74). L’ordine, strutturando gli esseri, li rende simili al loro Creatore, pur nella diversità dei livelli di perfezione. Le cose tutte quante / hanno ordine tra loro, e questo è forma / che l’universo a Dio fa simigliante. / Qui veggion l’alte creature l’orma / de l’etterno valore, il quale è fine / al quale è fatta la toccata norma. / Ne l’ordine ch’io dico sono accline / tutte nature, per diverse sorti, / più al principio loro e men vicine; / onde si muovono a diversi porti / per lo gran mar de l’essere, e ciascuna / con istinto a lei dato che la porti (Paradiso 1, 103 – 114).
Combattivi, ma non faziosi. Ci si deve impegnare per ciò che ci obbliga in coscienza, per la verità in ogni campo, in difesa di chi è nella sofferenza e nell’oppressione. Ma l’amore appassionato per la verità e la giustizia non deve mai trasformarci in uomini di parte (Levi Appulo). Profeta ed empirista. Le qualità del profeta e dell’empirista non dovrebbero essere incompatibili in un politico (Raymond Aron).
USCIRE FINALMENTE DAL «PAESE DELLE BANANE». L’espressione «paese delle banane» sta a significare uno Stato e una società in cui la politica si fa mediante gli affari e gli affari più sporchi si fanno proprio mediante la politica. Noi ora sappiamo che l’Italia nel decennio 1980-1990 è diventata giorno dopo giorno, «il paese delle banane» per antonomasia, quello in cui persino le sentenze della Corte Costituzionale erano sistematicamente disattese dai governi e dalle maggioranze parlamentari, se osavano interferire con gli affari dei potentissimi sponsor. Se amiamo questa nostra Italia, se vogliamo adoperarci veramente per la sua rinascita, non si può continuare a tacere, o a essere reticenti, su una politica la cui prassi era quella di mettere fuori legge la… legge. Dovrebbe allora apparire evidente che, prima di ogni discussione su l’una o l’altra riforma costituzionale, sull’uno o l’altro provvedimento, la cosa assolutamente necessaria è che lo Stato torni ad essere Stato di diritto, che renda cioè praticamente riconoscibile nel suo operare il primato del valore morale, a cui ogni legislazione e lo stesso potere esecutivo debbono essere incessantemente ricondotti. Noi crediamo che non vi sia questione più importante di questa per rinnovare politicamente il nostro Paese, se non si vuol degradare la democrazia a menzogna convenzionale e a scelta illusoria.
UNA POESIA PER IL PADRE. Da Marone d’Iseo. Dov’è il boschetto d’acacie, / l’osteria della frasca, / il gioco delle bocce, il pergolato / del glicine ronzante calabroni? / Qui venivo bambino, / stordito dalla gente e dalla festa / (tu mi tenevi per mano) / nei lunghi interminabili / tramonti dell’estate / quando lo specchio del lago / s’increspava alla brezza della sera. // Dalla stanza a terreno / usciva il gran vociare della morra. / Sui tavolacci scuri, nell’afrore / del clinto, i mezzi litri / erano le pazienti / clessidre dello scopone. / Il berretto rialzato sulla fronte, / come in un vecchio quadro di Cézanne, / un giocatore mordicchiava il sigaro / e sputacchiava liquidi pensieri. / Dall’acquaio giungeva / un ciangottare d’acqua e di stoviglie / e la Marisa dava su la voce / ai più chiassosi e sguaiati / e al solito balordo / che, avendo fatto il pieno, / concionava da solo contro il muro. // Ora la neve dei fiori d’acacia / si accumula contro i gradini / della vecchia osteria / chiusa da tempo e in rovina. / La lunga festa è finita / e tu non mi conduci più per mano (Giovanni Cristini, 1925 – 1995, in Weekend in terra straniera, Milano 1986).
9 maggio 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Due pensieri dolcissimi. Non maledire giammai. Sulle tue labbra è la vita, sulla tua bocca un fiore; Dio ti ha fatto immortale. Quel che la luce è per me, Dio è per te (Libro della Sapienza). Verità surreale. Il 20% delle persone è comunque contrario a qualsiasi cosa (Robert Kennedy). Il paradosso. Un solido governo conservatore: una politica di destra fatta da uomini di sinistra (Benjamin Disraeli). Amara verità. Nella corsa alla servitù, e alla viltà nonché ai calcoli che l’accompagnano, non esistono traguardi a cui fermarsi. Non è mai troppo tardi, infatti, per spingersi sempre più avanti. Mettiamola così. I politici sono i cuochi, noi cittadini gli avventori. Perché mai non dovrebbero esserci i nuclei anti-sofisticazione? (Levi Appulo).
QUAL È IL GENIO DELL’EUROPA? Gli influssi formatori dal cui intreccio è sbocciata la civiltà europea, sono la Grecia, Roma e, attraverso la Chiesa, il Cristianesimo. Alla Grecia l’Europa deve l’unità culturale, a Roma il diritto, al Cristianesimo l’unità morale e religiosa. Ma se quelle sono le sorgenti, quali sono i caratteri della nostra civiltà, così come si sono venuti svolgendo, attraverso una storia lunga e drammatica, ad opera delle diverse nazioni? Qual è insomma il «genio» dell’Europa, ciò che fa dell’Europa una individualità storica, una tradizione, una forma di civiltà che può fare appello a tutta una serie di nomi, di fatti, di pensieri che le hanno dato nei secoli un’impronta incancellabile, che la fa diversa rispetto alle tradizioni, memorie e speranze dei cinesi, degl’indiani, degli africani o degli arabi? Ebbene, a partire dal 490 a.C., data d’inizio dell’impari lotta delle città-stato greche contro l’impero Persiano che voleva assoggettarle, ad oggi, la risposta a quella domanda è sorprendentemente la stessa: il genio dell’Europa, la sua forza, il suo dinamismo sta nell’aver coniugato l’identico e il diverso, l’unità e la pluralità come nessun’ altra civiltà.
La nostra è una civiltà varia e anche tempestosa, in cui l’esistenza stessa di una molteplicità dialettica di nazioni, di forze sociali, di orientamenti culturali e di famiglie spirituali in perenne confronto tra loro è talmente organica da non permettere mai ad uno solo di quei principi di assoggettare del tutto l’intero continente e nemmeno un intero Paese. L’Europa è, aristotelicamente, pollacos, cioè multisignificante e multiforme, non è aplos, non è parmenidea, cioè monistica e uniforme. E poiché la libertà nasce dall’impossibilità per una sola forza di soffocare le altre, e l’Europa è il continente in cui tale impossibilità accompagna tutta la sua storia, da Serse a Hitler e Stalin, l’Europa è la madre della libertà; e la libertà è diventata, nello stesso tempo, il risultato della storia d’Europa e il valore, dal cui riconoscimento pratico trae origine e regola la varietà di principi e istituzioni che caratterizzano la nostra civiltà.
PLURALITÀ DELLE SFERE DELLA VITA. Non che l’assoggettamento del tutto a un solo principio a una sola razza, a una sola ideologia non sia stato tentato più volte; ma è sempre fallito, e il tentativo più colossale, quello operato nel nostro secolo dalla barbarie totalitaria, comunista e nazista, è sprofondato nella sconfitta e nell’ignominia. L’Europa, però, ha potuto resistere alle violente negazioni della sua civiltà generale dal suo interno, e farsi portatrice di libertà nel mondo, perché il messaggio religioso che l’ha fecondata, il Vangelo, porta in sé il principio stesso della pluralità delle sfere della vita.
Per questo non cesseremo di ringraziare gli evangelisti che hanno raccolto dalla bocca di Cristo e ci hanno trasmesso le grandi inequivocabili parole: «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (Mt. 22, 21-22). Parole con cui Cristo condanna senz’appello l’integralismo, la cui logica perversa comanda la cancellazione della più importante delle distinzioni, quella tra fede e politica, Chiesa e Stato, religione e partito.
L’ANGOLO DELLA POESIA. Luce del mattino. Su ogni turbine, polvere vorticante, / splendi lassù, alta sul mio cammino, / oltre i falliti sforzi del vagabondo errore, / fonte serena, / pura luce del mattino (Hermann Hesse, settembre 1953).
16 maggio 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. La parola. Ogni dolore può essere sopportato se lo si narra o se se ne fa una storia (Isak Dinesen). Il giorno del giudizio. Nulla di ciò che si è verificato va perduto per la storia. Certo, solo all’umanità redenta tocca interamente il suo passato. Vale a dire che solo per l’umanità redenta il passato è citabile in ognuno dei suoi momenti. Ognuno dei suoi attimi vissuti diventa una citazione à l’ordre du jour e questo giorno è il giorno del giudizio (Walter Benjamin). Dove il pensiero veglia e si esprime. Un’iniziativa di pensiero può virtualmente includere tutte le altre. Dove il pensiero veglia e si esprime, i valori più preziosi, quelli dello spirito, rimangono, e non solo sopravvivono, ma finiscono per generare altre espressioni di vita e, a Dio piacendo, per vincere (Paolo VI). Lo sdegno del cattolico Cartesio. Io biasimo profondamente coloro che vogliono abusare dell’autorità della Chiesa per esercitare le loro passioni (Da una lettera di René Descartes a padre Marin Mersenne). Il tratto del grande artista. Quale giustapposizione di curve conosciute equivarrà mai al tratto di matita di un grande artista? (Henri Bergson).
AD AUSCHWITZ DIO DOV’ERA? Elie Wiesel ci dà la testimonianza diretta, nel racconto autobiografico La notte, di come egli ha vissuto la sconvolgente domanda. Eccone il passaggio essenziale. È una pagina che andrebbe imparata a memoria.
Un giorno che tornavamo dal lavoro vedemmo tre forche drizzate sul piazzale dell’appello: tre corvi neri. Appello. Le SS intorno a noi con le mitragliatrici puntate: la tradizionale cerimonia. Tre condannati in catene, e tra loro il piccolo Pipel, l’angelo dagli occhi tristi. Le SS sembravano più preoccupate, più inquiete del solito. Impiccare un ragazzo davanti a migliaia di spettatori non era un affare da poco. Il capo del campo lesse il verdetto. Tutti gli occhi erano fissati sul bambino. Era livido, quasi calmo, e si mordeva le labbra. L’ombra della forca lo copriva. Il Lagerkapo si rifiutò questa volta di servire da boia. Tre SS lo sostituirono. I tre condannati salirono insieme sulle seggiole. I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi. – Viva la libertà! gridarono i due adulti. Il piccolo, lui taceva. – Dov’è il Buon Dio? Dov’è? – domandò qualcuno dietro di me. A un cenno del capo del campo le seggiole vennero tolte. Silenzio assoluto. All’orizzonte il sole tramontava. Scopritevi! – urlò il capo del campo. La sua voce era rauca. Quanto a noi, noi piangevamo. – Copritevi! Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora…Più di mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti. Dietro di me udii il solito uomo domandare: – Dov’è dunque Dio? – E io sentivo in me una voce che gli rispondeva:- Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca.
Sfido chiunque a leggere questa pagina senza… commuoversi e senza pensare al Cristo del Venerdì Santo.
CHE LE DOMANDE DIVENTINO…SPINE. «I cristiani di professione» si trovano spesso in pericolo di credersi troppo ben informati su Dio. Essendo sempre pronti con le loro risposte, essi cancellano ogni interrogativo. Noi dovremmo, invece, lasciar aperte le domande, affinché esse diventino una spina, che ci spinga a cercare nel profondo la verità. Il teologo Heinz Zahrnt nota che sempre più spesso chi annuncia la parola di Dio solleva all’inizio dell’omelia domande che inquietano; ma in pochi minuti egli ce la fa, le piega a una conclusione. «A differenza di un torneo di tennis una predica in chiesa finisce sempre bene».
L’ANGOLO DELLA POESIA. Sul bisogno di accordare l’io e il mondo. Procedi, poeta, procedi diritto / sino al fondo della notte / con la tua voce suasiva / riportaci ancora alla gioia; / con un’aratura di poesia / trasforma in vigneto la maledizione, / canta il fallimento umano / in estatica angoscia; / nei deserti del cuore / fa’ che sgorghi la fonte che risana, / nella prigione dei suoi giorni / insegna all’uomo libero la lode (Wystan Hugh Auden, Poesie, Parma 1952).
23 maggio 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. L’amore per il mondo. Io in realtà sono molto felice perché non si può andare contro la propria vitalità naturale. E il mondo, così come Dio lo ha creato, a me sembra buono. La condizione fondamentale. Il non conformismo sociale è il sine qua non di ogni conquista intellettuale (Hannah Arendt). Punire è necessario. Punire è come curare: il malato può anche non guarire, non per questo, però, lo lascerai senza cure (Guido Ceronetti). Non basta neppure nell’era televisiva. Forse non basta essere dei comunicatori; bisognerebbe avere anche qualcosa da dire. Pietre che ti rimbalzano addosso. Le parole, è stato detto, sono pietre, pietre che talvolta ti rimbalzano addosso. (Enzo Biagi)
GIOVANNI REALE SCRIVE A EUGENIO SCALFARI: «NON È SOLO ISTINTO DI SOPRAVVIVENZA». Sul finire del 1995 Giovanni Reale ha pubblicato un libro che nasce da una nobile ansia e dalla lunga frequentazione della filosofia classica: Saggezza antica. Terapia per i mali dell’uomo di oggi, Raffaello Cortina Editore, Milano. Eugenio Scalfari lo lesse addirittura in bozze e ne scrisse subito all’autore. Dalla lettera di risposta di Reale al direttore di Repubblica mi permetto di riportare due passaggi significativi.
«Ho letto il suo libro Alla ricerca della morale perduta – scrive Reale – e dal momento che Lei e io parliamo della medesima cosa nei nostri due libri, sia pure affrontando i problemi da due punti di vista apparentemente del tutto opposti, mi ha molto sorpreso che, in certe Sue belle pagine, io mi sento a mio agio… Mi permetta, caro direttore, di riferirle le impressioni che ho tratto… Lei ha scelto la maschera drammaturgica dell’ateo, ma non mi pare proprio che l’abbia scelta bene, perché io in essa trovo dei buchi non piccoli che lasciano intravvedere ben altro. Mi limiterò a due sole questioni… Domenica 26 novembre su Repubblica Lei ha scritto: “A volte mi prende un senso di sconforto per gli errori che erano stati previsti in tempo e indicati, ma che malgrado i ripetuti e documentati avvisi furono pervicacemente commessi, fonte di altri errori successivi e di degrado morale e politico… Conducemmo quindici anni di battaglia solitaria nell’indifferenza quasi generale”. Ebbene, come potrebbe mai dire che ha condotto per quindici anni senza posa questa lotta, spinto solo – stando alla sua dottrina – “dall’istinto di sopravvivenza della specie”, che sarebbe la fonte della morale? La verità mi sembra ben differente. Lei ha condotto quella lotta per una precisa consapevolezza di un valore di verità e per una grande fede in esso. Quello che Lei chiama “istinto di sopravvivenza della specie” non è la vera causa del Suo agire, ma, per dirla con Platone, è la concausa, o, se preferisce, lo strumento con cui la vera causa opera. Torniamo allora alla maschera drammaturgica dell’ateo. Come Nietzsche ci ha ben insegnato, la morte di Dio, l’ateismo in senso vero e proprio, consiste nell’azzeramento di tutti i valori. Ma Lei, caro Scalfari, i valori non li ha azzerati. Dunque, quella maschera ha un grosso buco».
CI VUOLE PASCAL PER ANDARE AL FONDAMENTO DELLA QUESTIONE. «Veniamo al secondo punto – incalza Reale – quello teorico. Lei ama molto Voltaire, eppure nel suo libro scrive “il filosofo che detta il nome al secolo dei lumi non ebbe mai una vera passione per l’essenza di sé, ma soltanto per la rappresentazione che di quel sé appariva”. E alcune pagine dopo, parlando di Pascal, precisa: “Non stupisca se l’ateo che io sono si sente più vicino, in quest’ideale pellegrinaggio verso alcune grandi menti che hanno dato forma al pensiero della modernità, al solitario di Port-Royal che non al principe degli illuministi. La morale di Voltaire è il succedaneo della felicità individuale, quella di Pascal punta dritto al fondamento della questione”. Allora, preferisce Pascal a Voltaire, perché punta dritto al fondamento della questione. Ma il fondamento della questione sta proprio nel guadagno del valore ultimativo e fondativo del senso della vita raggiunto da Pascal. E, in questo, il buco della maschera drammaturgica dell’ateo è anche più grosso del precedente».
30 maggio 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Padri e figli. I figli mangiano i frutti e i padri scivolano sulle bucce (Proverbio albanese). La caratteristica decisiva. La caratteristica decisiva di un sistema di governo liberale è di non essere totalitario (George Sabine). L’essenza del metodo democratico. La politica è l’arte della pacifica transazione fra interessi divergenti e il suo metodo consiste nella decisione democratica della maggioranza e nella protezione della minoranza, ossia nel diritto all’opposizione (Karl Dietrich Bracher). Succede sempre così. I principi democratici vengono violati sempre in nome di una più alta forma di democrazia (Jacob Leib Talmon).
DUE GRANDI DONNE DEL SECOLO. Nel campo del pensiero, la prima metà del Novecento vede al primo posto l’ebrea francese Simone Weil (1909 – 1943); nella seconda metà il primato spetta all’ebrea tedesca Hannah Arendt (1906 – 1975). Molto diverse fra loro, sono accomunate da un duplice impegno, vissuto con radicalità commovente: in primo luogo, il «pensare sempre dal principio», cioè la ricerca appassionatamente disinteressata della verità, senza appoggiarsi al precostituito, al mito della «totalità logica», e tanto meno a ciò che è prevalente nello spirito del tempo; in secondo luogo, esse compresero che «pensare le questioni politiche non è un lavoro marginale», ma è compito da non eludere, che reclama uno sforzo continuo d’aderenza al concreto, di discernimento dello sfondo morale e metafisico delle scelte in gioco. Dell’una e dell’altra si può dire che vollero con tutta l’anima umanizzare la politica e che seppero unire alla lucidità critica l’intensità che nasce solo dal cuore e dalla mente di chi abbia il senso dell’essenziale e la volontà di servire l’onore dell’uomo.
Per accostare le opere della Weil e dell’Arendt non c’è che l’imbarazzo della scelta, essendo quasi tutte ottimamente tradotte nella nostra lingua. Di Simone Weil l’Adelphi ha tradotto i Quaderni, ma singoli scritti sono pubblicati da molte editrici. Sulla pensatrice tedesca è bene leggere innanzitutto l’accurato, agile saggio introduttivo Hannah Arendt. Come raccontare il mondo di Paola Ricci Sindoni (Roma 1995). Il lettore vi troverà anche le indicazioni bibliografiche necessarie.
Hannah ARENDT.
l. «Io devo comprendere». La Arendt possedeva una imponente cultura, pur senza essere allieva di nessuno, neppure dei suoi due grandi punti di riferimento filosofici – Heidegger e Jaspers – con i quali continuò negli anni ad avere un rapporto difficile. A chi le chiedeva che cosa l’avesse interessata di più nella sua vasta produzione rispondeva: «Per me si tratta essenzialmente di questo: io devo comprendere. Ciò che mi importa è il processo stesso del pensiero. Quando lo esercito sono molto contenta. Voglio ottenere io un’influenza sugli altri? No, io voglio comprendere. E quando gli altri comprendono nel senso stesso in cui io voglio comprendere, allora provo una soddisfazione paragonabile a quella che si prova quando ci si sente a casa».
2. Non fare dei valori solo una ringhiera a cui appoggiarsi. Con il linguaggio franco che le era proprio, Arendt ha osato scrivere: «Io sono del tutto sicura che la catastrofe totalitaria del nostro secolo non sarebbe accaduta se la gente avesse veramente creduto in Dio o comunque nell’inferno, cioè se ci fossero stati ancora dei valori fondamentali. Ma non c’erano». La morale era stata svuotata, al punto che i principi di condotta propri della civiltà occidentale («Fai agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te»,«Non uccidere», ecc.) erano diventati mere convenzioni e ipocrisia. «Penso che coloro i quali dicevano di essere convinti dei cosiddetti valori tradizionali furono i primi a cambiarli. E questo mi dispiace perché penso che se i valori sono solo una ringhiera a cui appoggiarsi, allora è facile cambiarli. L’unica cosa a cui la gente si abitua è avere una ringhiera, e nient’altro».
6 giugno 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Alla donna amata. Trattengo la morte ancora per un istante, il tempo per depositare sulle tue labbra un povero bacio, ultimo di molte migliaia. Autoritratto di un leader nostrano. La mia coscienza ha mille lingue diverse e ogni lingua racconta una storia diversa. (William Shakespeare)
Notte e giorno. La notte ha mille occhi e il giorno un occhio solo (Francis William Bourdillon). Il nazista pentito. Non basteranno mille anni a cancellare la colpa del nazismo (Hans Frank, impiccato a Norimberga il 16 ottobre 1946 per crimini contro l’umanità). Le lodi di Dio. Con le sue mille voci, / la terra canta le lodi di Dio (Samuel Taylor Coleridge). Mille e mille. Mille come l’anno dell’evo di Mezzo, la metà del Duemila che sta per arrivare. / Mille più una le notti dell’incanto, / mille i colori / di chi sa sognare. / Mille i «non c’ero» degli smemorati, / mille gli amori / di chi non sa più amare (Gino e Michele).
«LE AVVENTURE DI UN UOMO VIVO» DI CHESTERTON. Gilbert Keith Chesterton (1874 – 1936) è uno dei protagonisti del secolo che si sta per concludere e il suo capolavoro Manalive – tradotto in italiano da Emilio Cecchi «Le avventure di un uomo vivo» ora edito dalla De Agostini – è un vero e proprio romanzo metafisico, in cui la gioia di vivere confuta e irride ad ogni pagina la cupa, egoistica «Volontà di vivere» di Schopenhauer. Il burlone allegorico, il poeta innamorato della creazione protagonista di questo romanzo è obbligato dalla necessità dei tempi a scuotere le anime dei suoi lettori a forza di risate, per impedire ad esse di addormentarsi, consegnandosi così alla più futile forma di esistenza. Il suo nome è Innocenzo Smith e l’idea per la quale egli si batte è questa: vi vedo in una civiltà intricata, abbiamo finito col perdere la bussola e crediamo sbagliato ciò che non lo è affatto. Senza dubbio ci sembrano mali l’eccesso, l’esuberanza, lo strepito, il paradosso, il finimondo; ma il male non è lì. Il gigantesco Smith-Chesterton gira con la pistola da puntare improvvisamente, anche se per scherzo, contro gli intellettuali chic per i quali la vita non vale la pena di essere vissuta, per far scoprire ad essi che la verità sta esattamente nel contrario di ciò che vanno dicendo, senza credervi seriamente, avendo una maledetta paura di morire, una pistola alla tempia dell’uomo moderno.
Smith è l’eroe che spezza le convenzioni, proprio perché osserva fino in fondo i comandamenti. Egli sa distinguere fra consuetudini del perbenismo borghese e fede, fra l’obbedienza servile e la libertà creatrice per la quale ogni cosa bella deve essere di continuo riconquistata. Egli non concupisce i beni degli altri, ma ha la fissazione (che tutti vorremmo condividere!) di desiderare ardentemente ciò che ha. Così, ad esempio, non avendo affatto intenzione di commettere adulterio, vive appieno il romanzo del sesso; e siccome ama soltanto sua moglie,la sua vita è allietata da centinaia di lune di miele. Coloro che istituiscono un processo per condannare Smith rappresentano degnamente l’establishment e quella forma di pazzia atmosferica che penetra a poco a poco negli spiriti, avviluppandoli in un cerchio di idee turpe, monotono e meschino. Chesterton si diverte a smascherarli con i suoi paradossi, aghi che sgonfiano immensi palloni di presunzione e di arroganza.
L’autore de L’uomo vivo è una delle figure più simpatiche della letteratura e la sua verve estrosa ed accattivante, surreale nell’assurdità delle situazioni narrate, è lo strumento, artisticamente riuscito, per comunicarci qualcosa che deve giungere a noi «vergine e violento». Il romanzo di Chesterton esige lettori attenti e non frettolosi, ma la lettura di un libro del genere è anche una terapia per i mali del nostro tempo. «Punterò la pistola alla tempia dell’Uomo Moderno. – scrive Chesterton – Non già per ucciderlo, ma per farlo rinascere alla vita».
ALTRI «PROVERBI E CANTARI» DI MACHADO. Il fuoco sotto la cenere. Ho creduto spento il mio focolare, / e ho attizzato la cenere… / Mi son bruciato la mano. Non è un cuore. Fate attenzione: / un cuore solitario / non è un cuore. La campana al risveglio. Non il sole, ma la campana, quando ti svegli, è / il più bello della mattina. La Verità. La tua verità? No, la Verità, / e vieni con me a cercarla. / La tua, tienitela (da Machado, 26 poesie, Milano 1996).
13 giugno 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Professione di fede civile. Per ciò che mi concerne, a dispetto delle mie esperienze, a dispetto del XX secolo, io resto un progressista (Raymond Aron). Mancanza di pensiero, presenza del male. Vi è una stretta interdipendenza tra mancanza di pensiero e presenza del male. Un nuovo inizio. Con la creazione dell’uomo entrò nel mondo il principio del cominciamento. Come dire, il principio della libertà fu creato quando fu creato l’uomo, ma non prima. (Hannah Arendt)
La questione concreta. Chi fa politica, a qualsiasi livello, non può sfuggire alla grande questione: in che cosa consiste l’ordine giusto a cui tendere, in questo preciso momento storico? Sapremmo noi riconoscerlo? Cristo è l’ospite paradossale. A ogni generazione rinasce il problema che Newman e i suoi amici si ponevano: se fossimo vissuti al tempo di Cristo, o se Egli apparisse in incognito davanti a noi, sapremmo noi riconoscerlo veramente e trionfare dello scandalo della sua presenza umana, con quel misto di profondità insondabile e di stupefacente naturalezza? (Levi Appulo)
SENZA PLURALISMO, LA POLITICA È DISUMANA. La politica è parola che viene da polis, che è la pluralità dei cittadini, la comunità degli uomini liberi e uguali. Ciò che assolutamente salvaguarda la politeia è la pluralità, la diversità di famiglie spirituali, di gruppi politici, di interessi concorrenti. Solo la pluralità garantisce la libertà. All’unità, al non riconoscimento pieno dei diritti dello stesso avversario, corrisponde inevitabilmente un regime di intolleranza. Da questo punto di vista ha ragione Arendt quando scrive che «un potere che sia dominio non è pertinente alla polis», non ha valore politico. Il dominio, in qualsiasi forma si presenti, come tirannico o nelle forme pseudo-democratiche del plebiscito, distrugge il vero e proprio spazio politico, con il risultato che la libertà non esiste più né per quelli sui quali si governa, né per coloro che governano. Un testimone oculare riferisce che una volta, a Chicago, durante un seminario, Hannah Arendt si illuminò in volto nel riferire le parole di Erodoto: «Non voglio né dominare, né essere dominato». Quando le parti politiche che si contrappongono in Italia saranno penetrate profondamente da queste convinzioni, allora non avremo più nulla da temere per la democrazia nel nostro Paese.
IN DIO NON C’È VIOLENZA. Elia camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb. Ivi entrò in una caverna per passarvi la notte, quand’ecco il Signore gli disse: «Esci e fermati sul monte alla mia presenza». Ecco, il Signore passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti al Signore, ma il Signore non era nel vento. Dopo il vento ci fu un terremoto, ma il Signore non era nel terremoto. Dopo il terremoto ci fu un fuoco, ma il Signore non era nel fuoco. Dopo il fuoco ci fu il mormorio di un vento leggero. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello (Dal Libro dei Re, 19, 6 – 13).
OCCORRE POTERSI RICONOSCERE NEL PASSO PAOLINO. Non abbiamo vissuto oziosamente fra voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darvi noi stessi come esempio da imitare. E infatti, quando eravamo presso di voi, vi demmo questa regola: chi non vuol lavorare, neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente, senza far nulla e in continua agitazione. A questi tali ordiniamo, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, di mangiare il proprio pane lavorando in pace (San Paolo, Seconda lettera ai Tessalonicesi 3, 7 – 12).
NE ABBIAMO PERSO IL GUSTO. Le esperienze dei nostri genitori ci venivano narrate con semplicità e forza. Abbiamo perso quel gusto, che è poi una chiave di civiltà, che si esprime nel confrontare specularmente gli avvenimenti di oggi, troppo frastornati e frastornanti, con ciò che è accaduto ieri. Ma è tale l’ansia di protagonismo nell’attualità che la parola ieri, da cui pure potremmo ricavare qualche buon insegnamento, si è come dissolta (Alberto Bevilacqua, Corriere della Sera, 28 aprile 1996).
20 giugno 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Se farai sparire da te. Se farai sparire da te l’oppressione, il puntare il dito accusatorio e il parlare empio, se offrirai pane all’affamato, allora la tua luce sorgerà come l’aurora e brillerà fra le tenebre (Libro di Isaia). La forza dello spirito e la delicatezza del cuore. Credo che la frase sia di Maritain: Il faut avoir l’ésprit dur et le coeur tendre. Una parola che non sia sentita dall’anima è una parola morta e un sentimento che non sia germoglio di una idea, è vano (Sophie Scholl). Il mondo ha bisogno dell’eroismo morale dei giovani. Se vuol evitare il naufragio a cui la sospinge il consumismo e lo svuotamento spirituale che l’accompagna, la nostra civiltà ha bisogno dell’eroismo morale dei giovani di ogni generazione, e dunque anche dei giovani di questa generazione (Levi Appulo). La parola e la politica. Una politica povera di silenzi è ricca di parole stupide e menzognere. Siamo in un’età culturale e politica di parole senz’anima, di parole usa e getta, di parole gettone che trasmettiamo ad altri, come si passa una moneta da una mano all’altra (Silvano Zucal).
IL BACIO DELL’AMICO. Il 12 novembre morì Giovanni Cristini, stroncato in breve tempo da un tumore. Nato a Brescia nel 1925, giornalista e consulente editoriale, esperto di narrativa per ragazzi, aveva pubblicato cinque libri di poesia: La strada della croce, Concerto grosso, I chiodi e i dadi, Cartoline dalle Dolomiti del Brenta, Week-end in terra straniera. Oltre ai numerosi saggi, aveva raccolto le sue prose autobiografiche nel volume Sulle rive del lago. Da sempre collaboratore del Ragguaglio librario, ne aveva assunto la direzione alla morte di Ines Scaramucci.
Apprendo da Studi Cattolici del gennaio 1996 un episodio che merita di essere conosciuto dai molti amici ed estimatori di Giovanni Cristini. Il 2 novembre 1995, il poeta Elio Fiore aveva telefonato a casa Cristini per informarsi sulle condizioni dell’amico, e aveva incaricato un familiare di «dargli un bacio in fronte». Quella richiesta commosse profondamente Cristini al punto di ispirargli, pur nella spossatezza estrema, l’ultima poesia. In essa lo stupore e il tremore per la fine, sentita ormai imminente, si fa atto di comunione con chi gli dette la vita e con quelle persone care che già varcarono la soglia: ed ecco, con un ultimo colpo d’ala, in Cristini il senso misero farsi attesa fremente della nuova vita, annuncio di eterna primavera, «vento di luce». Si noti il tocco finale, che poteva nascere solo da una schietta fede: il «giorno dei morti» diventa, significativamente, in uno stesso verso, «festa di ognissanti»
«IN PURISSIMO AZZURRO», L’ULTIMA POESIA DI GIOVANNI CRISTINI. Nella nebbia della mente, / del dormiveglia e del nulla, / mia moglie mi porta il bacio di Elio Fiore. / L’ho preso come un addio, e gli occhi / mi si sono riempiti di lacrime / e anch’io, nella nebbia della mente, / ho visto con candente terrore / aprirsi uno squarcio nell’ampia vetrata / e apparirvi in purissimo azzurro / lo spirito santo. // Oggi, 2 novembre, festa di ognissanti, / quando trabocca la comunione dei beni / con mia madre morta e con mio padre / e con tutti coloro che amano e soffrono, / controbilanciando il male del mondo, / prendo quel bacio come un augurio. / Guardo dalla finestra / gli alberi del giardino / fremere in un vento di luce / e, benché autunno inoltrato, sento la primavera.
C’È PURE UNA BESTIALITÀ DI MASSA. Non ci sono solo i grandi massacratori di popoli; c’è pure l’esercito dei piccoli, tenaci, meschini, implacabili operatori di quotidiane iniquità. Lo ricordava, con parole di fuoco, nel 1938 George Bernanos, l’indimenticabile autore dei Cimiteri sotto la luna, Riascoltiamolo: «Commettete un gravissimo errore a credere che la bestialità sia inoffensiva, per lo meno che esistano forme inoffensive di bestialità… Eppure ognuno di voi sa di che cosa sia capace l’odio paziente e vigile dei mediocri, e proprio voi ne spargete la semenza ai quattro venti! Infatti sono questi disgraziati che forniscono alle democrazie le pubbliche opinioni».
27 giugno 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Verità amara. Dove tutti sanno poco, si sa poco (Giacomo Leopardi). È rimasta una cultura di 500 parole. La scuola non ha ceduto soltanto sotto il peso dell’intellettualismo. L’intellettualismo, formalistico o politicizzato, si è limitato a riprodurre l’infinita deriva della società, finché, tramontati tutti gli idealismi e tutte le astrazioni, ha preso il loro posto una cultura fatta di cinquecento parole (Luigi Balducci). Basta un nonnulla. Basta un nonnulla per trasformare un concetto in un’assurdità (Levi Appulo).
Paese senza élites o élites senza un Paese? Un Paese senza élites? Io parlerei piuttosto di élite senza Paese. Basta leggere gli scritti di Salvemini, o degli amici del Mondo, per vedere che in Italia di élites ce ne sono state, eccome. Solo che queste non hanno mai avuto la capacità di tradursi in forze politicamente e socialmente rilevanti. Una scuola di massa o di élite? Una buona scuola di élite non può esistere senza una buona scuola di massa. Non si può pensare di fare delle Grandes Ècoles destinate ai figli di quel 3% di italiani che hanno già la laurea. Bisogna pescare in un bacino più ampio ed eterogeneo. (Tullio De Mauro)
PAROLA E POLITICA. Se le parole che pronunciamo nella dialettica politica fossero per noi qualcosa di più di un suono, che significa genericamente qualcosa, come potremmo sentirne e assorbirne tante?
In realtà si tratta di larve di parole, che godono per breve tempo di una parvenza di vita, finché le avvolge il fascino della loro origine, ma ben presto sono ridotte ad un paio di luoghi comuni e nulla più.
«In un tempo povero di parola e ricco di parolai -scrive un acuto studioso – ci vuole una vera e propria ascesi della parola: occorre infatti, nutrire una pregiudiziale sfiducia per tutte le parole grosse, come si nutre sfiducia per carta-moneta di dubbio valore, occorre far ritrovare alla politica la semplicità della parola contro gli eccessi, riconciliando parola e persona, parola e cosa. Basta con le larve di parole, rimettiamoci – ammonisce Romano Guardini – di fronte alle cose, evadiamo dalle sabbie infide delle idee abusate, ed indeterminate, riapriamo gli occhi alla forza penetrante del reale, deponiamo la veste glaciale delle frasi fatte. Troppe parole non sembrano più utilizzabili, tanto sono devastate e prostituite dal prolungato abuso. Ma se la crisi della politica è essenzialmente la crisi della parola, l’esodo da tale crisi è solo l’ascesi della parola. Guardini precisa: Uno può tenere splendidi discorsi politici, ma se dà informazioni false, se giudica alla leggera, se trascura lo stato reale dei fatti, enfatizzando o ridimensionando con la parola, è un pirata dell’opinione pubblica ed è anche un distruttore dello Stato. Far politica, dunque, significa ridare valore alle parole, rispettare la verità delle cose e delle persone, sentire dentro sé l’autorità della coscienza» (Silvano Zucal in La Rosa Bianca. Per la libertà dello spirito e per l’onore dell’uomo, Brescia 1996).
L’ANGOLO DELLA POESIA. Vera e falsa follia. Molta pazzia è divino buonsenso / per un occhio avvertito, / molto buon senso, pura pazzia. / È la maggioranza / in questo, come in tutto, a prevalere. / Di’ sì, e sei sano, / ribellati, subito sei pericoloso, / e ti trattano con catene (Emily Dickinson).
La rubrica “Detti e contraddetti” è stata pubblicata sul Giornale di Brescia con cadenza settimanale dal 5 gennaio 1988 al 25 gennaio 2007.