DETTI E CONTRADDETTI 1996 – SECONDO SEMESTRE
4 luglio 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il limite necessario. Il potere illimitato corrompe la mente di coloro che lo posseggono (William Pitt). Il pensiero fisso dell’ex. Ogni giorno pensa e ripensa, / con pena immensa, / ai fiori che non colse, / alle buste che non prese (Levi Appulo). Urbanamente. Punisci l’arroganza dei signori, / ma urbanamente, perché il peggiore sfregio / è per costoro subire il sortilegio / di una novella gentilezza umana. Questione giovanile. Volle provare col turbo-compresso / se era possibile abbattere un cipresso. / Personalmente considero un successo / l’ennesima vittoria del cipresso. (Michele Serra) Quando ci sentiamo irreali! Vi è una sorta di irrealtà che ci proviene dal sentirci disalveati dai nostri affetti (Mario Pomilio). Le mie gite. Apro la finestra / e raggiungo l’orto. / Guardo i legumi in fila, / raddrizzo un pomodoro storto (Vivian Lamarque).
PAZZA LA MUCCA O PAZZI GLI UOMINI? Tra gli erbivori c’era una volta la mucca. Ed ecco alcuni grandi allevatori decidono di trasformarla in un carnivoro, da nutrire con farine ricavate da carcasse, non importa se infette, di altri animali. Ma una mucca, a cui sia stato tolto il libero pascolo, è ancora una mucca, o è divenuta qualcosa che di quell’essere conserva solo le apparenze? Su queste mostruosità ci ha aperto gli occhi un fatto: è provato che le più elevate temperature, a cui è sottoposta la «farina di carcassa», riescono a liberarla dalla possibilità di trasmettere alle mucche, e da queste all’uomo, l’encefalopatia spongiforme. Non possiamo non chiederci: dove ci porterà la pazza logica del massimo profitto da realizzare a qualsiasi costo, anche a prezzo della salute altrui? Quale boomerang costituirà per gli uomini nel prossimo futuro la scissione radicale prodotta su scala mondiale della zootecnia dall’agricoltura e dell’animale dal suo proprio habitat? Ma allora perché chiamare «pazza» la mucca, se i veri «pazzi» sono gli uomini che l’hanno sottoposta a un processo di snaturamento tanto perverso e pericoloso?
UN TOTALITARISMO CHE VIENE DAL DI DENTRO. Non c’è totalitarismo senza consenso di massa e la massa si dà a chi l’ha attratta a sé con l’ostentazione di una sicurezza che dissolva l’angoscia del presente e, ancor più, del futuro. Le modalità, con cui l’infallibile certezza di un domani radioso si trasmette dal leader carismatico e dal suo clan al popolo, sono molto diverse, ma il processo di istupidimento del popolo è lo stesso. In effetti, un popolo non perderebbe la libertà se non fosse svuotato spiritualmente, se non fosse desideroso di delegare a Qualcuno i suoi obblighi e i suoi problemi, pronto a rinunciare all’esercizio della responsabilità. È interessante notare come compaia in contesti diversi esattamente lo stesso concetto per esprimere questa situazione: i ragazzi della Rosa Bianca parlano di «sonno ottuso e stupido», Bonhoeffer scrive una magistrale pagina sulla stupidità intesa come il nemico più pericoloso del bene, Bernanos dedica lunghe pagine agl’imbecilli, Bergson si preoccupa di descrivere le affascinanti liturgie del potere per catturare l’attenzione di uomini e donne i cui imperativi morali coincidono con quelli inculcati dalla pressione sociale. Scrive Romano Guardini: «Quando l’uomo finisce per perdere la fede nella sua aspirazione alla libertà, perde la forza di affermare questa aspirazione sotto la pressione dell’istinto, dell’utilità e del potere. Allora egli è, dal di dentro, maturo per la dittatura». Un’osservazione aggiuntiva: oggi non è più come negli anni ‘30. In Europa non c’è più bisogno – anzi sarebbe controproducente – d’un sistema di coercizione diretta, a supporto dell’ideologia al potere e dell’infallibilità del Capo. A omologare gli animi che non hanno più interiorità basta la coercizione quotidiana, casalinga, indiretta – e perciò più sofisticata – esercitata con le tecnologie multimediali.
POESIA DEL ‘900. Un giorno due si debbono lasciare. Un giorno due si debbono lasciare, / un giorno non vuoi più capire l’altro, / ogni strada si biforca un giorno, e ognuno se ne va da solo; / di chi la colpa? / Nessuno ha colpa. È il tempo che trascorre. / Certe strade s’intersecano nell’immensità. / Ognuno porta l’altro via con sé, / qualcosa resta sempre. Va incontro ognuno al suo poco destino. / La vita è mutamento. Ogni io cerca un tu. / Ognuno va cercando il suo futuro. E s’avvia zoppo, / tratto dal volere, senza né spiegazione né saluto / in un posto lontano (Kurt Tucholsky da Prose e poesie, Milano 1977, trad. di Elisa Ranucci).
11 luglio 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. La fabbrica dell’infelicità. Se non ci disponiamo ad essere buoni, siamo fatalmente incamminati ad essere infelici (Herbert Agar). Lo spirito del cristianesimo. Lo spirito del cristianesimo è uno spirito di libertà, di coraggio, di audacia, d’iniziativa… Quantum potes, tantum aude: quanto puoi, tanto osa, ci dice l’inno di san Tommaso d’Aquino. E il Vangelo ci assicura che soltanto dalla verità noi possiamo aspettarci la liberazione dell’anima (Paul Claudel).
Che cosa rimane da dire. E che cosa rimane ancora da dire? Nulla che non sia meglio fare. Il lavoro della nostra vita. Chi ci ha promesso che avremmo mietuto? Noi abbiamo promesso a Dio che avremmo seminato, e questo dev’essere il lavoro della nostra vita. Autorizzato a parlare. Soltanto chi ha sofferto può appellarsi alla sofferenza. (Ernst Wiechert)
NELL’EROISMO IL SEGRETO DELLA VITA. Una delle novità più felici e uno degli atti di coraggio speculativo più ricco di risultati è stato aver rivendicato alla filosofia il diritto-dovere di cercare le fonti dell’eroismo morale, della santità, della vita mistica autentica. I fenomeni della vita morale e religiosa non possono, infatti, essere guardati solo dal basso (en bas), come hanno fatto gli illuministi, Feuerbach, Marx, Nietzsche e Freud; essi vanno indagati anche nelle loro manifestazioni più alte (en haut). Colui che per primo s’è fatto carico di questo arduo, indifferibile compito è stato Henri Bergson. Le sue analisi, le sue geniali osservazioni, le conclusioni a cui è pervenuto, in oltre venticinque anni di ricerca, sono affidate all’ultimo suo capolavoro, Le due fonti della morale e della religione, pubblicato nel 1932. Lo spirito più affine al grande filosofo francese fu indubbiamente il pensatore statunitense William James. Di lui vogliamo qui citare la riflessione che forse dovette accendere in Bergson, agli inizi del secolo, un interesse destinato a durare per sempre. Eccolo. «Sulla scena del mondo, l’eroismo e solo l’eroismo ha i compiti grandi. Nell’eroismo, noi ben lo sentiamo, si trova nascosto il mistero della vita. Un uomo non conta quando non è capace di fare alcun sacrificio… È questo un mistero di cui il buon senso stesso ha qualche intuizione, che cioè abbracciando la morte si vive la vita più alta, più intensa, più perfetta; profonda verità di cui l’ascetismo è stato sempre il campione fedele. La follia della croce conserva un significato profondo e vivente».
LA STAGIONE CHE VEDE FIORIRE PENSIERI GRANDI. La gioventù è il solo tempo della vita in cui veramente si vive: se vita è fuoco, amore di grandezza, sete di perfezione, amore dell’amore. È il solo tempo in cui l’uomo sia come ferro bianco e duttile, pronto a colare nelle forme vili ma anche in quelle divine; non ancora rappreso per sempre nel duro congelamento dell’abitudine. È l’unica stagione che veda fiorire i pensieri grandi: la più facile maturità non potrà che trasformare qualcuno in frutto. L’unico segreto perché l’anima non muoia – e non corrompa il corpo colla corruzione – è di rimaner fedeli alla propria giovinezza (Giovanni Papini).
L’ANGOLO DELLA POESIA. Vi sono due maturazioni. Vi sono due maturazioni – una – della vista – / con forze che si svolgono sferiche / finché il prodotto violetto / non cada gustoso per terra – / un maturare più comune – / un processo nel riccio della castagna – / che solo i denti del gelo rivelano / nell’aria lontana d’ottobre. La gioia. La gioia è dunque un tale abisso / che non devo posare male il piede / per paura di rovinarmi la scarpa? / Piuttosto baderei al piede / che allo stivaletto – / comprarne un altro paio / si può / in ogni bottega – / ma la gioia si vende una volta sola. / Perduto il brevetto / nessuno la compra più. (Emily Dickinson è la più celebre poetessa statunitense. Visse tra il 1830 e il 1886)
18 luglio 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Chi parla male. Chi parla male pensa male (Nanni Moretti). Il Discorso sul metodo come romanzo moderno. Ho da poco riletto il Discorso sul metodo, ed è proprio il romanzo moderno, come potrebbe essere fatto. Da sottolineare che la filosofia posteriore ha rigettato la parte autobiografica. Tuttavia è il punto da riprendere, e si dovrà scrivere la vita di una teoria come si è fin troppo scritta quella di una passione (Paul Valéry). Ciò che si chiede a chi annuncia la Parola. Ci considerino come dispensatori dei misteri di Dio. Quello che si richiede dai dispensatori è che ciascuno di essi sia fedele (San Paolo). La menzogna serve a ingannare, ma non dura. Non c’è nulla di nascosto che non sarà svelato, nulla di segreto che non sarà conosciuto. Quelli che possono uccidere l’anima. Non temete quelli che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l’anima. (Vangelo di Matteo)
IMMERSI NELL’INEFFABILE MISTERO. «Nessuno ha mai veduto Dio», si dice nel Vangelo di Giovanni. E inoltre: «L’Unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, egli stesso ce lo ha fatto conoscere» (1,18). Questo Unigenito è Gesù Cristo. In lui e per lui il cristiano è in grado di riconoscere chi e come Dio è. Ciò non significa, tuttavia, che l’uomo con la sua ragione possa impadronirsi di Dio. La rivelazione di Dio non è da intendere come se il velo tra lui e l’umanità fosse stato tolto e Dio, di conseguenza, fosse riconoscibile alla stessa maniera in cui sul tavolo dei doni natalizi si riconoscono i regali, dopo che la tovaglia che li copre è stata tolta. Il Dio che si autocomunica non esce fuori dalla sua misteriosità, non cancella il suo mistero. Piuttosto egli si rivela all’uomo nella sua divinità, appunto per quello che egli è: come l’incomprensibile e il non rappresentabile infinito d’Amore.
I grandi teologi e i mistici testimoniano che non ci si può appropriare di questo mistero, ma che ci si può solo immergere in esso. Essi ci mostrano che tanto più qualcuno si immerge veramente nel mistero di Dio, tanto meno egli può parlarne. Egli finisce col balbettare: letteralmente gli viene a mancare la voce; annega in uno stupore privo di parole e in una muta adorazione. Tre mesi prima della morte, avvenuta il mattino del 6 dicembre 1273, Tommaso d’Aquino aveva avuto, la celebrazione dell’eucarestia, un’esperienza estatica. Scosso, egli si allontana dall’altare e non tocca più la penna; interrompe la stesura del suo capolavoro, la Summa theologica, alla questione 90, con la motivazione: «Non posso più, perché tutto quello che ho scritto mi sembra che sia paglia». Allo stesso modo si comporta Martin Lutero che, come Tommaso d’Aquino, aveva dietro le spalle una incredibile produzione teologica. Difatti, le ultime parole, negli ultimi appunti che si sono trovati accanto al suo letto di morte, dicono: «Noi siamo viandanti. Hoc est verum».
GLI RIPUGNA, MA NE È SIGNOREGGIATO. La prima domanda del famoso questionario di Proust è: «Che cosa detesto di più in me stesso?». Giulio Andreotti ha risposto così: «Ciò che più detesto in me è l’incapacità di capire l’insegnamento fondamentale che mi dava mia madre: in questo mondo nessuno è necessario» (Sette del 18 maggio 1996). A mio avviso, Andreotti in quella frase è uscito veramente allo scoperto, fornendo la miglior chiave di lettura della sua intricatissima vicenda. Chiave di lettura corretta – perché suggerita da lui stesso – ed insieme implacabilmente severa.
25 luglio 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. La malattia più grande. Il più grande dei mali è commettere ingiustizia. Ben venga il piacere, non al posto del bene. È necessario perseguire il piacere in vista del bene. E il piacere è quello che, sopravvenendo, ci fa godere, mentre il bene è ciò che, con la sua sola presenza, ci fa essere buoni. (Platone).
È la stessa per tutti. La discesa all’Ade è la stessa in ogni luogo (Anassagora). Quello che non hanno. Hanno l’abito blu / hanno l’insonnia / hanno il potere / hanno l’avere / hanno molti segreti / hanno pochi rimorsi / hanno messaggi in codice / ma per sentirsi bene / gli manca l’essenziale / e per questo stanno male (Michele Serra). Chi ha veramente carattere. Chi ha veramente carattere passa per la rinuncia, ma solo per assecondare la spinta interiore a una vita più alta e intensa (Levi Appulo).
«SUR LES CHEMINS DE DIEU». Parecchi anni fa chiesi a uno studioso di grande finezza se era in grado di indicarmi sul problema di Dio un libro che valesse la pena di leggere. Dopo qualche giorno, mi telefonò: «Leggi Sulle vie di Dio di De Lubac». Il consiglio si rivelò quanto mai prezioso. Quel libro ora è il volume che apre la pubblicazione in italiano dell’opera omnia del pensatore cattolico francese: impresa quanto mai necessaria messa in cantiere, con intelligente coraggio, dalla Jaca Book di Milano.
«Sur les chemins de Dieux» era nato come breve itinerario per chi volesse seriamente interrogarsi su Dio. Ma De Lubac per difendere il suo scritto dai non giusti attacchi, dovette ampliarlo e chiarirne i passaggi fondamentali. Ne è risultato un libro che unisce mirabilmente alla capacità di andare all’essenziale, la profondità e la chiarezza. Non è un caso, infatti, che siamo in molti a giudicare Henri De Lubac «l’ultimo dei Padri della Chiesa».
DIO È INEFFABILE, NON INCOMPRENSIBILE. Segnaliamo ai nostri lettori una riflessione di De Lubac su un problema su cui si fa molta confusione.
«Quando diciamo che Dio è ineffabile – scrive il gesuita francese – non significa che non se ne possa dire nulla di vero! Né significa che non vi sia nulla da dire a suo riguardo, che di lui dobbiamo senz’altro tacere, che gli attributi dati a lui dagli uomini siamo tutti sinonimi, o che senza discriminazione tutto si possa affermare di lui o tutto negare. E neanche significa che tutto ciò che se ne dice non abbia che valore pragmatico e provvisorio. L’ineffabilità divina è riconosciuta al termine di una dialettica, da cui essa trae significato preciso, eminentemente positivo. Chi la professa non si perde nel vuoto o nell’indistinto, ma compie e corona uno sforzo di rigore nel pensiero. Né annulla i risultati di questo sforzo, ma ne raccoglie il frutto nella sua stessa negazione. Nulla sarebbe peggiore di una ‘teologia negativa” che giungesse prematura. Il giuoco dell’affermazione e della negazione non è un giuoco senza regole. Le diverse qualità di Dio che vengono affermate – e che, d’altronde, non lo sono tutte al medesimo titolo né al medesimo modo – non si identificano, come dev’essere, che trascendendosi e negandosi. Dio, dunque, non è ineffabile nel senso che sia inintelligibile, ma è ineffabile perché resta sempre al disopra di tutto ciò che ne possiamo dire. Egli è sempre al di sopra di tutto quanto effettivamente se ne deve dire da principio, e che non sarà mai semplicemente rinnegato: infatti negare non è rinnegare, poiché è sempre la stessa attrattiva del Dio semper major che prima fa affermare, poi negare nel corso di un medesimo moto, cioè di una medesima affermazione. L’ineffabilità non è che un altro nome della trascendenza assoluta. Il silenzio non è al principio, ma è al termine» (Henri De Lubac, Sulle vie di Dio, trad. it. di M. Morganti, Alba 1966, pp. 181 – 183).
L’ANGOLO DELLA POESIA. Presenze vive. Conosco delle vite di cui potrei fare a meno / senza dolore alcuno / e altre, un istante d’assenza delle quali / sarebbe un’eternità. La storia del proprio io. Nessun romanzo che gli compri / può tanto incantare un uomo / quanto la lettura / di quello suo individuale. La fantasia è sufficiente. Per fare una prateria ci vuole un’ape e una gaggia, / un’ape, una gaggia / e fantasia. / La fantasia da sola è sufficiente, / se l’ape è assente. (Emily Dickinson)
1 agosto 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il nostro lutto per Auschwitz. Solo chi alza la voce per gli Ebrei può poi cantare in gregoriano (Dietrich Bonhoeffer). L’esortazione rivolta ad Abramo. Cammina davanti a me (tuo Dio), e sii integro (Libro della Genesi). Gerusalemme, Gerusalemme. Gerusalemme non è un luogo che si possiede, ma un luogo che ci possiede; un luogo sganciato dalle appartenenze e dalle sovranità ordinarie; un luogo in cui ciascuno deve spogliarsi delle alleanze umane per accogliere interamente la sola alleanza che conta, quella di Dio. A questo sono chiamati tutti i credenti figli dello stesso padre Abramo: ebrei, cristiani, musulmani. (card. Roger Etchegeray). Cari adulti, non abbiate paura delle favole. Nella fiaba, soprattutto al momento della narrazione e del contatto diretto tra un narratore adulto e un ascoltatore bambino, la dimensione del maschile e del femminile – del maschio prevaricatore e della donna sottomessa – non si pone perché il bambino o la bambina che ascoltano o leggono la fiaba si identificano indifferentemente con l’eroina o con l’eroe. Puccettino può essere percepito come un campione d’intelligenza e astuzia (e con lui identificarsi) ugualmente dalle bambine e dai bambini. Non è questione di sesso o di potere. Pensiamo alla fiaba come un veliero che, sciolti gli ormeggi, naviga nel mare grande della fantasia. Che in questa dimensione si possano stabilire ruoli di potere, è un voler caricare su quel veliero merce troppo pesante che non può trasportare. Rischia di andare a fondo (Carmine De Luca).
IL MASCHILISMO CONTAGIA ANCHE LE DONNE? È uno degli argomenti affrontati da Julien Green nello splendido saggio Sulla libertà, del 1989, tradotto in italiano dalla Marietti di Genova. Si sa che una delle offese più cocenti per l’orgoglio maschile è sentirsi dire: «Non sei che una donna», ma ciò su cui non si riflette è che spesso sono le stesse donne che adottano quel modo di pensare e che si sentono innalzate se gli uomini le trattano da… uomini.
«Una massa di giovani ufficiali ungheresi, in pieno secolo XVIII, si scalmanano al cospetto della loro imperatrice: Moriremo per il nostro re Maria Teresa! In latino se volete: Moriamur pro rege nostro Maria Theresia! È forse scontenta lei? Inarca per caso le sopracciglia? Niente affatto. Sorride al grazioso omaggio dei suoi affascinanti militari. Un uomo… La stanno paragonando a un uomo. Ma pensate. Non è mica un complimento da poco. E che dire dell’enorme Caterina di Russia? Viene chiamata Caterina il Grande. Ecco cosa riceve in pieno viso, e lei se ne pavoneggia. È l’intenzione che conta, certo, ma dietro l’intenzione, a pensarci bene, che tracotanza! Che grossolano narcisismo nel sesso forte».
«GUAI A CHI… ». Guai a chi ci scoraggia dall’amare! Guai a chi vuole forzare il nostro amore! Guai a chi lo esige da noi, come il servitore spietato del Vangelo esige il proprio debito! Guai a chi chiede agli altri più amore di quanto egli stesso si senta capace di donarne! (Georges Bernanos, Nous autres Français, Parigi 1947, p. 694).
8 agosto 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il primato nello schifo. Un mondo dominato dalla forza è abominevole. Un mondo dominato dal numero è ignobile. Ma come definire un mondo dominato dalla corruzione? (Levi Appulo). C’è l’essere uno e multiforme, finito e infinito, non il nulla. Al nulla manca per giunta uno che l’osservi (Friedrich Georg Jünger). Auguri a Tinto Brass. Nell’oroscopo di Tinto Brass per il 1997 brilla una possibilità di redenzione: un film in grado di riconquistargli la stima di coloro che hanno visto con raccapriccio il giovane leone degli Anni ‘60 sprofondare nella pornografia e il sesso dargli alla testa (Tullio Kezich).
Il rimpianto che nessuna eredità o carriera potrà mai colmare. Ho un solo rimpianto: da piccolo, quando mia mamma mi metteva a letto, non ha mai pregato per me (Edoardo Ponti, figlio di Sophia Loren, nell’intervista rilasciata a Sette, 4 luglio 1996). Saggia proposta. Showgirl è un’espressione atroce per indicare la ragazzotta scosciata che non sappia fare alcuna di queste attività: ballare, cantare, recitare, presentare. Invece di abolire il termine inglese, aboliamo le ragazzotte in questione (Beppe Severgnini).
UNA VERGOGNA, MA SPERO CHE NON PASSI. Il premier inglese Major ha preso la decisione di «consentire l’ingresso della pubblicità nelle scuole e nelle università». Lo scopo, ovviamente, è racimolare soldi. Si apprende, inoltre, che il Governo conservatore ha già affidato alla società pubblicitaria (School Media Marketing) la gestione degli spazi vuoti all’interno delle scuole e delle università per «reclamizzare merci di forte richiamo per le ultime generazioni».
Ma si può arrivare a tanto nella patria di John Locke e di Stuart Mill? Io mi rifiuto di credere che la grande tradizione inglese in campo scolastico, le famiglie e l’opinione pubblica permettano uno scempio del genere. Se perfino la scuola diventa la casa degli spot, com’è pensabile che possa contribuire a formare i ragazzi e i giovani alla coscienza critica della società presente – di cui l’asservimento alla pubblicità e il consumismo sono i connotati più disumani – e alla configurazione di quella futura?
A CHE SERVONO I RICCHI? Panorama, che una volta era il settimanale più aggressivo dell’opposizione di sinistra, da due anni svolge lo stesso compito, con il medesimo stile, per lo schieramento opposto. E molte firme sono le stesse, anche se impegnate a sostenere tesi e valutazioni non solo diverse, ma contrarie. All’inizio di questa estate Panorama ha intitolato la copertina e il principale dei suoi servizi così: «A che servono i ricchi?». Naturalmente intendeva parlare dei «grandi ricchi», cioè dei detentori d’immensi imperi economici e finanziari. Quelli che hanno fatto e vorrebbero fare il bello e il cattivo tempo, indirettamente o in prima persona, anche sulla scena politica.
La stessa domanda io l’ho girata a Georges Bernanos, spirito avverso alla demagogia fino all’ossessione, ma lucido sino a essere profetico quando un problema tocca la sfera morale e la libertà. Ecco la sua risposta. «Sono un uomo come voi, come uno qualunque di voi, ma io sento ciò che voi non sentite, ciò che voi subite senza sentire: l’immensa pressione esercitata a ogni ora, giorno e notte, su tutti noi dal conformismo universale, anonimo, che dispone di risorse inesauribili, di metodi ingegnosi e implacabili per la deformazione dello spirito. Queste risorse, questi metodi sono nelle mani di un ristretto numero di uomini legati al potere economico, senza scrupoli, molto più potenti dei governi» (La France contre le robots, Bibliothèque de la Pléiade, p. 234).
L’ANGOLO DELLA POESIA. Farfalla azzurra. Piccola, azzurra aleggia / una farfalla, il vento la agita, / un brivido di madreperla / scintilla, tremola, trapassa. / Così nello sfavillio d’un momento, / così nel fugace alitare, / vidi la felicità farmi un cenno / scintillare, tremolare, trapassare. Quando la vita chiama. Quando la vita chiama, il cuore sia / pronto a partire ed a ricominciare, / per offrirsi sereno e valoroso, / ad altri, nuovi vincoli e legami… / Dobbiamo attraversare spazi e spazi / senza fermare in alcun d’essi il piede, / lo spirto universal non vuol legarci / ma su di grado in grado sollevarci. / Appena ci avvezziamo ad una sede / rischiamo di infiacchire nell’ignavia; / sol chi è disposto a muoversi e partire / vince la consuetudine inceppante. / Forse il momento stesso della morte / ci farà andare incontro a spazi nuovi; / della vita il richiamo non ha fine… / Su, cuore mio, congedati e guarisci! (Hermann Hesse).
15 agosto 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. A chi occorre stare accanto. Colui che è saggio desidera stare sempre accanto a chi è migliore di lui. Che cos’è la gioia? La gioia proviene dal movimento ben accordato dell’anima con le cose. Non ingannare se stessi mentendo a proprio vantaggio. Bisogna senz’altro ritornare di frequente su ciò che si è già detto e, secondo le parole del poeta, cercar di guardare nello stesso tempo avanti e indietro. L’attenzione a ciò che solo in apparenza è secondario. Hanno proprio ragione i muratori, quando affermano che le pietre grandi, senza le piccole, non restano salde. (Platone)
La natura fortemente meditativa. Ci sono nature intense, fortemente meditative, e tuttavia piene d’impulsi, le quali raggiungono il loro equilibrio non ricacciando indietro la propria esuberanza, ma adoperandosi a riconoscerla per meglio vigilarla. L’amore per la musica. L’amore per la musica può raccogliere ed ereditare tante altre passioni. Per conoscere una persona guarda la sua biblioteca. Si sa in qual misura possono aiutarci a capire un uomo i libri ch’egli ha posseduto. Ci sono lì le sue scelte ed i criteri delle sue scelte, i suoi gusti di lettore e le sue stesse passioni d’uomo. (Mario Pomilio)
LA SPONTANEA «ETICITÀ», DELLA MUSICA. «La musica intenerisce il cuore, mette ordine nella sua confusione, scioglie i suoi blocchi e crea così i presupposti affinché nell’anima possa agire lo spirito che prima aveva inutilmente bussato alle sue porte serrate. Sì, tranquillamente e senza violenza, la musica apre le porte dell’anima. Ora sono aperte! Ora l’anima è pronta a sentire. Questo è l’effetto ultimo che la musica esercita su di me, che me la rende indispensabile in questa vita. E come non mi lavo per amore dell’acqua che adopero, così non ascolto la musica per amore della musica.
Ascoltare musica correttamente richiede un completo abbandonarsi ad essa, uno staccarsi da tutto ciò che ancora mi tiene prigioniera, un cuore innocente, senza sofisticazioni e secondi fini; ed il premio è un cuore libero, senza pregiudizi, un cuore sensibile all’armonia, un cuore che ha aperto le sue porte all’azione dello spirito».
Le riflessioni qui riportate nascono da un’esperienza personale di straordinaria intensità e fanno parte di un appunto autobiografico del gennaio 1942 su «la fame dell’anima». Chi stese quelle note si chiamava Sophie Scholl ed aveva solo ventun anni. Tredici mesi dopo, il 23 febbraio 1943, Sophie, il fratello Hans e l’amico Christoph Probst furono decapitati perché membri del gruppo di resistenza al nazismo «La Rosa Bianca». Il testo si può leggerlo in traduzione italiana nel volume Una piccola luce di Inge Aicher-Scholl (Milano 1995, p. 112).
QUATTRO REGOLE PER UNA GIUSTA TASSAZIONE. In una nota, redatta probabilmente nell’autunno del 1847, Alexis de Tocqueville fissava quattro regole per un’equa tassazione. Eccole:
1) Esonerare dall’imposta i più poveri, cioè quelli per i quali l’onere è comparativamente più pesante.
2) Non far gravare l’imposta sulle cose necessarie, perché allora tutti sono costretti a sottomettervisi ed il povero viene colpito.
3) Quando l’imposta grava sulle cose necessarie o molto utili per vivere, renderla molto debole per ognuno affinché sia quasi indifferente ai poveri quanto ai ricchi.
4) Quando essa è forte, cercare di renderla proporzionale al patrimonio del contribuente (Scritti, note e discorsi politici 1839 – 1852, Torino 1995, p. 77).
L’ETERNO «ANGELUS» DELLA POESIA. In questi tempi in cui i popoli delusi passano di volta in volta da un’attività senza misura ad una triste ansietà, dal «perché no?» dei megalomani all’«a che serve?» di tutti i disperati, la poesia eleva la propria voce bronzea, il proprio eterno Angelus. Non è certo in suo potere redimere i popoli che vogliono la propria morte, ma essa parla pazientemente al cuore di ogni uomo, sveglia in ciascuno quella virtù propria, incomunicabile, quel coraggio essenziale che fa la dignità della persona umana. Essa è per ogni uomo quel bagno di luce e di libertà che, a qualche privilegiato,è dato dai grandi spazi vergini. Essa è la solitudine nel cuore della città, l’evasione fra i muri della prigione, il portico aperto sull’avvenire (Georges Bernanos, Essais et écrits de combat, Bibliothèque de la Pléiade, p. 1313).
22 agosto 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. La pace. La pace non è assenza di guerra. È una virtù, uno stato d’animo, una disposizione alla benevolenza, alla fiducia, alla giustizia (Baruch Spinoza). Questo secolo. Ho dato il mio giudizio. Ma anch’io sono segnato. / Questo secolo non ha favorito i magnanimi e i giusti. / So cosa significa generare mostri e in loro riconoscersi. (Czesław Milosz). La nostra sopravvivenza nelle cose. Esiste quasi una sopravvivenza di noi nelle cose: e un uomo non abbandona praticamente intatta la casa dove ha abitato senza lasciarla impressa di mille segni del suo temperamento e della sua stessa personalità morale (Mario Pomilio).
I RAPPORTI DI GESÙ CON I FARISEI. Gesù bolla a fuoco la pietà formalistica ipocrita ed esteriore; sarebbe, però, storicamente inesatto condensare nel termine «fariseismo» le peggiori degenerazioni in campo religioso. In realtà, un’attenta rilettura del Vangelo non autorizza una presentazione solo negativa dei farisei. I riferimenti a loro sfavorevoli nel Nuovo Testamento ci sono, ma vanno colti nello sfondo di un movimento complesso e diversificato. I rapporti di Gesù con i farisei, che erano allora l’élite religiosa di Israele, non furono né del tutto né sempre polemici. Il Nuovo Testamento offre al riguardo testimonianze decisive. Nel Vangelo di Luca si legge che dei farisei avvertono Gesù del pericolo che corre (13, 31) e che Gesù mangia più volte insieme a loro, nelle loro case (7, 36 e 14, 1). Gesù elogia apertamente alcuni farisei, come lo scriba di cui parla Marco (12, 34). Ed è significativo che i farisei non vengano mai nominati nei racconti della Passione. C’è di più: gli Atti degli Apostoli attestano che il fariseo Gamaliele prese le difese degli apostoli in una riunione del sinedrio (5, 34 – 39) e che Paolo, l’apostolo per eccellenza dell’universalismo cristiano, considera sempre titolo d’onore la sua appartenenza al gruppo farisaico (23, 6; 23, 8; 26, 5; Fil. 3, 5).
Anch’io, lo confesso, pur non essendo mai sfiorato dal pregiudizio antiebraico, ho faticato a correggere un giudizio inesatto e ingiusto sui farisei e il linguaggio corrente che lo veicola. Su questo punto ero io indietro e non la Chiesa che, in un documento pastorale del 1985, Sussidi per una corretta presentazione degli ebrei e dell’ebraismo, aveva già detto tutto l’essenziale sulla questione qui ricordata.
SERVIZIO CIVILE PER TUTTI! La vicenda degli obiettori di coscienza «ricusati» dalla Caritas solleva un problema vero e ci induce a fare una proposta. Il problema vero è che anche per le attività di volontariato diventa fondamentale la questione della competenza. Sbagliato prendere un laureato in lettere per inviarlo in contabilità o assegnare la cura dei malati a chi è privo delle conoscenze di base. Ma qui va rifondata la legge, che tende ancora a «punire» chi sceglie il servizio civile al posto del militare.
La proposta è la seguente: che i giovani, ragazzi e ragazze, finita la scuola e con un minimo di addestramento iniziale, svolgano un periodo obbligatorio di servizio civile a favore della collettività. È un bagno di realtà dalla parte dei più deboli. E un servizio di pubblica utilità, sia per chi lo svolge che per la società (Walter Passerini, Corriere Lavoro, 5 luglio 1996).
L’ANGOLO DELLA POESIA. Addio mondo. Il mondo non va disprezzato, / screziato e selvaggio egli è, / malie antichissime spirano / ancora attorno a sé./ Vogliamo separarci / grati del suo gran gioco; / ci dette gioia e pena / ci dette molto amore. / Addio mondo, rifatti / bello e smagliante, noi / siamo della tua gioia / e della pena sazi. Luce del mattino. Gioventù, paese cento volte dimenticato / e perduto, / paese dolce, soave luce sorgiva! / Su ogni turbine, polvere vorticante, / splendi lassù, alta sul mio cammino, / oltre i falliti sforzi del vagabondo errore, / fonte serena, pura luce del mattino! (Hermann Hesse)
29 agosto 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. L’America… e l’Italia? Come sarebbe l’America se i classici fossero più letti? (Erza Pound, 1920). È inevitabile. Se il danaro è proprio molto ed è stato accumulato molto in fretta, la percentuale che spetta al malaffare è inevitabilmente superiore, e di molto, a quella della fortuna e del merito (Levi Appulo). Tempo e solitudine. Il tempo, che di noi fa tanti oggetti, moltiplica / la nostra naturale solitudine (Derek Walcott, poeta caraibico di lingua inglese, insignito nel 1992 del Nobel per la letteratura).
Un’epigrafe. Distrutto da troppi chilometri percorsi su strade sbagliate. Quello almeno è dovuto. I genitori devono fare in modo che i bambini si sentano amati e desiderati. Se non sanno dar nient’altro, quello, almeno quello, lo devono ai loro figli. Serietà inopportuna. Gli ubriachi sono sempre seri nei momenti meno opportuni. (James Crumley)
PERCHÈ MAI DOVREMMO PRIVARE I FANCIULLI DEL LORO DIRITTO ALLA FIABA? Ci sono persone che, persino quando parlano di favole, sono tanto prese dalle proprie ossessioni ideologiche e pseudo-scientifiche da volerle mettere al bando, o imbragate ben bene da una «spiegazione» di cui i fanciulli non saprebbero proprio che farsene. Un pedagogismo così greve è sempre pronto a vedere addirittura la prevaricazione del sesso maschile o del potere politico nel principe che bacia Biancaneve e la risveglia alla vita. Ma, così facendo, lungi dal dare il benché minino contributo all’educazione dei giovanissimi lettori, i pedagoghi del sospetto non fanno altro che sporcare tutto ciò che toccano. La loro forma mentis è originata da quella «barbarie della ragione», di una ragione cioè pervertita dai propri sofismi, che il nostro Vico bollò, mostrandone l’abissale stupidità, così come nell’Ottocento fece nei suoi romanzi il grande Charles Dickens.
Gianni Rodari, uno dei pochi scrittori italiani per l’infanzia, ebbe ad osservare che il «c’era una volta», con cui iniziano tutte le favole che si rispettino, è per i piccoli una sorta di zona franca, nella quale il bene trionfa: cosa di cui essi hanno bisogno oggi più che mai, oppressi come sono da un carico di notizie e immagini infami che rischiano di schiacciarli. Nelle fiabe il male c’è, eccome, ma alla fine è vinto. «Nella fiaba – annotava Rodari – il bambino contempla le strutture della propria immaginazione: di più, con l’aiuto delle fiabe, se le fabbrica egli stesso». Sì che, lungi dal derubare i fanciulli delle fiabe che l’umanità ha prodotto nel corso dei millenni, dovremmo farli giocare a «inventare storie». Siamo pertanto sinceramente grati al quotidiano che questa estate ha diffuso i classici della fiaba. La loro lettura è deliziosa anche per noi adulti. Può aiutarci, infatti, a immettere nello smog del nostro gretto utilitarismo una ventata di ossigeno, di quello «spirito d’infanzia» che è bisogno di verità e di semplicità.
LA PAROLA «ALTA». «La parola alta, la parola dei poeti è sempre un po’ sacra e chiunque la frequenti a lungo finisce prima o poi per dialogare con l’Eterno. Quanto a me, lo confesso, l’ho fatto anche scrivendo qualche verso, anzi qualche letterina che non vorrei neppure definire poesia, perché io la poesia, quella vera, la so riconoscere. Posso solo aggiungere che invidio chi la fede l’ha già trovata».
Questa dichiarazione di Vittorio Gassman è apparsa sulla Stampa del 28 maggio 1996. Essa apre uno spiraglio sul mondo interiore dell’artista attestando un senso del limite molto raro, e non solo nel mondo dello spettacolo. Va anche precisato che le parole di Gassman sono state dette per manifestare un’adesione cordiale all’iniziativa Dire la Parola, ideata dagli attori Angela Godwin e Franco Giacobini, che hanno condensato in due volumi e quattro audiocassette, editi dalla Società biblica britannica di Roma, la presentazione di quello che, a loro avviso, è il cuore stesso della Scrittura.
L’ANGOLO DELLA POESIA. Felicità. Felicità: finché dietro a lei corri / non sei maturo per esser felice. / Solo quando rinunzi ad ogni cosa, / né la felicità più a nome chiami, / allora al cuor non più l’onda affannosa / del tempo arriva, e l’anima tua posa (Hermann Hesse, 1877 – 1962, tedesco di nascita, svizzero per propria scelta a partire dal 1912. Romanziere a cui toccò un successo straordinario di pubblico, ma non di critica).
5 settembre 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Stress da eccesso. Tutto ciò che è eccessivo è insignificante (Walter Benjamin). Non è del tutto vero. L’importante è che si veda non la soluzione, ma l’enigma (Ernst Jünger). Il rischio della superstizione. Ho notato che molte persone che non credono in Dio, credono a tutto il resto. Anche al malocchio (Julies Verne). Che tipo di uomini sono. Non solo ciò che gli uomini compiono è realmente importante, ma anche che tipo di uomini sono quelli che lo compiono (John Stuart Mill).
Una grave minaccia per la libertà della nostra intelligenza. L’oblio della cultura religiosa è un aspetto di quella crisi della memoria storica che rappresenta una grave minaccia per la pienezza e la libertà dell’intelligenza e della nostra persona. La parola peccato, ad esempio. Peccato è parola desueta, fa parte di un lessico che non si usa più e che spesso non si capisce. È legittimo rifiutare consapevolmente un linguaggio, se non ci si riconosce, ma non è possibile ignorarlo o fraintenderlo, se esso ha fatto e fa parte della nostra civiltà, se esso è servito per secoli a definire la realtà ed a raccontarne la storia – la nostra storia che dobbiamo conoscere e capire, per poterla accettare o rifiutare, ma comunque farla rivivere in noi. (Claudio Magris)
L’ESERCITO DEI «VIOLENTI IN PICCOLO». Non è questo un tema diffuso. Tuttavia esso significativamente ritorna sotto la penna del teologo evangelico Dietrich Bonhoeffer. In una pagina del romanzo, rimasto frammento, abbozzato in carcere, Bonhoeffer scrive: «I piccoli vessatori vivono nel favore del dominatore di turno e ne godono, ed in questo modo sfuggono ad ogni giudizio terreno. Sono questi violenti in piccolo che mandano in rovina il popolo; operando dall’interno, sono come gli invisibili germi patogeni della consunzione, che, pur rimanendo nascosti, condannano alla rovina una giovane, fiorente vita. Non sono solo più pericolosi dei violenti in grande, ma anche più robusti, più tenaci, più difficili da colpire. Sfuggono fra le dita, quando li si vuol afferrare, perché sono sguscianti e vili. Ed inoltre sono come un’infezione contagiosa. Se uno di questi violenti in piccolo ha succhiato alla sua vittima la forza vitale, contemporaneamente l’ha contagiata con il proprio spirito; colui che fino a quel momento era stato solo vittima della violenza, appena ha in mano un minimo di potere si vendica per quello che ha subito. Ma tale vendetta – questo è il più terribile – non si compie sul colpevole, ma a sua volta si ritorce su vittime incolpevoli e indifese, e così all’infinito, finché tutto è contagiato e avvelenato e non si può più frenare la dissoluzione. (…) Tuttavia, ragazzi, non è permesso lasciarsi scoraggiare dall’apparente inutilità del combattimento».
L’ANGOLO DELLA POESIA. Un uomo dal discorso frugale. Temo un uomo dal discorso frugale, / temo un uomo silenzioso; / l’arringatore posso sorpassare, / il chiacchierone intrattenere. / Ma colui che pondera, mentre gli altri / spendono l’ultima lira, / di quest’uomo diffido. / Temo che egli sia grande. Fiorire è il fine. Fiorire è il fine. Chi guarda un fiore / con uno sguardo distratto / stenterà a sospettare / le minime circostanze / coinvolte in quel luminoso fenomeno / costruito in modo così intricato, / poi offerto come una farfalla / al mezzogiorno. (Emily Dickinson).
12 settembre 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il mio compito. Mi sono sempre sforzato di svegliare quelli che dormono e di impedire agli altri di addormentarsi. Non la mia canzone, ma ciò che io canto. La mia musica vi arriva dall’estremità del mondo, così come la testimonianza non della mia arte, ma della mia costanza. Non è la mia canzone che è immortale, è ciò che io canto (Georges Bernanos).
È necessario ciò che non serve. C’è una zona oscura / dentro la quale misteriosamente / fiorisce l’intuizione / l’istinto dell’arte / un mondo a parte / l’enigma della bellezza / la paura e l’ebbrezza / di avere stranamente intuito / qualcosa che non è ancora servito / ad alcun palinsesto (Michele Serra). Sarebbe ingiusto dimenticarlo. Una gran parte del movimento di libertà dell’Europa dell’Est ha avuto da Giovanni Paolo II la prima spinta e un fondamentale aiuto (Roman Herzog, presidente della Repubblica tedesca, nell’indirizzo di saluto rivolto il 21 giugno 1996 al Papa in visita nella Germania unita).
C’ERAVATE ANCHE VOI FRA LORO. Ci sono state negli anni della più criminale barbarie persone a cui nessuna sofferenza è stata risparmiata. Se chiediamo ai sopravvissuti che cosa li ha sorretti nell’inferno dei lager, troviamo risposte diverse, ognuna delle quali ha un valore altissimo. Per me, tuttavia, il documento più commovente sulla speranza che aiutava a vivere, e per la quale si doveva tutto sopportare, è costituito dal seguente passo del Discorso alla gioventù tedesca – 1945 di Ernst Wiechert: «Ogni sera, dopo il terribile lavoro della giornata, nel terribile Lager della Selva dei morti, io ero solito andare sotto la quercia dove un tempo si era seduto Goethe, con Carlotta von Stein. Di là egli guardava alla lontana campagna fiorita. Là mi sedevo per qualche tempo in silenzio, mortalmente stanco, completamente solo, e non sapevo se la sera dopo avrei potuto ritornarvi. E se pensavo agli uomini per i quali avevo vissuto e per i quali avevo preso su di me tutto ciò, allora c’eravate anche voi fra loro, voi che domani sarete uomini, ed io sapevo, con incrollabile certezza, che un giorno voi avreste portato più avanti ciò che io non potevo portare a compimento. E se vi fossero stati anche solo due o tre di voi, tanto sarebbe bastato perché nulla fosse inutile e vano».
Il grande scrittore tedesco proseguiva, rivolgendosi direttamente ai giovani, con accenti non meno appassionati: «Riconoscerete fino al fondo del vostro cuore che cosa sia la violenza, la menzogna, l’odio, l’ingiustizia, la retorica. E quando l’avrete riconosciuto, seminate nel cuore della generazione che viene dopo la vostra. Non lasciatevi fermare da nessuna zizzania, da nessuna siccità, da nessuna grandinata. E se fallirete cento volte, sempre ricominciate con la stessa fede con la quale avete cominciato la prima volta».
IDENTIKIT DELL’UOMO DI SUCCESSO. A me capita di essere ospite di professionisti di successo, ingegneri, medici, avvocati, commercialisti. Fuori del loro lavoro, del quale non parlano, stanno dentro la gelatina dei luoghi comuni pubblicitari. Sono grandi medici, noti commercialisti, famosi fisici: eppure parlano come quelli dell’Alpitour… Ignorano le città in cui vivono, ignorano i loro simili, salvo che non siano loro clienti. Fanno una vita intensissima, si alzano presto, lavorano duramente, ma vanno e vengono senza vedere in che mondo abitano. Prendono aerei e treni, vanno a nuotare o a pescare dove dice la Tv, e alla fine di questa matassa di impegni, si guardano le mani e le vedono vuote (Giorgio Bocca, L’Espresso, 19 aprile 1996).
L’ANGOLO DELLA POESIA. Coricato sull’erba. Girandole di fiori e colorato / vello dei chiari prati estivi, / tenero azzurro del disteso cielo / e sussurro dell’api; / la bella curva del monte, che posa / laggiù sopra l’azzurro. La vita interiore. Chi già trovò la vita interiore, / chi col suo intimo fervore / ravvisò il nocciolo del vero / vedrà ogni fatto, ogni pensiero / colloquiar col proprio io. Sorella morte. Anche da me giungerai un giorno, / ed il tormento avrà fine. / Sembri ancora lontana ed estranea / sorella morte, / ma un giorno ti farai vicina. / Vieni, amata, sono qui, / prendimi, sono tuo. (Hermann Hesse).
19 settembre 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Due cose che, per esserci, esigono l’esistenza di Dio e la vita oltre la morte. 1) Che l’assassino non possa trionfare sulla sua vittima; 2) che l’ingiustizia, così prepotentemente attiva in questo mondo, non possa essere l’ultima parola (Max Horkheimer). La vera continuazione del Vangelo. Da noi si dice che ogni volta che nasce un santo s’aggiunge un versetto al Vangelo. Procura di trovare il Cristo e avrai trovato il quinto evangelio (Mario Pomilio). La forza delle nostre debolezze. Credo non serva a nulla combattere direttamente le debolezze naturali. Bisogna farsi violenza per agire come se esse non esistessero, allorché un dovere lo esige imperiosamente, nel corso ordinario della vita è necessario conoscerle bene, tenerne prudentemente conto e sforzarsi di trarne il buono, perché esse sono tutte suscettibili di essere bene impiegate (Simone Weil).
IL MAUSOLEO DELLE ARDEATINE, UNICUM FRA I MEMORIAL. «Il 23 marzo 1944, i nazisti che occupavano Roma assassinano 335 italiani tratti dalle carceri o presi a caso nelle strade: li trasportano con camion alle vecchie cave della via Ardeatina, li legano a gruppi e li fucilano; poi, per occultare il delitto, fanno crollare sui loro corpi le volte delle grotte. La capitale viene liberata il 4 giugno; nel settembre viene indetto un concorso per la sistemazione della zona. La prima pietra è posta nel novembre 1947 e l’inaugurazione avviene nel marzo 1949, cinque anni dopo l’eccidio. Il risultato segna la svolta dell’architettura italiana dalla retorica fascista ad un moderno linguaggio democratico. Sono scartate tutte le ipotesi monumentalistiche di scalee, altari, arcate marmoree. Cinque giovani architetti, Nello Aprile, Cino Calcaprina, Aldo Cardelli, soprattutto Mario Fiorentino e Giuseppe Perugini, mirano ad un’immagine essenziale, affidata al contrasto tra il naturalismo delle grotte, di cui si mantengono i tormentati percorsi, la limpida stereometria di un masso sospeso, quasi in atto di schiacciare le salme sottostanti, il perno di una statua peraltro mediocre e lo straordinario impeto espressionista delle cancellate forgiate da Mirko Basaldella. Il piazzale raccoglie i flussi provenienti dall’ingresso e dalle uscite, ha forma irregolare, accentuata dall’altura circostante su cui spiccano una croce e la stella di David. Circuito continuo e reversibile: si può penetrare nel grande, opprimente spazio cimiteriale contornato da un’asola di luce, e poi passare alle gallerie delle cave, o viceversa; in ambedue i casi, la dissonanza resta valida ed eloquente: di qua la rudezza delle grotte sinistramente rischiarate dai fori dei soffitti franati, di là il calcolatissimo parallelepipedo elaborato in ogni curvatura e dettaglio, quasi al modo degli antichi greci, per evitare distorsioni ottiche nei fianchi e nella copertura. Il Mausoleo è stato più volte imitato, da quello di Yad Vashem a Gerusalemme a quello della Resistenza di Udine. Ma, per la forza evocativa dell’impianto e la sensibilità delle modanature, resta un unicum a livello mondiale» (Bruno Zevi, Ottocento Novecento. Controstoria dell’architettura in Italia, Roma 1996).
PER LA MATURITÀ DI OGNI UOMO. «Nella ricerca delle cose ultime, ossia della verità, non si può mai pensare di essere arrivati in fondo. Ma come si può persistere nello sforzo della ricerca se non si lascia parlare, o se persino si ammazza il fratello che cerca la verità per una strada diversa dalla nostra, stimolando le obiezioni e le critiche che altri potranno muovere al risultato della sua ricerca? Senza discussione con il fratello – anche la lettura di un buon libro è una specie di discussione – non è possibile arrivare a quella maturità e a quel progresso di cui ha bisogno ogni uomo che non si accontenti di restare nello spirito semplicemente la copia di un altro».
Il brano è tratto da una lettera clandestina scritta in carcere da Robert Scholl il 24 agosto 1943 alla moglie e alla figlia Inge, anch’esse detenute. I membri della famiglia Scholl furono chiusi in prigione dai nazisti subito dopo la decapitazione di Hans e Sophie, che facevano parte del movimento di resistenza «La Rosa Bianca».
26 settembre 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il bambino che fui. Che importa la mia vita! Voglio soltanto che essa resti fedele fino in fondo al bambino che fui. Spirito d’infanzia. Ho sempre pensato che il mondo moderno peccasse contro lo spirito d’infanzia, e che questo crimine l’avrebbe fatto morire. È chiaro che la parola del Vangelo: non potete servire Dio e il denaro ha il proprio equivalente: non potete servire insieme lo spirito d’infanzia e lo spirito di cupidigia. (Georges Bernanos)
Il crimine principale di Matarrese. Non ho nulla contro Matarrese, se non il rigetto della sua attività criminosa: infatti sevizia crudelmente e impunemente in pubblico da troppi anni la lingua italiana. Non è nazionale anche la lingua? E lui tifa contro (Folco Portinari).
LA PAROLA PIÙ NECESSARIA È LA PIÙ INFANGATA. Quasi nessun’altra parola nella storia è stata tanto abusata quanto la parola Dio. Spesso nel nome di Dio sono state condotte guerre, difese condizioni di ingiustizia, combattute conoscenze scientifiche, è stata disprezzata la libertà con misure coercitive e gli uomini sono stati resi sottomessi. Alla parola di Dio non è allora legata soltanto moltissima speranza, ma altresì moltissima colpa, perché gli uomini hanno sempre usato Dio per far valere o difendere i propri interessi. Così il volto di Dio molto spesso è stato sfigurato nel modo più blasfemo. Agli occhi dell’uomo esso ha sovente assunto tratti addirittura demoniaci. Dobbiamo dunque chiederci: «Chi è veramente Dio?».
IL MISTERO DI DIO E I NOSTRI CONCETTI. La risposta fondamentale a questa domanda non può essere allora che: Dio è un profondo mistero. Nessun uomo l’ha mai visto. Egli non è un oggetto che potrebbe essere accertato come altri oggetti. Dio non esiste nello stesso modo in cui uomini e cose esistono nel mondo. Di fronte al suo mistero dobbiamo, quindi, spezzare di continuo le nostre rappresentazioni di lui. Davvero noi ci esponiamo sempre al pericolo di porre degli idoli da noi stessi fabbricati, il desiderato avverarsi delle nostre ardenti attese, al posto di Dio.
«Il mistero di Dio – scrive Walter Kasper – è più profondo e più grande del mistero dell’uomo. Dio è, perciò, infinitamente più grande di tutte le immagini ed i concetti che ci facciamo di Lui. È vero che noi non possiamo parlare di Dio in nessun altro modo, se non mediante un linguaggio umano, con immagini, similitudini e concetti che ricaviamo dalla nostra esperienza umana. Tuttavia, dobbiamo purificare le nostre immagini e i nostri concetti umani da ogni finita limitazione quando li riferiamo a Dio. Dobbiamo essere consapevoli che essi valgono per Dio in un senso infinitamente perfetto, che trascende ogni nostra rappresentazione e capacità di comprensione. Ad ogni somiglianza dei nostri concetti con Dio corrisponde una diversità ancora più grande. Dio in ultima analisi è ciò di cui non si può pensare nulla di più grande; anzi, Egli è più grande di tutto ciò che può essere pensato». (Il Dio Personale, Casale Monferrato 1988, pp. 17.18).
Quindi tutti i nostri concetti e le nostre immagini, che ci sforziamo di escogitare per Dio, sono un po’ come una freccia direzionale. Fanno da guida in un mistero e devono renderci pronti a prestare ascolto sempre di nuovo a ciò che Dio ha da dirci mediante la sua parola e la sua azione nella storia.
QUESTO SIGNIFICA AVER AVUTO SUCCESSO. Ridere spesso e di gusto, / guadagnarsi il rispetto delle persone / intelligenti e dei bambini, / conquistarsi l’apprezzamento dei critici onesti, / e sopportare il tradimento dei falsi amici, / apprezzare la bellezza, / trovare il meglio che c’è negli altri, / lasciare il mondo in una condizione un po’ migliore / grazie al sorriso di un bambino, a un fazzoletto di verde, / o a un’ingiustizia risanata, / sapere che anche uno solo dei viventi / ha respirato con più facilità perché tu hai vissuto. / Questo significa aver avuto successo (Ralph Waldo Emerson).
L’ANGOLO DELLA POESIA. Finita infinità. Vi è una solitudine dello spazio, / una solitudine del mare, / una solitudine della morte, ma queste / saranno una folla / a confronto di quel luogo più profondo, / quella polare segretezza, / un’anima ammessa alla propria presenza, / finita infinità. (Emily Dickinson)
3 ottobre 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il valore del tempo. È il tempo che dedichi a un lavoro o a una persona a renderteli così importanti. Ti è più caro ciò che ti costa più tempo (Levi Appulo). Che cosa vogliamo dall’America. Ciò che le persone vogliono dall’America è molto semplice. Vogliono che sia buona come lo sono le sue promesse (Barbara Jordan). Il segreto di Dio. È il dolore, non il piacere che costituisce il segreto della saggezza divina (Simone Weil). Risponde a verità? Agli uomini hanno insegnato a scusarsi per la loro debolezza, alle donne per la loro forza (Lois Wyse). Sei anche tu così? Sono una sorta di paranoico al rovescio: sospetto di quelle persone che cercano di rendermi felice (Jerome David Salinger). L’agitazione e l’azione. Non confondere mai l’agitazione con l’azione (Ernest Hemingway).
RISPETTO PER I MORTI SENZA FARNE MERCATO. Con la concretezza e l’acume che le sono soliti, Barbara Spinelli è intervenuta sulla Stampa del 1° settembre 1996 nel dibattito su Priebke e le foibe. Nonostante l’infelice verdetto di assoluzione cui è infine approdato, il processo a Erich Priebke non è passato invano per le coscienze degli italiani. «È servito a risvegliarli – scrive la Spinelli – da una sorta di torpore della memoria, che durava da cinquant’anni. Ha resuscitato ricordi rimossi, oppure cancellati per convenienza politica, partitica. Essere italiani diventa però più complicato e pesante, quando nel presente fanno irruzione con uguale legittimità i diversi patimenti della nazione: gli eccidi delle Fosse Ardeatine, ma anche le stragi anti-italiane delle foibe ad opera dei partigiani iugoslavi; lo sterminio degli ebrei d’Europa, ma anche i genocidi comunisti».
Barbara Spinelli denuncia con forza il mercanteggiamento attorno ai cadaveri dell’uno e dell’altro campo, l’uso politico delle vittime, come se si trattasse di opporre un blocco di memorie contro un altro. Persiste, insomma, in questa rivisitazione della storia del Novecento l’incapacità a pensare in simultanea con la stessa intensità i due totalitarismi, il nazifascismo e il comunismo. Non si capisce che non si fa storia e non si lavora a costruire l’identità nazionale se si crede di agire sul presente avendo ancora la testa all’indietro e parteggiando per l’uno o l’altro sistema totalitario.
OCCORRE ANCHE FAR MEMORIA DELLE PROPRIE RESPONSABILITÀ STORICHE. Il rischio che corriamo noi italiani è di continuare a scegliere tra l’una o l’altra politica commemorativa, che ci fa apparire nel ruolo di vittime sempre incolpevoli, perpetuando, così, con la cattiva coscienza il mito «italiani, brava gente». Dobbiamo, invece, avere il coraggio di ricordare in primo luogo il male che anche noi abbiamo fatto agli altri: negli anni Trenta in Africa Orientale, durante la guerra, e nel 1937 dopo l’attentato ad Addis Abeba contro il maresciallo Graziani; negli anni Quaranta nei Balcani, in stretta collaborazione con i nazisti, contro i resistenti iugoslavi. E non parliamo poi della politica di persecuzione attuata nel ventennio dal fascismo contro le minoranze etniche nel nostro territorio cioè prima della strage orrenda delle foibe. Responsabilità che non giustificano le rappresaglie contro i civili italiani gettati nelle foibe, ma che neppure possono essere ancora taciute e censurate nei libri come nel dibattito politico. Mi pare di poter sottoscrivere le considerazioni con le quali Barbara Spinelli conclude il suo articolo: «Solo così è pensabile una memoria comune del passato, come auspicato da Violante, che superi la disputa astiosa fra memorie di destra e di sinistra. Solo se in comune si ha la memoria del male che in quanto nazione italiana siamo stati capaci di fare, e del modo in cui ci si può liberare dai propri orrori, ribellandosi e resistendo. Solo se si criticano i due totalitarismi del secolo, se si commemorano i morti di Auschwitz come della Kolyma, ma senza dimenticare che vi fu una Resistenza a quei mali, antifascista o anticomunista a seconda delle esperienze nazionali. Altrimenti di una nazione non si ricorderanno che le vittime, mai le rivolte, e l’identità ritrovata – priva ormai di memoria resistenziale – non servirà a fronteggiare i totalitarismi che ritorneranno».
POESIA DEL NOVECENTO. Un dipinto. Un prato quadrato, / cento altissimi cipressi per lato. / Nel mezzo (nessuno sa / in quale anno sia nato) / c’è un grandissimo salice bianco. (Aldo Palazzeschi).
10 ottobre 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il riso e il pianto. Anche se si ride, il cuore può essere triste; l’allegria può nascondere anche le lacrime (Libro dei proverbi). Il ribaltamento dei destini. Disse Gesù: – Beati voi che ora piangete, perché riderete… Guai a voi che ora ridete, perché piangerete (Vangelo di Luca). Il riso che può farci ravvedere. Il riso è talora più adatto a far rientrare gli uomini dai loro errori (Blaise Pascal).
Io sono quel che scrivo. La mia opera vale quello che vale, ma non è un teatro ben organizzato in cui gli spettatori vengono per distrarsi e dove io stesso vado per cercare di distrarli… I miei scritti sono io stesso… Non si affidano menzogne a una rubrica da due soldi. Per questo prezzo non posso darvi che la verità. Ho rispettato la mia vocazione. Mi sembra che io abbia rispettato la mia vocazione; essa non è stata per me una fonte di onori e di vantaggi; io non l’ho trattata come un’amante, ma come una compagna venerabile alla quale Dio mi ha unito. (Georges Bernanos)
LA CHIESA DEVE TACERE, LA CHIESA DEVE PARLARE. «Si tratta per la Chiesa di tacere su quanto riguarda scelte immediate di schieramenti, e di parlare invece su quanto riguarda i principi etici che reggono le scelte politiche. Occorre, infatti, evitare due errori in cui possono cadere i cattolici italiani nel momento presente: quello della depressione, o sterile lamentazione, o irritazione per una loro minor influenza nella società – inseguendo magari sogni di forme di presenza obsolete – e quello del farsi da parte o del rinchiudersi nella critica della modernità. La serena accettazione di essere minoranza richiede, anzitutto, che si traggano tutte le conseguenze, di mentalità e operative, di quella che un tempo fu chiamata la scelta religiosa, da riproporre in modo adatto alle nuove circostanze come scelta evangelica e profetica, come affermazione del primato di Dio e del Vangelo e delle sue conseguenze per il bene della comunità umana. È necessario, da una parte, prendere atto che non è dato oggi di perseguire l’obiettivo di cristianizzazione della società con strumenti forti del potere; dall’altra, preservare con la massima cura e quasi gelosia la differenza e la peculiarità della Parola cristiana rispetto alle parole correnti, sapendo che proprio così la Parola sarà efficace anche per la salvaguardia e la promozione dell’ethos pubblico di una nazione. È richiesto un intervento di tipo etico poiché, nelle scelte politiche che ci stanno davanti, è a rischio non la sopravvivenza della Chiesa in quanto tale, bensì la sopravvivenza del costume cristiano, dell’ethos evangelico, e in ultima analisi di quell’ethos civile condiviso che sta alla base di ogni società democratica» (Carlo M. Martini, Dal Discorso per la festa di S. Ambrogio, 6 – 12 – 1995):
CHE SIGNIFICA LA PAROLA «FINESTRA?». Basta porre la domanda per rappresentarsi l’orrore di una stanza senza finestra. Scrive Aldo Palazzeschi: «Avevo due anni e un amore già: la finestra… Che cosa a quell’età potesse rappresentare la finestra non è facile a dirsi… L’aria, la luce, il mondo, la libertà, la vita?» (Il piacere della memoria).
17 ottobre 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Anche l’universo fisico conoscerà una nuova creazione. La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio. Essa, infatti, è sottomessa alla caducità… e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà dei figli di Dio. Sappiamo bene, infatti, che tutta la creazione geme e soffre nelle doglie del parto (San Paolo).
Ci vuole un prodigio di tenerezza. Chi cerca la verità dell’uomo deve impadronirsi del suo dolore, con un prodigio di compassione. Lì è la nostra gioia. Saper cogliere la propria gioia nella gioia degli altri è il segreto della felicità. Non la felicità, ma la gioia. L’uomo vero non vuole la felicità, vuole la gioia. La divina follia della croce. Il sacrificio della croce non è più soltanto un sacrificio compensatorio; infatti non è solo la giustizia a essere interessata, non essendo la sola oltraggiata. Al crimine contro l’Amore, l’Amore risponde secondo il proprio stile e la propria essenza: con un dono totale, infinito. (Georges Bernanos)
LE IMMAGINI CHE DI SÉ DETTE ALDO PALAZZESCHI. Aldo Palazzeschi (1885 – 1974) non rientra nel giro dei grandi della letteratura del nostro secolo, ma è pur sempre l’Autore di libri come il Codice di Perelà, il Palio dei buffi, Le sorelle Materassi, il Doge e il bellissimo Poemi. Renato Serra lo definì «poeta senza passioni e senza musica», ma a torto.
Con le sue straordinarie variazioni di stile e di linguaggio egli voleva «far saltare le vecchie impalcature»; l’incanto della sua pagina sta, però, soprattutto in una sorta di ironia innocente, via quasi obbligata per uno spirito che tendeva a cogliere i sentimenti profondi attraverso i modi con cui ci si rapporta alle piccole cose. Palazzeschi si maschera da clown, da «omino di fumo» ed esalta la parodia come «la sola facoltà divina dell’essere umano». In realtà gli è insopportabile la disgregazione, il caos, lo sfarinamento del senso delle cose e delle convivenze: «Non scrive che una parola, ben strana, / la penna dell’anima mia: / follia».
A me pare che il giudizio di Ardengo Soffici su di un’opera di Palazzeschi designi bene il carattere dell’intera produzione dello scrittore toscano: essa è «il cantico mattutino di uno spirito tornato a galla da un tuffo nella disperazione». Il poeta-romanziere, in realtà, non si rassegna a «fondare la propria vita sopra un punto interrogativo» e si lascia sorprendere a pregare: «Dio, / abbi pietà dell’ultimo tuo figlio, / aprimi un nascondiglio / fuori dalla natura». Piccole case come la Zara di Parma e le Edizioni Empiria, vanno riproponendoci i testi di Palazzeschi. Forse sarà solo grazie al loro coraggio se potremo riascoltare le immagini non sostituibili che di sé dette l’Autore di Chi sono?, Rio Bo, Habel Nassab, La fontana malata.
24 ottobre 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. La grande e stupefacente sensazione. Ho la grande e stupefacente sensazione di qualcosa lassù… Non è solo della bellezza che parlo, ma di una realtà che basta a se stessa ed è pacificamente compiuta (Virginia Woolf. La frase, tratta dal suo Diario, attesta un fatto: almeno nel pensarla e nello scriverla, la scrittrice andò oltre il deserto del nichilismo). Perché piace? Una cosa non è bella perché piace, ma piace perché è bella. Il piacere estetico è quindi effetto del bello, non causa (Giorgio Giannini). I capolavori. Le più grandi opere sono al tempo stesso intransigenti nel profondo del loro messaggio e disponibili in mano ai critici. Li lasciano fare (Giovanni Macchia). Non lontano da noi. Vorrai fuggire sempre più lontano? / Bada che il bene ti è così vicino. / Impara dunque a cogliere la gioia, / perché la gioia è sempre accanto a te (Sono quattro versi di Goethe. Ho amato il nome del traduttore, Gilberto Forti, ma non l’opera del poeta da cui sono tratti). Come ci si innamora. Nessuno comincia ad amare una donna se prima non si è dilettato della sua bellezza. Né, tuttavia, avviene che appena gode del suo aspetto la ami. Segno di amore completo è il fatto che quando essa è assente la desidera, avverta la sua assenza come un grave peso e ne brama la presenza (Tommaso d’Aquino).
OGNI UOMO È UNICO. Ogni uomo è unico. Un uomo che scompare si porta via con sé un mondo che non era stato mai visto come l’aveva visto lui e che come l’ha visto lui non si ritroverà mai. È qui che andrebbe richiamata alla memoria, in termini semplici, quella verità fondamentale di cui il nostro secolo non vuole sapere nulla, e cioè che non ci sono mai state due anime in ogni punto e perfettamente simili tra loro. Per quanto esiguo sia il legame che ci unisce gli uni agli altri, è una chimera credere, come fa Teilhard de Chardin, a una salvezza collettiva. Ogni anima viene salvata come se fosse sola al mondo. Ecco cosa conferisce all’essere più insignificante tra noi un valore singolare. Nessuno è insignificante e la morte di un uomo, chiunque egli sia, è sempre un avvenimento degno di nota. Per cui si contino finché si vuole gli uomini a milioni e decine di milioni, dato che la curva demografica è affetta da inflazione galoppante, e stiamo andando verso un mondo che è più popoloso di un formicaio, e meno organizzato, a giudicare da quello che si profila all’orizzonte a livello di fame, terrori e ingiustizie – rimane il fatto che non può che trattarsi se non di milioni o miliardi di individui, ognuno dei quali è unico.
PENSIERI DI GEORGES BERNANOS SULLA SANTITÀ. 1) Non è un lusso. I moralisti considerano la santità un lusso. La santità è una necessità. La santità, i santi, custodiscono quella vita interiore senza la quale l’umanità si degraderà fino a morire. È nella propria vita interiore che l’uomo trova le risorse necessari per sfuggire alla barbarie o a un pericolo peggiore della barbarie, la schiavitù bestiale del formicaio totalitario.
2) Santità e agàpe. I santi hanno il genio dell’amore.
3) Santità e spirito d’infanzia. Solo i santi sono bambini.
4) L’allegria e la tristezza. L’allegria dei santi che ci rassicura per una specie di bonarietà familiare non è sicuramente meno profonda della loro tristezza, ma noi la crediamo volentieri ingenua, perché non lascia trasparire alcuno sforzo né alcun doloroso ritorno su se stessi.
5) Non ha formule e, in un certo senso, le ha tutte. La santità non ha formule o, per meglio dire, le ha tutte. Essa riunisce ed esalta tutte le potenze, realizza la concentrazione orizzontale delle più elevate facoltà dell’uomo. Ma, soltanto perché possiamo conoscerla, esige da noi uno sforzo e che partecipiamo in qualche misura al suo ritmo, al suo immenso slancio.
L’ANGOLO DELLA POESIA. L’arte di perdere. L’arte di perdere non è troppo ardua. / Tante cose dimostrano l’intento / d’essere perse. Se avviene, non è un dramma. / Perdi una cosa al giorno. Accetta l’ansia / delle chiavi smarrite, dell’ora male spesa. / L’arte di perdere non è troppo ardua. / Perdi di più e più in fretta, per far pratica. / Luoghi, nomi, e dov’era che volevi / fare un viaggio. Nulla sarà un dramma… (Elisabeth Bishop)
31 ottobre 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. L’esito finale. La cupidigia toglie di mezzo colui che ne è dominato. Bontà e fedeltà. Bontà e fedeltà non ti abbandonino; legale intorno al tuo collo, scrivile sulla tavola di carne del tuo cuore. I beffeggiatori e gli umili. Dei beffardi Dio si fa beffe e agli umili concede la grazia. (Libro dei Proverbi)
La peggiore disgrazia. La peggiore disgrazia che possa capitare a un uomo è essere soddisfatto di sé. Durezza e sensibilità. L’uomo di questo tempo ha il cuore duro e la pancia sensibile. Il tratto più caratteristico. Il tratto più caratteristico dell’uomo moderno è il disprezzo delle evidenze morali, l’immensa capacità di distrazione. La più terribile fra le macchine. La più terribile fra le macchine è quella per imbottire il cervello, per liquefare l’intelligenza. La sorte degli imbecilli. Essere informato di tutto e non capire nulla: è questa la sorte degli imbecilli. (Georges Bernanos)
A PROPOSITO DI PREMI LETTERARI. Di Ennio Flaiano l’Adelphi ha pubblicato di recente La solitudine del satiro, edito per la prima volta nel 1973. Il libro raccoglie articoli e brevi racconti apparsi sui giornali negli Anni Cinquanta; ma l’intelligenza e l’ironia di chi li scrisse sono tali da renderne sempre attuali e sferzanti le annotazioni. A pagina 250 Flaiano racconta un’intervista a Vincenzo Cardarelli, a cui era presente.
Cardarelli, che ne pensa dei premi letterari?
Non mi faccia domande cretine.
Dunque, è contrario ai premi letterari?
Se si tratta di un regalo, no. Se si tratta di un giudizio, sì. Io trovo indecente che gli scrittori si riuniscono per giudicare l’opera di un altro scrittore…
Lei ha già deciso per chi votare quest’anno al premio Strega?
Sì, ma non ho letto niente di ‘Suo’! Ci mancherebbe…
Come mai? Si fida?
No. Questi voti si danno con un certo disprezzo.
Fin da giovane feci un proposito, a cui mi sono sempre rigorosamente attenuto: non leggere mai un libro premiato da una qualche giuria prima che fossero passati almeno cinque anni. È stato, pertanto, un vero godimento rispondere, in tutta verità, a chi mi chiedeva che cosa pensassi del Libro Di Cui Tutti Parlano: «Lo leggerò solo quando nessuno ne parlerà più».
IMPARARE A VEDERE «DAL BASSO» GLI AVVENIMENTI DELLA STORIA. Nelle pagine indirizzate agli amici da Dietrich Bonhoeffer per il Natale 1942, troviamo queste parole:
«Resta un’esperienza di incomparabile valore l’aver imparato a vedere dal basso i grandi avvenimenti della storia del mondo, nella prospettiva degli esclusi, dei sospettati, dei maltrattati, dei deboli, degli oppressi e derisi, in breve dei sofferenti. È già tanto se in questo tempo l’amarezza o l’invidia non hanno divorato il cuore, ma anzi guardiamo con occhi nuovi la grandezza e la meschinità, la felicità e l’infelicità, la forza e la debolezza, e la nostra capacità di vedere la grandezza, l’umanità, il diritto e la misericordia è diventata più chiara, più libera, più incorruttibile, e la sofferenza personale è una chiave più idonea, un principio più fecondo della felicità personale nell’accedere al mondo con la riflessione e la pratica. Tutto dipende solo dal non trasformare questa prospettiva dal basso in uno schierarsi con gli eterni scontenti, e invece nel far giustizia e nell’affermare la vita in tutte le sue dimensioni, sulla base di una contentezza maggiore i cui fondamenti non sono né in alto né in basso, ma al di là di queste dimensioni».
DI FRONTE ALLA MORTE. Dato che la morte, a ben guardare, è la vera meta della nostra vita, già da un paio d’anni sono in buoni rapporti con questa vera, ottima amica dell’uomo, così che la sua immagine non ha per me più niente di terribile, ma al contrario, è divenuta molto consolante. Ringrazio Dio di avermi concesso la fortuna e l’occasione di riconoscere nella morte la chiave della nostra vera beatitudine. Non vado mai a dormire senza pensare che, per quanto io sia giovane, il giorno dopo potrei non esserci più… Ringrazio tutti i giorni il Signore per la beatitudine che questo stato d’animo produce in me e che auguro di cuore a tutti gli uomini (Wolfgang Amadeus Mozart, Lettera al padre del 4 aprile 1787).
7 novembre 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Saper largheggiare… C’è chi largheggia e la sua ricchezza aumenta, c’è chi risparmia oltre misura e finisce nella miseria. Donna, donna. Un anello d’oro al naso d’un porco, tale è la donna bella ma priva di senno. La donna perfetta è la corona del marito, ma quella che lo disonora è come carie nelle sue ossa. Giustizia è verità. Chi aspira alla verità proclama la giustizia. (Libro dei Proverbi)
Comprensione e distacco. Più si cerca di comprendere gli altri, più ci si distacca da sé, e distaccarsi da sé è già il paradiso. Assumersi il proprio rischio. Ogni uomo degno di questo nome è capace di assumersi il proprio rischio. Il più grande pericolo sarebbe non accettare se stessi. La disgrazia non è essere disprezzati, ma disprezzarsi. (Georges Bernanos)
L’IRONIA DELLA SORTE E LA REALTÀ DELLO SPIRITO. Per una bizzarra ironia della sorte, l’uomo il cui orecchio interno era, per così dire, il massimo grado dell’umana perfezione, aveva un orecchio esterno difettoso e malformato. L’orecchio sinistro di Mozart mancava completamente di sinuosità, non aveva la sua «conca». Quell’anomalia ora è detta «orecchio di Mozart». E che dire della progressiva, inesorabile perdita dell’udito che accompagnò per anni la produzione di Beethoven? La musica che l’orecchio non percepiva gli risuonava sempre più solo au dedans, nell’interiorità da cui sgorgava. Io ho sempre visto in ciò una «prova eroica» della spiritualità dell’anima e non posso fare a meno di commuovermi quando penso che la Missa solemnis, la Nona sinfonia e gli Ultimi sei Quartetti furono composti da Beethoven proprio quando la sua devastante infermità era divenuta totale. Per questa precisa ragione le ultime opere di quel genio vanno impresse col fuoco nei nostri cuori: esse meritano di essere consegnate ai secoli che verranno a testimoniare la realtà spirituale e la grandezza dell’anima umana.
ERASMO: QUANDO LA PIETÀ È: EMPIETÀ. Preghi Dio perché non ti sorprenda una morte improvvisa, ma non lo preghi perché ti conceda un’anima migliore sì che la morte ti trovi preparato. Non pensi a mutar vita, e tuttavia chiedi a Dio di non morire. Che ti proponi, dunque, quando preghi così? Evidentemente, di essere in grado di peccare quanto più a lungo è possibile! Preghi di essere ricco e non sai far uso delle ricchezze: ma, allora, questo non è un pregare per la tua propria perdizione? Preghi per essere in buona salute e abusi della salute: ma la tua pietà, in questo caso, non è empietà? (Erasmo da Rotterdam, Manuale del soldato cristiano, edito nel 1504).
14 novembre 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il giusto momento. Bisogna essere in grado di cogliere il momento giusto per parlare e quello per tacere. Sarebbe assai meglio… Non potremmo mai sapere quale arte renda migliore se stessi, se ignoriamo chi siamo noi stessi. Era forse un buono a nulla colui che ha posto l’iscrizione sul tempio di Delfi: conosci te stesso? Che sia facile o difficile conoscere se stessi, per noi la questione si pone così: conoscendo noi stessi potremo prenderci cura di noi, mentre se ignoriamo ciò che siamo, non potremo far proprio alcunché (Platone).
Quando la sapienza entra in un’anima. La sapienza non entra in un’anima che opera il male, né abita in un corpo schiavo del peccato. Il santo spirito che ammaestra rifugge dalla finzione, se ne sta lontano dai discorsi insensati, è cacciato al sopraggiungere dell’ingiustizia. La sapienza è uno spirito amico degli uomini (Libro della Sapienza). L’ora degli uomini della provincia e della periferia. Poiché le civiltà sono qualcosa di finto, nella vita di ognuna viene un momento in cui il centro non tiene più. Ciò che allora le salva dalla disintegrazione non è la forza delle legioni, ma quella della lingua. Così fu per Roma e, prima, per la Grecia ellenica. Il compito di tenere, allora, ricade sugli uomini delle province, della periferia. Contrariamente a quanto si crede di solito, la periferia non è il luogo in cui finisce il mondo – è proprio il luogo in cui il mondo si decanta (Iosif Brodskij).
I LIBRI, I MIEI MIGLIORI AMICI. Erasmo adora leggere con la penna in mano. Parla delle sue letture con entusiasmo. I libri sono i suoi migliori amici. «Mi chiedi – scrive a uno studente – quali sono le mie migliori occupazioni. Mi occupo dei miei amici e mi trovo bene nella loro gradevole intimità. “Ma, dirai, chi sono dunque questi amici di cui ti vanti, povero diavolo? chi desidera vederti e starti a sentire?” Non nego che siano numerosi gli amici dei ricchi, ma nemmeno i poveri ne mancano e sono forse loro che posseggono gli amici più sicuri e più gentili. È in loro compagnia che mi chiudo nel mio cantuccio e, fuggendo la folla incostante, o mormoro loro dei dolci discorsi o presto orecchio a ciò che mi dicono a bassa voce, conversando con loro come farei con me stesso. C’è niente di meglio? Questi amici non nascondono mai i loro segreti, ma, con perfetta discrezione, mantengono quelli che si confidano loro. Non ripetono nessuno dei discorsi a cui ci si lascia andare un po’ troppo liberamente tra intimi. Vengono, se sono invitati; altrimenti si guardano bene dall’imporsi. Prendono la parola, se ne sono pregati, altrimenti stanno zitti. Parlando di ciò che si vuole, tanto e così a lungo quanto si desidera. Non vi adulano, non vi mentono mai, non dissimulano nulla. Vi mostrano francamente i vostri difetti. Ciò che dicono è gradevole o utile. Vi tengono a freno nella prosperità, vi consolano nella tristezza, restano fedeli quando muta la fortuna. Vi accompagnano nelle vostre prove e restano con voi fino all’ora suprema. Niente di più sincero dei rapporti che hanno tra di loro. Tali sono, mio caro, gli amici con cui mi rifugio nel mio ritiro. Con quali ricchezze, con quali regni, scambierei queste ore di ozio studioso? Che la mia metafora, tuttavia, non t’induca in errore: quanto ho detto fin qui degli amici intendilo dei libri, la cui compagnia mi rende pienamente felice, col solo rimpianto di non dividere questa felicità con te» (Opus epist. Allen ed. I, pp. 288 – 9).
In questa lettera che è della primavera del 1500, Erasmo riprende un tema caro al nostro Petrarca, primo vero iniziatore dell’Umanesimo, e lo fa con una vivezza e con un calore che afferrano l’anima.
NON INGANNI LA GIOIOSA PROFUSIONE DI BELLEZZA. In Mozart la profusione di bellezza è straordinaria e insieme continua; se poi si mette nel conto la sbalorditiva precocità del suo genio, si capisce come si sia formata la leggenda della «facilità» delle sue composizioni. Ma a smentirla sta quello che Mozart stesso ha scritto in una lettera ad un amico. «Sbaglia chi crede che la mia arte sia frutto di ispirazione. Le posso assicurare, caro amico, che nessun altro più di me ha dedicato tanto tempo e tanta preoccupazione ai problemi della composizione. Non esiste un solo grande musicista la cui opera io non abbia diligentemente studiato più e più volte». Il commento più appropriato a queste affermazioni di Mozart ce lo dà Arthur Rubinstein: «Come mai tutto ciò che Mozart scrisse sembra così lineare? La via che conduce a tale semplicità è ardua, ma non deve mai sembrare tale».
21 novembre 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il divertimento perverso dello stolto. Il divertimento dello stolto è fare il male (Libro dei Proverbi). Il riso degli stupidi. Il vestito di un uomo, il riso della sua bocca e la sua andatura rivelano quello che è. Lo stupido alza la voce mentre ride; l’uomo saggio sorride silenziosamente. Orribile è il discorso degli stupidi, il loro riso dilaga tra bagordi peccaminosi (Libro del Siracide).
Oltre le definizioni. L’uomo supera sempre le definizioni con le quali si pretende di delimitarlo. L’uomo nemico di se stesso. Certamente, l’uomo è dappertutto il nemico di se stesso, il proprio segreto e subdolo nemico. Il male gettato in qualsiasi luogo fruttifica; al seme del bene, invece, per non essere soffocato, occorre una sorte straordinaria, una prodigiosa fortuna. Ad essi è dato il Regno. Solo i santi sono fanciulli. L’importante. L’importante non è accelerare o ritardare il corso delle cose; l’importante è aiutare a mantenere in piedi un piccolo numero di uomini capaci di fierezza (Georges Bernanos).
DOV’È L’ERRORE DI UN CERTO MACHIAVELLISMO? In una nota introduttiva al Principe Bettino Craxi, atteggiandosi anch’egli a interprete di Machiavelli, come del resto aveva fatto a suo tempo Mussolini, si era chiesto «dov’è l’errore di certo machiavellismo?». La risposta merita di essere attentamente meditata per quello che dice nel passaggio decisivo: «Quest’errore oggi lo possiamo leggere benissimo: è la teoria della doppia morale, una per il principe l’altra per i sudditi, una per lo Stato l’altra per i cittadini, una per il partito e un’altra per il popolo. La stessa logica, l’idea che si possa fare a meno della morale comune, che ha alimentato gli anni di piombo, il terrorismo. L’errore è in quel machiavellismo di comodo che ha preteso di costruire un diritto personale e privato per i potenti, e uno diverso per le genti, uno per chi governa e un altro per chi è governato: che ha ridotto l’opera del Segretario fiorentino alla legittimazione del doppio gioco e del tradimento».
Chi osserverà che una così nobile riflessione non è farina del sacco di Ghino di Tacco è, in effetti, difficilmente smentibile. Tuttavia qui non interessa sapere se a scriverla è stato Luciano Pellicani – quel galantuomo che dirigeva Mondoperaio e che credeva veramente nell’alto valore etico-politico del socialismo democratico – dal momento che il saggio su Machiavelli porta la firma di Craxi, che se ne è assunta in tal modo la paternità. Il problema vero è, invece, come mai una stessa persona abbia potuto sottoscrivere quella verità e nello stesso tempo, praticamente, calpestarla con strafottente arroganza. In realtà quella pagina costituisce, praeter intentionem, la radiografia e insieme il giudizio di condanna di un certo modo di far politica. Occorre, però, aggiungere che sono parecchi coloro che meriterebbero, insieme a Craxi, di essere insigniti del titolo di gran guru della doppia morale.
PACE E VERITÀ. «La pace nella verità conosciuta, nella giustizia amata, nella felicità conquistata. La pace scaturisce dalla verità che si possiede nell’impeto della sua veemenza non mistificata: l’errore della mente è alla radice di ogni guerra in noi come fuori di noi. La guerra, ch’è la pratica accelerata della violenza, ha nell’errore della mente, nell’errore cercato, plasmato, disciolto dal tortuoso gomitolo dell’egoismo e verniciato cogli arzigogoli della più servile filosofia, il suo primo responsabile: le scintille che hanno appiccato fuoco al mondo sono sempre scappate dal cervello impazzito di qualche filosofo. Ma l’incendio non nascerebbe, né divamperebbe la scintilla se il terreno non fosse già cosparso di materiale infiammabile…» (Cornelio Fabro).
28 novembre 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il riso dello stupido. Come crepitio di pruni sotto una caldaia, è il riso dello stupido (Libro del Qoelet – In ebraico il versetto è onomatopeico – Kegôl hassirîm tahat hassir, ken sehop hakkesil – e il sibilo che produce la lettura rende molto bene la vera realtà del riso degli stupidi che è «fumo, fiamma caduca, sterpaglia subito bruciata, cenere», annota con la solita finezza Gianfranco Ravasi).
Se è un’avventura spirituale. Tutte le avventure spirituali sono calvari. Davanti a una pagina bianca. Ho imparato a soffrire un giorno intero davanti a una pagina bianca, piuttosto che abbandonare un’idea giusta. Il duplice impegno. Io cerco di comprendere. Credo che mi sforzi di amare. (Georges Bernanos)
L’INCESSANTE DILEMMA DELLO SCRITTORE. Siamo quasi indotti a chiederci se una letteratura impeccabile possa esistere. Il fatto è che, al di là delle sue stesse intenzioni, ogni scrittore, lo sappia o meno, è causa di peccato, perché ogni anima è vulnerabile. Non appena uno scrittore sfiora i sensi – e volete dirmi che tipo di romanzo potrà scrivere se non ci ha a che fare? – può essere sicuro che, tra i suoi lettori, ce ne sarà uno in grado di prendere fuoco. Purtroppo, al giorno d’oggi, è soprattutto per costui che egli scrive, con il desiderio di farlo arroventare. Ma quelli che una volta si chiamavano passi osé, timidi osé seguiti in genere da tre puntini che stavano a indicare il ritrarsi in preda alla vergogna, senza andare avanti, ora non ci sono più, dato che la nozione di peccato è in via di rapida estinzione. Ciò che Anatole France chiamava, prima del diluvio, la «voluttà di perdizione» è qualcosa di ampiamente «superato». Rimane, però, il problema dello scrittore che crede ancora alla propria responsabilità. «Se persino la medicina – scrive Julien Green – è fatta di veleni, come si fa a pretendere che uno scrittore, impugnando la penna, non tremi? Romanziere o scrittore di memorie, egli sa benissimo che, se la verità è fatta di bene e di male, si troverà di fronte a un incessante e insopportabile dilemma. Come dosare quello che bisogna dire e quello che sarebbe meglio sfiorare senza arrivare a dirlo effettivamente?» (Sulla libertà, Genova 1990, pp. 16 – 17).
L’IDENTIKIT DEL CRISTIANO TRACCIATO DA PAOLO «Il vostro amore sia sincero! Fuggite il male, seguite fermamente il bene. Amatevi gli uni gli altri, come fratelli. Siate premurosi nello stimarvi gli uni gli altri. Siate impegnati, non pigri: pronti a servire il Signore, allegri nella speranza, pazienti nelle tribolazioni, perseveranti nella preghiera. Siate pronti ad aiutare i vostri fratelli quando hanno bisogno, e fate di tutto per essere ospitali.
Chiedete a Dio di benedire quelli che vi perseguitano; di perdonarli, non di castigarli. Siate felici con chi è nella gioia. Piangete con chi piange. Andate d’accordo tra di voi. Non inseguite desideri di grandezza, volgetevi piuttosto verso le cose umili. Non vi stimate sapienti da voi stessi!
Non rendete a nessuno male per male. Sforzatevi di fare il bene dinanzi a tutti. Se è possibile, per quanto dipende da voi, vivete in pace con tutti. Non vendicatevi… Anzi, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare, se ha sete, dagli da bere. Comportati così, e lo farai arrossire di vergogna.
Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» (San Paolo, Lettera ai Romani 12, 9 – 21).
POESIA DEI NOSTRI GIORNI. Non tardare. Non tardare gioia a cantare per noi: / solleva le nostre spalle / e gli occhi illumina / del bello che la vita circonda. Quando t’incontrerò. Dite ho immaginato tutto… / Ma quanto t’incontrerò / l’impossibile sarà non stupirsi. (Marcella Tassinari, Arriverò come vento, Brescia 1994)
5 dicembre 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Auguri a chi è innamorato. Trova gioia nella donna della tua giovinezza: cerva amabile, gazzella graziosa, essa s’intrattenga con te; le sue tenerezze ti inebrino sempre. Sii tu sempre invaghito del suo amore. Ciò che non giova. Non giovano i tesori male acquistati, mentre la giustizia libera dalla morte. L’odio e l’amore. L’odio suscita litigi, l’amore ricopre ogni colpa. (Libro dei Proverbi)
La domanda inevitabile. A che vi servirebbe fabbricare la vita stessa, se avete perduto il senso della vita? Il male degradato ad autodistruzione. Per l’uomo moderno, esaurito dal punto di vista nervoso, il male non è una rivolta ma una fuga, una maniera di distrarsi (distrahere), di uscire fuori di sé, di spogliarsi della propria persona. Non ci si salva da soli. Un cristiano non si salva da solo. Si salva soltanto salvando gli altri. Le menzogne di recupero. L’esperienza della vita ci insegna che le menzogne più inutili sono quelle che pretendono di mascherare a posteriori gli errori o le colpe, le menzogne di scusa, che si potrebbero chiamare «menzogne di recupero». (Georges Bernanos)
MOZART, PER OLTREPASSARE IL NICHILISMO. 1) «Ciò di cui Lessing riesce a convincerci solo grazie a una pletora di parole, appare chiaro e innegabile nel Flauto magico: uno struggente desiderio di luce e sole. C’è qualcosa, nei toni dell’opera di Mozart, che richiama la gloria dell’alba sospinta verso noi come la brezza mattutina che disperde le ombre ed evoca il sole» (Friedrich von Schiller).
2) «La grande arte è sempre una testimonianza dell’esistenza dell’Assoluto; ecco perché l’arte più grande è anche quella che offre la maggiore consolazione – anche se, provvisoriamente, può indurre alla massima disperazione» (Peter Shaffer in Opera Anedoctes, di Ethan Mordden).
3) «Non possiedo il dono – dono che bramerei ardentemente avere – di trovare le parole adatte a descrivere la musica. Nel corso di tutta la mia vita, Mozart è stato un antidoto a tutte le seduzioni del nichilismo del nostro mondo. Adoro Mozart per la sua capacità di essere al tempo stesso profondo e razionale, una combinazione spesso ritenuta impossibile. Come anche Rossini riconobbe, nessun compositore fu brillante come Mozart» (Allan Bloom).
I GRADI AMICI: JOHN COLET ED ERASMO. Tra il maggio 1499 e il gennaio 1500, Erasmo soggiorna per la prima volta in Inghilterra. Là incontra amici indimenticabili. Due sopra tutti gli altri: il teologo umanista John Colet e il giurista filologo Tommaso Moro. Colet esercita un’influenza decisiva sull’evoluzione spirituale di Erasmo. Erasmo nutre una profonda ammirazione per Colet, a cui indirizza una lettera piena di fiducia. «Vedi in me – egli scrive – un uomo di fortuna modesta, o, per meglio dire, del tutto privo di fortuna, alieno da qualunque ambizione, molto incline ad amare, che ha una certa consuetudine con le lettere e le ammira in sommo grado. Un uomo che ha un religioso rispetto per l’onore degli altri, ma che non fa nessun conto del suo; che volentieri si riconosce inferiore a tutti in fatto di scienza, ma a nessuno in fatto di lealtà; semplice, aperto, sincero, del pari incapace di fingere o di dissimulare; con un carattere timido ma retto. Un uomo di poche chiacchiere; un uomo, infine, da cui nient’altro puoi aspettarti se non affetto. Se puoi, Colet, amare un uomo di questa specie, se lo giudichi degno della tua amicizia, allora annovera Erasmo tra i tuoi amici».
POESIA DEI NOSTRI GIORNI. È su questa nostra terra che si può sognare. Il deserto lunare vi accolse, / polvere e tenebre e silenzio di vita. / Quaggiù, a plenilunio, il mare si gonfia / l’erba cresce, sonoro è il coro dei grilli: / si può sempre sognare. Se le parole potessero aprirsi. Se le parole potessero aprirsi / come i fiori nei campi, / come un volo d’uccello, / un solo linguaggio / parlerebbero le creature. Quando giunge l’ora del silenzio. Quando giunge l’ora del silenzio, / il momento delle mani tese, / se ti offriamo quattro ossa / e un cuore stanco, / tu conosci se è amore / che in tanta fatica si nasconde. (Marcella Tassinari)
12 dicembre 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Se il riso è sguaiato e insensato. Non ridere con tuo figlio per non rattristarti in seguito, quando ti farà digrignare i denti. Rende il cuore migliore. È meglio la tristezza del riso perché un volto sofferente rende il cuore migliore. Ciò che non bisogna fare mai. Non deridere mai un uomo dall’animo amareggiato. (Libro del Siracide)
L’inferno. L’inferno è non amare più. Il veleno. È l’impostura che avvelena. Gli amici. Noi non ci vediamo mai bene, se non attraverso le nostre amicizie. Al termine della notte. Andando coraggiosamente fino al termine della notte, s’incontra un’altra aurora. Ciò che di grande si fa nella vita. Tutto ciò che di grande si è fatto nel corso della storia potrebbe così definirsi: un sogno di fanciullo realizzato nell’età matura. (Georges Bernanos)
IL «BUCO NERO» NELLE COSCIENZE ED IL BISOGNO DI UNA COMUNE RELIGIONE CIVILE. Nessuna generazione è stata mai altrettanto sana, longeva, nutrita e informata come quella che oggi detiene responsabilità e potere nell’Occidente industrializzato. I cinquant’anni di pace trascorsi dalla fine del secondo conflitto mondiale costituiscono un unicum nella storia moderna e contemporanea e gli storici faticano a trovare convincenti analogie. Lo sviluppo – economico, sociale, scolastico – ha riplasmato leggi e costumi. Eppure l’inquietudine è forte, e non solo per il mantenimento degli standard di vita raggiunti dai ben noti «due terzi» ammessi alla prosperità. Gli osservatori s’interrogano sui guasti o sui mali del nostro tempo, cercando di dare un nome ed un volto alla vertigine che colpisce la sapienza civile, a tutti i gradini della scala sociale. Cosa insidia, dunque, la pubblica felicità? L’immagine stessa della malattia è tornata di frequente nella storia europea degli ultimi secoli. C’era il «malato d’Europa», l’Impero Ottomano, e c’era la «decrepita Austria», che non padroneggia più le sue dodici nazionalità. E poi le «democrazie plutocratiche dell’Occidente», afflitte dal benessere materialistico sommato al nichilismo dei più. Ora individuare le ragioni del proprio malessere tocca alla nostra generazione, che credeva di aver trovato, a partire dal 1945, la ricetta giusta di libertà e democrazia, sviluppo e perequazione. In questo scenario come non chiedersi di che cosa oggi ha più bisogno il nostro Paese? Che cosa, insomma, ci manca perché l’Italia torni a essere sentita come «nazione» e «patria» dagli italiani?
«Giunti alla fine del secolo, chiusa l’emergenza ad Est, ci si rende conto – risponde Giorgio Rumi – del “buco nero” che attrae e dissolve le coscienze e nessuna religione civile si è resa disponibile per guidare i comportamenti e per legare insieme i destini e le responsabilità. Ma di essa abbiamo bisogno per la fondazione etica della Repubblica, per la condivisione dell’unica patria e il fattivo rispetto per la ricerca dei fini ultimi dell’uomo. Il compito non è impossibile. Gli uomini della Costituente, assai diversificati quanto a provenienze ideali, seppero trovare il senso ed il gusto dell’incontro reciproco, che era anche disponibilità ad intendere le ragioni profonde dell’essere italiani» (L’Osservatore Romano, 25 ottobre 1996).
«VI GIOCANO TUTTE LE EMOZIONI, MA QUASI GIÀ IN UNA TRASPOSIZIONE CELESTE».
1) «Di tutti i musicisti, Mozart è quello da cui la nostra epoca ci ha più allontanati. Parla sempre a mezza voce, mentre ormai il pubblico sente soltanto le grida» (André Gide, Diario).
2) «La gioia di Mozart: una gioia che sentiamo duratura; la gioia di Schumann è febbrile e si sente che viene tra due singhiozzi. La gioia di Mozart è fatta di serenità; e la frase della sua musica è come un pensiero tranquillo; la sua semplicità non è che purezza; è una cosa cristallina; vi giocano tutte le emozioni, ma quasi già in una trasposizione celeste. “La moderazione consiste nell’essere commossi come gli angeli”, sostiene Juabert. Bisogna pensare a Mozart per capire bene queste parole» (ibid.).
3) «Secondo te la venerazione che nutro per Mozart è del tutto contraria alla mia natura musicale. Ma forse la ragione è che – essendo figlio del mio tempo – mi sento distrutto e spiritualmente senza punti fermi. Ecco perché trovo consolazione e sollievo nella musica di Mozart, in cui egli esprime quella gioia di vivere che fa parte del suo temperamento sano e integro» (Pëter Il’ic Cajkovskij, Lettera a Nadezda von Meck).
19 dicembre 1996.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Unisce gli esseri così intimamente da percepire ogni loro voce. Lo spirito del Signore riempie l’universo e, tenendo unite nel suo abbraccio tutte le cose, conosce ogni voce. Uccide l’anima. Guardatevi dal vano mormorare, preservate la lingua dalla maldicenza, perché neppure una parola sussurrata nel segreto sarà senza effetto: una bocca menzognera uccide l’anima. (Libro della Sapienza – Testo che esprime mirabilmente l’intima presenza di Dio trascendente alla sua opera)
La libertà di spirito e l’impegno. Vivi come se dovessi morire domani e lavora come se dovessi vivere eternamente. Possa sorprendermi al lavoro. La morte mi coglierà un giorno; possa sorprendermi al lavoro piuttosto che in ozio. (Erasmo da Rotterdam a Carlo Utenhova in una lettera del 1529)
NATALE IN UN MONDO CHE HA PERDUTO «LO SPIRITO DELL’INFANZIA». «Natale è la festa dell’infanzia. Questo giorno è quello di tutte le speranze umane e, per un cristiano, la festa dell’umanità divinizzata nel misterioso piccolo bambino e nella greppia continuerà a brillare ogni anno sopra un mondo accanito a perseguire, costi quel che costi, la sinistra esperienza di una civiltà despiritualizzata, di una civiltà della materia che pretende di ricreare l’uomo a propria immagine e somiglianza e che, in nome di una giustizia e di una uguaglianza astratte, rovina a poco a poco la persona umana, resa a poco a poco succube di una mostruosa pressione sociale che mena dritto a quella Schiavitù Totale, di cui l’uomo moderno deve cercare il modello presso le termiti o le formiche. Natale è la festa dell’infanzia. Abbiamo il diritto di domandarci se ci sanno ancora per lungo tempo notti di Natale, con i loro angeli e pastori, per questo mondo feroce, così lontano dall’infanzia, così estraneo allo spirito dell’infanzia, al genio dell’infanzia, questo mondo con il suo realismo limitato, con il suo disprezzo del rischio, con il suo odio di ogni sforzo, che si accorda molto meno paradossalmente di quanto si pensi al suo delirio d’azione, alla sua agitazione convulsa. Che ci verrebbe a fare, in un mondo come questo, un giorno consacrato da duemila anni non soltanto al più augusto mistero della fede, ma all’infanzia eterna che, a ogni generazione, fa debordare attraverso le nostre cloache il suo flusso irresistibile di entusiasmo e di purezza? Natale è la festa dell’infanzia» (Georges Bernanos, Français, si vous saviez, ed. de la Pléiade, p. 271).
«LA PACE, UNA CAUSA PERFETTAMENTE GIUSTA». All’alba dell’età moderna si levò, instancabile e coraggiosa, la voce di Erasmo in difesa della pace. Il rifiuto della guerra è in Erasmo un postulato e un imperativo della sua fede in Cristo, il principe della pace. Ecco un brano della lettera ad Antonio di Bruges, in cui dà voce alla sua lucida convinzione pacifista. Scrive Erasmo: «Mi sono stupito che, non dico dei cristiani, ma semplicemente degli uomini arrivino a tal punto di follia da dedicare tanti sforzi, tanto denaro e tanto coraggio ad assicurarsi la mutua perdita. Che facciamo durante tutta la nostra vita se non la guerra? Non tutti gli animali si battono; solo le fiere. E non si battono nell’ambito di una medesima specie. Si battono con le loro armi naturali, e non come noi, con macchine nate da un’arte diabolica. Non si battono senza ragione, ma per i loro piccoli e per il cibo. La maggior parte delle nostre guerre nasce dall’ambizione, dalla collera, dalla lussuria o da altra malattia dell’anima. Infine gli animali non vanno a morire per ranghi serrati, come noi.
Può esserci al mondo una cosa di tal pregio da spingere a fare la guerra noi che portiamo il nome di Cristo, che sempre ci ha insegnato solo la bontà col suo proprio esempio, noi che siamo le membra di un solo corpo, di una sola carne, che ci nutriamo del medesimo spirito, dei medesimi sacramenti; noi che siamo chiamati alla medesima immortalità; noi che aspiriamo alla comunione suprema di essere uniti al Cristo come il Cristo è unito al Padre? La guerra è sì nefasta, sì spaventosa, che non può essere approvata da un uomo dabbene nemmeno con la scusa di una causa perfettamente giusta. Se si tratta di gloria, è fonte di molto maggior gloria fondare delle città che distruggerne. È il popolo che costruisce e mantiene le città: è la follia dei principi che le distrugge» (Erasmo, Opus epist., Allen ed. I, pp. 552 – 3).
La rubrica “Detti e contraddetti” è stata pubblicata sul Giornale di Brescia con cadenza settimanale dal 5 gennaio 1988 al 25 gennaio 2007.