DETTI E CONTRADDETTI 1997 – PRIMO SEMESTRE
2 gennaio 1997.
LINEA RECATA BREVISSIMA. Ritratto di un famoso gestore del potere in Italia. Chi socchiude gli occhi medita inganni, chi stringe le labbra ha già commesso il male. Il povero e Dio. Chi deride il povero offende il suo Creatore. È come aprire una diga. Iniziare un litigio è come aprire una diga. Prima che la lite si esasperi, troncala. (Libro dei Proverbi)
Donare una parola libera. Rassegniamoci a correre il rischio di non convincere nessuno, di non poter far altro che donare una parola libera e, per il fatto di averla tratta a fatica dal più profondo di noi, dalla nostra stessa sostanza, sopportiamo pazientemente l’idea di consumarci invano. Il modo di discutere di certa gente. Gli imbecilli sono capaci di discutere all’infinito su qualsiasi questione, ma si guarderanno bene dal porre un problema in modo tale da essere costretti a rispondervi. Non è una polizza, non è un depurativo. Non si propone la verità agli uomini come una polizza d’assicurazione o un depurativo. (Georges Bernanos)
METTERLO PER ISCRITTO. Confesso che nell’accostare un Autore cerco di leggere subito, se ve ne sono, le sue lettere. Per ciò che dicono, o lasciano intendere, e anche per ciò che tacciono, esse costituiscono infatti una fonte preziosa. Ma ecco, ad un certo momento affermarsi con il progresso della tecnica e prendere sempre più il sopravvento un mezzo per comunicare senza sobbarcarsi alla disciplina e alla fatica della parola scritta. Per gli studiosi, e per gli storici in particolare, il telefono è «un’invenzione del diavolo», come diceva amabilmente Mario Bendiscioli, perché la sua universale diffusione ha ridotto terribilmente lo spazio occupato dalla corrispondenza epistolare. Chi, all’alba dell’età moderna, ebbe un alto concetto della «lettera» e la scelse come strumento per conversare con gli amici, per combattere le sue battaglie in difesa della cultura, della pace e del rinnovamento religioso, fu Erasmo da Rotterdam. Il grande umanista pubblicò nel 1522 o ‘23 addirittura un Trattato dell’arte epistolare e, contemporaneamente, il sesto volume delle sue Lettere a diversi corrispondenti, con cui egli fece circolare nell’Europa colta le sue idee innovatrici, i ritratti dei suoi amici, le incalzanti polemiche con detrattori dell’umanesimo.
Oggi anche tra amici, e persino tra persone unite negli stessi ideali e dalle stesse speranze, non ci si scrive che di rado. Ed è un vero peccato, perché la lettera è unica nel dipingere i costumi, i sentimenti, le sfumature e le situazioni della vita privata e pubblica pur mantenendo il tono della conversazione.
ELOGIO DELLA LETTERA. C’è forse qualcosa – scrive Erasmo – che la lettera non possa esprimere? Ci rallegriamo, soffriamo, speriamo e temiamo. Ci arrabbiamo, protestiamo, aduliamo, ci lamentiamo, litighiamo, ci scontriamo, ci riconciliamo, confortiamo, consigliamo, dissuadiamo, minacciamo, ci entusiasmiamo e ci calmiamo. Raccontiamo, descriviamo, lodiamo e critichiamo. Esprimiamo odio, amore, sorpresa, meditazione e consenso. Prolunghiamo il piacere dello stare insieme, scherziamo insieme, infine sogniamo. E perché no, dopo tutto? La lettera è un dialogo tra due amici separati.
9 gennaio 1997.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Ritratto del fannullone n. 1. Sono passato vicino al campo di un pigro, alla vigna di un uomo insensato: ecco, ovunque erano cresciute le erbacee, il terreno era coperto di cardi e il recinto di pietre era in rovina. Osservando, riflettevo e, vedendo, ho tratto questa lezione: un po’ dormire, un po’ sonnecchiare, un po’ incrociare le braccia per riposare e intanto viene passeggiando la miseria e l’indigenza come un accattone. Ritratto n. 2. La porta gira sui cardini, così il pigro nel suo letto. Egli tuffa la mano nel piatto, ma fa fatica a portarla alla bocca. (Libro dei Proverbi)
Quanto vale un uomo libero? Quello che tutto l’oro del mondo non potrebbe pagare è la testimonianza di un uomo libero. La nostra disgrazia. La disgrazia dell’uomo moderno non è soffrire, ma soffrire invano. (Georges Bernanos)
«MA DA DOVE SONO VENUTI FUORI QUESTI OTTUSI FRUITORI DI PRIVILEGI?» In una sofferta nota su L’Osservatore Romano (25 ottobre 1996) Gorgio Rumi si chiedeva: «Ma da dove sono venuti fuori questi ottusi fruitori di privilegi, novelli patrizi, privi però di responsabilità e disponibilità al sacrificio? Chi ha creato e diffuso questi ripugnanti vitelli d’oro?». Evidentemente anche l’illustre storico è colpito dallo spettacolo che quotidianamente sta sotto i nostri occhi: nella società italiana di oggi, infatti, chi più alza la voce – e molto spesso lo fa con arrogante cinismo – sono i vip, le corporazioni che fino a ieri più hanno goduto esenzioni e privilegi, quelli adusi a evadere il fisco e a eludere le leggi dello Stato. È questa, per caso, la classe emergente più omogenea alla cosiddetta «società dei due terzi», in cui, appunto, la maggioranza sta bene e non vuol saperne dei problemi e dei diritti degli altri?
Rumi abbozza una risposta che è insieme acuta e di ampio respiro: «La cultura e la politica in Italia sono state sostanzialmente sciolte dai nessi, che avrebbero potuto conferire ben altra vitalità all’una e all’altra, con l’anima religiosa del paese che ne è la struttura più antica e determinante». La diagnosi è senz’altro da sottoscrivere, e tuttavia occorre integrarla almeno con una precisazione. Abbiamo, infatti, il dovere di chiederci: chi, in Italia, in primo luogo doveva immettere nella cosa pubblica la passione cristiana della giustizia e del servizio disinteressato, se non i cristiani? E la classe politica, che era al potere in posizione preminente, non si richiamava esplicitamente ai valori cristiani? Quello che è successo, però, è sotto gli occhi di tutti e non giova far finta di non vederlo: quella classe politica, che pure si fregiava del nome cristiano – fatte le debite eccezioni, per fortuna numerose – è sprofondata negli ultimi due decenni nella melma della corruzione. Forse che il disonore arrecato, negli ultimi vent’anni da sedicenti cristiani, al nome cristiano sarebbe cosa meno grave della non adesione, o del rifiuto di altri a riconoscersi nella tradizione religiosa del Paese? In quanto cristiani il nostro primo dovere è essere onesti fino in fondo, prima di tutto con noi stessi: l’assunzione piena delle responsabilità storiche, per quanto riguarda la propria parte, è pertanto un passaggio obbligato, la premessa indispensabile per aver diritto a svolgere ancora un ruolo nel Paese. Solo allora potremo ridare slancio a quei valori che, se testimoniati nei fatti e da molti, possono destare negli italiani la coscienza di una ritrovata sostanza spirituale comune.
ERASMO: ELOGIO DEL MAESTRO DI SCUOLA. Giovanni Sapido, maestro di scuola a Sélestat, invia a Erasmo un poema in onore del circolo degli umanisti di Basilea, amici e collaboratori di Erasmo. Questi risponde con una garbata lettera piena di calore. «Essere maestro di scuola è funzione quasi regale. Consideri funzione spregevole impregnare la mente dei tuoi giovani concittadini delle più belle opere letterarie e al tempo stesso della dottrina del Cristo e preparare per la tua patria tanti uomini retti ed onesti? Stando al parere degli schiocchi è una funzione molto umile, ma, in realtà, è di gran lunga la più prestigiosa.(…) Nessuno serve meglio lo Stato di chi forma l’infanzia ignara, purché egli stesso sia dotto ed integro» (Opus epist. Allen ed. 2, p. 154 – La lettera è del 1515).
16 gennaio 1997.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Meglio il deserto. Meglio abitare in un deserto che con una moglie litigiosa e irritabile. Non fare distinzione di persone. Aver preferenze personali in giudizio non è bene. Non è bene essere parziali. Aceto su una piaga viva. Aceto su una piaga viva, tali sono i canti per un cuore afflitto. Io ti domando due cose. Io ti domando due cose, Signore, non negarmele prima che io muoia: tieni lontano da me falsità e menzogna, non darmi né povertà né ricchezza. (Libro dei Proverbi)
Le piccole cose. Le piccole cose hanno l’aria di niente, ma danno pace. Sono come i fiori di campo. Li si crede senza profumo, e tutti insieme profumano l’aria. Un’insegna. Fare in modo perfetto le cose semplici. Siate fieri. Tenete duro. State saldi. Siate fieri… Occorre che il mondo rigeneri la fierezza come un essere sfibrato ricostruisce i globuli rossi e le vitamine. (Georges Bernanos)
SOCRATE NON ERA AFFATTO UNO SCETTICO. Mi è capitato più volte di sentire persone che, pur rifacendosi al messaggio di Socrate, fanno del grande Ateniese uno scettico. Ebbene, bisogna dire con fermezza che Socrate, l’uomo della docta ignorantia, era tanto lontano dal dogmatismo di chi mette a tacere la ragione con l’autorità della tradizione, quanto dal relativismo dei sofisti, contro il quale polemizzò instancabilmente. Socrate fece esperienza del valore etico come valore assoluto e lo pose al centro della coscienza morale come imperativo incondizionato. La sua dialettica si dispiega, in tutta la sua potenza, proprio perché confuta ad una ad una le obiezioni di coloro che negano il primato del Bene, che è la sola cosa da amare in sé e per sé.
Ha compreso perfettamente questo aspetto decisivo della personalità di Socrate e della sua missione storica Albin Lesky quando nella sua Storia della letteratura greca (Milano 1962, vol. II) ha osservato che l’influenza di Socrate fu forte proprio a causa del rigore con cui non soltanto enunciò il suo imperativo, ma si conformò ad esso. «Nessun aneddoto – scrive il Lesky – caratterizza profondamente la sua natura come quello raccontato da Diogene Laerzio 2, 33: quando Oreste, nell’Elettra di Euripide, al verso 379, affermò che la cosa migliore è lasciare nel vago gli scopi della vita, Socrate lasciò il teatro».
«AL SIGNORE NOSTRO DIO / NON È PIACIUTO AFFATTO…». Al Signore nostro Dio / non è piaciuto affatto / che Gustavo E. Lips / morisse per un incidente stradale. // Anzitutto egli era ancora troppo giovane, / in secondo luogo, era un marito amabile per la sua sposa / terzo, un papà allegro per i suoi due bambini / quarto, un buon amico dei suoi colleghi / quinto, era pieno di idee. // Che sarà ora senza di lui? / Che farà sua moglie senza di lui? / Chi giocherà con i bambini? / Chi sostituirà un amico come lui? / Chi avrà delle nuove idee? // Al Signore nostro Dio / non è piaciuto affatto / che alcuni di voi pensassero / che una simile cosa gli sia piaciuta. // Nel nome di Colui che ha risuscitato i morti / nel nome di Colui che, morto, è risuscitato: / noi protestiamo contro la morte di Gustavo Lips. (Kurt Marti, Leichenrenden, 1971, Puk 5/73. Il testo mi è stato gentilmente fatto conoscere da mons. Gianni Capra)
23 gennaio 1997.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Un Autore classico sull’amicizia. Tu sei sulle mie labbra, tu sei nel mio cuore… Niente mi è gradevole quando tu non ci sei, niente mi è penoso quando tu ci sei (Terenzio). Prima di dare giudizi… definitivi. Aspettate la notte per dire che il giorno è stato bello (Proverbio scandinavo). Se sono esperienze decisive. Certe esperienze fanno sentire che l’opera del pensatore e dello scrittore deve fondersi con quella del cittadino e dell’uomo (Benedetto Croce).
L’epigrafe di ogni pensatore onesto. Tutto ciò che io sono lo troverete in ciò che ho scritto. Come leggere i grandi Autori. Leggo i grandi Autori con profitto e diletto. La sola cosa che riunisca gli amici lontani. Lo scambio di lettere è la sola cosa che riunisca gli amici lontani. Impossibile trovare un rapporto più gradevole e rapido fra amici separati delle lettere che portano all’uno l’immagine dell’altro. Quaggiù niente va preferito all’amicizia. Sono fatto così da credere fermamente che quaggiù niente va preferito all’amicizia; niente va cercato con più zelo; su niente bisogna vegliare con più cura. (Erasmo da Rotterdam)
CARI GIOVANI, SIATE OSTINATI NEL RIFIUTARE LA MEDIOCRITÀ. I giovani – quelli, almeno, che non si sono lasciati «invecchiare» anzi tempo – amano le decisioni forti e conoscono l’incanto delle origini. Sono consapevole dell’abuso della parola rivolta, e tuttavia mi piace ricorrere ad essa per sottolineare le due idee-forza su cui ogni giovane deve far leva: la prima, una decisa ribellione interiore a essere e a rimanere mediocri; la seconda, una dedizione che non conosca misura a qualcosa che sia giusto e buono, a una causa degna della loro generosità.
Se riescono a ribellarsi alla omologazione consumistica e agli idoli successo-soldi-sesso, se riescono a diventare semplici nei desideri, i giovani possono mostrarci la sorprendente ricchezza della loro età e costringerci sempre di nuovo a slargare i nostri orizzonti, a rinnovarci nelle idee e nei metodi, a far cadere le maschere dell’ipocrisia e delle convenienze. Lo so, oggi sono non pochi i giovani viziati, e perciò stesso indotti a ricalcare i modelli aberranti che gli sono ossessivamente inculcati da una società opulenta e afrodisiaca, ma vuota di valori. A quei giovani, in un modo o nell’altro defraudati nelle loro speranze, auguriamo di riappropriarsi delle straordinarie possibilità della giovinezza.
E per farlo non c’è che una via: mettersi in chiaro con se stessi, liberarsi con i fatti dalla pressione sociale, costruirsi un giorno dopo l’altro un’esistenza libera e alta – in una parola, essere disposti a pagare il costo che ogni decisione coraggiosa esige. Non abbiamo che una sola vita, e allora perché sciuparla, rinunciando a renderla un’avventura spirituale? Un’avventura alla quale si attagli perfettamente la stupenda espressione del Fedone platonico: «Il rischio è bello e la speranza è grande».
PIETÀ ESTERIORE E PIETÀ AUTENTICA. «Le due armi della battaglia spirituale sono la preghiera e la conoscenza. L’una implora, l’altra suggerisce all’intelligenza ciò che si deve implorare. La preghiera deve essere fervida. La sua forza non è nella prolissità. Non c’è bisogno di essere eloquenti per essere ascoltati. Non è il rumore delle labbra ma il fervente voto dello spirito che, come una voce insistente, colpisce l’orecchio di Dio. La pietà che si contenta di ascoltare o di recitare delle formule non è la vera pietà, come la religione che preferisce l’osservanza alla carità non è la vera religione. Se non ci si sta attenti, la pietà meccanica può nutrirsi di sciocchezze, il che è veniale, di bigotterie, il che è peggio, o persino di un’odiosa ipocrisia. In compenso, una pietà autentica penetra tutta la vita, è la vita. La preghiera è uno stato dell’anima, un’aspirazione più che un’operazione. Chi non prega ogni giorno è ancora cristiano?» (Erasmo, Manuale del soldato cristiano, pubblicato nel 1504).
L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Abbandono a Dio. Non si gonfia, Iahweh, il mio cuore, / né superbia c’è nei miei occhi; / non cerco vie di gloria, / né imprese più grandi di me. / Ma ho calmato e placato la mia anima / come un bambino svezzato / sul grembo di sua madre; / come il bambino svezzato / è l’anima mia. / Spera, Israele, in Iahweh / ora e in eterno. (Salmo 131, da I Salmi, Brescia 1973).
30 gennaio 1997.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Qualcosa da prestare a Dio. Chi fa la carità al povero fa un prestito al Signore. Il vero valore. Il pregio dell’uomo è la sua bontà. Labbra sempre aperte. Non associarti mai a chi ha sempre aperte le labbra. Chi è amato da Dio. Il Signore ama chi è puro di cuore. (Libro dei Proverbi)
I compiti semplici. I compiti semplici non sono i più facili. Al contrario. Chi è meno degno d’amore. Nessuno è meno degno d’amore di chi vive soltanto per essere amato. Attenzione a come si comincia. Chi comincia con un equivoco può terminare soltanto con un compromesso. Non l’oblio, ma la forza. Alla preghiera non si chiede l’oblio, ma la forza. (Georges Bernanos)
I GRANDI AMICI: ERASMO E TOMMASO MORO. L’amicizia di Tommaso Moro illumina la vita di Erasmo. È Moro a difendere l’Elogio della follia contro il teologo di Lovanio, Martin Dorp. Quando esce L’utopia – la favolosa avventura della saggezza che non è in nessun luogo – è Erasmo che gli trova un editore sul continente. Come Erasmo, Moro associa una spiritosa irriverenza per gli uomini e un profondo rispetto per la fede. La corrispondenza tra i due amici è uno scambio cordiale di confidenze e di informazioni. Moro ha per l’amico una commovente sollecitudine che gli consente di penetrare meglio di chiunque altro nel profondo della personalità di Erasmo.
«Non c’è nulla – scrive a Dorp nel 1515 – che a Erasmo faccia più piacere del vantare con gli amici presenti gli amici assenti. Ed essendo molto amato da innumerevoli persone, in diverse regioni del globo, per via della sua dottrina e del suo magnifico carattere, fa tutto il possibile, facendo leva sull’affetto che tutti hanno per lui, per unirli tutti attraverso questo sentimento. Non si stanca, dunque, di raccomandare a tutti gli altri ciascuno dei suoi amici, uno ad uno, e per inserirli in gruppi di amicizie, non si stanca di lumeggiare le qualità di ciascuno, quelle che lo rendono degno di essere amato». Erasmo, dal canto suo, assicura a Moro il posto che gli è dovuto nella storia letteraria e scrive la prefazione a L’utopia. Moro confida all’amico in una lettera del 1516: «Da soli, noi due siamo una folla, perché ho l’impressione di poter vivere felice con te in qualunque solitudine».
C’È PURE UNA PASSIONE DELLA VERITÀ E DEL BENE. Secondo Hegel nulla di grande si fa senza passione; ma questo è vero soprattutto se si parla della passione della «verità che tanto ci sublima» e dell’amore, l’agape del Nuovo Testamento, che infiamma il genio etico, immortalato anche dalla poesia e dall’arte autentica. Come aveva visto Platone, c’è pure un pathos del vero e del bene e questo pathos agisce in profondità nei solchi della storia. Gli eroi della storia non sono, dunque, coloro che presumono di interpretare o di incarnare lo spirito di un’epoca o di un popolo, che poi trascinano alla schiavitù ed alla rovina. I nostri veri «big» sono quelle donne e quegli uomini che sui flutti limacciosi della vita fanno risplendere il fascino della bellezza, gettano sulla bilancia della storia non una spada, ma il peso della verità, aprono le molteplici vie del bene fra le asperità di situazioni avverse, infrangono con sforzi titanici le barriere dell’odio e dell’egoismo. Questa prospettiva sulla storia ha trovato la sua elaborazione teorica più alta nell’ultima opera di Bergson Le due fonti della morale e della religione, che pone al vertice del cammino dell’umanità i «collaboratori di Dio», gli eroi della vita morale, i grandi santi, i mistici autentici. La loro vita ed il loro esempio sono di ispirazione perenne per quanti hanno a cuore la costruzione, su questo nostro pianeta refrattario, di una società aperta al soffio dello spirito.
6 febbraio 1997.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Anche la fotografia e il cinema possono essere arte. Sono convinto che oggi lo storico dell’arte debba essere più che mai disposto a occuparsi della creatività al di fuori dell’arte con la A maiuscola. Come il sacerdote, anche il professore. Il dovere di un professore dovrebbe cessare quando arriva la pensione, ma probabilmente il titolo di docente è simile al character indelebilis del diritto canonico: come un sacerdote che ha ricevuto gli ordini, nemmeno il professore può spogliarsi completamente della sua funzione. Fatti e dubbi. Lo studente deve imparare fatti e dubbi. Per i fatti basta che impari a memoria i libri di testo. Ma i dubbi possono essere trasmessi e instillati solo da coloro che lavorano alle frontiere della conoscenza e hanno riesaminato le fonti. (Ernst H. Gombrich)
Il pedaggio da pagare. Le mode intellettuali generano una crescente massa di eleganti insensatezze che minano dall’interno le discipline umanistiche; ma bisogna pur conoscerle per giudicarle. Senza valori la vita diventa incomprensibile. I valori non si escludono a vicenda. Possiamo benissimo apprezzare per ragioni diverse Platone e Bergson, Aristotele e Kant, Dante e John Donne, Raffaello e van Gogh. Ciò che invece non possiamo fare, se vogliamo continuare a essere degli umanisti, è arrenderci al relativismo, gettar via ogni criterio di valore. (Levi Appulo)
ARTICOLO 81 DELLA COSTITUZIONE. EINAUDI, MORTATI E VANONI AVEVANO VISTO GIUSTO. Secondo l’art. 81 della nostra Costituzione ogni legge che importi nuove o maggiori spese di quelle previste dal bilancio «deve indicare i mezzi per farvi fronte». La storia dell’accrescersi a valanga del nostro debito pubblico, soprattutto dopo il 1978, è la storia delle violazioni sistematiche di quell’articolo. È, però, interessante sapere che in sede di elaborazione dell’art. 81, tre costituenti di riconosciuto prestigio – Luigi Einaudi, Costantino Mortati ed Ezio Vanoni, uomini appartenenti a diverse scuole di pensiero – si impegnarono a fondo, purtroppo senza riuscirvi, perché l’espressione «indicare i mezzi» fosse sostituita con «provvedere ai mezzi», ben sapendo che la seconda non è affatto un sinonimo della prima, ma un correttivo. Quei tre grandi italiani avevano ragione. Infatti il termine «indicare» significa solo una posta in bilancio, mentre «provvedere» vuol dire aver l’obbligo di reperire effettivamente il danaro occorrente all’attuazione di una legge nel momento stesso in cui la legge viene approvata. Ecco una piccola, grande riforma costituzionale, però di enorme portata: mettere nell’art. 81 della Costituzione «provvedere ai mezzi» al posto di «indicare i mezzi». Su verità come queste – divenute evidenti per tutti, purtroppo solo dopo quattro o cinque decenni – non dovrebbe trovarsi d’accordo la stragrande maggioranza del Parlamento?
POESIA DEL NOVECENTO. Dandoti il braccio. Ho sceso dandoti il braccio almeno un milione di scale / e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. / Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. / Il mio dura tuttora / né più mi occorrono le coincidenze, le prenotazioni / le trappole, gli scorni di chi crede / che la realtà sia quella che si vede. Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio, / non già perché con quattro occhi forse si vede di più. / Con te le ho scese perché sapevo che di noi due / le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, / erano le tue. (Eugenio Montale scrisse questi versi per la moglie morta)
13 febbraio 1997.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Due verità sempre con te. Porta sempre con te queste due verità e serviti di una delle due a seconda delle circostanze. Una è: il mondo è stato creato a mio beneficio. L’altra è: non sono altro che polvere e cenere (Proverbio chassidico). Ciò che è veramente importante e ciò che non lo è. Non dannarti per le inezie. Sono solo inezie (Adesivo su di un’auto). Grazie! Se l’unica parola che riuscite a dire nella vostra preghiera è «Grazie!», dovrebbe essere abbastanza (Levi Appulo). Il coraggio. Definizione di coraggio: la grazia sotto pressione (Ernest Hemingway). Non arrenderci a chi ci vuole insicuri. Nessuno ti può far sentire inferiore se tu non glielo consenti (Eleanor Roosevelt). Voler volere. Se pensi di potere puoi. Se pensi di non potere, non puoi (Henry Ford). Dove c’è troppo. Dove c’è troppo, qualcosa è andato perduto (Proverbio ebraico). Nella stessa direzione. L’amore non consiste nel guardarsi l’un l’altro, bensì nel guardare insieme nella stessa direzione (Antoine de Saint Exupéry).
LA NOSTRA COSTITUZIONE E LE REGOLE PROCEDURALI DELL’ECONOMIA. Leggendo la Costituzione, si scopre che in essa esistono regole procedurali relative al governo quotidiano dell’economia. Ad esempio, lo Stato non deve fare operazioni di esproprio senza pagare indennizzi; non deve governare l’economia con una politica d’inflazione che duri per anni e si avvicini alle due cifre; deve, infine, tendere al pareggio sostanziale del bilancio, cioè verso un’equivalenza di spese e di entrate tributarie. Come si sa, a garanzia dell’ultima regola enunciata fu posto l’art. 81 della Costituzione, per cui non si possono approvare leggi senza indicare le spese necessarie alla loro attuazione.
I guasti degli ultimi due decenni sono venuti proprio dall’aver calpestato le regole procedurali della nostra Costituzione economica. È stato un errore micidiale il non aver compreso che le regole necessarie al buon funzionamento dell’economia sono le sole che possano permettere l’adozione di politiche sociali, dal momento che, quando il debito pubblico diventa una voragine, le classi meno favorite finiscono con l’essere le più danneggiate. Abbiamo, quindi, bisogno non di una nuova Costituzione, neppure in rapporto al governo dell’economia, quanto di attuare semplicemente quella che abbiamo, senza quelle scorciatoie ed eccezioni che, portando ad agire abitualmente in fraudem Constitutionis, non fanno che procurare disastri all’intera Nazione, ed in primo luogo ai ceti più deboli.
TRA IRONIA E AUTO-IRONIA.
1) Ho una memoria pazzesca: mi ricordo tutto quello che non ho fatto.
2) Io ho la coscienza pulita: la cambio ogni mattina.
3) Qua tutti si agitano. Io, nel mio piccolo, resto ancorato alle mie incertezze.
4) Cosa non darei per fuggire all’ovest di me stesso.
5) Non si potrebbe aver problemi più adeguati alle nostre capacità?
6) Non ho più idee. Devo averle gettate via insieme alle mie ideologie (Altan, Teatrino italiano, Bologna 1996).
LE AMICIZIE DA EVITARE SECONDO SENECA. «Vivi e fuggi l’amicizia dei potenti». Incompleto era il tuo consiglio. / Questo era lo scoglio più alto, ma non l’unico. / Vivi e fuggi le amicizie che brillano di eccessivo splendore / e tutto ciò che si venera perché molto in vista. / I grandi signori e i nomi di chiara fama / e le casate gravi di illustre nobiltà, / evitale, e finché vivi stanne lontano; raccogli le vele / e naviga su una piccola barca rasente alla riva. / La tua sorte sia sempre piana, e frequenta / i tuoi pari: dall’alto precipita una grande rovina. / Male si accordano bene le grandi alle piccole cose, / giacché se ristanno le opprimono, se crollano le travolgono.
La traduzione è di Luca Canali, il quale ha curato per «I Classici della Bur» l’edizione degli Epigrammi, opera attribuita a Lucio Anneo Seneca, o comunque di scuola senecana. L’epigramma riportato è il sedicesimo.
L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Oh, dove mai sarei adesso. Oh, dove mai / sarei adesso, / Maestro mio / e mio Salvatore, / se non mi aspettasse / l’eternità? (Boris Pasternàk)
20 febbraio 1997.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Discrezione con Dio. Non bisogna scomodare Dio per qualcosa che tu stesso puoi fare (Anthony De Mello). La favola e la storia. Quel che la favola ha inventato, la storia qualche volta riproduce (Victor Hugo). Ieri e oggi. Ieri i Masaniello erano plebei, ora sono in doppio petto e con vertiginosi conti in banca. Soprattutto all’estero (Levi Appulo). Se lo dice lui. Io ho sempre guardato con ammirazione a quelli che sono stati capaci di un impegno a due e sono vissuti insieme tutta la vita. Le considero persone superiori. Ma sono rare (Marcello Mastroianni).
TRE PROBLEMI, TRE DIFFICILI SFIDE. Grande rilevanza hanno assunto in questi ultimi tre decenni tre questioni: 1) il ritorno alla cultura delle immagini e della parola orale rispetto a quella scritta; 2) la divaricazione fra la cultura tradizionale su basi storico-letterarie e la cultura moderna su basi scientifiche e tecnologiche; 3) il pluralismo interculturale.
Il cinema e più capillarmente la televisione in modo speciale dopo l’invenzione degli strumenti di registrazione e replica, hanno generato un vero e proprio ritorno alla cosiddetta cultura dell’ascolto, al punto che oggi un qualsiasi pubblico viene anche detto audience. Si dice: il massiccio ritorno alla cultura prealfabetica presenta qualche vantaggio – unifica, ad esempio, la lingua parlata di un Paese – e non c’è da scandalizzarsi se i bambini e le persone scarsamente culturizzate preferiscano la televisione ai libri. Ma occorre guardare con implacabile sincerità anche l’altro lato della medaglia. Se è vero, come è vero, che i bambini assorbono 45.000 ore di televisione ancor prima di frequentare una scuola, come eviteremo che continuino ad essere videodipendenti quando saranno pienamente alfabetizzati? Noi in questa rubrica lo abbiamo ricordato più volte: la televisione è una concorrente temibile e sleale, prima ancora di essere una cattiva maestra.
L’altra sfida è costituita dalla divaricazione crescente fra cultura scientifica e cultura umanistica. Occorre, invece, che la scuola ritrovi il giusto equilibrio tra l’una e l’altra. L’umanesimo scientifico non è meno necessario di quello letterario, storico e filosofico. Vorrei aggiungere – e la cosa può apparire persino scandalosa – che bisogna giudicare ormai insostenibile la pretesa superiorità di un sapere rispetto ad un altro sapere. Ma guai a inaridire la sorgente della cultura umanistica, della vita spirituale, della gratuità e della bellezza!
Sulla terza sfida, sulla necessità e sulle grandi difficoltà da superare per costruire nei Paesi europei la convivenza multietnica e l’incontro interculturale, occorrerebbe fare un discorso a parte. La questione è acutamente avvertita dalla coscienza comune, anche se questa non sempre ne coglie l’estrema complessità. Saprà l’Europa conciliare l’umana accoglienza per i non-europei e i drammatici problemi che ai Paesi europei, e quindi all’Italia, pone la disoccupazione strutturale collegata alla rivoluzione tecnologica in atto? Saprà l’Europa rimanere democratica e pluralista ed insieme neutralizzare la minaccia di un nuovo integralismo, che tenti di esportare nei nostri Paesi intolleranza, divisioni e delitti? È il nostro augurio ed è il nostro impegno. Ma su questo tema i demagoghi di un certo terzomondismo sono spesso miopi e irresponsabili quasi quanto i loro avversari. Non sono di aiuto nella soluzione di un problema coloro che cancellano le difficoltà con l’irruenza degli slogan.
UN PO’ DI SALE E PEPE.
1) E il costo della vita, Cipputi? – Dipende: per comprarla o per venderla.
2) Mi vengono in mente opinioni che non condivido.
3) Queste notizie sono di fonte sicura. Che siano vere o no, è un altro paio di maniche.
4) Mi chiedo chi sia il mandante di tutte le cazzate che faccio.
5) Ho l’impressione che qualsiasi opinione mi venga, possa essere usata contro di me.
6) È ovvio che non sono coerente. Altrimenti dove va a finire il pluralismo? (Altan, Teatrino italiano – Monologhi , dialoghi, battute d’un umorismo travolgente e amaro, Bologna 1996).
DAGLI «EPIGRAMMI» DI SENECA. L’augurio a coloro che si amano. Così tu possa amarmi, o mia luce, e a tua volta sempre / essere amata, così che mai cessi il nostro scambievole amore – Sic et ames, mea lux, et rursus semper ameris, / mutuus et nullo tempore cesset amor (Epigrammi 35, l – 2). La tranquillità ingrandisce ciò che ho. Possiedo un piccolo terreno e una piccola rendita, immune / da colpa; ma la tranquillità mi fa grandi entrambe le cose (Epigr. 41, l – 2).
27 febbraio 1997.
LINEA RECTA BREVISSIMA. L mezze verità. Le mezze verità recano pregiudizio alla verità più delle menzogne. Il tempo ha una sua durata. Il tempo si burla di ciò che si fa senza tener conto di esso. (Léon-Ernest Halkin)
Quando la vita non è vita. Senza la libertà la vita non è vita. Che cosa significa dire Cristo. Il Cristo non è una vuota parola perché quel nome significa amore, semplicità, pazienza, purezza, ossia tutto il suo Vangelo. Le opere e la pietà. Non sono le opere a renderti pio. Esse ti porteranno alla pietà se tu ne farai un uso davvero ragionevole. Se però cominci a compiacertene, esse spengono d’un sol colpo tutta la pietà. Il vero tesoro è la parola di Cristo. Tu veneri il legno della croce; cerca piuttosto di penetrare il mistero della croce. Le reliquie del Cristo, supponendo che siano autentiche, hanno meno importanza della sua parola. (Erasmo da Rotterdam)
L’esame del pro e del contro. Una vita senza l’esame del pro e del contro non è degna di essere vissuta (Platone). La pretesa di aver sempre ragione. Sono sempre da compiangere i potenti che si lasciano persuadere di aver sempre ragione. Quelli poi che da sé ne sono persuasi sono anche da disprezzare (Levi Appulo).
MOZART, UOMO LIBERO DA OGNI FORMALISMO –
1. Dopo la prima a Vienna del Don Giovanni, il musicista dovette incontrare l’imperatore. Giuseppe II: «L’opera è divina, forse più bella del Figaro, ma non è cibo per i denti dei miei viennesi». Mozart (a bassa voce): «Allora diamo loro il tempo per masticarla!»
2. «Noi povera gente comune, non solo dobbiamo scegliere una moglie che amiamo e che ci ama, ma possiamo e vogliamo sceglierla così, perché non siamo né aristocratici né di alto lignaggio, né nobili né ricchi, bensì di bassa estrazione, umili e poveri, e dunque non abbiamo bisogno di una moglie ricca. La nostra ricchezza muore con noi, poiché l’abbiamo tutta nella nostra testa e nessuno può sottrarcela, a meno che non ci taglino la testa, e allora… non ci occorre più nulla» (Mozart in una lettera al padre, che aveva osteggiato il suo matrimonio).
3. «Mozart era assolutamente scevro da ogni forma di adulazione: non solo era libero dalle formalità che distinguevano le classi sociali, ma si muoveva tra gli altri con l’indipendenza tipica di un uomo di singolare valore, senza reclamare le libertà spesso accordate agli artisti di genio» (Otto Jahn, W. A. Mozart, Leipzig 1856-1959).
NON AVER PAURA DEL FUTURO. Dobbiamo vincere la nostra paura del futuro. Ma non potremo vincerla del tutto, se non insieme… La risposta alla paura che offusca l’esistenza umana al termine del secolo Ventesimo è lo sforzo comune per costruire la civiltà dell’amore… L’anima» della civiltà dell’amore è la cultura della libertà: la libertà degli individui e delle nazioni, vissuta in una solidarietà e responsabilità oblative. Non dobbiamo avere timore del futuro. Non dobbiamo avere paura dell’uomo (Dal discorso di Giovanni Paolo II all’Assemblea delle Nazioni unite, 1995).
POESIA DEL NOSTRO TEMPO. – «Dove trovarti, stanarti, se non fra le cose più usate? / Le parole. Ho trascorso / la vita a berle, sorsi simili a un morso, / parole degradate e azzerate / Ma da quel mucchio ora balzi, / ti (mi) innalzi e ridai senso al discorso; / e in quelle parole-fole già spente / vagamente risuona il suono / della Parola che tu hai riposta e nascosta / per proteggerla, e sono / pronto a leggerla anch’io. / Taccio. E tu pronunciale, Dio» (Vittorio Gassman).
Arriverà il momento. «Nel silenzio voglio restare, / nella speranza e nell’attesa, sapendo / che arriverà il momento della manifestazione. / Se i miei occhi non oseranno aprirsi, / il tuo dito sollevi le mie palpebre / e per essi la luce inondi il mio cuore» (Marcella Tassinari, Arriverà come vento, Brescia 1994).
6 marzo 1997.
LINEA RECTA BREVISSIMA. La cosa più importante. Non c’è in un’intera vita cosa più importante da fare che chinarsi perché un altro, cingendoti il collo, possa rialzarsi (Luigi Pintor). Si può imparare a vivere? Si può imparare a vivere? Evita qualsiasi frenesia, lascia che i tuoi giudizi smascherino la stupidità. Ridi, ma senza fretta (Ivan Aleksandrovič Gončarov). Nuovo e non-nuovo. Nulla può essere completamente nuovo e non-nuovo (Paul Valery). Anticonformista, non rivoluzionario. Anticonformista significa rivoluzionario. Questo è quanto tentano di farci credere sia i conservatori, sia les terribles semplificateurs dell’ideologia progressista. E invece gli spiriti veramente forti sono anticonformisti senza per questo essere rivoluzionari. Il primo di essi fu Socrate (Levi Appulo). L’essenza dell’arte. L’arte non riproduce il visibile, rende visibile (Paul Klee).
MONTALE, IL POETA CHE NON BARAVA. Nel 1996 ricorreva sia il centenario della nascita di Eugenio Montale, sia il quindicesimo della sua morte avvenuta il 12 settembre 1981. A me sembra che i giudizi più penetranti sulla sua opera li abbiano espressi lo stesso Montale e un’altra poetessa, Margherita Guidacci. Nel volume Confessioni di scrittori, pubblicato nelle Edizioni Rai nel 1951, Montale – che aveva fino ad allora pubblicato Ossi di seppia nel 1925, Le occasioni nel ‘39 e le poche liriche di Finisterre nel ‘43, a Lugano – dice di sé e della sua poesia quanto merita ancora oggi di essere detto.
«L’argomento della mia poesia (e credo di ogni possibile poesia) è la condizione umana in sé considerata, non questo o quell’avvenimento storico. Ciò non significa estraniarsi da quanto avviene nel mondo; significa solo coscienza e volontà di non scambiare l’essenziale col transitorio. Non sono stato indifferente a quanto è accaduto negli ultimi trent’anni; ma non posso dire che se i fatti fossero stati diversi anche la mia poesia avrebbe avuto un volto totalmente diverso. Un artista porta in sé un particolare atteggiamento di fronte alla vita e una certa attitudine formale a interpretarla secondo schemi che gli sono propri. Gli avvenimenti esterni sono sempre più o meno preveduti dall’artista; ma nel momento in cui essi avvengono cessano, in qualche modo, di essere interessanti. Fra questi avvenimenti che oso dire esterni c’è stato, e preminente per un italiano della mia generazione, il fascismo. Io non sono stato fascista e non ho cantato il fascismo, ma neppure ho scritto poesie in cui quella pseudo rivoluzione apparisse osteggiata. Certo, sarebbe stato impossibile pubblicare poesie ostili al regime d’allora; ma il fatto è che non mi ci sarei provato neppure se il rischio fosse stato minimo o nullo. Avendo sentito fin dalla nascita una totale disarmonia con la realtà che mi circondava, la materia della mia ispirazione non poteva essere che quella disarmonia…».
NON HO MAI NOMINATO INVANO IL NOME DI DIO. «Montale» – ha scritto Margherita Guidacci, poetessa in proprio e grande lettrice di testi della poesia europea del Novecento – non è mai uscito dalla sua terra desolata. È rimasto là, sia con Le occasioni che con La bufera. Un cristiano potrà forse rimpiangere che non ne sia uscito. Ma se guardiamo all’equivoco di tanta letteratura che si dice religiosa, non possiamo non essere grati a Montale che non ha mai nominato il nome di Dio invano. Egli ci ha guidato a una dirupata frontiera, oltre la quale si astiene dal darci consiglio. Molto meglio che metterci su una falsa strada. E se la sua poesia non può chiamarsi religiosa, essa è virtualmente preliminare a una retta esperienza religiosa, perché il vuoto che è la sua constatazione ultima suggerisce e richiama dialetticamente Dio che può colmarlo».
UN EPIGRAMMA DI SENECA: LE CITTÀ SONO MORTALI, OMERO NO. Questi monumenti costati vana fatica / intorno alla città, e i marmorei edifici che vedi, / a Appia, e le Piramidi che osano sfiorare il vicino cielo, / le Piramidi che l’ombra fugge a mezzogiorno, / e il Mausoleo, consolazione alla misera morte, ! dove Cleopatra accolse lo straniero marito, / tutto ciò sarà scosso e abbattuto dal tempo, e quanto più alta / si erge l’opera, tanto più presto esso la ghermirà sino a distruggerla. / Solo la poesia è esente da tale destino e respinge la morte; / e tu, Omero, vivrai in eterno per i tuoi carmi (Epigrammi, 26, l – 10).
13 marzo 1997.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il credo dell’edonista e la realtà della vita. Nessuno di noi manchi alla nostra intemperanza – dice l’edonista; ma chi disprezza sapienza e disciplina è infelice. La vita buona o virtù. Presente è imitata, assente è desiderata. Solo allora è veneranda. Vecchiaia veneranda non è la longevità e non si calcola dal numero degli anni. Essa consiste nella saggezza, in una vita senza macchia. (Libro della Sapienza)
Siamo altrettanto debitori. In effetti noi siamo altrettanto debitori a coloro che ci insegnano le regole di una vita buona che a coloro i quali la vita ce l’hanno data. Sazietà detestabile ovunque. Uno sforzo esagerato soffoca talvolta i doni naturali degli studenti. L’assiduità, invece, realizza attraverso i quotidiani esercizi molto di più di quanto non si possa immaginare. La sazietà è detestabile ovunque, e in nessuna cosa più che nello studio. Per questo occorre allentare talvolta la tensione intellettuale, intercalando dei giochi, ma giochi fatti per uomini bene educati. (Erasmo da Rotterdam all’allievo Cristiano Nortoff, lettera del 1497)
Di quei signori occorre diffidare. Io diffido degli ingegni che prendono il mondo per una lavagna sulla quale scrivere formule che, in caso di errore, si è sempre liberi di cancellare con un colpo di spugna. Che cosa è l’arte? L’arte è parlare all’anima. (Georges Bernanos)
PERCHÉ CONSERVARE GLI EDIFICI STORICI? – La risposta più chiara e intransigente alla domanda: «Perché conservare gli edifici storici?» l’ha data John Ruskin, nel sesto capitolo dell’opera Le sette lampade dell’architettura.
«Che mi si voglia ascoltare o no, non posso tacere la verità, e cioè che neppure la conservazione o la distruzione degli edifici del passato dipende da una questione di convenienza o di sentimento. Non abbiamo alcun diritto di toccarli. Non sono nostri. In parte sono di proprietà di coloro che li hanno costruiti, in parte di tutte le generazioni dell’umanità che ci seguiranno».
LA STRADA CHE VA DALL’IDEA ALL’ESECUZIONE. «Una volta domandai a un gruppo di pittori se si sentissero in grado di visualizzare un singolo tratto di penna o una singola pennellata con tanta esattezza da poterli riportare sulla carta o sulla tela senza alcuna deviazione. Non uno fu sicuro che la cosa fosse possibile. Ciò che invece è possibile, ciò su cui l’artista fa sempre affidamento è la continua correzione o modifica che avvicina sempre più all’intenzione originale. Giorgio Vasari, il primo storico dell’arte rinascimentale, volle rammentare ai pittori veneziani, che a suo avviso sottovalutano la funzione del disegno, che il nostro potere di immaginazione non è sufficiente per ricreare nell’opera d’arte finita ciò che abbiamo visto con gli occhi della mente. Nel momento in cui sottoponiamo la nostra idea all’occhio vero, siamo costretti a ricorrere al metodo dello schizzo. Naturalmente, per il pittore lo schizzo preparatorio non è che una fase del processo creativo, in cui sperimenta un’idea sulla carta per correggerla. La strada che va dall’idea all’esecuzione passa attraverso l’importante tappa dell’autocritica» (Ernst H. Gombrich, Argomenti del nostro tempo, Torino 1994, p. 110).
UNA POESIA D’AMORE. «Mille volte benvenuta / mio sole e mio conforto, / oh quale grazia, quale fortuna, / entra con te, mia luce. / Lo splendore invade questa casa / dai tuoi raggi d’oro innalzata. / Tutto ti darà il benvenuto; / non vi sarà mattone o tegola / che deliziato da questo incontro / non ti accolga con un sorriso, / le stesse pareti notano la tua presenza / e tu presto in oro le trasformerai».
Sono le prime due strofe di una poesia di Simon Dach. Fu scritta nel 1638 e s’intitola: Lo sposo alla sua dilettissima sposa in visita alla sua dimora.
L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Guidami, luce benigna. Guidami, luce benigna, / in mezzo alle tenebre: / guidami innanzi. / La notte è cupa / e io sono lontano da casa. / Te ne prego, guidami. / Veglia sul mio cammino. / Non ti chiedo di vedere / l’orizzonte lontano, / un solo passo mi basta. / Non fui sempre così, / né pregavo / che tu mi guidassi. / Amavo scegliere io stesso / e percorrere da me la mia via. / Ma ora, / ti prego, guidami (John Henry Newman, 1801 – 1890).
20 marzo 1997.
LINEA RECTA BREVISSIMA. La lode da Dio. Siete pronti a ricevere l’omaggio dei vostri simili, ma non vi preoccupate di ricevere la lode da Dio. Non secondo l’apparenza. Non dovete giudicare secondo l’apparenza. Giudicate con giustizia, invece. (Vangelo di Giovanni)
Costrizione e insincerità. La costrizione non può unirsi alla sincerità e il Cristo accetta solo il dono libero delle nostre anime (Erasmo da Rotterdam). Se si è veramente amici. Da soli noi due siamo una folla. Ho infatti l’impressione di poter vivere felice con te in qualunque solitudine (Tommaso Moro a Erasmo – Lettera del 1516). La pace a partire dai cristiani tra loro. Il mondo cristiano costituisce una sola patria (Erasmo).
Dimmi chi sei. Tamino: Dimmi chi sei, mio gaio amico. Papageno: Chi sono? Che sciocca domanda! Un uomo proprio come te! (dal Flauto magico di Mozart). La corsa a registrare. Più i linguaggi si fanno (o si rivelano) insignificanti, più freneticamente conserviamo registrate le voci, le prediche, le allocuzioni, le interviste, le canzoni, le lezioni, le arringhe, tutta roba che non valeva la pena di ascoltare… (Guido Ceronetti).
PER VARCARE LA SOGLIA DEL DUEMILA. Con la leggerezza della speranza. «Vorrei arrivare al varco con pochi, essenziali bagagli, / liberato dai molti inutili, / di cui l’epoca tragica e fatua / ci ha sovraccaricato… / E vorrei passare questa soglia / sostenuto da poche, / sostanziali acquisizioni… / e dalle immagini irrevocabili per intensità e bellezza / che sono rimaste / come retaggio. / Occorre una catarsi, / una specie di rogo purificatorio / del vaniloquio / cui ci siamo abbandonati / e del quale ci siamo compiaciuti. / Il bulbo della speranza, / ora occultato sotto il suolo / ingombro di macerie / non muoia, / in attesa di fiorire alla prima primavera».
I versi sono di Mario Luzi, il maggiore tra i poeti italiani viventi.
IL COMMENTO DEL POETA. «Le immagini da portare nel nuovo millennio – scrive Luzi – sono quelle della nostra grande poesia, della nostra grande arte, testimonianze di una cultura e di una fede che costituiscono veramente delle tappe dell’umanità e formano un nucleo al quale non si può rinunziare; a pena di non essere più degli uomini civili. Questo secolo consegna al futuro grandi disastri. Abbiamo veduto dei veri mostri in tutti i campi, soprattutto collettivi; abbiamo avuto però anche dei grandi esempi, soprattutto individuali. Anche la pietà è forse cresciuta in ragione di queste delusioni, di questi disinganni e precipizi in cui l’umanità è caduta. Questo secolo ha incrementato il sentimento del bene e del male. Certo nell’immaginazione collettiva è vincente l’immagine del male; ma sarebbe un torto all’economia universale misconoscere tutto ciò che c’è stato di positivo. Il pellegrinaggio di questo fine secolo e fine millennio significa abbandonare tutto il superfluo e guardare solo a ciò che è essenziale: per essere più leggeri al richiamo della speranza fra tutte le proposte che nel suo evolversi il mondo ci presenterà» (Famiglia Cristiana – n. 1/1997).
QUANDO NON PIANGO, RIDO.
L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Se mi perdo, ti trovo. Tu sei, ma nessuno sa chi. / Sei qui e là, / ma né questo né quello. / Lontano e vicino, / chiarità luminosa / e tutto oscurità, / senza inizio né fine, / in te stesso sempre tutto / e ovunque, / eterno presente. // Bisogna dunque che io / lasci ogni immagine / per pensare a te, mio Dio. / È una traccia nel deserto / il cammino che mi porta a te, / non ha sentieri segnati. / E se mi perdo, ti trovo. / Se mi perdo, tu vieni a me, / mio Bene essenziale (Anonimo – secolo XIII).
27 marzo 1997.
LINEA RECTA BREVISSIMA. La sorte dei giusti. Le anime dei giusti, invece, sono nelle mani di Dio, nessun tormento le toccherà. Agli occhi degli stolti parve che morissero; la loro fine fu ritenuta una sciagura, la loro partenza da noi una rovina, ma essi sono nella pace. Anche se agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza è piena di immortalità. Per una breve pena riceveranno grandi benefici, perché Dio li ha provati e li ha trovati degni di sé: li ha saggiati come oro nel crogiolo e li ha graditi come un olocausto. Nel giorno del loro giudizio risplenderanno (Libro della Sapienza). Della felicità raggiungibile su questa terra. Il miglior compagno della felicità è il buon senso (Plutarco). Disciplina interiore e costrizioni esteriori. Le costrizioni esteriori diventano esasperanti soprattutto per coloro che sanno imporsi una disciplina personale (Levi Appulo). Le società di oggi. Le società del nostro tempo sono anche le meno capaci di fronteggiare con le loro forze le perdite di orientamento che esse stesse producono (Joachim Fest).
SULL’AGONIA DI GESÙ. Con John Colet e con altri amici degni di fiducia Erasmo disserta volentieri su questo o quel passo della Sacra Scrittura. Di questi scambi, talvolta vivaci, ma sempre cordiali, ci resta la Breve discussione sull’angoscia, il timore e la tristezza di Gesù nella sua agonia.
Vi troviamo Erasmo e Colet che sostengono amichevolmente punti di vista opposti sulla causa della sofferenza del Cristo. Mentre Colet assegna il primo posto all’angoscia metafisica della Redenzione, suscitata in Gesù dal timore per la colpa che gli ebrei stanno per commettere, Erasmo resta fedele alla tradizione: è la natura umana di Gesù che conosce l’orrore e lo spavento quando egli grida: «Padre, allontana da me questo amaro calice!» pur aggiungendo: «Sia fatta la tua volontà e non la mia!».
Seguendo fino in fondo la logica dell’Incarnazione, Erasmo ne sottolinea il realismo. Aggiunge – e qui è d’accordo con Colet – che il Cristo tiene più all’amore degli uomini che alla loro ammirazione. Resterà fedele a questa conclusione, la svilupperà e molto più tardi scriverà: «La costrizione non può unirsi alla sincerità e il Cristo accetta solo il dono volontario delle nostre anime».
LA LIBERTA DI STAMPA NEL VENTENNIO E ADESSO. All’indomani del 25 luglio 1943, esattamente due giorni dopo la caduta di Mussolini, il Corriere della Sera scriveva: «È difficile fare noi stessi un giornale, quando per anni ce lo siamo visto dettare da un ministro». Oggi nessuno «detta» gli articoli a un giornale, ma a imporgli la linea politica – fatte le debite eccezioni – è, di solito, chi ha il potere di dare o togliere, di ridurre o aumentare il budget pubblicitario. Dunque, chi avesse nelle sue mani quella leva, direttamente o per interposte persone, come si fa da noi, in effetti disporrebbe di un dominio pressoché totale sulla stampa. Se un giorno si realizzasse un monopolio del genere, per il nostro Paese sarebbe la morte della democrazia. Senza una stampa libera non esiste un popolo libero.
DAGLI «EPIGRAMMI» DI SENECA. Lo spirito che nuoce non è mai gradito. Perché mai il mio pianto deve muovere te al riso? / Finiscila una buona volta. Essere maligni non è mai uno scherzo. / Lo spirito che offende non è mai gradito (21, 16 – 18).
Il tempo vorace. Il tempo vorace tutto distrugge, tutto ghermisce… / La morte tutto richiede. È legge, non pena, morire (1, l – 7).
Piccoli sepolcri di grandi eventi. Ci furono città che un giorno a ragione gli antichi ammirarono: / là ora tu vedi piccoli sepolcri di grandi eventi (20, 7 – 8).
L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Preghiera di un carcerato. «Io non so se le leggi sono ingiuste / o se invece sono giuste, / in prigione si sa solo / che le mura sono alte / e che ogni giorno dura un anno… / Ma le leggi di Dio sono pietose / e spezzano il cuore di pietra. // E ogni cuore umano che si spezza / è come l’anfora infranta / in casa del lebbroso, / che a te, Signore, offrì il suo dono, / spandendo profumo di nardo il più raro. // Felice l’uomo il cui cuore / si spezza ottenendo il perdono: / come potrebbe altrimenti / liberarsi del male? / E come, se non attraverso un cuore infranto, / potresti entrare tu, Cristo Signore?…) (Oscar Wilde, 1854 – 1900).
3 aprile 1997.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Chi è l’uomo giusto per colui che opera il male? La nostra forza è la sola regola di giustizia… Chi ci è di ostacolo è l’uomo giusto. Egli è diventato per noi una condanna dei nostri sentimenti e ci è insopportabile solo il vederlo. Lui considera noi come moneta falsa e le nostre azioni giudica immondizia; ma saremo noi a metterlo alla prova con insulti e tormenti. Creato per l’immortalità. Non conoscono i disegni di Dio, la loro malizia li ha accecati; non sperano salario per la santità, né credono alla ricompensa per le anime pure. Ma Dio ha creato l’uomo per l’immortalità, a immagine della propria natura l’ha fatto. (Libro della Sapienza)
La conoscenza del linguaggio. Molti uomini sono capaci di giudicare correttamente senza aver studiato logica. Ma senza la conoscenza del linguaggio nessuno può capire ciò che ascolta o legge (Erasmo). Amore delle lettere e ispirazione biblica. Possa la Musa ornare il tuo stile e possa la Bibbia darti il significato di ciò che scrivi. (Precetto augurale di san Girolamo che Erasmo fa suo).
LA PREGHIERA DI LEOPARDI ALLA MADONNA. «A Maria. – È vero che siamo tutti malvagi, ma non ne godiamo, siamo tanto infelici. È vero che questa vita e questi mali son brevi e nulli, ma noi pure siam piccoli e ci riescono insopportabili. Tu che sei più grande e sicura, abbi pietà di tante miserie».
Il Supplemento generale a tutte le mie carte di Giacomo Leopardi contiene nella quarta pagina un Progetto degli anni cristiani che non furono mai scritti. Le ultime tre righe sono dedicate A Maria, e Giovanni Getto nei suoi Saggi leopardiani, pubblicati da Vallecchi nel 1966, dice che esse sarebbero la più bella preghiera alla Madonna, se non dispiacesse alla fine l’inutile avverbio più. Egli aveva a disposizione l’accuratissima edizione delle Poesie e Prose apparse tra i «Classici Mondadori» a cura di Francesco Flora (vol. I, pag. 428), ma lì, incredibilmente, si trova un brutto errore di stampa o di lettura, che dovrebbe scomparire: il Leopardi non aveva scritto più, ma già.
LA STORIA È ANCHE CREAZIONE SPIRITUALE. È tempo, anche a livello di pensiero comune, che si prenda coscienza del fatto che alla storia integrale dell’umanità appartengono a pieno titolo la storia dell’arte, del pensiero scientifico e filosofico, della vita religiosa e della prassi eroica, diretta non a moltiplicare, ma a ridurre le miserie e le sofferenze umane. Alla storia appartengono non solo Alessandro, ma anche Socrate, Sofocle, Platone e Aristotele; non solo Augusto e Tiberio, ma Cristo e i suoi apostoli; non solo Federico Barbarossa e Filippo il Bello, ma anche Francesco e Giotto, Dante e Tommaso; e l’elenco potrebbe continuare. La massima evangelica «non di solo pane vive l’uomo» va applicata, dunque, anche a quel cammino collettivo che chiamiamo «storia»; se l’uomo, vichianamente, va definito da ciò che ha fatto o va facendo, è bene non dimenticare mai che è pur sempre lui nello svolgimento storico, e lui solo, a creare sempre nuovi tipi di bellezza, a dare un nuovo corso alle idee e alla ricerca della verità, a illuminare la via che dalla sofferta precarietà del relativo porta all’Assoluto, a indicare i mezzi per superare le barriere del finito, a prodigare tutte le risorse dell’intelligenza e dell’amore, nella giovinezza e nell’età matura, per il sollievo dei diseredati e per l’educazione dei giovani. E tutta questa straordinaria creazione spirituale merita non solo l’interesse, ma l’ammirazione incondizionata e la riconoscenza dell’umanità.
L’uomo che, invece, vive unicamente per la realtà del finito, ignora la sua vera natura e il senso della storia. Egli non pensa che la storia non sarebbe più storia umana se le luci dell’arte, del pensiero, della religione si spegnessero ad un tratto. Né si avvede che la sua esistenza scadrebbe a pura vita animale, se non potesse godere della bellezza di un fiore, di un panorama, del cielo stellato; se non potesse, neppure un istante, raccogliersi per interrogarsi sul significato della vita umana e della fiumana della storia; se non sentisse talvolta un’inquietudine inesprimibile o inespressa, una nostalgia per qualcosa che doveva essere ricercato, acquisito, conquistato.
L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Preghiere e opere. Dammi la grazia, Signore, / che quanto è oggetto delle mie preghiere / sia anche oggetto delle mie opere. / Amen (Thomas More).
10 aprile 1997.
LINEA RECTA BREVISSIMA. È defatigante. Un’attesa troppo prolungata fa male al cuore. A ognuno la sua tristezza. Il tuo cuore conosce la propria amarezza. L’iracondo e il riflessivo. L’iracondo commette sciocchezze, il riflessivo sopporta. Il disprezzo e la pietà. Chi disprezza il prossimo pecca, beato chi ha pietà degli umili. Ama la patria chi ama la giustizia. La giustizia fa onore a una nazione (Libro dei Proverbi).
Lo scandalo per eccellenza. Lo scandalo non è dire la verità, è non dirla tutta intera. È introdurvi, per omissione, una menzogna che la lascia intatta al di fuori ma che le rode, come un cancro, il cuore e le viscere. Scandalo è introdurvi piccoli sotterfugi che la. Aut-aut. La libertà, vivificata da un principio spirituale, la cui sorgente è la nostra anima, rischia a ogni istante, come noi e con noi, la propria salvezza e la propria dannazione. È un uomo difficilmente frequentabile. Un profeta non è veramente un profeta se non dopo la morte e fino a quel momento non è un uomo facilmente frequentabile (Georges Bernanos).
PER RISORGERE METTERE LA PATRIA AL DI SOPRA DELLE FAZIONI- Gli indicatori di una nazione sono parecchi, ma una nazione è essenzialmente un principio spirituale, una memoria collettiva di cadute e di riscatti, di sentimenti generosi e di valori autentici. Come scriveva Ernest Renan nel testo della conferenza Che cos’è una nazione? (trad. it. Roma 1993), tenuta alla Sorbona nel 1882: «La nazione presuppone un passato; essa tuttavia si ricapitola nel presente per un fatto tangibile: l’assenso, il desiderio chiaramente espresso il continuare la vita comune. L’esistenza di una nazione è, mi si perdoni la metafora, un plebiscito di tutti i giorni, un’affermazione perpetua di vita». C’è, dunque, un fondamento di volontà e di libera scelta nella decisione di appartenere a una storia comune e a un destino comune che noi chiamiamo «nazione». È necessario pertanto ricominciare a pensare se e come dobbiamo diventare una democrazia solida ed efficiente senza cessare di essere una nazione, riedificando la nazione alla luce di una cittadinanza matura.
Su questo sfondo è urgente che l’Italia non cessi di essere nazione perché possa al più presto diventare nazione nel senso civico più pieno. Ne va di mezzo la capacità di concordare con i partner europei gli interessi legittimi di una collettività storica, che ha diritto ad avere un futuro e che ha tutto da perdere dalla propria disgregazione.
NON USARE LA PAROLA «CREATIVITÀ» CON ECCESSIVA LEGGEREZZA. So benissimo che l’abilità da sola non fa il genio artistico. Dou, artigiano meraviglioso, non divenne mai un Rembrandt. Ma Rembrandt sarebbe diventato Rembrandt se non avesse avuto una perfetta padronanza del mestiere? Di nuovo, penso che gran parte dell’estetica contemporanea trascuri l’aspetto tecnico dei grandi capolavori della storia dell’arte. Per quanto ne sappiamo questi capolavori trascendenti sono sempre germogliati su un terreno preparato e fertilizzato da una grande tradizione artigianale. Sono convinto che in questo senso (e non solo in questo) si tenda a usare la parola creatività con eccessiva leggerezza (Ernst H. Gombrich, Argomenti del nostro tempo, Torino 1991).
ERRATO IL TITOLO, ERRATE LE INTERPRETAZIONI- La Ronda di notte di Rembrandt non è una ronda di notte, e tutti i commenti che hanno preso lo spunto da questo titolo apocrifo sono sbagliati oltre che obsoleti. A riprova della facilità con cui le nostre reazioni davanti a un’opera d’arte possono essere influenzate, si pensi a quante volte simili errori di titolo hanno imprigionato la mente di critici suggestionabili.
IL CONGEDO. Cure, affanni e prestigio e onori avuti in cambio del dovere / compiuto, andate, da ora in poi tormentate altre anime. / Un Dio mi chiama lontano da voi. E così, compiuto / il mio percorso terreno, o terra ospitale, addio. / Il corpo, o avida terra, accoglilo sotto rituale pietre: / ché l’anima rendiamo al cielo, a te le ossa (Seneca, Epigrammi, 71, l).
17 aprile 1997.
LINEA RECTA BREVISSIMA. La vita imita l’arte? La vita non imita l’arte, imita la cattiva televisione (Woody Allen). Scusi, di quale efficienza parla? L’efficacia non è solo far le cose bene. È far le cose buone (Angelo Caloia). Non ha un’essenza immutabile. Se il capitalismo non sa risolvere il problema della disoccupazione, allora vuol dire che va riformato (Giovanni Paolo II). La guerra. Ricorda ognuno chi partiva, / e ora non uomini, ma urne / e ceneri tornano a casa (Eschilo). Le due forme di censura. Nelle dittature la scelta è imposta attraverso la censura, ma nelle democrazie la censura si esercita mediante il frastuono (Pietro Gibellini).
IL CONFLITTO FRA IL DESIDERIO DI PARTECIPARE E QUELLO DI ESSERE LASCIATO IN PACE. «Quella di cittadini, per quanto importante, è solo una delle nostre identità. Apparteniamo a famiglie, gruppi di lavoro, reti di amicizie, associazioni pubbliche e private di ogni genere.
Questi diversi luoghi di appartenenza ci mettono davanti a continui conflitti di lealtà: quanto tempo, sforzi, denaro possiamo permetterci di dedicare a ciascuna di queste sfere? Ci si lamenta molto della privatizzazione della vita moderna – le famiglie si chiudono in se stesse, tirano su il ponte levatoio della loro vita per escludere i vicini, mantenendo il collegamento con la società solo attraverso lo specchio deformante della televisione e della radio.
Ma la privacy è anche una cosa positiva, e se la vita moderna è basata più sul privato che sul sociale, questo riflette almeno in parte quello che la gente realmente preferisce.
Ma questa concentrazione sul privato non è sempre una libera scelta. Dato che in parte è stata imposta, una politica di partecipazione può e dovrebbe fare qualcosa per invertire la tendenza.
Servizi pubblici affidabili e strade sicure rafforzano la vita familiare e al tempo stesso fanno uscire le famiglie dalla loro fortezza per entrare nella sfera pubblica. In questo caso il rafforzamento dei valori familiari e il senso di cittadinanza vanno mano nella mano. Ma in altri casi, cittadinanza e vita familiare non sono sempre facilmente conciliabili.
Con il moltiplicarsi delle opportunità di fare scelte di vita significative si moltiplicano anche i conflitti, in linea di principio, tra libertà e partecipazione.
Tutti sentiamo quotidianamente questo conflitto tra il desiderio di essere coinvolti e quello di essere lasciati in pace, tra il soddisfare le nostre esigenze e quelle dei nostri familiari o quelle degli estranei con cui dividiamo la nostra società.
Questi conflitti sono l’essenza stessa del nostro essere animali sociali. Non potranno mai essere eliminati. Le nostre ansie nei confronti di quello che dobbiamo alla società e quello che la società deve a noi fanno parte integrante dell’idea di appartenenza moderna».
Queste acute osservazioni si leggono nel saggio Belonging in the past, apparso sul mensile Prospect, di Londra. nel dicembre 1996. Il saggio, tradotto in italiano, è stato pubblicato dal periodico Internazionale, di Roma, il 31 gennaio ‘97.
UN PROSPETTO DEL MOVIMENTO SOCIALE. Nel secondo volume del suo Saggio teoretico di Diritto naturale – edizione definitiva del 1855 – Luigi Taparelli ci dà, al paragrafo 1586, un Prospetto sinottico del movimento sociale, il quale appare ben più che plausibile.
Una società ci si può presentare in una situazione di progresso, d’immobilità e di decadenza.
Orbene una società che nel suo insieme progredisca nella direzione del fine, ma sia in realtà stazionaria o regressiva riguardo ai beni utili con cui vuole ottenerlo, mette capo non ad una sorta di… paradiso terrestre, ma a «uno stato di barbarie» – osserva acutamente il filosofo gesuita. Allo stesso modo, un progresso nell’utile, che si accompagni a una decadenza in rapporto ai fini stessi della società, produce illegalità e corruzione.
Questo, a mio avviso, è il cancro che corrode dall’interno le società tecnologicamente avanzate, nelle quali l’organizzazione politico-sociale e la cultura tendono a prescindere dai valori etici e da ciò che il bene comune richiede.
L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. E tu, morte, morrai. Morte, non andar fiera se anche t’hanno chiamata / possente e orrenda. Non lo sei /… Un breve sonno e ci destiamo eterni. / Non vi sarà più morte. E tu, morte, morrai (John Donne, 1572 – 1631).
24 aprile 1997.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Oggi che ti ho guardato lentamente. Cielo, ti avevo scordato…/ Oggi che ti ho guardato lentamente / ti sei innalzato: / hai raggiunto il tuo nome (Juan Ramón Jiménez). Fin dalla giovinezza. Guai al cuore che non ha mai amato fin dalla giovinezza (Ivan Sergeevič Turgenev). Mare e cielo. Dio dette al mare pericolo e abisso, ma è sul mare che rispecchiò il cielo (Fernando Pessoa).
Arte e critica. Un’arte senza una critica parallela, muore (Eugenio Montale). L’accumulazione. L’accumulazione, ecco la colpa di tutto: di qui derivano quelle azioni, a cui il mondo dà il nome di non troppo pulite (Nikolaj Gogol’). Che cos’è l’arguzia? Pronta associazione di pensiero, calcolata per stupire e divertire in quanto inaspettata» (è la definizione che ne dà l’Oxford English Dictionary).
UNIRE COSCIENZA NAZIONALE E DEMOCRAZIA: I COSTITUENTI LO SEPPERO FARE. Come il comunismo ha screditato il socialismo, così il nazionalfascismo ha screditato il termine nazione; ma il socialismo democratico è cosa diversa e opposta rispetto al totalitarismo leninista e, allo stesso modo, il concetto di nazione non ha nulla a che fare con quella sua odiosa contraffazione che va sotto il nome di nazionalismo, cioè di una ideologia esclusivistica, negatrice dei diritti delle altre realtà nazionali, volta a celebrare la volontà di potenza di un popolo o della razza che in esso più direttamente si esprime. Non bisogna, quindi, vietare a noi stessi e agli altri di usare correttamente il termine «nazione» per timore di essere scambiati per nazionalisti, a causa del pregiudizio per cui quella di nazione sarebbe «un’idea di destra». In realtà noi italiani recuperammo un più alto senso della nostra appartenenza a una stessa nazione proprio nella lotta resistenziale (si rileggano le Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana) e negli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale. E quel patriottismo, non chiuso in sé ma aperto all’Europa e agl’ideali della democrazia, divenne una forza, un punto di confluenza, un valore etico-politico posto a fondamento della Costituzione della Repubblica.
Domina, infatti, ovunque in quegli anni anche nello scontro più acceso tra le forze in campo e fra i loro diversi progetti di società, l’esigenza del ripristino della dignità nazionale e il bisogno di autolegittimazione delle due maggiori forze emergenti, i cattolici e i comunisti, gli uni e gli altri estranei alla vicenda risorgimentale. La Resistenza e la ricostruzione democratica vollero essere e presentarsi come la riaffermazione di un’identità nazionale smarrita. Malgrado tutto, le «appartenenze separate», a cui spingeva il conflitto ideologico, d’altronde inevitabile, non escludevano il «sentimento di una cittadinanza comune».
LA LEALTÀ DEMOCRATICA ESPRESSIONE DI PATRIOTTISMO. La più importante delle virtù civiche resistenziali, è stata, perciò la capacità di apprendere e praticare di fatto la democrazia senza aggettivi da parte di uomini e partiti che avevano concezioni diverse e antagonistiche di democrazia (democrazia con tanti aggettivi contrapposti: formale, sostanziale, liberale, borghese, sociale, progressiva, socialista, proletaria). Se la democrazia italiana ha retto nei suoi primi anni, evitando una virtuale guerra civile, ponendo le basi per il suo successivo sviluppo, a dispetto dei suoi difetti, lo si deve alla lealtà politica di uomini che si riconoscevano in una comunanza di storia e destino, capace di contenere le loro tensioni di parte attraverso regole democratiche liberamente tracciate nella Costituzione. La formula «Costituzione nata dalla Resistenza» va dunque sottratta alla ritualità e riconosciuta come espressione concreta di un reale patriottismo, di un reale inveramento della coscienza nazionale nella democrazia.
ATTENTI A NON INVENTARSI CONNESSIONI INESISTENTI. «Alcuni eminenti storici dell’arte come Erwin Panofsky e Pierre Francastel hanno tentato di interpretare l’avvento della prospettiva nel primo Quattrocento come un cambiamento ideologico. A mio avviso, questo aspetto è stato esagerato, infatti, nessuno, che io sappia, ha mai sostenuto che l’invenzione degli occhiali, avvenuta un secolo prima, fosse il sintomo di una nuova visione del mondo, anche se certamente diede una nuova visione del mondo ai vecchi con la vista cattiva» (Ernst H. Gombrich, Argomenti del nostro tempo, Torino 1991, p. 49).
L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Che non mi accontenti. Signore / non permettere / che mi accontenti / di andare a messa / invece / di seguirti (Fëdor Michajlovič Dostoevskij, I fratelli Karamazov).
1 maggio 1997.
LINEA RECTA BREVISSIMA. La questione fondamentale. Che giova all’uomo guadagnare il mondo intero, se poi perde l’anima? (Vangelo di Marco). Se dovessi rattristarvi. Il vostro pianto quando sarò morto, non si prolunghi… / Vi amo talmente / che vorrei anche dai pensieri vostri sapermi assente / se dovessi darvi il pensare a me malinconia (William Shakespeare). Le cose belle. Le cose belle fermati a guardarle a tutte le ore (Walter de la Mare). Chi conosce il soffrire. Soffrire è avere un segreto in comune con Dio (Søren Kierkegaard). Anche la sofferenza è un sacramento (Elisabeth Leseur). La fratellanza delle utopie ideologiche. Le utopie rivoluzionarie proclamano giustamente che tutti gli uomini sono fratelli. Purtroppo vi aggiungono questa precisazione: eccetto quelli che, in nome della fratellanza, devono essere eliminati. Così il sogno del paradiso ideale si trasforma nell’incubo dell’inferno realizzato (Levi Appulo).
CONTRO IL RELATIVISMO CULTURALE. Nel suo libro Argomenti del nostro tempo – Cultura e arte nel XX secolo, Ernst H. Gombrich individua nel «relativismo culturale» l’insidia più pericolosa per ogni visione umanistica della vita. Sono stato sempre anch’io di quest’avviso. Com’è noto, noi in Italia conosciamo il relativismo nella sua forma più raffinata, lo storicismo. Scelgo un paio di osservazioni tra quelle più acute e perspicue.
1). «Non sono il solo a temere che il relativismo culturale, negando l’esistenza di qualsiasi criterio oggettivo di verità, costituisca una grave minaccia per ogni aspetto della cultura. Naturalmente non bisogna pretendere mai di avere il monopolio della verità, e ancor meno di disprezzare le culture con valori e convinzioni diverse dai nostri. Ma il riconoscimenti di tali differenze non deve indurre a negare l’unità intrinseca del genere umano. Nessuno ha bisogno di essere convinto dei disastri che sono successi quando questa negazione ha preso la forma di razzismo» (p. XVIII).
2). «Il relativismo culturale ha portato alla rinuncia dell’eredità più preziosa di qualsiasi attività umanistica, cioè della convinzione di partecipare alla ricerca della verità» (op. cit., p. 35).
L’INFANZIA E LE STORIE DI ANTICO E NUOVO TESTAMENTO. – «Signore, che libro è mai questo, e quali insegnamenti? Che libro è mai questa Sacra Bibbia: che meraviglie, e che forza, sono state date con essa all’uomo! Una specie di bassorilievo del mondo e dell’uomo e dei caratteri umani, dove tutto ha il suo nome e la sua connotazione per i secoli dei secoli… Basta che un piccolo, minuto seme sia lanciato nelle anime del popolo semplice, ed esso non morrà, continuerà a vivere in quelle anime per tutta la vita, o resterà celato in esse fra il buio e il lezzo dei loro peccati, come un puntino luminoso, come un richiamo solenne. E non occorre, non occorre davvero far tanti commenti o spiegazioni: tutto, da quella gente semplice sarà inteso. O forse vo credete che non saranno capaci di capire? Provate, leggete loro l’una o l’altra toccante storia e vedrete» (Fëdor Michajlovič Dostoevskij, I fratelli Karamazov).
POESIA DEL NOVECENTO. Quando per la prima volta. Pochi ricordano con chiarezza / il momento in cui l’innocenza / venne a una fine improvvisa, / quando per la prima volta / uno si chiede: Sono amato? Il Vero Amore gode / una vista di dieci decimi, / ma parla come un miope. // Bisognosi anzitutto / di silenzio e calore, produciamo / un freddo e un chiasso brutali (Wystan Hugh Auden, Città senza mura, Milano 1981).
8 maggio 1997.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Se parla troppo bene. Non sono i migliori parlatori ad avere le migliori cose da dire (Proverbio cinese). La mancanza più insopportabile. Qual è la mancanza più insopportabile? È quella di alcune persone con le quali ci sono dei debiti. Non abbiamo fatto in tempo a pagarli. Questa è una pena struggente. Vorremmo rivederle (di notte le sogno), solo per dir loro: «Grazie. Scusami». (Anna Maria Ortese).
Riscoprire l’appartenenza alla nostra Nazione. Una nazione può cessare di esserlo. La nazione, infatti, non è una struttura statuale fissa e indistruttibile. Non è neppure un dato etnico disancorato dalle sue forme politiche storiche. La nazione democratica, in particolare, è una costruzione sociale delicata e complicata, fatta di cultura e storie condivise, di consenso manifesto e corrisposto, basato sulla reciprocità tra i cittadini. È un vincolo di cittadinanza, motivato da lealtà e da memorie comuni. Soltanto attraverso questo intreccio di motivi e di legami si instaurano rapporti politici che possono dirsi democratici. Soltanto così si crea l’intelaiature istituzionale di una nazione di cittadini (Gian Enrico Rusconi).
Le nostre radici. Esiste un’antica cultura triangolare – composta di prodotti intellettuali ebraici, greci e latini – il cui impatto immediato sulla maggior parte di noi è di un genere alquanto diverso dal piacere che ci riservano le amenità di civiltà lontane. Questo collegium trilingue domina tuttora le nostre menti. La nostra eredità culturale, nella misura in cui risale all’antichità, è essenzialmente greca, latina, ebraica. Fu certo in clima ellenistico che latini ed ebrei appresero la lingua dei greci, assimilarono le loro idee, misero in discussione il loro sistema di vita: ma la fusione delle tradizioni dei tre popoli fu opera del cristianesimo (Arnaldo Momigliano).
IL PRIMO ROGO DI LIBRI: 23 d.C., TIBERIO IMPERATORE. Gl’inizi del regno di Caligola, nel biennio tra la primavera del 37 e quella del 39 d.C., sembravano quanto mai promettenti a Seneca; politico di larghe vedute e avvocato di successo, si presenta alla società romana con un tratterello di «filosofia del dolore»: Ad Marciam, de consolatione. Il genere scelto – la «consolazione» di una madre che ha perduto due figli e che si è chiusa in un dolore muto, ostile – è a cavallo tra letteratura e filosofia. Politicamente sembra uno scritto innocuo, ma la dedicataria del dialogo è una donna il cui passato costituisce di per sé una protesta contro la tirannia di Tiberio e una lezione di coraggio. Marcia è la figlia diletta di quell’Aulo Cremuzio Cordo posto sotto accusa, nel 25 d.C., dagli scherani di Seiano per un delitto d’opinione, avendo elogiato i cesaricidi Bruto e Cassio. Cremuzio si difese da sé e poi, certo della condanna, si lasciò morire d’inedia. Fatto nuovo e inusitato, i suoi libri furono bruciati. Era la prima volta che accadeva e purtroppo la storia registrerà molti casi di questi dissennati roghi! Tuttavia, grazie alla figlia che li nascose e li fece ripubblicare, sopravvissero. «Una ragione in più – commenta Tacito – per deridere la stupidità di coloro che, siccome in un determinato momento dispongono del potere, credono di essere in grado di disporre della memoria storica anche delle età successive» (Ann. 4, 35).
LA GRANDE POESIA. Prendimi per mano, mio Dolore. «Sii saggio, mio Dolore, stai calmo. / Invocavi la Sera; eccola, scende: / una scura atmosfera avvolge la città, / e agli uni porta pace, agli altri pena. / mentre dei mortali la moltitudine vile, / sotto la sferza del Piacere, carnefice spietato, / va a cogliere rimorsi nella festa servile, / prendimi per mano, mio Dolore vieni qui, / lontano da loro: Vedi gli Anni defunti affacciarsi / dai balconi del cielo, in vestiti antiquati; / dalle acque profonde sorgere lieto il Rimpianto; / sotto un ponte il sole morente addormentarsi, / e, come un lungo sudario a Oriente in una scia, / senti, mio caro, senti la dolce Notte avanzarsi» (Charles Baudelaire, I fiori del male, trad. it. di Cosimo Ortesta, Firenze 1996).
PERCHÉ DOVREI AVER PAURA? – Morii come minerale e divenni pianta. / Morii come pianta e mi svegliai animale. / Morii come animale e mi svegliai uomo. / Perché dovrei aver paura? // È mai successo che morendo sia diminuito? / Ed ancora una volta morirò come uomo, / per svegliarmi benedetto tra gli angeli (Jalāl al-Dīn Rūmī, poeta mistico islamico, 1207 – 1273).
15 maggio 1997.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Una cattiva consuetudine. È consuetudine lasciare da parte, come irrilevante, ciò che non serve a dimostrare una tesi (Vittorio Mathieu). Il vitello d’oro. Cresce l’amore del danaro quanto cresce lo stesso danaro. / Crescit amor nummi quantum ipsa pecunia crescit (Adagio latino). Il sacro e la città. È più facile fabbricare città senza terra che senza Divinità (Plutarco). I cristiani, israeliti progressivi. I cristiani si dissero successori degli israeliti, o israeliti progressivi (Immanuel Kant).
RAFFREDDARE L’USO FRENETICO DELLA PSEUDO-STORIA. Nel surriscaldato clima politico di questi ultimi anni, reso esasperante anche dal susseguirsi delle consultazioni elettorali, si sono moltiplicate come funghi le interpretazioni di comodo dei nostri ultimi cinquant’anni di storia. È diventato addirittura un luogo comune giudicare cinque decenni della vita di un popolo come se si trattasse di un unicum, senza compiere neppure lo sforzo elementare di una plausibile periodizzazione, in assenza della quale i fatti scompaiono e la concretezza dei riferimenti svanisce nel fumo della chiacchiera e della propaganda settaria. Condannare o assolvere in toto da ogni colpa mezzo secolo di storia è, infatti, operazione di bassa lega, che disonora quanti di essa si servono per interessi di individui, di clan, di partiti nuovi e vecchi. Le apologie di ciò che non è difendibile così come le invettive, la giustificazione in blocco o il rifiuto in blocco di ciò che è successo nel nostro Paese sono semplificazioni strumentali rozze e profondamente diseducative delle coscienze.
La storia dell’Italia repubblicana vieta di porre sullo stesso piano i grandi spiriti che, nell’arco di mezzo secolo, servirono la Patria con appassionata dedizione, e coloro che la Patria l’hanno infangata. Vi è nella storia della Prima Repubblica una pluralità di personaggi, di forze sociali, di aspetti e di fasi che permette di cogliere di volta in volta i contrasti e le convergenze, ma anche le conquiste, le realizzazioni positive, le trasformazioni profonde realizzate tra il 1945 e il 1995.
Basti pensare alla grande trasformazione che ha profondamente cambiato le condizioni di vita della larga maggioranza degli abitanti. Si tratta soprattutto della parte della popolazione radicata da secoli in un ristretto mondo rurale, o confinata da generazioni in limitati orizzonti di marginalità geografica e di subalternità sociale. Tali trasformazioni non hanno riguardato solo le condizioni esterne di vita, ma hanno influito profondamente anche sul carattere nazionale degli italiani. Bisogna, però, chiedersi: perché il benessere economico non ha favorito una crescita morale e perché l’esercizio dei diritti civili, politici e sociali non ha rafforzato il senso della cittadinanza? Quali risposte a queste domande gli studi sull’Italia repubblicana sono oggi in grado di dare? Quali ipotesi, al di là dei risultati già raggiunti, si possono formulare?
L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Dinanzi a Dio, in fiera libertà. Che io mi ponga dinanzi a te, / svincolato da ogni affanno, / in quella fiera libertà che nulla può confondere, / in un solo spirito con la tua stessa Unità (Gerlach Peters, 1378 – 1411).
22 maggio 1997.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Non ci si può seder sopra. Un uomo può costruirsi un trono di baionette, ma non ci si può sedere sopra (William Ralph Inge). Il sole del poeta. Il sole del poeta è lo sguardo di una donna amata, è un pensiero grande, è una gran convinzione, l’odio dell’ingiustizia e dell’assurdità, è l’amore della libertà (Alphonse Karr). La falsa letteratura. La falsa letteratura è peggiore assai dell’ignoranza. Meglio è non si muover di luogo che far cammino e aver smarrito la via (Francesco Algarotti). Attenti ai romanzi-fiume. Tra i romanzi-fiume, pochi i navigabili (Jean Mistler). La funzione della critica. La funzione della critica è di trovare ciò che un dato lavoro è, non ciò che non è (Erza Pound).
QUANDO SI È COSTRETTI A BATTERE IN RITIRATA: IL «CASO SENECA». Dopo il matricidio, nel periodo che va dal 59 al 62, Nerone oscilla fra la linea di governo seguita in accordo con i seniores amici e l’effettivo rifiuto di essa attraverso atti di governo e indirizzi politici che Seneca e Burro potevano subire, ma non condividere. Cominciarono ora a diventare più frequenti pratiche, decisioni e persino atti legislativi che lesionavano lo Stato di diritto. Il segno sicuro del processo di deterioramento in atto era l’emarginazione crescente dei sostenitori del regime costituzionale e l’emergere del partito di corte, in cui dominava l’avvenente Poppea Sabina, la donna dalla chioma color fiamma, e il nuovo, ascoltatissimo consigliere del principe, Tigellino, il numero uno tra i deteriores e i deterrimi.
Il mutamento di scena tuttavia, non fu rapido, né si manifestò in ogni settore. La rottura con il regime costituzionale è in atto, ma Nerone non è senza pentimenti e indugi. Egli cede a poco a poco alla pressione dei suoi nuovi consiglieri e soprattutto al disfrenamento del suo stesso io peggiore.
L’interrogativo che da tempo Seneca andava ponendosi, se ritirarsi o restare al suo posto, sperando nel ritorno di Nerone alla ragione e all’esercizio costituzionale del potere, ha ora una risposta definitiva. Nello scritto De tranquillitate animi Seneca aveva previsto che in un regime dispotico, quando si toccano i limiti della insopportabilità, una via d’uscita bisogna pur trovarla. Egli aveva delineato in quel dialogo quello che verso la metà del 62 realmente fece: «ridimensionare la partecipazione alla vita pubblica, dal momento che ci viene tolta ogni reale possibilità d’azione». Seneca aveva a lungo riflettuto sul significato del suo ritiro e sui modi di continuare la sua coraggiosa battaglia, mentre prendeva le distanze dalla cosiddetta politica attiva. Anche di questo aveva parlato con nobili accenni nel De tranquillitate animi. «Quando si è costretti a battere in ritirata, lo si faccia retrocedendo a poco a poco, salvando le insegne e l’onore… L’essenziale è non fuggire, non volgere in gran fretta le spalle, buttando le armi e cercando un nascondiglio… Non puoi più esercitare le mansioni di cittadino? Esercita quelle di uomo… Non ci siamo rinchiusi tra le mura di una sola città, ma ci siamo proiettati verso tutto il mondo, abbiamo dichiarato nostra patria il mondo per poter offrire alla virtù un più ampio campo… Se la fortuna ti ha rimosso dalla prima carica dello Stato, resta ugualmente in piedi e aiuta gridando. Se ti imbavagliano, resta in piedi e aiuta in silenzio. Sta’ a fianco dei cittadini in silenzio, se la situazione ti impone di tacere… Non è mai inutile l’attività del buon cittadino. Con lo sguardo, con i cenni, con l’ostinazione silenziosa egli è là e gli altri lo vedono, lo ascoltano».
LE IMMAGINI CHE PRENDONO FORMA. «Il pittore sufficientemente intrepido da montare il suo cavalletto in un luogo pubblico si accorge presto di quanta gente si affolli intorno a lui per godersi l’affascinante spettacolo delle immagini che prendono forma, del quadro che cresce. Uno dei grandi maestri del nostro tempo fu addirittura persuaso a soddisfare questa esigenza consentendo a una telecamera di spiarlo alle spalle. Mi riferisco agli incantevoli documentari che mostrano Picasso mentre disegna e dipinge. Ricorderò sempre il momento in cui il pittore s’inceppa e borbotta: Ça va mal, très mal» (Ernst H. Gombrich, Argomenti del nostro tempo, Torino 1991, pp. 99 – 100).
ALLA FINE DELLA GIORNATA. Ti offro, Signore, lo sforzo / di ogni mia piccola ascesa, / il gaudio dell’ordine / per qualche istante / assaporato, / ed anche i miei peccati. / Accogli, Dio, il dolore / che per Te s’è vestito di speranza, / fammi respirare / nel tuo respiro (Enrica Bonazzi Canepa).
29 maggio 1997.
LINEA RECTA BREVISSIMA. – Se sapete e se non sapete. Se già sapete, non dimenticate quello che vi è di buono; e se non lo sapete, imparatelo. Il paradosso del Vangelo. Odiato, ama. (Vladimir Monomach) Che cos’è il nuovo? Il nuovo è il vecchio ben dimenticato (Proverbio russo). Spiegatemi, per favore. Spiegatemi, per favore, per quale motivo credere nel Regno dei cieli è sciocco, mentre credere nelle utopie terrene è intelligente? (Aleksandr Ivanovič Herzen). Più sfumature che parole: la realtà è più ricca. Nelle nostre lingue i nomi di colore sono infinitamente meno numerosi delle sfumature che riusciamo a percepire (Ernst H. Gombrich). Per esprimere la gioia. Il sole splende sul mio petto (Modo di dire tra gli eipo della Nuova Guinea).
La ferocia dei vigliacchi. Vi è qualcosa di mille volte peggiore della ferocia dei bruti: la ferocia dei vigliacchi. Libertà vo cercando. Occorre rifare uomini liberi. Solo l’uomo libero può amare. Quello che chiediamo al poeta. Quello che oggi noi chiediamo al poeta è riconciliarci con noi stessi, associare intimamente la sua arte alle nostre delusioni, alle nostre sventure, alle nostre rivolte, alla nostra speranza. (Georges Bernanos)
A CHI LEGGE POCO LA BIBBIA. – Gregorio Magno, in una lettera del 595, rimprovera ad un suo amico di non leggere abbastanza la Bibbia. Ecco il suo invito:
«La sacra Scrittura trascende senza paragone ogni scienza e ogni insegnamento: prescindendo dal fatto che annuncia la verità, richiama alla patria celeste, muta il cuore di chi legge affinché si volga dai desideri terreni ad abbracciare le cose celesti; prescindendo dal fatto che con espressioni più oscure allena i forti mentre alletta i piccoli con parlare dimesso; che non è così chiusa da intimidire, né così aperta da svilirsi; che ai lettori semplici è quasi perfettamente nota e ai dottori appare sempre nuova; prescindendo dunque dalla sostanza, la Scrittura sacra supera ogni scienza ed ogni insegnamento con lo stesso modo di esprimersi, perché con la stessa parola mentre espone il testo, enuncia un mistero e riesce così a dire ciò che è stato in modo tale da predire con ciò stesso quel che sarà; e, senza mutare l’ordine del discorso, con le stesse parole sa descrivere ciò che è già compiuto ed annunciare quel che sarà: così sono le stesse parole quelle con cui il Beato Giobbe dice le cose sue e predica le nostre». (Moralia in Lob. XX, 1).
IL «LIBRO DI GIOBBE» E IL PROBLEMA DEL MALE. – Nell’economia dell’Antico Testamento il Libro di Giobbe segna una svolta. L’umanità non ha mai cessato di leggerlo. Giobbe, l’uomo giusto nella desolazione più nera, è sconfitto nel suo implacabile contendere con Dio, o Dio è vinto dalle «ragioni» di Giobbe, e noi ci ricorderemmo di lui proprio a causa del suo prevalere sull’onnipotente? O forse il rapporto tra Giobbe e Dio si pone al di sopra del dilemma vittoria-sconfitta?
Due pensatori, Schopenhauer e Kierkegaard, fuori dell’orizzonte cristiano l’uno e grande cristiano l’altro, hanno preso sul serio Giobbe ed hanno fatto benissimo perché il dolore risveglia nell’uomo la coscienza metafisica ed in ultima analisi è il «soffro, dunque sono» il punto di partenza di ogni serio interrogare se stessi e gli altri sul senso della vita. E chi meglio di Giobbe ha saputo sviscerare i termini della tremenda questione? Per questo potremmo anche noi riprendere in mano quel testo – un libro di assalto alle false evidenze e di domande che mozzano il flato – e lasciarci mettere in discussione da esso.
UNA POESIA DI ELIO FIORE. – Elio Fiore ci ha dato I dialoghi per non morire e in purissimo azzurro; ora ci offre un poemetto, Il cappotto di Montale (Milano 1996). Scelgo dall’ultima opera la poesia «Nel dopoguerra».
Nel dopoguerra, una domenica / d’estate, mio padre mi portò / sull’Appia Antica e, dopo le Catacombe, / visitammo le Fosse Ardeatine. / Le grotte erano chiuse / e i corpi nella terra imprigionati. / Chiesi a mio padre perché erano stati / uccisi. Mio padre non mi risposte, / m’indicò la stella di Davide e la croce. / Gli occhi miei confusi, guardarono / oltre la stella e la croce, / sui campi rossi di papaveri. / L’aria, ricordo, era fosca / e mentre attraversavamo un pantano, / sentii stringermi forte la mano.
5 giugno 1997.
LINEA RECTA BREVISSIMA. La serietà e il divertimento. Se non vi è nulla di serio, non vi è nulla di divertente (Oscar Wilde). Una…sconfitta annunziata. Annunziare una nuova traduzione di un grande classico della letteratura significa annunziare una sconfitta (John Ciardi scrisse queste parole per presentare la sua formidabile traduzione della Divina Commedia).
La Bibbia. Agli occhi della fede, la Bibbia non è soltanto parola su Dio, ma anche parola di Dio. Lo scandalo di Dio. Molto di quel che la Bibbia dice di Dio è raramente oggetto di sermoni dal pulpito, perché, preso in esame troppo da vicino, diventa oggetto di scandalo. Però, anche se solo alcune parti della Bibbia vengono concretamente predicate, nessuna parte di essa viene completamente negata. (Jack Miles)
SOLO NEL MITO CI È DATO TUTTO IN UNA VOLTA. La lettura critica della Bibbia ci permette di accertare una reale evoluzione della religione di Israele. Chi non accettasse questa lettura verrebbe a porre artificiosamente sullo stesso piano testi appartenenti a epoche diverse e ad ambienti diversi, col risultato di compromettere l’intelligibilità stessa della Bibbia. Collocato, invece, nella giusta prospettiva storica ciò che sembra aporetico e contraddittorio, appare sempre più come momento di un processo, tappa di un cammino, meraviglioso e arduo, verso una più alta spiritualità. In altri termini, la rivelazione non è stata data in una sola volta a Mosè sul Sinai; al contrario, è a poco a poco, in progresso di tempo, che Dio comunica a Israele, e per esso al mondo, il suo insegnamento tendente a creare un’umanità nuova. Se non ci fosse gradualità e progresso, non vi sarebbe reale sviluppo della coscienza umana, la rivelazione sarebbe per un’umanità fuori della storia e non vi potrebbe essere cooperazione intelligente e fattiva da parte dell’uomo.
I biologi sostengono che in ogni sviluppo embrionale ed evolutivo non c’è preformazione, ma epigenesi; così nel modo di esistere e nel suo farsi è della rivelazione. Se venisse trasmessa in una sola volta, cadrebbe sulla testa dell’uomo come un aeròlito. I profeti usano, invece, un’altra immagine: Dio insegna all’uomo a camminare. E ciò non si può fare di colpo e in un sol giorno. Paolo, dal suo canto, fa notare che si comincia con il latte, nell’insegnamento come nella nutrizione, prima che si possa passare al pane. Un essere umano è fanciullo prima di diventare uomo e in ogni tappa del suo sviluppo ha una sua propria perfezione da conseguire, un ordo promotionis da raggiungere.
C’E, GRAZIE A DIO,QUALCHE CERTEZZA. Non tutto poteva deludere; / c’è, grazie a Dio, qualche certezza: / che non è amore se non si ama bene, / e questo è vero anche dopo ogni sconfitta (Dai sospiri di Dylan Thomas. 1914 – 1953).
12 giugno 1997.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Che cosa viene prima. Prima della rovina viene l’orgoglio e prima della caduta lo spirito altèro. Non gioire perché il tuo nemico soccombe. Non ti rallegrare per la caduta del tuo nemico e non gioisca il tuo cuore, quando egli soccombe. Se si crede saggio, e se ne vanta, non lo è affatto. Hai visto un uomo che si crede saggio? È meglio sperare in uno stolto che in lui. (Libro dei Proverbi)
La parte bassa dell’uomo e l’altra. La civilizzazione scommette sulla parte bassa dell’uomo. Noi scommettiamo sull’altra e speriamo nel Regno di Dio. L’alternativa è: essere eroici o non essere più. Il linguaggio dell’infanzia. Non si parla in nome dell’infanzia, occorrerebbe parlare il suo linguaggio. Ed è questo linguaggio dimenticato che io cerco… (Georges. Bernanos)
PERCHÈ OCCORRE AMARE LA STORIA. La risposta più immediata a questa domanda è: perché siamo uomini e niente di ciò che è propriamente umano ci è estraneo. Per questo l’esigenza di «rifar l’animo antico» è in noi forte. E se cercare di afferrare i nessi evolutivi, i modi in cui una realtà sia andata svolgendosi – il quo modo res fiat – è interessante e bello nelle scienze naturali e fisiche, perché non dovrebbe esserlo anche nelle scienze umane e, in primo luogo, nella storia? In realtà è un bisogno interiore parlare con il passato, sentirsi avvolti e sospinti e tenuti in «altezza di propositi e di speranze, dagli spiriti dei nostri padri, come da una severa coorte che si dispiega nei secoli» – come scriveva Benedetto Croce all’inizio della sua Storia del regno di Napoli (Bari 1925, p. 5).
«Rifar l’animo antico» significa incontrare i nostri simili, uomini e donne di altre epoche, le loro aspirazioni e le loro opere – siano esse azioni politiche, riforme sociali, istituzioni giuridiche, imprese economiche, creazioni poetiche, avanzamenti tecnici e scientifici, promozione di vita morale e religiosa. E, dunque, codici, palazzi, chiese, conventi, leggi, scuole, laboratori; opere d’arte e di spiritualità, di dedizione appassionata al bene comune, a Dio, ai fratelli meno fortunati. Tutto ciò che attesta il cammino umano nei suoi multiformi aspetti, la nostra avventura, e forse sarebbe meglio dire il nostro dramma, ci viene incontro dall’ombra dei secoli solo che il nostro animo si disponga a interrogarne le testimonianze con attenzione amorosa».
IL RAPPORTO TRA ANTICO E NUOVO TESTAMENTO. Ireneo, la cui opera Contro le eresie (Adversus Haereses) va situata sicuramente nell’ultimo ventennio del II secolo, ha affrontato con penetrante acume la questione del rapporto tra Antico e Nuovo Testamento. Le sue riflessioni sono fresche e attuali oggi come non mai. Per Ireneo i due Testamenti sono plasmati della medesima sostanza e comunicano mirabilmente tra loro, sì che il passaggio dall’uno all’altro è dialettico proprio perché consiste nello sviluppo perfettivo, nell’approfondimento, nella festosa liberazione dal secondario e dall’inessenziale, assai più che nella contrapposizione. «C’è una sola salvezza e un solo Dio, ma ci sono molti precetti per formare l’uomo e non pochi sono i gradini che conducono l’uomo fino a Dio. Un re terrestre, che pure è un uomo, può talvolta dare ai suoi sudditi avanzamenti più grandi: e Dio, che è sempre lo stesso, non potrà distribuire al genere umano in misura sempre maggiore la sua grazia»? (IV, 9,3).
Ireneo prosegue: «Dio non cesserà mai di beneficare e di arricchire l’uomo, né l’uomo cesserà mai di essere beneficato e arricchito da Dio. Colui che si apre a Dio sarà sempre in perfetta crescita, progredirà sempre verso Dio» (IV, 11, 2). E ancora: «Non cesseremo mai di amare Dio e quanto più lo contempleremo, tanto più lo ameremo» (IV, 12, 2). Dio è infatti sempre uguale a sé stesso, essendo tutto quanto luce, pensiero, sostanza e fonte di tutti i beni; gli uomini, invece, sia come individui che come specie, hanno un inizio e passano per uno stadio o più stadi intermedi per tendere alla maturità. La rivelazione è, dunque, data all’uomo in una prospettiva storica e la storia è il luogo effettivo del cammino del credente verso Dio.
POESIA DEL NOVECENTO. L’importante è l’attesa. Importante è l’attesa; non l’agio / con cui aspettiamo. L’uomo paleolitico aspettava in / caverne di comprendere la propria esistenza, / e cacciava; i moderni aspettano in abbellite / dimore cercando di dimenticare morte e vita. Ciò in cui credere. C’è una beatitudine in cui credere, / ed è che tutto dimora in / un’estasi eterna, ora e per sempre. (Jack Kerouac)
19 giugno 1997.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Dura la sorte, grande la bellezza. La sorte dell’uomo è così dura tanto grande la bellezza in cui egli può imbattersi, che soltanto una concezione religiosa del mondo può contenere questi estremi (Robert Stuart Fitzgerald). Nella tasca sinistra. Molti tengono il portafoglio nella tasca sinistra, giusto sopra il cuore. Questo dovrebbe rendere tutto più facile (è lo slogan intelligente e discreto coniato a sostegno di Medici senza frontiere). Meglio la radio. La radio lascia spazio all’immaginazione, perché è uno strumento povero che può essere posseduto in qualunque situazione (Dacia Maraini). Non è miele. Il cristianesimo non è il miele del mondo, ma il sale della terra nelle cui ferite brucia (Georges Bernanos). Legge di Fuller sull’informazione. Più lontano accade una catastrofe o un incidente, più alto dev’essere il numero dei morti o feriti perché faccia notizia (Arthur Bloch). Non è un giornalista. Chi scrive un articolo per procacciarsi un vantaggio o un onore non è un giornalista, è un mendicante. E se s’illude che i lettori non se ne avvedano, è anche un grullo (Ugo Ojetti).
FARE I CONTI CON LA NOSTRA STORIA. Mi sia permesso accennare a due esempi di pseudo-storia oggi in voga. Ecco il primo. La critica alla degenerazione dei partiti – caduti tra il 1977 e il ‘92 ai livelli più bassi di incapacità realizzatrice sul terreno politico e di corruzione sistematica – era ed è ben fondata, né va disonestamente minimizzata. Ma ecco che di lì si è passati ad attaccare con inaudita violenza la stessa Carta costituzionale – che Piero Calamandrei definiva «frutto di una scelta voluta, meditata, paziente, ragionata» – e a invocarne una nuova, come se i gravi guasti ci fossero venuti dall’attuazione dei suoi principi e non già dalla loro tacita o palese violazione.
Discorso questo che diventa subito chiaro se solo si pensi ai modi in cui è stato costantemente aggirato, per limitarci ad uno tra i molti casi, l’art. 81, secondo il quale ogni legge che importi nuove e maggiori spese di quelle previste dal bilancio «deve indicare i mezzi per farvi fronte».
Un altro dei più ricorrenti e infondati leitmotiv delle pseudo-storie oggi in circolazione è appiccicare l’etichetta di «consociativismo» a tutta la storia della Repubblica. Chi lo fa dimentica sia che il nostro Paese è stato segnato per troppi anni da conflitti sociali politici e ideologici di estrema durezza, sia che la stagione dell’appoggio esterno del Pci al governo fu di assai breve durata. Il cosiddetto «compromesso storico» nacque in una situazione terribilmente drammatica, quando la necessità di fronteggiare il terrorismo sovrastava ogni altra considerazione. Era, infatti, indispensabile alla salvezza della democrazia, in quel momento, una copertura a sinistra per isolare il partito armato e batterlo. Moro lo comprese e fu proprio lui, purtroppo, a pagare in prima persona, con la sua stessa vita. Ma anche il Pci fu pesantemente penalizzato in termini di voti.
UNA DELLE ULTIME PAGINE DI CROCE. Nei Quaderni della Critica, nn. 19-20, del settembre 1951, Croce affida il suo congedo a una battuta iniziale. Eccola: «Qualche volta agli amici che mi rivolgono la consueta domanda: – Come state? – rispondo con le parole che Salvatore Di Giacomo udì dal vecchio duca di Maddaloni, il famoso epigrammista napoletano, quando, in una delle sue ultime visite, lo trovò che si scaldava al sole e gli rispose in dialetto:- Non lo vedi? Sto morendo».
Il maggiore degli storici italiani di questo secolo, Federico Chabod, volle richiamare quella pagina a conclusione del suo saggio su Croce storico e così la commentò: «Dal tocco umanamente preciso, che torna curiosamente alla memoria e allegra l’animo, lo sguardo sale tosto e spazia sulla vita e sulla morte dell’uomo: la vita intera preparazione alla morte – e però preparazione che è adempimento di tutti i doveri che ci spettano, e non può essere ozio stupido». (Lezioni di metodo storico, Bari 1972, p. 253).
UNA LUCE ANCHE NEL BUIO NICHILISTA. A Rina. Senza di te un albero / non sarebbe più un albero. / Nulla senza di te / sarebbe quello che è (Giorgio Caproni).
L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Per quanti sono tormentati dalle passioni. Signore, / abbi pietà di quanti sono infelici, / tormentati dalle passioni. / Proteggili, guidali, portali in salvo / attraverso le tue vie / che sono tante. / Tu che sei l’Amore / dona a tutti loro anche la gioia (Fëdor Michajlovič Dostoevskij, da I fratelli Karamazov).
26 giugno 1997.
LINEA RECTA BREVISSIMA. La vita dei giusti. Dio ha creato l’uomo per l’immortalità: a immagine della sua natura lo fece. I giusti vivono per sempre, la loro ricompensa è presso il Signore e l’Altissimo ha cura di loro (Libro della Sapienza). I saggi risplenderanno con lo splendore del firmamento (Libro di Daniele). La gioia e la verità. Nessuno può dirsi felice se è al di fuori della verità (Seneca). Il silenzio, la sete e il pozzo. Ciò che rende bello il deserto – disse il Piccolo Principe – è che nasconde da qualche parte il pozzo… (Antoine de Saint-Exupéry). Condannati a comportarci da ciarlatani? È stata deplorata la ciarlataneria e specialmente la smaccata esagerazione; ma sembra che nessuno abbia notato esser questo l’inevitabile frutto dell’immensa concorrenza; di uno stato sociale in cui una voce, non forzata all’ultimo grado, si perde nel bailamme (John Stuart Mill).
SE E QUANDO CI VUOLE L’ANEDDOTO. – L’aneddoto ci vuole, prima di tutto perché c’è bisogno di tanto in tanto di una pausa nella conversazione, nel racconto storico, e ancor più quando l’argomentazione filosofica si fa più serrata. Platone, ad esempio, lo aveva capito benissimo nei suoi mirabili dialoghi. In uno soprattutto, nel Fedone, egli infatti introduce le singole tappe della sua ascesa dialettica con altrettanti «intermezzi», senza i quali quel capolavoro non sarebbe più tale.
Tra i nostri scrittori chi avvertì la funzione dell’aneddoto – che naturalmente sia significativo, capace cioè di rendere intuitivo, attraverso un quadro di vita, il senso profondo di un avvenimento, di una scelta o della questione di cui si parla – fu Benedetto Croce. Nelle sue pagine, infatti, l’episodio non è mai fine a se stesso, ma vive e si muove nel tessuto logico del discorso, come un suo particolare concreto. Il suo affacciarsi improvviso e la «battuta» che l’accompagna riportano così ciò che si stava dicendo alla giusta misura. In tal modo la conversazione si umanizza ed il dettaglio rischiara l’idea. Di qui l’insistere sempre più vigoroso, da parte del Croce, sul precetto secondo cui «l’universale, come Dio, è tutto in ogni istante».
Che poi l’aneddoto trascini con sé anche qualcosa che dia il «gusto» delle cose umane, niente di male, a patto che non perda il carattere suo proprio, che è quello di essere frammento di un tutto ed espressione di quel tutto, cioè via di accesso all’unità spirituale della coscienza di un individuo, di un moto storico, di un popolo.
L’UMANITÀ FU SOLLEVATA NELLA SPERANZA. Il progresso spirituale dell’umanità culmina nell’accogliere l’estremo dono che Dio fa di sé nel Figlio. Colui che è il fine stesso di tutto lo sviluppo, è egli stesso al suo principio. Tutto, pertanto, da lui si origina ed a lui si collega quanto di Dio ci è rivelato nell’Antico non meno che nel Nuovo Testamento. Si comprende allora come Gesù Cristo tolga di mezzo e nello stesso tempo assuma su di un piano più alto la promessa, la figura, il preannuncio che strutturano l’Antico Testamento, nel momento stesso in cui il suo annuncio costituisce il loro effettivo compimento.
La nuova economia divina era sperata, parzialmente prefigurata, e tante pagine dell’Antico Testamento superano innegabilmente le accidentalità e i condizionamenti temporali per parlare di Dio all’uomo di sempre. Ma il Logos annunciato ed atteso, non era arrivato. Ed ecco che con Cristo il Logos viene e si fa adempimento. Osserva Ireneo: «Se mi viene in mente questo pensiero: – Ma allora il Signore che cosa è venuto a portare di nuovo? – sappiate che ha portato ogni novità, portando se stesso» (Contro le eresie IV, 34, 1). Portandoci se stesso, Cristo ci ha donato la grazia della libertà e ci ha fatto conoscere il senso della Scrittura.
Noi non riusciamo oggi ad immaginare lo sconvolgimento che queste verità portarono nell’anima antica: l’umanità fu sollevata nella speranza. Il Dio trascendente e amico degli uomini apriva a tutti una via che nulla avrebbe potuto più chiudere. Di qui nasce quel sentimento di gioia intensa e di raggiante novità che si respira in tutti i primi scritti cristiani e, in modo eminente, nell’A Diogneto.
L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Sono strane le vie dell’amore. Amore umile e sublime, / nascosto e manifesto, / e per questo rischierò / di correre la tua stessa avventura, / per raggiungere, o istante divino, / la tua pura Essenza! (Hadewjch d’Anversa, prima metà sec. XIII).
La rubrica “Detti e contraddetti” è stata pubblicata sul Giornale di Brescia con cadenza settimanale dal 5 gennaio 1988 al 25 gennaio 2007.