Detti e Contraddetti 1999 – 1° semestre

DETTI E CONTRADDETTI 1999 – PRIMO SEMESTRE

7 gennaio 1999.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La parola scritta e la vita. La parola scritta mi ha insegnato ad ascoltare la voce umana. Viceversa, con l’andar del tempo, la vita mi ha chiarito i libri (Marguerite Yourcenar). Chiari gli obiettivi. Siamo tutti uomini fallibili e spesso mediocri, ma come politici abbiamo un dovere primario: dare al popolo la possibilità di scegliere su quali chiari obiettivi vogliamo costruire l’avvenire della nostra gente. Il resto è inutile commedia (Alcide De Gasperi).

La filosofia ricerca essenziale sul senso della vita. Occorre riproporre nella cultura contemporanea le domande fondamentali della vita dell’uomo, in particolare sul senso dell’esistenza e della storia, recuperando le dimensioni di autentica saggezza e di verità che da sempre hanno animato e guidato la riflessione filosofica. È quanto mai urgente che lo studio della filosofia sia rilanciato nell’itinerario scolastico e universitario delle nuove generazioni, come momento importante nella formazione della coscienza critica e della maturazione nel soggetto del senso di responsabilità etica e sociale. Il lavoro intellettuale, promosso dalle discipline filosofiche, costituisce una fonte perenne nella crescita della civiltà di un popolo orientandola verso valori autenticamente umani (Questo è il passaggio-chiave di una dichiarazione che cinquanta docenti delle quattro università romane di Lettere e Filosofia hanno sottoscritto e trasmesso a Giovanni Paolo II dopo la pubblicazione della lettera Enciclica Fides et ratio).

L’IMPEGNO E L’AUGURIO PER L’ANNO CHE INCOMINCIA: ADEMPIREMO AL NOSTRO «COMPITO QUOTIDIANO». «A scuola ciò che solo ha valore è la semplice probità intellettuale: la quale ci impone di mettere in chiaro che oggi tutti coloro i quali vivono nell’attesa di nuovi profeti e nuovi redentori si trovano nella stessa situazione descritta nel bellissimo canto della scolta idumea durante il periodo dell’esilio, che si legge nell’oracolo di Isaia: “Una voce chiama da Seir in Edon: Sentinella! quanto durerà ancora la notte? E la sentinella risponde: Verrà il mattino, ma è ancora notte. Se volete domandare, tornate un’altra volta”. Il popolo, al quale veniva data questa risposta, ha domandato e atteso ben più di due millenni, e sappiamo il suo tragico destino. Ne vogliamo trarre l’ammonimento che anelare ed attendere non basta, e ci comporteremo in altra maniera: ci metteremo al nostro lavoro e adempiremo al “compito quotidiano” – nella nostra qualità di uomini e nella nostra attività professionale. Ciò è semplice e facile, quando ognuno abbia trovato e segua il demone che tiene i fili della sua vita».

Questa è l’ultima pagina de La scienza come professione di Max Weber. Il grande sociologo scrivendola pensa a ciò che solo ha valore fra le pareti di un’aula, là dove s’insegna; ma il suo appello riguarda anche, ovviamente, tutti coloro che hanno coscienza della loro «qualità di uomini» e del ruolo della loro «attività professionale», nella trama della vita dei singoli soggetti e della società.

LA BELLEZZA È MATERIA DIVINA. «La bellezza è materia divina». Si intitola così un articolo di John Ruskin (Sole 24 Ore, 18 ottobre 1998) in cui si riportano stralci di un suo saggio, Pittori moderni, pubblicato in questi giorni nell’edizione dei «Millenni Einaudi».

Noi devastiamo senza mai rifiatare la bellezza di questa creazione che Dio, una volta compiuta, chiamò «buona», e distruggiamo senza il minimo ripensamento opere a cui gli uomini dedicarono la propria vita intera e quella dei loro figli, e che essi hanno lasciato in eredità a tutta la specie… È, dunque, urgente il bisogno di far riscoprire agli uomini che vivere è niente, se vivere non è conoscere Colui dal quale abbiamo la vita; e che Dio non si conosce sfigurandone le opere, e confondendo la traccia del suo riflesso sopra le Sue creature; né in mezzo alle folle frettolose o al frastuono delle innovazioni tecnologiche, ma in luoghi solitari e per mezzo delle radiose intelligenze che Egli diede a coloro che ci hanno preceduto.

L’ANGOLO DI EDITH STEIN. Dove saremo portati non sappiamo. Dove, Signore, dove / saremo portati su questa terra / non sappiamo, / ma non dobbiamo nemmeno / chiedercelo anzitempo. / Sappiamo soltanto / che per coloro che ti amano, Signore, / tutte le cose / volgono al bene / e che le tue vie vanno di là / da questa terra. (Edith Stein, Il mistero di Natale, Milano 1964).

14 gennaio 1999.

LINEA RECTA BREVISSIMA. L’addio dell’imperatore Francesco Giuseppe, detto «Cecco Beppe». È stato molto bello, Signori. Ringrazio tutti, proprio tutti, compresi quelli che non dovrei ringraziare. Avete qualcosa di meglio? Una rivoluzione si fa, in fin dei conti, con ciò che si ha per le mani. Uomini vecchi per costruire società giovani. Se qualcuno ha qualcosa di meglio, ci avverta (Jesús Ibaňez). «Il caso Das Rekord». Si intitolava così un divertente filmino della Germania occidentale presentato una decina di anni fa al Festival del cinema di Venezia: raccontava di un ragazzo che, tentando di battere il record di permanenza davanti al video, finiva col diventare un’antenna umana, che captava solo segnali elettronici. Quanti di noi, quanti nostri figli e nipoti, corrono il medesimo rischio?

LA MIA FAMIGLIA APPESA A UN MURO. Chi vorrà leggere Il silenzio dei vivi di Elisa Springer (Venezia 1997), avrà modo di riflettere su quella discesa all’inferno, che è un campo di lavoro e di eliminazione, e sulle peripezie attraverso le quali l’Autrice è riuscita a sopravvivere. Io, però, mi porto nel cuore e desidero far conoscere la pagina in cui l’ex deportata – che ha perduto tutti i suoi cari, eccetto una zia – si presenta, appena dimessa dal lager, dinanzi a quella che era stata la sua casa, quasi a riprendere possesso del proprio passato, la cui memoria costituiva in quel momento il tramite stesso per acquistare la propria identità. «Mano a mano – scrive Elisa Springer – che il cammino avvicinava la mia casa ai miei passi, rivedevo, come un flash, la mia vita umiliata e offesa e i volti di tutti i miei cari. Sentivo, ancora, nell’aria, le grida dei miei compagni, all’uscita di scuola: sentivo, ancora, l’odore della vita che, per me, si era fermata a vent’anni. Ma non c’era più nessuno ad aspettarmi. Ho sperato di rivedere mia madre, ancora una volta, mentre va su e giù per la Strozzigasse al numero 32. Mia madre che aspetta con ansia il mio ritorno. Avevo vagato per mezza Europa, nella speranza di sfuggire a un destino già segnato. Avevo perso la mia identità, per ritrovarmi schiava di un numero A-24020 e adesso, prigioniera del nulla, ero davanti alla “mia casa”, abitata da altra gente: una famiglia nazista, così mi è stato detto. Ho abitato ad Auschwitz, Bergen-Belsen, Theresin, ho conosciuto la miseria e l’orrore di uomini senza anima, soldati senza cuore che hanno carpito la nostra libertà senza darci né il tempo, né il modo di difenderla, confinandoci in un mondo di schiavitù, di odio, in cui era impossibile ritrovarsi esseri umani. Hanno cercato di distruggere in me il sentimento della pietà. Ho lottato per non morire prima, dovevo lottare per vivere e ora stavo imparando a conoscere la paura di questa nuova realtà: la paura del mio essere “viva”. Ma non era mia, la colpa di essere viva. Adesso la “mia casa” è lì, di fronte a me. Mi avvicino, il portone è aperto, provo ad entrare. Attraverso il giardino e salgo sul pianerottolo. Sento odore di cucina e alcune voci che giungono dall’interno: mi faccio coraggio e busso due volte. Il cuore mi scoppia in gola e mi soffoca. Mi apre una donna… Riesco a dirle a malapena strozzando le parole: Ja?… Was wollen Sie?…. “Sono Elisa Springer, e in questa casa ho lasciato la mia giovinezza, per seguire un mondo di disperati e di innocenti che andavano al rogo; la prego, mi conceda un attimo di pietà, non mi cacci via, so che per lei è difficile, ma mi faccia entrare, mi faccia guardare un attimo del mio passato… andrò via subito, non le darò disturbo”. Alle pareti c’erano ancora dei quadri di famiglia, i nostri quadri. La mia famiglia appesa a un muro. I miei occhi, gonfi di lacrime, si sono posati su un quadro in particolare. La signora, sulla porta, ha seguito il mio sguardo e mi ha concesso di toglierlo dalla parete e portarlo via con me».

PERCHÉ LA VITA DIVENTI UN’ESISTENZA RIUSCITA. Il male più grande di oggi è la mancanza di amore, la terribile indifferenza verso i fratelli e specialmente per coloro che sono preda dello sfruttamento, della corruzione, della povertà e della malattia… Ma non è un dovere aiutare i poveri: è un privilegio, perché Gesù ci ha assicurato che qualunque cosa faremo all’ultimo dei fratelli, l’avremo fatta a lui stesso… Il segreto della nostra gioia sta nel «dare» e, se i giovani lo comprendono, allora, la loro vita diventa un’esistenza riuscita (Teresa di Calcutta).

21 gennaio 1999.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Come la morte. Forte come la morte è l’amore (Cantico dei Cantici). La carie delle ossa. L’invidia è la carie delle ossa (Libro dei Proverbi). Queste benedette passioni. Dio dice: «Senza la passione il mondo non sopravviverebbe. Nessuno costruirebbe una casa, nessuno pianterebbe un albero, né prenderebbe moglie» (Shohar Tov 21). Più l’uomo è grande, più grandi sono le sue passioni (Sukkà 59a). Una coscienza aperta all’Assoluto. La coscienza è nello spirito il principio essenziale e la sanzione della ragione. La coscienza implica un rapporto tra l’anima e qualcosa di superiore ad essa; un rapporto con un’eccellenza che essa non possiede e con un tribunale sul quale non ha potere. Più l’anima rispetta e segue questo consigliere interiore, più i suoi dettami diventano chiari, elevati e vari e il parametro dell’eccellenza, mentre guida la nostra obbedienza, la supera in continuazione. Si ottiene così, a lungo andare, una convinzione morale circa la natura irraggiungibile e l’autorità suprema dell’oggetto della contemplazione della mente (John Henry Newman). Una confusione micidiale. Ciò che falsa tutte le nostre vite è il fatto che ci si convince di dire la verità solo perché si dice quello che si pensa (Sacha Guitry).

ALLA LUCE DI UNA CHIARA E ONESTA COLLABORAZIONE. Il pensiero filosofico è spesso l’unico terreno d’intesa e di dialogo con chi non condivide la nostra fede. Il movimento filosofico contemporaneo esige l’impegno attento e competente di filosofi credenti capaci di recepire le aspettative, le aperture e le problematiche di questo momento storico. Argomentando alla luce della ragione e secondo le sue regole, il filosofo cristiano, pur sempre guidato dall’intelligenza ulteriore che gli dà la parola di Dio, può sviluppare una riflessione che sarà comprensibile e sensata anche per chi non afferra ancora la verità piena che la Rivelazione divina manifesta. Tale terreno d’intesa e di dialogo è oggi tanto più importante in quanto i problemi che si pongono con più urgenza all’umanità – si pensi al problema ecologico, al problema della pace o della convivenza delle razze e delle culture – trovano una possibile soluzione alla luce di una chiara e onesta collaborazione dei cristiani con i fedeli di altre religioni e con quanti, pur non condividendo una credenza religiosa, hanno a cuore il rinnovamento dell’umanità. Il Concilio Vaticano II lo ha affermato nel modo più esplicito: «Per quanto ci riguarda, il desiderio di stabilire un dialogo che sia ispirato dal solo amore della verità e condotto con l’opportuna prudenza, non esclude nessuno: né coloro che hanno il culto di altri valori umani, benché non ne riconoscano ancora la Sorgente, né coloro che si oppongono alla Chiesa e la perseguitano in diverse maniere». Una filosofia, nella quale risplenda anche qualcosa della verità di Cristo, una risposta definitiva ai problemi dell’uomo, sarà un sostegno efficace per quell’etica vera e insieme planetaria di cui oggi l’umanità ha bisogno (Giovanni Paolo II, Fides et ratio, paragrafo 104. L’Enciclica reca la data 14 settembre dell’anno 1998).

L’ANGOLO DI EDITH STEIN. Seme di risurrezione. Affonda con amore / il tuo sguardo nel mio, / ascolta / le mie flebili parole e riempi / di pace le profondità del mio cuore. // Tu vieni e vai, ma lasci / dietro a te / un seme di gloria futura, / nascosto / nel mio corpo di polvere (da Poèmes et prieres, in La Puissance de la Croix, Parigi 1982).

28 gennaio 1999.

LINEA RECTA BREVISSIMA. L’umorismo come ponte. Il ponte tra i conflitti di classe lo getta l’umorismo. Scolaro… modello. Io era uno scolaro modello perché stavo attento ad ogni parola dell’insegnante per coglierne il lato ridicolo. A patto che riescano simpatici. La gente ama fraternizzare con i simpatici sfruttatori della sua stupidità. L’opera dell’artista. L’artista dà forma al giorno, all’ora, al minuto. L’occasione da cui trae spunto può avere limiti di tempo e di luogo, ma la sua opera cresce tanto più libera da limiti e legami quanto più si allontana dall’occasione. L’opera dell’artista invecchia al momento; ringiovanisce nei decenni. Cuore e bocca. Chi ha il cuore vuoto, ha la bocca che trabocca. Un aforisma. Un aforisma rivela se uno ha una concezione del mondo o no. Il genio e il suo naso. Il padre è un genio, ma di lui il figlio ha ereditato solo il nasone. (Karl Kraus, Aforismi in forma di diario, Roma 1993)

TRE GIORNALISTI GIUDICANO IL LORO LAVORO.

1. Un sistema d’informazione distorto. «Viviamo una situazione di forte distorsione del sistema dell’informazione, di subordinazione agli interessi del mercato, dell’economia, dei poteri forti. I direttori non sono più garanti dell’autonomia dei giornalisti, ma sono diventati piuttosto dei dirigenti amministrativi che rispondono all’ufficio marketing e pubblicità del giornale» (Paolo Serventi Longhi, segretario della Federazione nazionale della stampa italiana).

2. «In passato alla televisione, e al servizio pubblico in particolare, si attribuiva il compito d’informare, educare e divertire. Oggi il secondo obiettivo non viene riproposto da nessuno. La televisione è chiamata a rappresentare la realtà. È in questa rappresentazione della realtà che dobbiamo fare degli sforzi ulteriori di ricerca e di approfondimento. Il problema è che non sempre la formazione dei giornalisti è all’altezza del compito» (Giulio Borrelli, direttore del Tg1).

3.  «Il primato delle tre “s” – soldi, salute, sesso – nei servizi televisivi ha il suo corrispettivo nelle scelte dei telespettatori. Questi problemi interessano tutti e hanno trovato molto spazio nel momento in cui l’informazione si è trovata a contatto con la necessità di vendere. Questo non esime, però, dall’affrontare altri temi, socialmente più edificanti o più impegnativi. Il problema sta nella pigrizia dei giornali, nella scarsa volontà di scommettere da parte di noi che li dirigiamo e forse anche nella nostra inadeguatezza culturale a pensare un prodotto che cerchi anche di stimolare l’attenzione degli spettatori là dove non si è sicuri di sfondare» (Enrico Mentana, direttore del Tg5). Le dichiarazioni riportate sono state fatte nel novembre 1998 al Seminario di formazione per giornalisti tenuto a Capodarco di Fermo.

VIDEOMANIE. Sono due e non uno i grandi teleimbonitori. Mi ero fatta l’idea che in televisione ci fosse una sola persona capace di proporsi – e di imporsi – come portatore della cosiddetta «verità». Invece sono due. C’è anche Giuliano Ferrara. Che non lo fa tuttavia con la stessa implacabile continuità di Sgarbi. Il quale deve avere un fornitore di fiducia, presso il quale si approvvigiona al mattino presto di «verità» di tutti i tipi. Che poi passa generosamente, ogni giorno, ai suoi telespettatori (Beniamino Placido). Il cinismo dei media e gli anticorpi. La reazione anche politica del popolo americano al cosiddetto Sexgate apre nuovi orizzonti rispetto a certe visioni apocalittiche da Quinto Potere. Nel loro cinismo, i media riescono a manipolare l’opinione pubblica fino al punto di mettere in crisi una democrazia, ma non a lungo e in maniera definitiva. Se si supera la crisi, vanno in circolazione gli anticorpi (Curzio Maltese).

L’ANGOLO DI EDITH STEIN. Testamento. Non la sola attività umana / ci può aiutare, / ma la passione di Cristo: / parteciparvi / è mio vero desiderio. Accolgo fin d’ora la morte / che Dio mi ha destinato, / con perfetta unione / alla sua santa volontà. Accogli, Signore, / la tua gloria e la tua lode, / la mia vita e la mia morte / per le intenzioni della Chiesa. Così sia accolto il Signore tra i suoi / e venga a noi il suo Regno con gloria / per la salvezza della Germania / e la pace del mondo; per tutti i miei cari, vivi e morti, / per tutti quelli che m’han dato Dio: / che nessuno si perda (La puissance de la Croix, Parigi 1982).

4 febbraio 1999.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Quattro ritratti di contemporanei. Primo. Vive i nostri tempi elogiando i suoi solo perché ha la certezza che non ritorneranno mai. Secondo. Non vuole responsabilità perché non ha idee. Terzo. È fanatico, ma non senza conservare qualche amicizia fraterna nel campo avversario. Quarto. È conservatore in un Paese [l’Italia] in cui non c’è nulla da conservare (Leo Longanesi).

La vera giovinezza. La vera giovinezza, anziché inizio, è l’ultima conquista di una vita. Il traguardo. Quelle spiegazioni della vita che non rendono accettevole la morte, non hanno spiegato niente. Difficile accordo. L’accordo difficile da stabilire non tanto è tra pensieri ed azioni, ma tra sentimenti e pensieri. Come si diventa coproduttori di ingiustizia. È già commettere ingiustizia il sopportarla. (Ugo Bernasconi)

LA MENZOGNA IN POLITICA. Nel secolo giunto ormai alla fine, una delle cose più immonde, e pagate a più caro prezzo, è stata la menzogna politica nelle dittature totalitarie. I tre pilastri del totalitarismo – comunismo, fascismo e nazismo – hanno congiunto le false certezze dell’ideologia e la menzogna sistematica, il disprezzo della realtà di fatto e delle conseguenze che comportano con la «fabbricazione» di contro-verità con cui fanatizzare le masse, spegnendo in esse ogni barlume di ragione e di umanità. Senza dubbio gli Stati totalitari costituiscono il caso limite nel processo di imbarbarimento dei popoli, però dobbiamo chiederci anche in che misura la menzogna politica e l’esercizio occulto del potere politico, e proprio nelle questioni di maggior rilevanza e gravità, limitano fortemente la democrazia e la minacciano, quando addirittura non arrivano a negarla e a tradirla. Il segreto indebito, la sostituzione del potere invisibile alle procedure costituzionali, la menzogna politica nei regimi democratici non sono, come nei regimi totalitari, metodi di governo in vista del dominio totale, ma piuttosto mezzi di occultamento di politiche che si teme possano risultare intollerabili ad un’opinione pubblica non ancora del tutto manipolata. Essi sono, dunque, strumenti per neutralizzare l’unico limite avvertito dagli ambienti governativi, ossia quello costituito dall’opinione pubblica. Il segreto e la menzogna hanno, però, anche un altro significato. Nella misura in cui «proteggono» gli ambienti governativi dalla visibilità e dalla comunicazione proprie della sfera pubblica, essi ne accentuano la «chiusura», radicalizzando così il distacco dai fatti e il venir meno del senso del limite. Una conseguenza di questa hybris è la riduzione della politica ad un astratto gioco d’azzardo.

SIAMO ESSERI MERAVIGLIOSI, MA INCOMPLETI. Io vivo in mezzo ad un’immensa, splendida, meravigliosa epifania di cose che esistono; le cose del cielo, le cose della terra, le cose del mio mondo: non posso rifiutarmi all’incantesimo dell’universo. Questo erompente stupore non può non esclamare e cantare: benedicite omnia opera Domini Domino [«opere tutte del Signore, benedite il Signore», Salmo 103, 22]… Microbo nello spazio e nel tempo, io posso celebrare l’universo. La gioia metafisica di sentirsi esistenti, vivi, a contatto non solo con se stessi, ma altresì con un mondo esteriore, non è statica e autosoddisfatta: essa si esprime in uno slancio di ricerca, di amore desiderante, e denuncia così una innata carenza della pienezza di quella vita, che si è felicemente scoperta. La coscienza beata del nostro esistere si evolve in coscienza sofferente di ciò che manca alla nostra stessa esistenza. Siamo esseri meravigliosi, ma incompleti, deficienti, caduchi: che vita è questa se è soggetta a limiti tanto stringenti, a bisogni tanto inderogabili, ad una sorte tanto fatale qual è la morte? E la morte, se la nostra anima non è mortale, che cosa è se non un supremo desiderio di vita eterna? Fecisti nos ad Te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te [«ci hai fatti per Te e il nostro cuore è inquieto finché non riposi in Te», Agostino, Confessioni I, 1] (Paolo VI. Appunti ad uso proprio del ritiro spirituale, 18 luglio 1974).

POESIA DEI NOSTRI GIORNI. Colma di Dio. Colma di Dio vorrei / l’anima mia, / goccia di rugiada / dal sole baciata. Epigrafe per un personaggio famoso. In lui mai vi fu musica. / Ebbe in dispregio / l’umano e il sovrumano / e tuttavia si credette cristiano. (Levi Appulo)

11 febbraio 1999.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Opera classica. Opera classica è quella che ha retto alla prova del tempo e che gli uomini di gusto considerano come un modello (Dal Dictionnaire de l’Académie française). La donna, però. L’uomo ha cinque sensi, la donna ne ha cento (Rodolphe Plus). I cosiddetti buoni. I cattivi nuocciono; ma quanto fanno soffrire i cosiddetti buoni, se duri di cuore, privi di gentilezza e univisuali (Levi Appulo). Le nostre cattedrali. Le nostre cattedrali sono uscite dalla collaborazione di tutti. Il povero dà le sue braccia, il ricco il suo denaro, l’architetto la sua scienza, l’artista il suo genio. Non vi è nulla di simile nella storia dell’arte. La bellezza di questa grande arte cristiana è di aver reso visibile, nei suoi grandiosi monumenti, lo slancio unanime delle anime che vogliono salire a Dio. Così fu dappertutto, così fu a Laon, a Reims, ad Amiens, a Bourges, a Chartres (Émile Mâle).

IL VIETNAM, UNA TRAGEDIA E UNO SCACCO PER L’AMERICA. Nello scritto La menzogna in politica – pubblicato nel 1972 a New York e, in traduzione italiana, nel 1985 nelle Edizioni Sugarco, a Milano – Hannah Arendt analizza l’intreccio perverso di «mancanza di senso del limite», «indebita segretezza», «continua mescolanza tra verità e menzogna» che fu alla base della politica statunitense durante la guerra del Vietnam, scorgendo in essa la causa principale sia del disorientamento del popolo americano e della sua crisi morale prima ancora che politica, sia dello scacco subito dalla più grande potenza militare del mondo. È immorale e autodistruttiva per le democrazie una politica che perda il senso della realtà effettuale, che stacchi le decisioni che riguardano la vita e la morte delle giovani generazioni dal dibattito politico e che agisca esclusivamente in base al calcolo delle probabilità di successo, ossia in base a parametri quantitativi, senza prestare alcuna attenzioni al tipo di fatti in questione. Il buon senso vuole che non si metta in atto un progetto che, nell’eventualità di un fallimento, avrebbe ripercussioni disastrose e che, invece, nel caso di un successo porterebbe soltanto ad un miglioramento non sostanziale della situazione da cui si parte. Ciò vale anche se esistono pochissime probabilità che tale progetto possa fallire. A parere della Arendt, i problem-solvers, invece, con la loro illimitata e irrazionale fiducia nella calcolabilità della realtà, predisponevano dei giochi astratti, in cui la concreta configurazione delle opzioni considerate si perdeva dietro l’altalena delle percentuali.

TRE RIFLESSIONI DI SENECA SULLA VECCHIAIA. 1. Perché molti sono colti impreparati. Quando la vecchiaia li coglie, gli uomini che si sono persi in mille faccende hanno ancora una mentalità infantile. Non si sono preparati e sono inermi di fronte ad essa. Ci sono caduti tutti ad un tratto senza accorgersene, giacché non percepivano il suo avvicinarsi giorno dopo giorno. Così come chi durante un viaggio, discorre con qualcuno, o legge, è assorto nel pensiero di qualcosa d’importante: ed ecco, è già arrivato a destinazione e non s’era neppure accorto che la meta stava avvicinandosi. Questo viaggio continuo e celerissimo della vita delle persone soverchiamente occupate non è avvertito se non nel momento in cui finisce (De brevitate vitae 9, 4-5).

2. Accogliamo la nostra vecchiaia e amiamola. Dovunque ci volgiamo, scorgiamo le prove del nostro invecchiare. Accogliamo la nostra vecchiaia e amiamola: essa può dare tanta gioia per chi ne sappia usare bene. I frutti sono più che mai graditi quando cominciano a mancare; la fanciullezza è molto bella quando sta per finire; a chi piace il vino, piace di più l’ultimo sorso, quello che dà il colpo di grazia e inebria; ogni piacere ha il suo momento culminante quando volge al termine. Piacevolissima è l’età che già declina, ma non scende ancora a precipizio; tuttavia persino l’ultimo periodo della vita ha i suoi piaceri o, almeno ha il vantaggio di non sentirne più il bisogno. Dolce cosa è anche aver stancato le passioni ed essersele lasciate alle spalle (Ad Lucilium ep. 12, 1 e 4-5 passim).

3. Occorre tener pronti i bagagli per la partenza. Se puoi, liberati con le buone dalle attività che ti tengono occupato; altrimenti lasciale tu una volta per sempre. Abbiamo già sciupato molto tempo. Cominciamo a fare i bagagli, ora che siamo entrati nella vecchiaia. Qualcuno avrà qualcosa da dire? Chi è vissuto fra i rischi del mare aperto, potrà pur morire in porto (Ad Lucilium ep. 19, 1-2).

25 febbraio 1999.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Innamorarsi. Innamorarsi è vivere l’esaltante esperienza di una sorta di «rifondazione del mondo» (Leonardo Ancona). Il grande codice di riferimento. La Sacra Scrittura è disponibile anche ai non credenti come il grande «codice di riferimento» della cultura e dell’etica più alta dell’Occidente. «Perché i nostri ragazzi – si chiede Umberto Eco – devono sapere tutto degli dei di Omero e quasi nulla di Mosè?». Già nell’Ottocento un «laico» come Francesco De Sanctis lamentava che nelle nostre scuole, dove si fanno leggere tante cose frivole, non sia penetrata un’antologia biblica, adattissima a tener vivo il sentimento religioso che è lo stesso sentimento morale nel suo senso più elevato. La Bibbia, dunque, deve ritornare ad essere la guida dei credenti, ma anche il libro dell’umanità intera che s’interroga e che spera (Gianfranco Ravasi). La privazione della libertà. La privazione della libertà è il mezzo più sicuro per insultare l’uomo, per umiliarlo al fine di colpirlo nella sua anima, in ciò che egli ha di unico e di singolare (Julien Green).

PER UNA CORRETTA ACCEZIONE DEL TERMINE «LAICO». Laico non significa affatto, come spesso ignorantemente si presuppone, l’opposto di cattolico e non indica, di per sé, né un credente né un agnostico né un ateo. Laicità non è un contenuto filosofico, bensì un abito mentale, la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che è invece oggetto di fede – a prescindere dall’adesione o meno a tale fede – e di distinguere le sfere delle diverse competenze, ad esempio quelle della Chiesa e quelle dello Stato, ciò che secondo il detto evangelico bisogna dare a Dio e ciò che bisogna dare a Cesare. La laicità, dunque, non si identifica a priori con alcun credo preciso, con alcuna filosofia o ideologia, ma è l’attitudine critica ad articolare il proprio credo filosofico o religioso secondo regole e principi logici… In tal senso la cultura – anche una cultura cattolica – se è tale è sempre laica. Laico, dunque, è chi sa aderire ad un’idea senza restarne succube; chi s’impegna politicamente conservando l’indipendenza critica; chi ride e sorride di ciò che ama continuando ad amarlo; chi è libero dal bisogno di idolatrare e di dissacrare; chi non dà da bere a se stesso trovando mille giustificazioni ideologiche per le proprie mancanze; chi è libero dal culto di sé. In quest’ottica non solo il clericalismo invadente e intollerante, ma anche la dominante cultura o pseudocultura radicaloide e secolarizzata è l’opposto di questa laicità, in quanto è caratterizzata da un narcisismo petulante, smanioso di rivestirsi di una nobile aureola ideologica e di declamare nobili battaglie.

Queste riflessioni – apparse il 6 dicembre 1998 sul Corriere della Sera – sono di Claudio Magris e gli fanno onore. Esse stanno a indicare una direzione e un orientamento dello spirito, ma anche un metodo di ricerca che sempre abbiamo difeso e testimoniato in questa rubrica di fronte agli integralismi di segno opposto che affliggono ancora il nostro Paese.

LA SORPRESA. Desidero ricordare che ho avuto il privilegio, la fortuna, di partecipare alla cerimonia della inaugurazione del Giudizio della Cappella Sistina, quando fu svelato dopo il restauro, e Papa Wojtyla fece un discorso al proposito; ad un certo punto egli sorprese tutti, come tante volte fa questo Papa, incominciando a tessere un’esaltazione della glorificazione che Dio riceve dal corpo nudo dell’uomo e della donna; la nudità del corpo, l’essere nudi insieme come esaltazione della gloria di Dio Creatore (Leonardo Ancona, conferenza su Eros e Agàpe tenuta a Brescia il 26 novembre 1998).

LA CORRISPONDENZA DI ERASMO. La mescolanza. Le cose umane non sono senza mescolanza e il dolore si accompagna alla gioia. Governare un popolo di uomini liberi. Piaccia al cielo che i principi si lascino persuadere del fatto che nessuno regna con più splendore di colui che comanda a uomini liberi e felici. (Erasmo, Ep. 1001 – A Jacob Burckhardt detto Spalantinus – Anversa, 7 aprile 1519)

POESIA DEL NOSTRO TEMPO. Ragione aiutami, ho paura. Ragione aiutami, ho paura! / Liberaci dal male di volere / prender certuni a calci nel sedere; / fa’ che non ci scoppi il cuore / per troppo amore o troppo disamore. / Sopravvissuti a tante ore smaniose / a noi rimangono ben poche cose / e una certezza: il primo dovere / è fare, ognuno, il proprio mestiere. (Pier Luigi Piotti)

4 marzo 1999.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La storia. 1. Solo attraverso l’illuminazione del passato possiamo intravedere il significato del presente (Johann W. Goethe). 2. La storia non è la narrazione dei fatti, bensì la comprensione della loro genesi (José Ortega y Gasset). 3. La storia può dare qualche contributo alle scienze sociali una base di fatti accuratamente accertati e da esse può ottenere in cambio leggi e ipotesi che inducano ad un più sicuro procedimento critico e alla coordinazione dei fatti (Gaetano Salvemini). 4. La storia è la ricerca approfondita della verità in rapporto agli avvenimenti che caratterizzano il cammino degli uomini. Essa tende a scoprire con sottigliezza le cause e le origini delle cose che narra, il perché e il come esse abbiano potuto prodursi e le loro connessioni. La storia non è una scienza della natura, ma è a pieno titolo un sapere scientifico (Ibn Khaldun).

SEQUESTRATI DAI PROPRI MITI PERSONALI. Ci sono uomini di grande talento, che sanno trasfigurare i loro sentimenti nella scrittura, e tuttavia politicamente incapaci di un giudizio storico e morale che sia criticamente fondato. Sordi alla dura lezione dei fatti, costoro sono perennemente «smemorati a senso unico», perché non ricordano mai i crimini e gli errori della propria parte: sono prigionieri delle ideologie che hanno segnato la loro adolescenza e più ancora dei propri miti personali. Ma da gente del loro livello ci aspetteremmo qualcosa di più.

«Ci aspetteremmo – annota Lorenzo Mondo su La Stampa del 3 gennaio 1999 – anche la capacità di rimettersi in gioco, di liberarsi dalle illusioni, di lanciare uno sguardo più sgombro e acuto sulla realtà. Ci aspetteremmo una maggiore equanimità nei confronti di ciò che è indistintamente umano. Il mestiere, oltre alle persecuzioni e servitù sofferte, dovrebbe fargli riconoscere, all’odore, i segnali di oppressione, le meschinità e le menzogne di ogni dittatura, convincerli a non distinguere fra la pelle degli amici e quella degli avversari. Non c’è utopia, che possa giustificare il carcere e il plotone d’esecuzione per i dissidenti. Pensavamo che fosse una verità acquisita, almeno per quelli che ci ostiniamo a considerare i cultori dello spirito, ma non è così. Fra tutte le fedeltà la più tenace è quella riservata ai propri errori».

IL CANDORE DI UN PAPA E L’IRONIA DI UN COMICO. Mi accade spesso. Mi accade spesso di svegliarmi di notte e cominciare a pensare a una serie di gravi problemi e decidere di parlarne al Papa. Poi mi sveglio completamente e mi ricordo che io sono il Papa (Giovanni XXIII). A proposito di un certo ateismo. Dopo il Giudizio Universale Dio incontra Carlo Marx: «Ah, tu sei quello che mi ha dato quelle preoccupazioni nel XX secolo. Visto che hai sempre detto che io non ci sono, sarai condannato a farmi da portinaio. E quando non vorrò essere disturbato, sei autorizzato a dire: Dio non c’è» (Roberto Benigni).

LA CORRISPONDENZA DI ERASMO. La voglia matta di denigrare. La maggior parte delle persone sono possedute da una sorte di «furore della denigrazione». Ma gente del genere non deve mai far presa su di noi (Erasmo, Ep. 724 – 30 novembre 1517). Siamo come balbuzienti. Sulle cose che riguardano Dio qualunque cosa il nostro discorso riesca a dire non può che balbettare (Erasmo, Ep. 734 – 9 dicembre 1517). Il Vangelo lo vieta. Se divinizziamo gli uomini, il sacerdozio diventa una tirannia (Erasmo, Ep. 891 – A John Colet, 23 ottobre 1518). I paragoni dispiacciono. I paragoni dispiacciono; tutti grandi, ciascuno al suo posto, hanno diritto al nostro rispetto (Erasmo, Ep. 898 – A Martin Lipse, Lovanio, ottobre 1518).

POESIA DEI NOSTRO TEMPO. Questione di stile. Il modo d’essere viene prima / del modo di dire. / Con stile si può anche morire. Vittorio il capraio. Quest’uomo così lieto di donare / visse mortificato dal rifiuto / dei suoi simili; non degli animali / che lo amavano, amati, per un tozzo / di pane intriso d’anima e silenzio. / Non soddisfatto, non insoddisfatto, / come chi sa che ciò che è inevitabile / senza cercare né chiamare, quando / che sia, inevitabilmente accade. (Pier Luigi Piotti)

11 marzo 1999.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Finché arriva uno… sprovveduto. Tutti sanno che una cosa è impossibile da realizzare, finché arriva uno sprovveduto che non lo sa e la inventa (Albert Einstein). Un consiglio prezioso. Ugo Ojetti mi ha insegnato un principio: considerare intelligenti anche coloro che non la pensano come noi (Enzo Biagi).

Perché il mondo non è peggiore di quello che è? La risposta ce la dà Max Weber nel suo famoso aforisma: non ci sarebbe il possibile, se ogni giorno qualcuno non tentasse l’impossibile. Quindi, se si vuole il progresso, bisogna non conculcare i tentativi di quei volonterosi che arrischiano, anche non intenzionalmente, nell’interesse di tutti. Le società civili, che agevolano questi pionieri e non cercano di comprimerli per opera di ottusi burocrati, disonesti politici o giudici arbitrari, sono quelle che, alla fine, si ritrovano con maggior benessere. Dante e i compagni di Ulisse. Dante, poeta dell’universale fino al limite (meglio: oltre il limite!) ci ha dato nel XXVI canto dell’Inferno la descrizione del prototipo di uomo, che tenta di vincere il nichilismo del quotidiano, del tempo presente, del ciò che è, tentando l’impossibile e l’imprevedibile. Chi sono i santi, i martiri, gli eroi, i grandi capitani d’industria, certi scienziati, certi artisti, se non degli ulissidi, che battono strade impossibili, che nessun piccolo uomo, con la sua tradizionale rassicurante razionalità, mai si sognerebbe di proporsi? Chi è Dante, se non il poeta dell’impossibile? (Pietro Bonazza)

SE LA SCONFITTA MORALE È CERTA… Fa impressione leggere, a quattro mesi di distanza, quanto scriveva su l’Unità Michele Serra all’indomani della caduta del governo Prodi. Il suo punto di vista non è quello, evidentemente, dei suoi avversari politici, ma non è neppure quello del suo partito, il Pds. Ci si deve chiedere: chi ha visto giusto, Michele Serra o Massimo D’Alema? Ai lettori la non ardua sentenza.

«Aprile ‘96 è cancellato: la maggioranza uscita dalle urne non esiste più. Ora ci si chiede, a sinistra, se sia peggio rabberciare a tutti i costi la legislatura con qualche rattoppo centrista, o se sia peggio andare al voto come vuole Berlusconi, rischiando di consegnargli il Paese. La scelta è, comunque, tra un peggio e un altro peggio. Con due differenze non da poco, però. La prima differenza, che riguarda solo l’Ulivo, è che la sconfitta elettorale è incerta, mentre sarebbe certa la sconfitta morale di chi, dopo aver puntato tutto sul bipolarismo, andasse a cercarsi una maggioranza che non è quella indicata agli elettori. La seconda differenza, che riguarda invece tutto il Paese, è che l’investitura elettorale, chiunque essa decida di premiare, è ovviamente più limpida e democratica di qualunque manovra di potere. Un Ulivo che si ripresentasse agli elettori senza averne tradito il mandato potrebbe farlo a fronte alta. Non so quanto, in Italia, questo possa contare. Conta però, sicuramente, per la grande maggioranza degli elettori dell’Ulivo».

IL PRIMO «SCIOPERO SACERDOTALE». La settimana scorsa ho rimescolato tutta la Chiesa col primo Sciopero sacerdotale. Per fortuna è bastata la minaccia di sciopero. Cioè mi son rifiutato di dir Messa finché i ricchi proprietari del luogo, non avessero sistemato una cloaca che appestava 4 inquilini e la cappella. Ne è seguito molto più di quanto non prevedessi, cioè una dimostrazione di popolo sotto le loro finestre e una solenne multa della guardia comunale. I lavori furono immediatamente fatti (da mesi li chiedevo) e così domenica ritiravo l’ordine di sciopero e dicevo Messa (Lorenzo Milani, Lettere alla Madre, Genova 1997, pp. 76-77 – S. Donato, 29 agosto 1949).

POESIA DEI NOSTRO TEMPO. L’imboscata. Il ragazzo tedesco / riverso insanguinato là nel bosco / come un pettirosso nell’archetto, / quello / lì giunto scalpitando / sull’ippogrifo della giovinezza / «cantando giulive canzoni di guerra», / quello / che avvertiva la morte nel mio passo / e agitava la mano: No, non farlo; / quello / che chiuse gli occhi e disse «mamma», quando / mi chinai su di lui per carezzarlo, / quello / per cui mi piango addosso a ripensarlo / non era più un nemico, ma un fratello (Pier Luigi Piotti).

18 marzo 1999.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Aspettati di tutto. Fabio il Temporeggiatore diceva che la peggior scusa per un comandante era: «Non l’avrei proprio pensato». Io la giudico la più vergognosa per un uomo. Pensa a tutto, aspettati tutto: anche dalle persone per bene ti verrà qualche difficoltà… Il pilota dispiega pure le vele al vento con animo sereno, ma tenga sempre pronti gli attrezzi necessari per ammainarle alla svelta (Seneca).

L’opposto del fantomatico. Che cos’è l’opposto del fantomatico? La solidità. Autopresentazione. Io ho bisogno della «nobile ira» dinanzi alla meschinità, al fariseismo, alla menzogna, alla vigliaccheria. L’anima irascibile è inestirpabile dalla mia personalità. Tuttavia, in ultima istanza, è la pietà che ha il sopravvento. Come dice il nostro Pascoli: «È la pietà che l’uomo all’uom più deve». (Levi Appulo)

IL SENSO DELLA POESIA NON ESISTE CHE IN QUELL’INSIEME… Coloro che pretendono che ogni poesia abbia un senso e ne aspettano la rivelazione, hanno un atteggiamento corretto; il loro errore comincia non appena intendono la parola «senso» come cercherebbero d’intenderla a proposito di un testo che fosse legato al pensiero definitivo. Il primo carattere della significazione poetica è che essa è associata, senza mutamento possibile, al linguaggio che la manifesta. Mentre nel linguaggio non poetico sappiamo di aver capito l’idea che ci viene presentata dal discorso allorché possiamo esprimerla sotto forme diverse, rendendocene padroni al punto di liberarla da ogni linguaggio determinato, la poesia invece, per essere capita, esige un’acquiescenza totale alla forma unica che propone. Il senso della poesia è inseparabile da tutte le parole, da tutti i movimenti, da tutti gli accenti della poesia. Non esiste che in quell’insieme e scompare non appena si cerchi di separarlo dalla forma che ha ricevuto.

SOCRATE E LUTERO. La questione del senso dell’uomo non riguarda, in astratto, che cosa egli sia, ma chi egli diventi nella sua storia, teso fino allo spasimo tra cielo e terra, e il «guazzabuglio» irrisolto che c’è nel cuore dell’uomo invoca, oltre a storia, l’eschaton come soluzione finale. Si dice che Socrate considerasse veramente sapiente solo l’uomo consapevole di non esserlo e perciò desideroso di diventarlo. Qualcosa di simile, nel contesto della società cristiana, pensò Lutero a proposito della vera sapienza cristiana. Chi pretende di essere sapiente, giusto e santo non conosce che cosa siano sapienza, giustizia e santità. In modo meno astratto e più esistenziale: non conosce e non riconosce la propria stoltezza, l’ingiustizia ed il peccato che governano la sua vita. A differenza però di Socrate, che in virtù del metodo maieutico riteneva fosse alla portata dell’uomo nascere alla verità, Lutero crede che solo la parola di Dio con la sua potenza divina sia in grado di introdurre l’uomo alla vera conoscenza di sé. Finché uno non è colpito dalla parola che Dio stesso scocca nel suo cuore, non sa neppure di non conoscersi (Franco Buzzi, introduzione a I sette salmi penitenziali – Il bel «Confitemini», Milano 1996).

LA CORRISPONDENZA DI ERASMO. Nerone ed Epitteto. Il potere imperiale e le sue ricchezze non hanno posto Nerone al riparo dell’infelicità; ma Epitteto, se avesse potuto disporre di quegli stessi vantaggi, sarebbe stato assai meglio preparato a usarli come mezzi per l’esercizio della virtù. Ricchezza e povertà. Non mescoliamo Cristo in certe discussioni. Se egli ha voluto che gli apostoli fossero poveri, non per questo ha insegnato che le ricchezze in quanto tali siano cattive. Egli ha voluto solo che la gloria del suo Vangelo non fosse attribuita ai mezzi di questo mondo. Ciò non toglie che spesso occorrerà rinunciare alle ricchezze quando lo esigerà la pietà. (Erasmo, Ep. 959 – A Guglielmo di Croy, Lovanio, maggio 1519)

POESIA DEI NOSTRO TEMPO. M’affido a un bimbo. Teneramente affidi / alla mia la tua mano, / e così mi proteggi. Manzoniana. Per ogni Innominato, / chiuso nel suo castello, disperato, / dal fondo della valle torni qualche / voce d’infanzia a rischiarargli il cuore. Lo so. Lo so che libertà significa / spontaneo adempimento, / essere umili e giusti; / tuttavia com’è difficile amarti, / prossimo mio, accettarti / ventiquattr’ore al giorno. (Pier Luigi Piotti)

25 marzo 1999.

LINEA RECTA BREVISSIMA.

L’unità di convergenza. L’unità di convergenza e il reciproco irraggiamento di verità distinte, grazie anche alla coscienza sempre più lucida delle loro differenze, sono il risultato più alto del «metodo ecumenico» di affrontare i problemi. L’obiezione scettica va capovolta. Per alcuni scettici l’«esigenza di Dio» in uomini di straordinaria grandezza – da Socrate a Bergson, da Plotino a Pascal, dall’Alighieri a Baudelaire, da Manzoni a Dostoevskij – non è che l’espressione del loro carattere. Ma che geni di tale altezza provino quell’esigenza, non è forse già un argomento per l’esistenza di Dio? (Levi Appulo)

Di più. Più profondo del dolore o del piacere è la gioia. La differenza. Per il panteismo, tutto è Dio. Per la metafisica dei valori, Dio è il valore di tutto. (René Le Senne). L’uomo politico vero. In questo si rivela il talento dell’uomo politico vero, che si appassiona alle proprie idee, ma sa collocarle nel contesto delle forze che le condizionano e, come il matematico, sa trovare la «risultante» di componenti che si muovono in varie direzioni (Fabiano De Zan). Le generazioni future. Dobbiamo avere cura gli uni degli altri ed essere disponibili gli uni per gli altri. Perciò ci chiediamo, ad ogni decisione che prendiamo, quali conseguenze ha per i tempi futuri e se è di giovamento oppure se danneggia le generazioni future (Carol Cornelius, indiana irochese della tribù Mohawk).

HANNO CREDUTO DI «ACCELERARE LA STORIA» CON IL TERRORE. Il terrore nel regime totalitario cessa di essere uno strumento per la soppressione dell’opposizione e si propone di far sì che le forze della natura (nel caso dei nazisti) o della storia (nel caso dei comunisti) corrano liberamente attraverso l’umanità, senza l’impedimento dell’azione umana spontanea… Nel ferreo vincolo del terrore è stato trovato uno strumento capace non solo di liberare le forze storiche e naturali, ma di accelerarle fino a una velocità che non avrebbero mai raggiunto se lasciate a se stesse. In pratica, ciò significa che il terrore esegue sul posto le sentenze di morte che, a quanto si suppone, la natura avrebbe pronunciato contro razze ed individui «inadatti a vivere» o la storia contro le «classi morenti», senza attendere i processi più lenti e meno efficaci della natura o della storia (Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, Milano 1967).

LA FEDE DI DON MILANI E IL SUO «LETICARE» PER AMORE DEL VANGELO. Il mio lavoro a S. Donato è come un film a lieto fine. Mi sono tolto tutte le soddisfazioni, ho potuto lavorare come m’è parso e piaciuto, non son mai stato costretto a compromessi, sto divertendomi un mondo a fare un finale di fuoco. Cosa vuoi di più? Considera questi 5 anni come una mia creaturina. Quello che importa non è che la mia opera sia lunga, ma che sia rifinita bene e senza stonature. Se mi riesce a portarla in fondo così non temere che io ne serbi rimpianti o tormenti. Ti ricordi come rispose Simone Weil al superiore che minacciava di destituirla?: «Ho sempre considerato la destituzione il naturale coronamento della mia carriera scolastica!». Lo scambio dei preti avverrà nei prossimi giorni perché c’è i preti novelli. Comunque per me non c’è nessuna possibilità di restare qui. Sono decisissimo a non difendermi ed a non lasciarmi difendere da amici. Anche te non muovere nulla e non parlare con nessuno perché ti assicuro che sono contento così. L’unica cosa che mi farebbe veramente male sarebbe se mi condannassero dottrinalmente. Ma questo non dovrebbe poter avvenire perché ho sempre guardato d’esser cristiano e cattolico ed ho sempre chiesto di morire in questa fede. E del resto mi ci sento ogni giorno più vicino, tant’è vero che mi dedico tutto alla sua diffusione e tutta la divergenza è soltanto sul modo di diffusione. Insomma io t’ho avvertito perché tu ti prepari al colpo che non sarà lontano e perché tu sappia che la mia fede cattolica non è in discussione. Uno può leticare con tutti i suoi fratelli ma resta sempre di quella famiglia. E questo è quello che è avvenuto a me (Lorenzo Milani, Lettere alla Madre, Genova 1997, pp. 102-103, S. Donato, 14 luglio 1952).

POESIA DEI NOSTRO TEMPO. Tu, però, non mollare. Carichi d’acciacchi / siamo tornati a vivere in un mondo / che ci consiglia d’essere vigliacchi. Ritratto di P.P.P. Qualcosa che non fila, / un che di pataccaro in questo / superuomo a rovescio, / Cassandra del duemila. (Pier Luigi Piotti)

1 aprile 1999.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Il ramo e l’albero. Un ramo di pazzia abbellisce l’albero della saggezza (Alessandro Morandotti). La rosa e la spina. Per amore della rosa si sopportano le spine (Proverbio turco). I giovani e l’impossibile. I giovani cercano l’impossibile e, una generazione dopo l’altra, lo conseguono (Proverbio statunitense). La perfezione dell’amore. Nell’amore la perfezione è proporzionata alla sua libertà, e questa alla sua purezza (Thomas Merton). Quando ne vale la pena, bisogna lasciarsi influenzare. Solo i deboli hanno paura di lasciarsi influenzare (Johann W. Goethe). Pensare e agire. Pensa da uomo d’azione e agisci da uomo di pensiero (Henri Bergson). Per conoscere la felicità. La felicità è uno strano personaggio: la si riconosce soltanto dalla sua foto in negativo (Gilbert Cesbron).

«CALMA TU LE ONDE IN QUESTO PETTO». Ai lettori presento, con gli auguri pasquali, il dono di due passi dal Diario di Søren Kierkegaard, il Socrate cristiano del Nord dalla vita breve e ardente (1813-1855), che insieme a Fëdor Dostoevskij è il più serio e sconvolgente annunciatore del Cristo negli ultimi tre secoli. Prima di loro, infatti, c’è solo Pascal, l’autore dei Pensieri, che visse nel Seicento.

1° gennaio 1839. Signore, calma tu le onde in questo petto, placa le tempeste! / Anima mia taci, ché la Divinità possa agire in te. /Anima mia mettiti in pace, possa Dio riposare in te, la sua pace ti possa coprire con la sua ombra. / Sì, Padre, tanto spesso noi abbiamo provato che il mondo non ci può dare la pace. / Ma tu facci sentire che tu puoi dare la pace. / Fa’ che sentiamo la verità della promessa che la tua pace il mondo intero non ce la può togliere. 6 gennaio 1839. Padre celeste! quando il pensiero di te si sveglia nell’anima nostra, / fa’ che non si svegli come un uccello sbigottito e disorientato che svolazza qua e là, / ma come un bambino che si desta col suo sorriso celeste.

Il Diario di Kierkegaard è edito in dodici volumetti dalla Morcelliana di Brescia, tradotto splendidamente da Cornelio Fabro, che lo ha annotato e ne ha scritto l’introduzione.

IL PARADOSSO: È BENE CHE IL TRIONFO DEL BENE NON SIA IMMANCABILE. La disponibilità più generosa al confronto leale delle idee e all’armonizzazione onesta degli interessi non basta per nulla a metterci al riparo da ingiusti attacchi e da umilianti discriminazioni. Ai giovani, pertanto, bisogna dire subito una verità su cui Tommaso d’Aquino e Kant non si stancarono di richiamare l’attenzione: qui, in questo mondo, non c’è equazione tra il bonum honestum che riusciamo a testimoniare nella misura in cui siamo uomini di buona volontà, e la delectatio che può venirci anche dalla stima, dal consenso, dalla gratitudine degli altri. La virtù ci rende degni della felicità, ma non è sufficiente affatto a farcela conseguire. Non è lecito, dunque, spingere i giovani a farsi illusioni e a fantasticare il successo come risultato che comunque non può sfuggire a una buona condotta di vita. C’è di più: occorrerebbe, a mio avviso, mostrare che è bene che le cose stiano così, altrimenti sarebbe impossibile evitare una degenerazione utilitaristica della coscienza morale. Se infatti qui e ora il trionfo del bene fosse immancabile, prima o poi il bene finirebbe con l’essere voluto non in quanto tale, ma per i vantaggi che ci procurerebbe. L’educazione, nel senso più alto della parola, è quel processo che aiuta la coscienza a scegliere il bene con piena consapevolezza della superiorità su ogni altra alternativa e a prescindere da ogni altra considerazione. Ma un fine così alto sarebbe francamente irraggiungibile se nei nostri figli e nei giovani continuassimo ad alimentare la mentalità meschina del do ut des, del «che cosa ne viene a me da quello che faccio?». Guai ad incoraggiare la tendenza a pretendere una chicca per ogni dovere compiuto. Bisogna apprendere per tempo anche a fare a meno delle lodi, se mancano, e tanto più delle adulazioni, che sono fuorvianti per chiunque. La stima degli altri fa innegabilmente piacere, ma occorre meritarla senza mai sollecitarla, e tanto meno pretenderla a tutti i costi.

POETI ITALIANI DEL NOVECENTO. La felicità e l’immedesimarsi con l’altro. A volte si tocca il punto fermo e impensabile / dove nulla da nulla è più diviso, / né morte da vita / né innocenza da colpa, / e dove anche il dolore è gioia piena. / Sono cose, queste, che si dicono per noi soltanto. / Altri ne riderebbero. / Ma dire si devono. Le annoto / per te che le sai bene e per testimonianza dell’amore eterno… (Mario Luzi).

8 aprile 1999.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La brevità. La brevità è l’anima stessa della saggezza. Chi è il vero eretico. Eretico è colui che accende il fuoco, non chi vi brucia dentro. (William Shakespeare)

Amara verità. Volete aver molti in aiuto? Cercate di non averne bisogno (Alessandro Manzoni). Il capolavoro e la fatica. L’arte comincia dalla resistenza: dalla resistenza vinta. Non esiste capolavoro umano che non sia stato ottenuto faticosamente (André Gide). Il potere e l’abuso di potere. Quanto più grande il potere, tanto più pericoloso l’abuso (Edmund Burke). Più pericolose le istituzioni corrotte. Le istituzioni sono più corrotte e più guaste degli individui, perché hanno più potere per fare del male, e sono meno esposte al disonore e alla punizione. Non provano né vergogna, né rimorso, né gratitudine, e neanche benevolenza (William Hazlitt).

L’ADDIO DI UN MAESTRO AI GIOVANI: L’ULTIMA LEZIONE. Solo recentemente, sfogliando per caso il notiziario di un’associazione culturale, mi sono imbattuto in uno scritto di singolare importanza: è il testo dell’ultima lezione di un insigne maestro della ricerca storica, Mario Bendiscioli. Eccolo. «Con questa lezione, ultima dell’anno accademico ‘72-’73, prendo congedo dalla scuola e dall’insegnamento pubblico che è stato la professione della mia vita. Da un insegnamento che ha voluto essere – e penso sia stato – una comunicazione di conoscenze e di esperienze, ma anche apertura a stimoli in reciproco arricchimento e questo dentro la scuola, con allievi di età ed esperienza diversa, ma anche fuori della scuola, come traduttore, promotore di edizioni, collaboratore e direttore di riviste. E sempre con animo aperto ai grandi problemi della vita sociale, a cui pure la scuola ha da avviare: perciò curioso del mondo in molteplici soggiorni fuori d’Italia per conoscere direttamente lingue e popoli, culture e costumi. Attivo in organizzazioni e posizioni anche politiche, ho cercato di cogliere il buono e il meno valido di strutture ed uomini per comprendere e far comprendere, in ciò proponendomi di evitare le generalizzazioni sbrigative di giudizio, di reprimere la facile e sterile indignazione, di ricercare e promuovere tra persone, ceti, popoli, quello che unisce, al di là di quello che immediatamente divide negli interessi e nei sentimenti e, spesso, immediatamente offende. Tale spirito di comprensione nei riguardi di uomini, avvenimenti, istituzioni fu mio costante intento portare nella scuola e proprio nell’insegnamento intorno al passato, al fine di far emergere le sue eredità nel presente, che non sono soltanto quelle negative od oppressive».

IL PICCOLO DOVERE QUOTIDIANO. Ed ecco la parte conclusiva, in cui lo storico bresciano ha racchiuso in un consiglio di sconcertante semplicità, che è «quasi come un testamento», il senso stesso della sua vita e della sua testimonianza.

«Ai giovani che in quest’aula mi hanno seguito e, presumo, stimato, ed ai tanti altri che vedo idealmente qui assieme a voi, dal lontano 1926 nei licei di Pavia, Merano, Milano, e nelle Università di Milano e Salerno, come uomo dalle molte sofferte esperienze, come studioso dalle lunghe vigilie e, se permettete, come maestro, vorrei confidare in quest’ora di congedo, quasi come un testamento, una delle convinzioni che mi hanno sostenuto in una vita non certo tranquilla: e cioè che la più efficace partecipazione alla politica come impegno sociale consiste nel compiere il piccolo dovere quotidiano, quello che volta a volta emerge dalle circostanze: piccolo dovere quotidiano che è inerente alla professione o al mestiere, vissuti come servizio sociale: quell’attività che per la coscienza religiosa si trasfigura in vocazione e servizio di carità per il prossimo».

ERA SOLO UNA SCHEDA SEGNALIBRO. Ai miei occhi queste parole di Bendiscioli costituiscono un testo mirabile sul mestiere d’insegnare e un documento di profonda umanità. Lo storico bresciano avrebbe potuto far proprio quello che Seneca diceva di se stesso: «Se mi fosse concessa la conoscenza più alta a patto di tenerla chiusa in me stesso e di non renderne partecipi gli altri, io la rifiuterei» (Ad Luc. 6, 4). Mi chiedo: come mai la pagina più bella, tra le molte migliaia scritte da Bendiscioli, è rimasta quasi del tutto sconosciuta? In qual modo essa ci è pervenuta? Le cose andarono così: gli scolari pavesi raccolsero in un volume – M. Bendiscioli, Dalla Riforma alla Controriforma, Bologna 1974 – i saggi più importanti del loro maestro su uno dei temi di fondo della sua ricerca. Il volume era accompagnato da una «scheda», che riportava il breve discorso tenuto da Bendiscioli agli studenti nella lezione di congedo. Cesare Angelini, l’impareggiabile rettore del Collegio Borromeo di Pavia per ben ventidue anni, in una lettera a Bendiscioli, in data 21 marzo 1975, sottolineava il valore di quella «scheda», le cui parole gli erano parse «così semplici e così grandi» da fargli venire in mente quelle pronunciate dal filosofo Francesco Acri il giorno in cui salutò i suoi scolari a Bologna (C. Angelini, I doni della vita – Lettere 1913-1976, Milano 1985, p. 576).

15 aprile 1999.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Mille soli. Ci sono mille soli al di là delle nuvole (Proverbio indiano). È più facile. È più facile amare gli altri che se stessi. Degli altri si conosce il meglio (Gesualdo Bufalino). Il falso amico. Il falso amico è come l’ombra che ci segue finché dura il sole (Carlo Dossi). Né servi, né padroni. Soltanto chi non ha bisogno né di comandare né di ubbidire è davvero grande (Johann W. Goethe). L’oltre e il di più. Si ama soltanto ciò che non si possiede per intero (Marcel Proust). Ma non sempre siamo noi a sceglierceli. Non si è mai abbastanza attenti nella scelta dei propri nemici (Oscar Wilde). Per dare a ogni cosa il giusto valore. Il miglior modo di amare una cosa è di pensare che potremmo perderla (Gilbert K. Chesterton). Quando l’agitazione è preferibile al riposo. È men male l’agitarsi nel dubbio, che il riposar nell’errore (Alessandro Manzoni). Che cosa significa amare. Amare è mettere la nostra felicità nella felicità di un altro (Gottfried W. Leibniz).

«NON STONARE IN NULLA» CON DIO E CON CHI SOFFRE. La gente pretende giustamente da noi che si sia sempre presenti alla loro tragedia. Ci vogliono magari, male, ma hanno ancora una così alta stima del sacerdozio che quando arrivano col loro problema (interno o esterno che sia) non possono sentirsi dire: «è a tavola o a letto o è in ferie» senza sentirsi offesi dal contrasto colla gravità (per loro) del loro problema. Io sono sereno solo quando son sempre «intonato» con ogni evenienza. Cioè quando il mio pensiero o attività non stona con nulla d’altrui che possa accadere… Anche stanotte l’ho passata da una mamma di sei figlioli che muore di cancro. Per strada, come spesso accade, ho incontrato la fiumana della gente che sorte dal cine e dal ballo e dal gioco. Mi chiamano magari allegramente ma poi si ricordano perché son fuori io e restano ghiacciati, almeno i più sensibili. E allora io mi godo il mio Dio che m’ha dato finalmente un mestiere col quale posso divertirmi tanto senza mai declassarmi neanche un attimo. Ho sempre anche il tempo di tendere occhi e orecchi ai volti e alle parole per capire mentalità e mondi e questo mi vale tutti i cine e i teatri e i romanzi del mondo (Lorenzo Milani, Lettere alla Madre, Genova 1997, pp. 75-76 – S. Donato, 29 agosto 1949).

LA PROVA A CARICO. «Frequenta una delle scuole più esclusive a Milano, prende lezioni private di inglese e di musica, pratica equitazione, scherma e nuoto con istruttori privati, trascorre le vacanze in Sardegna e a Cortina, si veste nelle migliori boutique». Forte di queste ossessionante e pacchianissima way of life, inflitta ad un innocente bambino di dieci anni, la madre ha chiesto al padre (un vip della televisione) quaranta milioni al mese per il mantenimento del pargolo. Un tribunale della Repubblica ha stabilito che sette milioni bastano. E avanzano. Sentenziando, e la cosa ci conforta, che «le fondamentali esigenze dei valori educativi sconsigliano che i figli vengano allevati, anziché all’autodisciplina e al senso di responsabilità, secondo canoni di eccessiva esteriorità, spreco consumistico e permissivismo incontrollato». Uno schiaffo morale che la signora in questione giudicherà, probabilmente, un’intollerabile intrusione nelle sue scelte educative. D’altra parte, come si dice, la signora se l’è andata a cercare: un figlio costretto a fare tre sport, che si veste solo «nelle migliori boutique» e fa le stesse vacanze di Marta Marzotto. Non è un titolo di merito. È una prova a carico (Michele Serra).

POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO. L’aridità dei giorni mediocri. A me, percosso / dalle cose attese e non venute, / dalle promesse svanite nel cuore / da tante pochezze di terra, / queste cose piccine, da nulla, sono / quotidiano flagello ed insulto, / un rodermi lento e oscuro / che macera lo spirito. Ad ogni cosa ciò che le appartiene. L’oriente al sole e a sera il tramonto, / la primavera ai fiori / e l’estate alle messi; / il solco al germe e la rugiada ai prati. Il cuore che attende. Lui scruta di lontano / se alfin si mostri la fanciulla amata. / Lei ascolta che risuoni / il noto passo di colui che viene. (Aldo Agazzi, Poemetti, Brescia 1989)

22 aprile 1999.

LINEA RECTA BREVISSIMA. I propri limiti. L’unico modo per non far conoscere agli altri i propri limiti, è di non oltrepassarli mai (Giacomo Leopardi). Le apparenze mostrano ciò che si vorrebbe nascondere. Sono solo i superficiali, a non giudicare dalle apparenze (Oscar Wilde). I cattivi avvocati. Sono loro i girarrosti delle leggi. A forza di girarle e rigirarle, finiscono per cavarne un arrosto per sé (Heinrich Heine). La fortune dell’oroscopo. Tutto hanno sempre previsto gli oroscopi di fine anno tranne l’evento più certo per tutti. Lasciare il certo per l’incerto è la fortuna dell’oroscopo (Giuseppe Pontiggia). Un bambino che nasce. Un bambino che nasce è un miracolo dell’amore che stringe nelle sue piccole mani il miracolo della vita. Quasi un presagio di vittoria sulla morte, un anticipo dell’immortalità (Giovanni Cristiani).

FU NEI LAGER NAZISTI CHE NACQUE L’ECUMENISMO. Cattolici ed evangelici, accomunati nella persecuzione, si riscoprirono fratelli e posero le premesse per la nascita del movimento ecumenico, che sarebbe stato nei decenni successivi una delle grandi direttrici del XX secolo, segno e causa insieme del rinnovamento delle Chiese cristiane. Offesi e calpestati da un potere crudelmente oppressivo che tentava di espropriarli delle loro coscienze, cattolici ed evangelici, preti e pastori si trovarono insieme in prigione e nei campi di annientamento; insieme soffrirono, pregarono e si fecero testimoni di Dio al servizio degli altri. Fu così che a Dachau – dov’erano rinchiusi molte centinaia di preti e pastori – e in altri lager le divisioni si attenuarono fortemente o sparirono e al loro posto ci fu un’esperienza straordinaria di fraternità. Di lì nacque il fermo proposito di impegnare le rispettive confessioni a rendere pura da odi e pregiudizi la memoria del passato, a valorizzare i tesori reciproci e a vivere con gioia le molte cose che i credenti in Cristo hanno in comune. In tal modo nacque il nuovo ecumenismo e la decisione di ripensare finalmente, fuori dai soliti schemi e da pregiudizi plurisecolari, l’unità dei cristiani come concreto obiettivo e speranza storica.

LA PREGHIERA DEL RIBELLE. Signore, facci liberi. Signore che fra gli uomini drizzasti la Tua croce segno di contraddizione, che predicasti e soffristi la rivolta dello spirito contro le perfidie e gli interessi dei dominatori, la sordità inerte della massa, a noi oppressi da un giogo numeroso e crudele che in noi e prima di noi ha calpestato Te fonte di libere vite, dà la forza della ribellione.

Dio che sei Verità e Libertà, facci liberi e intensi, alita nel nostro proposito, tendi la nostra volontà, moltiplica le nostre forze, vestici della Tua armatura. Noi ti preghiamo, Signore. Tu che fosti respinto, vituperato, tradito, perseguitato, crocefisso, nell’ora delle tenebre ci sostenti la Tua vittoria: sii nell’indigenza viatico, nel pericolo sostegno, conforto nell’amarezza. Quanto più s’addensa e incupisce l’avversario, facci limpidi e diritti.

Nella tortura serra le nostre labbra. Spezzaci, non lasciarci piegare. Se cadremo fa’ che il nostro sangue ci unisca al Tuo innocente e a quello dei nostri morti a crescere al mondo giustizia e carità.

Tu che dicesti: «Io sono la resurrezione e la vita» rendi nel dolore all’Italia una vita generosa e severa. Liberaci dalle tentazioni degli affetti: veglia Tu sulle nostre famiglie.

Sui monti ventosi e nelle catacombe delle città, dal fondo delle prigioni, noi Ti preghiamo: sia in noi la pace che Tu solo sai dare. Dio della pace e degli eserciti, Signore che porti la spada e la gioia, ascolta la preghiera di noi ribelli per amore (Teresio Olivelli).

Questa preghiera fu stampata e diffusa in gran numero in occasione della Pasqua 1944. Essa apparve poi, a ricordo del suo autore, Teresio Olivelli, su Il Ribelle del 16 giugno 1945. Olivelli fu una delle figure più alte della Resistenza, che egli voleva fosse innanzi tutto «rivolta morale» e «ribellione per amore». Catturato dai tedeschi, evaso, ripreso, morì il 12 gennaio 1945, in seguito al brutale pestaggio a cui fu sottoposto per avere difeso alcuni prigionieri, con lui rinchiusi nel campo di Flossenbürg, lo stesso in cui sarebbe stato decapitato tre mesi dopo, il 9 aprile, Dietrich Bonhoeffer.

29 aprile 1999.

LINEA RECTA BREVISSIMA. L’adolescente. Tra giovane e fanciullo età confine (I, 13, 7). L’opera e lo stile del leader. Tu al fin de l’opra i neghittosi affretta (I, 16, 6). Sempre al consiglio è la preghiera unita; ciò che alma generosa alletta e punge, / ciò che può risvegliar virtù sopita (I, 19, 4-6). La virtù… latina. A la virtù latina / o nulla manca, o sol la disciplina (I, 64, 7-8). La fama. È la fama, apportatrice / dei veraci rumori e dei bugiardi (I, 81, 1-2). L’attesa di un male temuto. E l’aspettar del male è mal peggiore (I, 82, 1). (Torquato Tasso, Gerusalemme liberata)

Il senso comune. Il senso comune è quella sorta di sesto senso che intona le sensazioni dei miei cinque sensi strettamente privati a un mondo comune condiviso con gli altri. Quando sparisce quella linea di demarcazione. L’offuscamento della linea di demarcazione che divide la verità di fatto dall’opinione è comune alle numerose forme che può assumere la menzogna. (Hannah Arendt)

La ragion d’essere della politica. La ragion d’essere della politica è la libertà, e suo compito è produrre situazioni che creino o allarghino lo spazio della libertà (Renzo Zorzi).

CIÓ CHE È LECITO E CIÒ CHE È IMMORALE. Lo sforzo di procurarsi con mezzi leciti e schietti la stima di coloro che ci circondano è naturale e legittimo, anche se l’impresa non è affatto così semplice come si vuol far credere. Ma l’armonia con gli altri – in ogni ambito, dalla famiglia, al club, al partito, alla Chiesa – non va mai cercata a scapito della verità e dell’onestà. È, invece, evidentemente immorale subordinare la propria coscienza alla sola preoccupazione della «riuscita», del consenso cercato con ogni mezzo pur di conseguire lo scopo desiderato, elevando così il successo a supremo criterio di giudizio e di azione. Una mentalità del genere, infatti, è di per sé fonte di ambizione, di piccoli e grandi intrighi, di arrivismo e ipocrisia. E poi come si fa a non vedere che ci sono casi in cui si ha l’obbligo di dissentire non solo dall’opinione prevalente e dai diktat del potere, ma in primo luogo dalla parte peggiore di noi stessi, quella che Pascal chiamava «l’io odioso» (le moi haïssable)?

IL CORAGGIO DEL «NO». Se Socrate si fosse preoccupato di conservare la stima della maggioranza e dei maggiorenti degli Ateniesi, avrebbe evitato il processo e la cicuta, ma avrebbe tradito la sua missione: la civiltà e il pensiero filosofico non avrebbero potuto, in tal caso, annoverarlo tra le più grandi personalità della storia, alle quali tuttora l’umanità va debitrice. Se Cristo avesse voluto seguire la dottrina ufficiale dei farisei e degli zeloti, sarebbe stato uno di loro, ma non colui che pronunciò il Discorso della Montagna e altre divine parole. Se Thomas More avesse voluto conservare con l’alta carica, di cui era insignito, il favore e la stima di Enrico VIII e della sua corte, non sarebbe stato quel testimone della verità che fu e che oggi anche gli anglicani onorano.

LETTERA DI DON MILANI A SUA SORELLA CHE NON SI SPOSA IN CHIESA. Cara Elena, sono contentissimo che tu ti sposi e non ho nessun motivo di meravigliarmi o dolermi che tu lo faccia in Comune. Esser religiosi e esser cristiani è una fortuna non un obbligo. Mi può dispiacere che tu non abbia questa fortuna, non che tu compia un atto in armonia con quello che pensi. Del resto non sei ancora morta né te né Erseo e avete tanto tempo davanti a voi per invecchiare, rifurbire, ripensarci. Ricevete per ora i miei più affettuosi auguri di felicità terrena e ultraterrena (Lorenzo Milani, Lettere alla Madre, Genova 1997, p. 186 – Barbiana, 25 febbraio 1959).

POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO. Come rose dai muri. Noi siamo in terra / ma ci potremo un giorno librare / esilmente piegare sul seno divino / come rose dai muri nelle strade odorose. Al tramonto. Un giorno troppo povero d’amore / s’è spento e tace / nello spazio ed intorno il cielo giace / colmo di pace e di compianto… / E chi riprende al cielo / la furtiva sostanza del passato, / il puerile mattino e l’ora? Se spera, in lui è amore. L’amore aiuta a vivere, a durare, / l’amore annulla e dà principio. E quando / chi soffre o langue spera, se anche spera, / che un soccorso s’annunci di lontano, / è in lui, un soffio basta a suscitarlo. (Mario Luzi)

6 maggio 1999.

LINEA RECTA BREVISSIMA. L’invidia. Savia non fui… / e fui degli altrui danni / più lieta assai, che di ventura mai (XIII, 125-127 passim). Fu il sangue mio d’invidia si riarso, / che, se veduto avessi uomo farsi lieto, / visto m’avresti di livore sparso (XIV, 82-84). (Dante Alighieri, Purgatorio)

Un obbligo per ogni generazione. Sotto il profilo morale la storia non dà lezioni, non è affatto maestra se non per questo rinvio, per questo imperativo, che obbliga ogni generazione a conoscere se stessa e a costruire il proprio futuro (Massimo Giuliani). Prevalgono ancora i privilegi e l’onnipotenza del denaro. La nostra Resistenza non implicava soltanto una rivendicazione di libertà, ma anche una rivendicazione di giustizia sociale. Abbiamo un po’ di avvilimento nel vedere come in questi anni la giustizia sociale, nonostante i documenti pontifici e quelli conciliari, non abbia avuto quella promozione e quella realizzazione che era giusto attendersi (Carlo Manziana, prete dell’Oratorio e vescovo). Gli inaffondabili. Tu pensi: il Signor A., il Signor B., il Signor C. finiranno inghiottiti nel gorgo dei loro ignobili ricatti e dei loro giochi di potere. E invece no. Nel nostro Paese scombinato i campioni assoluti della politica, quelli che comunque occupano la scena perché fanno baccano, i soli veramente inaffondabili, sembrano essere proprio loro, i maestri guastatori (Levi Appulo).

LASCIARSI GIUDICARE DALLA VERITÀ. Nel Vangelo di Giovanni c’è una frase ammonitrice: veritas odium parit. La verità genera odio sicuramente in quelli che si rifiutano di accoglierla, ma non solo in essi. Sant’Agostino notava acutamente che noi amiamo la verità quando risplende ai nostri occhi senza toccare i nostri interessi e le nostre passioni; la odiamo, però, palesemente e più spesso nel segreto del nostro cuore, quando la sua presenza o la sua affermazione costituisce per noi un rimprovero: odimus redarguentem. La verità ha un enorme potere sull’uomo intelligente e libero, ma non può annullare in lui la facoltà di aderirvi o di contestarla.

«OGNI COSA CHE VEDO E CHE SENTO…». Sono ancora estremamente attaccato al mio ingrato popolo, che poi non è tutto ingrato, e ho l’impressione che non potrò mai viverne senza, anche se non potrò neanche mai andarci d’accordo. Ho sentito dire che c’è anche dei mariti e moglie in questa strana situazione. Così son felice d’aver avuto questa forzata vacanza per distendere i nervi e l’anima, ma ogni cosa che vedo e che sento la rapporto a loro e non me li levo dinanzi agli occhi con tutti i loro innumerevoli difetti e voglio loro un gran bene e non vedo l’ora di poter di nuovo, giorno per giorno ora per ora, ridividere gioie dolori perdite e conquiste odi e amicizie. In una parola ricominciare a leticare senza interferenze di curia e senza reticenze forzate (Lorenzo Milani, Lettere alla madre, Genova 1997, p. 94 – S. Donato, 9 giugno 1951).

POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO. «Papà, chi erano i partigiani?». Un giorno alla vostra domanda: / «Papà, chi erano i partigiani?» / vi stringerò più forte la mano, / e forse, / se già non sia mutato il discorso, / attenderete invano una risposta. / Forse allora, / e anche oggi mentre scrivo, / mi sentirò lontano e triste / come il cielo grigio, e un nodo alla gola, / come quel nostro compagno d’armi, / si chiamava Càlem, ch’era riuscito a portar fuori la ghirba, / ma non gli andava parlarne, / e beveva. // Voi figli miei, / parteggiate sui banchi di scuola / per le fortune di Achille, / per Mario contro Silla, / per la squadra che vince il torneo; / mi chiedete: / «Papà, ce l’avevi il cavallo? / Papà, tu l’hai vinta la guerra?» / Figli miei / piccoli legali sopraffattori, / che può voler dire, a voi, / Resistenza, / combattenti della libertà, / ribelli per amore? / Strani nomi, suoni inconsueti. // Il ramo / cui dondolò Castiglione / sul petto un cartello di gloria / -bandito- / un ramo, come tanti; / l’albero / ancora trafitto / dal sangue infuocato di Emi, / un piccolo albero, come tanti… // Voi amate il più forte / e anche la legge, / se arriva coi pugni dello sceriffo; / ma io non avevo il cavallo / e non ho vinto la guerra: / come potrò farvi intendere? // … Vorrei potervi dire: guardatemi, / questo fu un partigiano, / questo è un partigiano. / Resto per sempre una pagina / del libro insanguinato / come l’«imitazione di Cristo» / sul petto di Emi, / piccola nota erudita / di un grande poema / che voi leggerete / e io posso aiutarvi a comprendere (Pier Luigi Piotti, Alla vostra domanda, Padova 1971).

13 maggio 1999.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Se non siamo all’altezza. Una cosa buona non ci piace, se non se siamo all’altezza (Friedrich Nietzsche). Le cose peggiori. Le cose peggiori sono sempre state fatte con le migliori intenzioni (Oscar Wilde). Il sugo della storia. C’era una volta un nobile signore che diceva a un proletario: «Senza quell’incidente che fu la rivoluzione francese non ci saremmo mai parlati». Senza la nascita del figlio di un carpentiere e di una casalinga avvenuta, più o meno, duemila anni fa, il mondo sarebbe ancora più ingiusto (Enzo Biagi). L’onestà intellettuale. Tra l’accordo e lo scontro, tra la piaggeria e il rigetto, c’è un largo margine ove è possibile esercitare altri atteggiamenti, quali il confronto, il dialogo, la verifica e magari anche il mutar parere, così vituperato ma da ammirare quando nasce dalla convinzione di aver sbagliato e da un nuovo convincimento che il tuo interlocutore è riuscito a generare in te. È, insomma, l’onestà intellettuale che è coerenza con se stessi ma anche rispetto all’altro, che è fermezza ma anche mutamento di fronte alla verità riconosciuta, che è affermazione e ascolto, ragione mia e ragione dell’altro (Gianfranco Ravasi).

IL PAPA POLACCO E LA NAZIONE ITALIANA. Il Papa polacco si mostra un sostenitore convinto dell’unità d’Italia e del ruolo geopolitico del Paese per l’Europa e la Chiesa. C’è in Giovanni Paolo II una teologia delle nazioni, di cui la riflessione sulla Polonia è un modello. Il Papa non perde la sua nazionalità d’origine per divenire un uomo universale, ma attraverso la nazione polacca e la sua origine slavo-occidentale giunge alla dimensione universale. Per il Papa polacco la nazione si fonda sulla cultura; le nazioni possono vivere senza Stato, ma esistono per la cultura. Così la cultura italiana è profondamente impregnata da quella che considera l’eredità «viva» della fede cristiana. Le lettere ai Vescovi italiani del 1994, in un momento di crisi nazionale, esprime bene la coscienza del Papa: «L’eredità dell’unità, anche al di là della sua specifica configurazione politica, maturata nel corso del XIX secolo, è profondamente radicata nella coscienza degli italiani che, in forza della lingua, della cultura, si sono sempre sentiti parte integrante di un unico popolo. Questa unità si misura non sugli anni, ma su lunghi secoli». Per Giovanni Paolo II l’Italia ha una sua vocazione.

«Sono convinto che l’Italia come nazione ha moltissimo da offrire a tutta l’Europa… All’Italia, in conformità alla sua storia, è affidato in special modo il compito di difendere per tutta l’Europa il patrimonio religioso e culturale innestato a Roma dagli apostoli Pietro e Paolo. Di questo preciso compito, dovrà avere chiara consapevolezza la società italiana nell’attuale momento storico, quando viene compiuto il bilancio politico del passato, dal dopoguerra ad oggi».

Giovanni Paolo II si schiera per una lettura positiva della recente storia italiana. L’Italia ha una funzione per la geopolitica cattolica, pur essendo ormai uno Stato laico, e con una società secolarizzata in misura vent’anni fa ancora impensabile. Se si eccettuano alcuni episodi, tanto più penosi proprio perché anacronistici, e si guarda alla sostanza delle cose, mi pare sia condivisibile il giudizio a cui perviene uno degli storici italiani oggi più attento alla storia dei rapporti tra società, Stato e Chiesa cattolica in Italia. «La confessionalizzazione della società italiana e dello Stato – scrive Andrea Riccardi (in Interpretazioni della Repubblica, Bologna 1998) – sono una realtà del passato. L’Italia non è più una presunta nazione cattolica. Eppure non è caduto quel rapporto intimo tra Chiesa, Santa Sede, cattolicesimo, nazione e Stato, che forse contribuisce a formare la particolare identità nazionale chiamata Italia».

POESIA EUROPEA DEL NOVECENTO. In memoria di W. B. Yeats. Procedi, poeta, procedi dritto / sino al fondo della notte / con la tua voce suasiva / riportaci ancora alla gioia; / con un’aratura di poesia / trasforma in vigneto la maledizione, / canta il fallimento umano / in estatica angoscia; / nei deserti del cuore / fa’ che sgorghi la fonte che risana, / nella prigione dei suoi giorni / insegna all’uomo libero la lode (Wystan H. Auden, In memory of W.B. Yeats in Poesie, Parma 1952).

Questi versi erano molto cari a un’amica di Wystan Auden, l’ebrea tedesca Hannah Arendt (1906-1975), donna di pensiero tra le maggiori del secolo XX. Arendt amava citarli spesso negli ultimi mesi di vita perché le sembravano caratterizzare la sua prospettiva, disincantata e insieme decisa a non arrendersi mai al male e alla stupidità, ma anche il bisogno di un accordo fondamentale tra l’io e il mondo, l’esigenza di ritrovare la radice del nostro «vivere insieme».

20 maggio 1999.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Sono loro i più vicini alla sorgente. L’amore, questa parola così abusata e fraintesa – per i grandi mistici significa semplicemente un sovrappiù di forza di cui si sentivano interamente colmati quando cominciavano a vivere nell’oblio di sé. E questo amore trovava naturale espressione in un compimento senza esitazione del dovere e in un’accettazione senza riserve della vita (Dag Hammarskjöld). Il re Barbablù delle sei mogli. Ecco la definizione di Enrico VIII d’Inghilterra data da una giovane studentessa americana: «Un grande vedovo, che perdette parecchie mogli» (Robert W. Chambers).

SUL DOLORE UN TESTO DI KIERKEGAARD. Fermiamoci qualche minuto su una preghiera di Søren Kierkegaard che chiede a Dio di aiutarci a superare il dolore.

Signore nostro Dio, tu conosci il nostro dolore / meglio di quanto noi stessi non lo conosciamo. / Tu sai come l’anima spaurita / facilmente inciampi in preoccupazioni / tempestive e immaginarie. Noi ti preghiamo / di darci lume per penetrare l’intempestività e l’orgoglio, / per disprezzare questi dolori che ci siamo creati / con il nostro trafficare. Ma quel dolore / che tu stesso imponi, dacci la grazia / di accoglierlo umilmente dalla tua mano, / e forza per portarlo.

IL COMMENTO DI ENZO BIANCHI. Quando è colpito dal male, dalla malattia, dall’annuncio di una morte prossima o della morte di qualcuno che gli è caro, l’uomo si chiede subito: «Perché, perché a me?». E pone subito in atto un atteggiamento di rivolta. Questo indubbiamente è cristiano: al cristiano non è chiesta la rassegnazione. L’insistenza sulla rassegnazione deriva da modelli di un cristianesimo ottocentesco, un cristianesimo purtroppo depauperato e svirilizzato, il quale chiedeva agli uomini una sottomissione a Dio che, in realtà, non è attestata neanche dalla morte di Cristo. L’uomo deve innanzitutto gridare il suo scandalo di fronte al male. Deve dire: «Questo male offende la mia dignità, offende la mia vocazione, offende il mio destino». Deve quindi prendere sul serio ciò che contraddice la sua vita e la sua umanità fino alla morte. Ma poi, in qualche misura, cercando di chiedere a Dio la forza, la luce, come fa Kierkegaard in questa preghiera, confrontandosi con il male che lo assale, l’uomo poco per volta lo assume. E percepisce che, anche nel male, la sua vocazione è mostrare amore per gli altri che restano. Dunque, in un certo senso – ed è un lungo cammino, anche faticoso – deve mostrare a chi resta che anche nella malattia si continua ad amare, che anche in quella situazione l’amore dell’uomo non è spento. Il suo corpo può essere spento, minacciato, debilitato dalla malattia, ma il suo cuore, il suo amore è più forte (Enzo Bianchi, Il Paradosso della croce, Brescia 1999).

NON L’INGANNO DEL MITO, MA L’UTOPIA NECESSARIA. Se l’utopia non si è spenta, né in religione, né in politica, è perché essa risponde ad un bisogno profondamente radicato nell’uomo. Vi è nella coscienza dell’uomo un’inquietudine che nessuna riforma e nessun benessere materiale potranno mai placare. La storia dell’utopia è perciò la storia di una sempre delusa speranza, ma di una speranza tenace. Nessuna critica razionale può sradicarla, ed è importante saperla riconoscere anche sotto connotati diversi (Ignazio Silone, L’avventura di un povero cristiano, Milano 1968).

POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO. La donna delle pulizie. Camera dopo camera la donna / inseguita dalla mattina canta, / quanto dura la lena, / strofina i pavimenti, / spande cera. Si leva, canto timido / di nuova maritata / che genera e governa, / e interrotto da colpi / di spazzole, di panni / penetra tutto l’alveare, introna / l’aria già di primavera. / Ora tutt’intorno, a ogni balcone, / la donna compie riti / di fecondità e di morte, / versa acqua nei vasi, immerge fiori, / ravvia le lunghe foglie, schianta / i seccumi, libera i buttoni / per il meglio della pioggia, / per il caldo sole.

Sia grazia essere qui. Sia grazia essere qui / grazia anche l’implorare a mani giunte, / stare a labbra serrate, ad occhi bassi / come chi aspetta la sentenza. / Sia grazia esser qui, / nel giusto della vita, / nell’opera del mondo. Sia così (Mario Luzi, Dal fondo della campagna, Torino 1975, «Augurio»).

27 maggio 1999.

LINEA RECTA BREVISSIMA. L’impronta. Lo stile è l’impronta di ciò che si è in ciò che si fa (René Daumal, 1906-1944). Lo stile è l’uomo (Georges Buffon, 1707-1788). Consona al Vangelo e alla Ragione. La tolleranza verso coloro che dissentono dagli altri è cosa talmente consona al Vangelo e alla Ragione, che è mostruoso vi siano uomini ciechi a tanta luce (John Locke, Lettera sulla tolleranza, 1689). Il bambinismo di ritorno. Guardate i vecchi in televisione, o sulle riviste per anziani. Seduttori, atletici, «giovanili». Ballano, corrono, viaggiano. Sono ormai maggioranza. È un affare puntare sulla loro immaturità di ritorno, abbindolandoli. Era infinitamente meglio aver riverenza verso i vecchi che convincerli della inesistenza della vecchiaia (Levi Appulo). I legni della Croce. I due legni dell’albero che formano la croce, sfrondati di foglie e di frutti, legati uno all’altro per sostenere un supplizio, disegnano già da soli lo scheletro di un paradosso: un legno con un capo conficcato nel terreno e l’altro proteso verso il cielo; il secondo con i bracci che sembrano allargarsi a dismisura fino a comprendere l’intero orizzonte del mondo. Il loro intersecarsi, riservato a marcare l’ignominia dei malfattori, da duemila anni ricorda il mistero di un Dio che muore per salvare (Gabriella Caramore, Prefazione a I paradossi della Croce, di Enzo Bianchi, Brescia 1999).

UN MIRACOLO, E NON DEI MINORI, DI THOMAS MORE. Al tempo di Enrico VIII il seggio più alto, dopo il trono, in Inghilterra era quello di Gran Cancelliere. Il Cancelliere cumulava nelle sue mani la politica estera e l’amministrazione della giustizia al più alto livello. Ma quando il Cancelliere ricopriva altre cariche, ed era il caso del cardinal Thomas Wolsey, ad essere sacrificato era il diritto dei sudditi all’esame sollecito delle loro cause e a un giudizio equo. Non fa meraviglia, quindi, che, quando il 25 ottobre 1529 Thomas More divenne Cancelliere, si trovò dinanzi una spaventosa congestione di cause arretrate. E More aveva un enorme vantaggio sul suo predecessore: al contrario di Wolsey, egli aveva una lunga esperienza forense. Il suo più lieto trionfo, lo ebbe il giorno in cui, aperte le udienze e definita una causa, quando chiamò la successiva si sentì rispondere che non c’era più niente e nessuno che attendesse giudizio. «Volle che l’avvenimento venisse registrato negli atti ufficiali della Court of Chancery», ci ricorda uno dei suoi primi biografi; e ancora due generazioni più tardi la cosa non cessava di suscitare meraviglia: «Coloro che sanno come in quella Corte di Giustizia le cause rimanessero pendenti anche una dozzina d’anni quasi stentano a crederlo». E fu proprio questa particolarità, insieme con il suo senso dell’humor, che caratterizzò l’immagine di More così come ci viene consegnata dalla tradizione popolare: Nel tempo ch’era More Cancelliere / di cause in mora non ce n’eran più. / Cose così non le potrem vedere / che quando More tornerà quaggiù.

LA SPERANZA CRISTIANA FIN DA OGGI ANTICIPA IL REGNO. Può esistere un’opposizione tra la vita di un’anima seriamente cristiana e l’attesa del regno di Dio? Non mi pare. A me sembra che l’anima cristiana, la quale aspiri intensamente al Regno di Dio, si conforma a immagine di esso e vi adegua il suo comportamento, a cominciare dalle relazioni col prossimo. Non è un gioco di parole affermare che essa realizza, sia pure in misura minima, il Regno. Rimane senza dubbio il contrasto dell’anima con le istituzioni e le leggi esistenti. Quando e come il Regno sarà instaurato con la partecipazione libera di tutte le altre creature? Quando e come la carità sostituirà le leggi? Nessuno può saperlo, ma non dev’essere un incoraggiamento alla nostra pigrizia. Poiché i cristiani che, fin da oggi, vivono coraggiosamente secondo quello spirito, in realtà lo anticipano. E nella nostra preghiera quotidiana rimane l’invocazione: Venga il tuo Regno (Ignazio Silone, L’avventura di un povero cristiano, Milano 1968).

POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO. Inno a Cristo. O sublime bastardo, / col marchio ci ha riscattati; / fragile / come la nostra miseria, / immenso / come la nostra speranza, / letizia sanguinante, / corona di spine, / lancia che ogni giorno ci spacchi il cuore, / ti abbiamo perduto, ti abbiamo ritrovato, / ti perderemo, ti ritroveremo, / moltitudine, solitudine, / tu sei padre, figliolo, fratello, / tu sei l’Uomo (Pier Luigi Piotti, Alla vostra domanda, Padova 1971).

3 giugno 1999.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La prima regola dell’amicizia. La prima regola dell’amicizia è dare avvertimenti chiari e tener conto di quelli che ci sono dati (Cicerone, De amicitia 44). Quando si sbaglia. Meglio tornare sui propri passi che continuare a correre in una via sbagliata (Luciano). La peggior disgrazia per un filosofo. La peggior disgrazia per chi si crede filosofo è non vivere nelle categorie in cui pensa. Va al funerale di un amico, ma discetta sull’inesistenza della morte; descrive, talora con finezza, ora l’uno ora l’altro fenomeno del mutamento sociale, ma nega in assoluto il concetto stesso di mutamento; il suo pathos accusatorio contro la tecnica, causa di ogni male, riempie molte centinaia di pagine, ma il filosofo si serve della tecnica a piene mani per la sua salute e per i suoi comodi. Credetemi, se ne serve ventiquattr’ore al giorno (Levi Appulo). Il maledetto «a fin di bene». Non lo dimenticate: c’è solo il bene, puro e semplice; non c’è «a fin di bene». L’aspirazione a comandare, l’ossessione del potere è, a tutti i livelli, una forma di pazzia. Mangia l’anima, la travolge, la rende falsa. Anche se si aspira al potere «a fin di bene», soprattutto se si aspira al potere «a fini di bene». La tentazione del potere è la più diabolica che possa esserci. (Ignazio Silone, L’avventura di un povero cristiano, Milano 1968)

INCONFONDIBILE NELLA SUA PACATA RIBELLIONE. Nelle prime pagine del suo volumetto, Paolo VI tra spiritualità e teologia, recentemente edito dalla Morcelliana, Giulio Colombi scrive che il linguaggio di Paolo VI è «inconfondibile nella sua pacata ribellione». Ribellione a che cosa? All’uniformità omologante degli spiriti, a cadenze e tournures chiesastiche consuete; ma anche alle pretese sempre ritornanti di ingabbiare il mistero divino della salvezza e il prorompente dinamismo del Vangelo in formulari concettualmente attrezzati e tuttavia sterili, deformanti, di una lontananza stellare dalla sublime semplicità e bellezza del messaggio di Cristo. Padre Congar ebbe a dire che i documenti di Paolo VI avevano una caratteristica inconfondibile: nascevano da una lenta, profonda, densa e limpida riflessione interiore. Non possono essere catalogati fra i testi ufficiali della tradizione romana, appartenendo al genere sapienziale. Il compianto Guido Stella aggiungeva, chiosando il giudizio di Congar: «Anche questo è un tratto di modernità: un soggettivismo acuto coniugato all’oggettività delle certezze evangeliche». In realtà il papa bresciano fin dalla sua prima enciclica mostrava come si possa, e si debba, «rinunciare magnanimamente, e umilmente, a una tradizione definitoria, quale quella codificata esemplarmente nella bellarminiana societas perfecta». Non ci si deve, dunque, meravigliare se Montini nella lettera al clero milanese per la Messa crismale del 1963 esortava a «cercare Cristo oltre e dentro l’involucro umano della Chiesa» e nel più alto documento del suo magistero ribadiva che la verità di Cristo, di cui la Chiesa è custode, è depositata nella Parola di Dio, «di cui noi non siamo né i padroni, né gli arbitri, ma i depositari, gli araldi, i servitori». (Evangelii nuntiandi, paragrafi 7-8).

«FAR SCUOLA», LEVA DI OGNI ALTRA LIBERAZIONE. Cara Mamma, sto a letto quasi tutto il giorno. Mi levo alle 11,30 per dir Messa, poi resto levato per mangiare e poco dopo torno a letto da dove faccio scuola ai grandi. Domenica alle 3 ero già tornato a letto e c’erano già una decina di persone in visita quando è arrivato don Renzo con venti giovani. Allora mancando il posto in camera mi son rilevato e li ho ricevuti in scuola… Sono bravissimi giovani e alcuni anche di gran valore e vorrebbero far qualcosa di bene tutti insieme e non sanno cosa fare. Gli ho dato un consiglio originalissimo che non avevo mai dato a nessuno! Cioè di far scuola (Lorenzo Milani, Lettere alla Madre, Genova 1997, pp. 198-199 – Barbiana, 7 marzo 1961).

POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO. Per vincere il disgusto. Per vincere il disgusto / d’una giornata impura / non serve accender moccoli, / o qualche ritrovato / «Buona coscienza in pillole». / Varrebbe il proposito / di non tradire se stessi. Radici contadine. Giornate operose / scandite sui tocchi / dell’Ave Maria, / pane casalino / farina nella madia / mele nel cassetto / e un cuore pulito / dentro una casa ariosa. (Pier Luigi Piotti, Alla vostra domanda, Padova 1971)

10 giugno 1999.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La tecnica e il problema insoluto. Il progresso tecnico lascerà aperto un solo problema: la fragilità della natura umana. Definizione maligna di psicanalisi. La psicanalisi è quella malattia mentale di cui crede di essere la cura. Ciò che importa. Le buone opinioni non contano. Quello che importa è chi le ha. (Karl Kraus)

Karl Kraus, austriaco-boemo, ebreo di nascita, fu raffinato, lucidissimo scrittore. Vissuto a Vienna a cavallo dei due secoli, 1874-1936, smascherò con la sua satira tagliente le menzogne, la bassezza morale, le convenzioni ipocrite, i miti dominanti. Il suo strumento di battaglia fu la rivista Die Fackel – «La Fiaccola», che per trentasette anni rappresentò qualcosa di unico sotto molti aspetti e che era scritta quasi interamente da lui.

A PROPOSITO DI NEOPAGANESIMO. Quel che i vagheggiatori del neopaganesimo non consideravano, può essere espresso con le parole che Jacob Burckhardt pone sulle labbra dell’Hermes del Vaticano, immaginando che mediti così: «Noi avemmo tutto: fulgore di dèi celesti, bellezza, eterna gioventù, indistruttibile lietezza; ma noi non eravamo felici, perché noi non eravamo buoni». Che è quanto dire: «non eravamo cristiani» (Nota di Benedetto Croce al saggio Perché non possiamo non dirci cristiani. Si può leggerlo nelle edizioni Locusta di Vicenza e nel volume antologico La mia filosofia, Milano 1993).

LA CITTÀ CHE SOGNO… Sogno una città che sia luogo adatto al riconoscimento di sé come persona, dove ciascuno avverta di «abitare» davvero e la cui storia sia visibile anche nelle sue costruzioni, nelle strade, nei suoi spazi. Una città capace di trarre dal suo tesoro cose nuove e antiche, per custodire ciò che il passato ha di prezioso e proiettarsi coraggiosamente verso un domani ormai alle porte. Sogno una città giovane e solidale: «Giovane» nei suoi abitanti, per l’intraprendenza nel far fronte ai problemi nuovi della società, per l’entusiasmo e l’iniziativa nella progettazione dell’avvenire. «Solidale» perché in grado di rispondere, con l’apporto di tutti e senza inutili conflittualità, al disagio della disoccupazione, alla sfida incombente di un nuovo modello di sviluppo economico, al preoccupante diffondersi di forme antiche e di nuove povertà. Sogno una città dove ci siano spazi di silenzio. Emblematico, in questo senso, il nostro Duomo, costruito quale icona della Gerusalemme celeste, come invito perenne a elevare in alto il cuore e la mente. Ci vorrebbero tanti luoghi propizi al silenzio, alla riflessione, all’ascolto. Sogno quindi una città che dia spazio alla dimensione contemplativa della vita, in maniera che, attraverso di essa, ci sia concesso di saperci inserire nella fretta della città per trasformarla. Sogno una città animata e vivificata dal dialogo, con strade piazze «agorà» dove la gente si trovi per capirsi e scambiarsi i doni intellettuali e morali di cui nessuno è privo (Carlo Maria Martini).

PREGHIERA DI NOVALIS. Solo un bimbo può guardarti in viso. Solo un fanciullo può guardarti in viso, / con fiducia aspettando il tuo soccorso. / Sciogli, dunque, il vincolo degli anni, / che io ritorni qual ero, il tuo bambino. / Di quel tempo d’oro in me rivivono / la fedeltà e l’amore (Novalis, Canti spirituali XIII).

17 giugno 1999.

LINEA RECTA BREVISSIMA. Certi collegamenti sanno di complicità. Che tu abbia mangiato oppure no, ti sei seduto a tavola (Proverbio ladino). L’avido. All’avido è stata data la metà del mondo. Egli chiede: «E l’altra metà per chi è?» (Proverbio arabo).

Ben detto. Qui da noi ci sono dei treni non puntuali che non sanno attenersi ai loro ritardi. Cerchiamo di ritrovare noi stessi in mezzo alla ressa. In mezzo alla ressa si può ben ritrovare se stessi. Se tutti sono numeri, ognuno che lo voglia ha la libertà di essere un individuo. Tutti hanno un orologio da guardare, ma ognuno cerchi di farsi un suo orario. L’ordine rende la vita avventurosa. Quando la follia è saggia. La pazzia è la saggezza che ha abbastanza humor da mettere in questione se stessa. (Karl Kraus, Detti e Contraddetti, Milano 1979)

QUANDO SIAMO VERAMENTE LIBERI? Che cos’è un atto libero? La risposta più semplice e profonda a me sembra di averla trovata in un celebre passo del Saggio sui dati immediati della coscienza Henri Bergson. «Siamo liberi quando i nostri atti emanano dalla nostra personalità intera, quando la esprimono, quando hanno con essa quella indefinita rassomiglianza che si trova alle volte tra l’opera e l’artista». È assurdo dividere la persona in due parti, l’io che sente o pensa e l’io che agisce, e concludere che l’uno dei due grava sull’altro. Allo stesso modo, a coloro che chiedono se siamo liberi di modificare il nostro carattere o se la sua influenza sia determinante, noi faremo osservare che il nostro carattere si modifica ogni giorno, perché siamo noi che ogni giorno ci modifichiamo e noi siamo il nostro carattere. Certamente la nostra libertà ne soffrirebbe, se ogni nuovo acquisto venisse ad inserirsi malamente sul nostro io e non a fondersi in esso; ma, appena questa fusione avrà luogo, si dovrà dire che il cambiamento sopravvenuto nel nostro carattere è nostro, che ce ne siamo appropriati. In una parola, se si decide di chiamare libero ogni atto che emana dall’io, e solo dall’io, l’atto che porta il segno della nostra persona è veramente libero, perché solo il nostro io ne rivendicherà la paternità.

CHI È SUPERFICIALE NON È LIBERO. L’azione libera si caratterizza innanzitutto in quanto espressione della totalità dell’io. «È una psicologia grossolana – osserva Bergson – vittima del linguaggio, quella che ci mostra l’anima determinata da una simpatia, da un’avversione o un odio, come da altrettante forze che pesano su di essa. Questi sentimenti, purché abbiano raggiunto una profondità sufficiente, rappresentano ognuno l’anima intera, nel senso che tutto il contenuto dell’anima si riflette in ognuno di essi. Dire, dunque, che l’anima si determina sotto l’influenza di uno qualsiasi di questi sentimenti, è riconoscere che si determina da sé». Che cosa se ne deve concludere? Punto primo. È dall’anima intera che emana la decisone libera; e l’atto sarà tanto più libero quanto più la serie dinamica, alla quale si ricollega, inclinerà maggiormente a identificarsi con l’io fondamentale. Punto secondo. È chiaro che, intesi così, gli atti veramente liberi sono rari. Il che vuol dire che molti vivono e muoiono senza aver conosciuto la vera libertà. Ci sono livelli diversi di profondità dell’io e, dunque, livelli diversi di libertà. In una parola, chi è superficiale non è libero.

LA SPERANZA E IL DOLORE. Il problema del cristiano, in mezzo agli altri uomini, è quello di sperare per tutti. Questo è il suo compito. Non gli viene chiesto di convertire tutti gli uomini al cristianesimo. La conversione – come ricorda Paolo nella lettera ai Romani (2, 4) – è un’opera di Dio, quindi appartiene a Lui. Il cristiano testimonia, evangelizza, ma non fa convertiti. Però, noi cristiani, in mezzo agli altri, dobbiamo sperare per tutti. L’uomo, qualunque uomo, credente o non credente, è attraversato dal problema del dolore e della morte. Ecco, noi cristiani dobbiamo continuare a raccontare – soprattutto con la nostra vita, più che con le parole – che c’è una speranza, che la morte e il dolore non sono l’ultima parola, che c’è una possibilità di vita eterna. E a quanti non sono cristiani, a quelli che non credono in Dio, io ricordo solo che in questo cammino siamo comunque chiamati a testimoniare amore per quelli che amiamo, per quelli che lasciamo, per quelli che ci stanno attorno. Io credo che, se questo venisse detto di più agli uomini, rendendoli coscienti che anche nel dolore, nella sofferenza, nella malattia, possiamo rimanere ancora capaci di amare, sarebbe non solo di consolazione per chi resta, ma anche per chi muore e se ne va perché ha attraversato il dolore, facendo della sua vita un capolavoro, un’opera d’arte (Enzo Bianchi, I paradossi della Croce, Brescia 1999).

24 giugno 1999.

LINEA RECTA BREVISSIMA. La fatica di scrivere come se… Bisogna scrivere ogni volta come si scrivesse per la prima e per l’ultima volta. Dire quanto sarebbe giusto per un congedo e dirlo così bene come per un debutto (Karl Kraus). L’uomo nella creazione. L’uomo è un quid medium fra l’animale e Dio. Egli è il bilanciere della creazione. L’animale subisce l’evoluzione, ma l’uomo la dirige. Egli è l’animale che si evolve verso Dio (Louis Lavelle).

A QUALE LIVELLO VIVE IL TUO «IO»? All’io profondo, l’io vivo e concreto, l’io interiore che sente e si appassiona, delibera e decide, si accompagna un io superficiale, un io parassita che tenderà sempre a deformare l’altro, a ridurre e persino a spegnere ogni suo slancio di libertà. L’io superficiale va verso l’entropia della libertà, l’io profondo tende a realizzarsi come slancio creatore. L’io superficiale ricopre, limita, ostacola l’io profondo. È chiaro che se l’esistenza dell’io fosse racchiusa solo entro questo orizzonte, la libertà sarebbe una chimera. L’io superficiale, infatti, pensa quasi esclusivamente per idee generali, stereotipi, luoghi comuni, slogans, e non ci si deve stupire se quelle idee – così apparentemente chiare, evidenti e distinte, ma così incapaci di auscultare il palpito della realtà – tendono ad associarsi tra loro in modo meccanico, secondo automatismi ripetitivi che ottundono sempre più in noi la capacità di percepire la novità, lo stupore, l’indignazione, la gioia di vivere. Se il nostro io non scava al di sotto della superficie, se non rientra in se stesso e si lascia assorbire dalla fitta trama di funzioni e rapporti, la nostra vita interiore dipende da noi ma solo fino ad un certo punto. Allora viviamo per il mondo esteriore piuttosto che per noi; parliamo piuttosto che pensare; siamo agiti piuttosto che agire noi stessi. Agire liberamente, invece, vuol dire riprendere possesso di sé, rimettere in moto la nostra vita interiore, interrogarsi con rigorosa onestà, scegliere ciò che è nobile e degno. Ancora una volta è il socratico metterci in chiaro con noi stessi, il «conosci te stesso», ciò da cui ha origine un’esistenza libera.

SINCERITÀ, MA ANCHE SERIETÀ. In tale prospettiva la libertà è insieme processo di maturazione e scelta – che non si compie una volta per tutte, ma si rinnova senza sosta attraverso ogni decisione – fra dispersione alienante e sforzo di interiorizzazione, io superficiale e io profondo. Il modo in cui l’uomo vive la sua libertà – conquista difficile, e perciò preziosa – è la sua vera carta d’identità. Un uomo ha la consistenza ontologica e morale che ha la sua libertà. In sintesi: la volontà non è un arbitrio che decide nel vuoto vertiginoso di ogni preferenza e di ogni esperienza; e non è neppure, come vorrebbero i deterministi, un apparecchio che registra e trasforma in movimento l’impulso di fattori venuti a visitarlo di fuori. La mia, la tua volontà non è in me e in te come in terra straniera e non sta a designare qualcosa di realmente distinto dalla mia e dalla tua coscienza. La libertà emana solo dall’io profondo. Il suo nome è sincerità, ma è anche serietà. «Tutta la serietà della vita – scrive Bergson nel saggio Il riso – le viene dalla nostra libertà».

La rubrica “Detti e contraddetti” è stata pubblicata sul Giornale di Brescia con cadenza settimanale dal 5 gennaio 1988 al 25 gennaio 2007.