DETTI E CONTRADDETTI 1999 – SECONDO SEMESTRE
1 luglio 1999.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Un male peggiore. E l’aspettar del male è male peggiore. Oggi più che mai. Dentro una città commisto / popolo alberga di contraria fede. Il gran fabbro di calunnie. Al finger pronto, a l’ingannare accorto: / gran fabbro di calunnie, adorne in modi / novi, che sono accuse, e paion lodi. (Torquato Tasso, Gerusalemme liberata)
Che cosa rimane? Solo ciò che è essenziale ha speranza di sopravvivere (Elio Guerriero). Lacrime sincere. È sincero il dolore di chi piange in segreto (Marziale). Tre frasi celebri di una grande mistica. 1. Chi comincia a servire davvero il Signore, il meno che gli può offrire è la vita. 2. Si va avanti così negligentemente nelle cose di Dio che i buoni, se vogliono progredire, bisogna che si sostengano a vicenda. 3. Niente ti turbi. / Niente ti sgomenti. / Tutto passa. / Dio non cambia. / Con la pazienza tutto s’acquista. / Chi possiede Dio non manca di nulla. / Dio solo basta (Teresa d’Avila, 1515-1582).
LA PIÙ GRANDE RIVOLUZIONE E LE ALTRE CHE SEGUIRONO. Nel plurimillenario cammino umano, che ha nome storia, qual è l’evento centrale che merita di essere designato come la più grande rivoluzione? E per quali ragioni le rivoluzioni che seguirono sono impensabili senza di essa? Benedetto Croce, non credente ma storico di razza, risponde alle due domande in modo inequivocabile in un celebre saggio, Perché non possiamo non dirci cristiani, apparso nel 1942. Di quello scritto riporto qui il fiammeggiante incipit.
Il Cristianesimo è stato la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta: così grande, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non meraviglia che sia apparso o possa ancora apparire un miracolo, una rivelazione dall’alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto legge ed indirizzo affatto nuovo. Tutte le altre rivoluzioni, tutte le maggiori scoperte che segnano epoche nella storia umana, non sostengono il suo confronto, parendo rispetto a lei particolari e limitate. Tutte, non escluse quelle che la Grecia fece della poesia, dell’arte, della filosofia, della libertà politica, e Roma del diritto: per non parlare delle più remote della scrittura, della matematica, e di quanto altro si deve all’Oriente e all’Egitto. E le rivoluzioni e le scoperte che seguirono nei tempi moderni, in quanto non furono particolari e limitate al modo delle loro precedenti antiche, ma investirono tutto l’uomo, l’anima stessa dell’uomo, non si possono pensare senza la rivoluzione cristiana, in relazione di dipendenza da lei, a cui spetta il primato perché l’impulso originario fu e perdura il suo. La ragione di ciò è che la rivoluzione cristiana operò nel centro dell’anima, nella coscienza morale, e, conferendo risalto all’intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fin allora era mancata all’umanità. Gli uomini, i geni, gli eroi, che furono innanzi al cristianesimo, compirono azioni stupende, opere bellissime, e ci trasmisero un ricchissimo tesoro di forme, di pensieri e di esperienze; ma in tutti essi si desidera quel proprio accento che noi accomuna ed affratella, e che il cristianesimo ha dato esso solo alla vita umana.
LO HUMOUR DI THOMAS MORE. L’epoca di More amava gli scherzi, e su di lui abbiamo molti aneddoti. Sulla natura della sua arguzia ci informano i suoi amici più intimi. Erasmo dice che il suo carattere era come il suo volto, sereno e pronto al sorriso, poiché More era portato più alla gaiezza che alla gravità: ma che la sua arguzia non era mai sciocca né offensiva. La stessa cosa ci ripete anche l’altro suo amico Richard Pace: gli scherzi di More erano temperati dal garbo. Tra i ministri del re dopo le dimissioni di More da Cancelliere, uno gli era amico, il duca di Norfolk. Il duca si recò in visita a More per raccomandargli di venire incontro ai desideri di Enrico VIII «perché, Dio mi è testimone, l’ira del re significa morte (indignatio principis mors est)». «Tutto qui, mio Signore? – rispose More – Allora vi assicuro che tra voi e me c’è una sola differenza: che io morirò oggi, e voi domani». Il governatore della Torre di Londra, in cui l’ex Cancelliere fu rinchiuso, disse a More, in presenza della figlia Margaret, che avrebbe voluto trattarlo meglio di quanto faceva, ma che non poteva farlo senza incorrere, evidentemente, nello sdegno del re. «Signor governatore – rispose More – vi assicuro che non sono affatto scontento del trattamento che ricevo e se lo diventassi, buttatemi fuori».
8 luglio 1999.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il mistero, quello autentico. Il mistero sarà illuminato dalla sua propria luce. Le definizioni guastafeste. È difficile non farsi guastare dalle definizioni il gusto delle cose. Testa vuota, vita facile. Una testa che non si offra in qualsiasi situazione come un capace spazio vuoto non avrà vita facile nel mondo. Il segreto del propagandista. Il propagandista si renderà stupido quanto i suoi ascoltatori, in modo che questi credano di essere intelligenti come lui. Allora è una persona veramente colta. Se, dopo tanti anni, uno sa ancora da quale dramma classico e da quale atto è presa una citazione, la scuola ha fallito. Ma se uno ha idea di dove potrebbe stare quella citazione, allora è una persona veramente colta e la scuola ha raggiunto appieno il suo scopo. (Karl Kraus)
DINANZI ALLA PERSONA DI GESÙ. La continua e violenta polemica antichiesastica, che percorre i secoli dell’età moderna, si è sempre arrestata e ha taciuto riverente al ricordo della persona di Gesù, sentendo che l’offesa a lui sarebbe stata offesa a sé medesima, alle ragioni del suo ideale, al cuore del suo cuore. Perfino qualche poeta, il quale, per la licenza che ai poeti si concede di atteggiare fantasticamente in simboli e metafore gli ideali e i controideali a seconda dei moti della loro passione, travide in Gesù – in Gesù che amò e volle la letizia – un negatore della gioia e un diffonditore di tristezza, finì col dare la palinodia del suo primo detto, come accadde al tedesco Goethe e all’italiano Carducci. Impressioni e fantasie di poeti furono altresì le nostalgie per il sereno paganesimo antico, di solito contraddette con le opposte impressioni e fantasie da quelli stessi che le avevano per poco intrattenute. La spensierata gaiezza e la celia, che pareva innocente dovunque si rivolgesse e si versasse, su qualsiasi fatto o personaggio glorioso della storia e della poesia, non è sembrata innocente e non è stata mai permessa intorno alla figura di Gesù, che anche si è ripugnato costantemente a portare sulle scene dei teatri, salvo che nella ingenuità delle medievali sacre rappresentazioni e delle loro sopravvivenze popolari, alle quali la Chiesa stessa è stata indulgente o che essa stessa ha promosse. E un’altra riprova è forse da vedere negli atteggiamenti e nelle simbologie di colorito cristiano, di cui si sono di frequente rivestiti i moti politici e sociali dell’età moderna, anche quelli di carattere più spiccatamente antichiesastico. Gli è che, sebbene tutta la storia passata confluisca in noi e della storia tutta noi siamo figli, l’etica e la religioni antiche furono superate e risolute nell’idea cristiana della coscienza e dell’ispirazione morale, e nella nuova idea del Dio nel quale siamo, viviamo e ci muoviamo, e che non può essere né Zeus né Jahvé, e neppure (nonostante le adulazioni di cui ai nostri giorni si è voluto farlo oggetto) il Wodan germanico; e perciò, specificamente, noi, nella vita morale e nel pensiero, ci sentiamo direttamente figli del cristianesimo.
Queste riflessioni Benedetto Croce svolgeva nella parte conclusiva del saggio Perché non possiamo non dirci «cristiani», apparso sulla sua rivista «La Critica», nel 1942. Quando sembrava che la vittoria fosse alla portata del nazismo, il filosofo italiano si chiedeva quale fosse la parola più alta e decisiva per il formarsi della civiltà europea e rispondeva: quella di Gesù, che «congiungendo di continuo l’uomo a Dio, lo fa veramente uomo».
LIBERTÀ REGALE E SCHERZO, ANCHE SALENDO IL PATIBOLO. Lo humour non abbandona More neppure dopo la condanna a morte emessa il 1° luglio 1535 ed eseguita il 6 di quello stesso mese alle ore 9 del mattino. Ebbene, è tipico di More cogliere persino nella situazione limite, come quella di avviarsi alla decapitazione, il lato umoristico. Sono famose le parole indirizzate da More al Luogotenente della Torre di Londra mentre si accingeva a salire la vacillante scaletta del patibolo: «Per favore, messer Luogotenente, volete darmi una mano per farmi salire sicuro? Poi, per scendere, lasciate pure che mi arrangi da solo».
15 luglio 1999.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Solo allora nasce da retta intenzione. Compartecipa sempre al castigo che infliggi. In qual caso ammirano chi non le ascolti. Possono talvolta le donne consigliare l’uomo a viltà, ma sempre sono pronte ad ammirarlo se non le ascolti. Qualcosa di pudico. Il pensiero, come l’amore, ha sempre qualcosa d’intimo e di pudico. I dongiovanni come i beoni. Non sono i beoni i migliori giudici del vino. (Ugo Bernasconi, 1874-1934)
I pedanti e i delinquenti. Non ci sono che i pedanti ed i delinquenti che abbiano sempre tutte le loro carte pronte ed in regola. Presenze invisibili. Presenze invisibili accompagnano e forse dirigono le principali svolte della vita. (Massimo Bontempelli, 1878-1960)
Prendere le distanze da se stessi. Non mi immischio volentieri nelle mie faccende private. Autore e lettore. La maggior parte degli autori non ha altra qualità che quella del lettore: il gusto. Ma questi ha più gusto perché non scrive. Oggi dev’essere pubblicata per essere creduta vera. Nero su bianco: ora la menzogna si presenta così. L’inversione dei ruoli. Un buon psicologo è capace di farti immedesimare subito nella sua situazione. (Karl Kraus, Detti e Contraddetti)
L’UOMO DISTRUGGERÀ LA TERRA? Un pensatore che ancor oggi molti considerano un genio, Teilhard de Chardin, scriveva qualche decennio fa: «Il sogno che alimenta oscuramente la ricerca umana è, in ultima analisi, quello di riuscire a dominare l’energia fondamentale che tutte le altre forme di energia non fanno altro che servire: afferrare, tutti uniti, il timone del mondo, per impadronirsi della molla stessa dell’evoluzione. A coloro che hanno il coraggio di confessare che le loro speranze arrivano fino a questo punto, io dirò che essi sono i più uomini tra gli uomini». E ancora, nella stessa opera, Il fenomeno umano, proseguiva: «Se l’umanità fa uso dell’enorme quantità di tempo di cui ancora dispone, essa ha dinnanzi a sé delle possibilità immense».
Sì, d’accordo, il potenziale della énorme durée e delle possibilités immenses c’è, l’umanità è ancora giovane: questo è il punto di vista dell’evoluzione. Ma il vero problema è se le possibilità saranno effettivamente utilizzate ed in che modo, per servire a quale scopo. La questione del potenziale biologico-genetico dell’umanità non ci toglie il sonno, ma la questione del suo futuro storico sì. «Può l’umanità avere un futuro se non cambia vita? – questa è la domanda che evitiamo di porci e che non possiamo più nasconderci». Il futuro è diventato terrificante. E lo è almeno per tre ragioni. Il pericolo atomico non è una fantasticheria. In secondo luogo stiamo sprecando le limitate risorse del pianeta a velocità fenomenale. Infine stiamo inquinando la terra, l’acqua e l’aria su tale scala che in un futuro abbastanza ravvicinato il pianeta non sarà più abitabile. Basta aprire giornali e riviste scientifiche per leggere fatti da incubo, che rendono il quadro d’insieme sempre più chiaro e spaventoso. Il Reno e il Danubio sono così inquinati da rendere impossibile la vita persino alle anguille; i due fiumi più celebri sono oggi diventati le due fogne più luride d’Europa. Lo smog di Los Angeles è stato avvistato dagli astronauti al oltre 25.000 miglia di distanza. In California ai bambini viene regolarmente proibito di fare giochi energici o troppo moto, perché ciò li farebbe respirare più profondamente. Notizie del genere fanno parte ormai esse stesse del nostro quotidiano. Ci troviamo davanti a qualcosa di peggio di un’orrenda distruzione, ma l’assuefazione al pericolo concorre potentemente a cancellarlo dalla nostra mente. Altre specie sono scomparse: potrebbe succedere anche alla nostra. E non necessariamente a causa di una terza guerra mondiale.
SE VUOI… SE VUOI… Se vuoi dedicarti alla cura dell’anima, è necessario che tu sia povero o che tu viva come se lo fossi (si vis vacare animo, aut pauper sis oportet aut pauperi similis)… La saggezza paga in contanti: rendendo del tutto inutili le ricchezze, è come se ce le avesse già date (17, 5, 10 passim). Se la libertà ti è sinceramente piaciuta e vuoi spezzare dentro di te i legami che ti tengono avvinto, chiedi pure un po’ di tempo per maturare il tuo proposito in modo che non vi siano più rimpianti senza fine… ma se tu tergiversi per meglio calcolare quello che puoi portare con te, non ne verrai mai a capo. Nessun naufrago si salva a nuoto con i suoi bagagli (nemo cum sarcinis enatat) (22, 11-12). (Seneca, Ad Lucilium ep.)
L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Che io non disperi mai. Donami un cuore puro – che io possa vederti, / e un cuore umile – che io possa sentirti, / e un cuore amante – che io possa servirti, / e un cuore di fede – che io possa dimorare in te (Dag Hammarskjöld, 1905-1961. Dal volume: Tracce di cammino, Bose 1992).
22 luglio 1999.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Guai a farlo. Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene (Libro di Isaia 5, 20). L’augurio. Bontà e verità non ti lascino mai (Libro dei Proverbi 3, 3). Il vano promettere. Nuvole e vento, ma niente pioggia: com’è l’uomo che promette regali che non farà (Libro dei Proverbi 25, 14).
La diceria. La diceria è la cognata acquisita dell’informazione. Nulla di incerto le è estraneo. Sa cose di ogni genere e ne dice ancora di più, ma è pronta anche a negare se stessa. Quando il male giganteggia. Il male non cresce mai così bene come quando ha un ideale davanti a sé. Pensieri e opinioni. È un’infelice tendenza dei nostri giorni quella di confondere pensieri e opinioni. (Karl Kraus)
LA MERAVIGLIA GIOIOSA E LO STUPORE COME INQUIETUDINE. Platone e Aristotele videro bene che la filosofia nasce sempre da un atto di meraviglia. «L’uomo è l’unico animale che ha lo stupore di esistere» (Teeteto 155 d) scrisse il primo, e il secondo: «Gli uomini furono mossi a filosofare, alle origini come ora, dalla meraviglia» (Metafisica 1, 2, 982 b 14). Agl’inizi del pensiero occidentale lo stupore richiamava un senso ampio, gioioso e insieme solenne, della natura e della vita. Anche per il neostoico Seneca la sorgente, la causa dell’interrogazione filosofica è la stessa, ma egli vi apporta un’aggiunta che, a nostro avviso, costituisce la cifra per capire la sua «modernità», il suo modo d’impostare i problemi. Seneca unisce, infatti, allo stupore come scoperta gioiosa lo stupore come inquietudine: l’inquietudine di chi percepisce – insieme alla bellezza e alle perfezioni degli esseri – la presenza del male nel mondo, la soggezione di sterminate moltitudini ai valori di opinione, lo spreco che l’uomo fa della sua vita e lo sprofondare della sua «esistenza» nella «inesistenza» più significante. Per questa ragione a lui sembra attagliarsi perfettamente l’incisiva immagine di cui si serve Fritz Waismann: «Filosofo è colui che percepisce, per così dire, dei crepacci nascosti nella struttura dei nostri concetti laddove altri vedono solo il levigato sentiero dei luoghi comuni davanti a loro» (Contemporary British Philosophy, London 1961, p. 448).
CHE FARE CON GL’INGRATI? I CONSIGLI DI SENECA. «Tra quelli a cui abbiamo fatto del bene ci sono alcuni che lo hanno dimenticato, o che fingono di non ricordarsene. Con gente del genere come comportarsi?». La questione che tu mi poni è molto importante e io rispondo così: dobbiamo comportarci con calma, con mitezza di cuore e magnanimità (placido animo, mansueto, magno). L’offesa di un individuo insensibile, immemore e ingrato non deve mai affliggerti al punto di toglierti la gioia di avergli fatto del bene. Che l’offesa ricevuta non ti faccia mai arrivare a dire: «Vorrei non averlo fatto». Anche se il tuo beneficio a te non porta alcun frutto. Ritieniti ugualmente soddisfatto. Non è il caso di sdegnarsi di fronte all’ingratitudine, come se fosse accaduto qualcosa di nuovo. Bisognerebbe, caso mai, meravigliarsi del contrario [dato che esistono mille motivi che distolgono dalla riconoscenza]. (De beneficiis, 26, 1-3).
Ti lamenti di esserti imbattuto in un ingrato. Se è la prima volta, ringrazia la fortuna o la prudenza. Però, sta’ attento che la prudenza in questo caso non ti renda gretto. Guai se per evitare il rischio dell’ingratitudine, tu non farai più del bene; così, per impedire che si perda nelle mani di un altro, tu lascerai che l’opera buona si perda anche per te. Anche quando incontriamo l’ingratitudine, non dobbiamo stancarci di fare il bene: bisogna seminare anche dopo un cattivo raccolto. (Ad Lucilium ep. 81, 1-2).
L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Tu attendi la mia conversione, io attendo la tua grazia. Signore, / la tua bontà mi ha creato, / la tua misericordia ha cancellato i miei peccati. / Tu attendi, Signore misericordioso, / la mia conversione / e io attendo la tua grazia. / Vieni in mio aiuto, o Dio, / di te sono assetato, di te sono affamato. / Te desidero, a te sospiro, / te bramo al di sopra di ogni cosa (Anselmo di Aosta, 1033-1109).
29 luglio 1999.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Che cos’è arte? Cogliere con uno sguardo un’immagine del mondo è arte. Leggere due volte. L’onore più grande fino a oggi me lo concesse un lettore che mi confessò con imbarazzo che riusciva a capire le mie cose solo alla seconda lettura. Bisogna leggere due volte tutti gli scrittori, i buoni e i cattivi. Si riconosceranno i primi, si smaschereranno i secondi. (Karl Kraus, Detti e Contraddetti)
L’ESPERIENZA INTERIORE, APERTURA A DIO. Nell’esperienza interiore l’uomo scopre a un tempo la profondità della sua anima e la somiglianza con Dio, ed è all’una e all’altra che si richiama Eraclito nel frammento 45: «I confini dell’anima tu non li potrai mai raggiungere per quanto innanzi ti spinga, neppure percorrendo per intero la via [della ricerca], tanto profonda è la sua relazione con il Logo». L’esperienza interiore acquista, dunque, rilievo e profondità in quanto è uno scire cum Deo, un sapere con lui e alla sua presenza, una presa di coscienza di sé e della realtà di Dio. Solo nel rapportarsi a Dio, Sommo Bene originario, la coscienza può prendere possesso di sé e muovere alla conquista di quella sintesi di virtù e felicità, in cui consiste il Sommo Bene accessibile all’uomo. Seneca arriverà a scrivere: «Dio è vicino a te, è con te, è dentro di te. Un sacro spirito abita in noi, custode e vigile del nostro bene e del nostro male» (Prope est a te Deus, tecum est, intus est. Sacer intra nos spiritus sedet, malorum bonorumque nostrorum observator et custos. – Ad Lucilium ep. 41, 1-2).
L’interiore presenza di Dio all’anima è la realtà metafisica fondamentale che rivela il senso stesso della vita umana: solo essa, infatti, rende possibile una forma di esistenza che sia imitazione gioiosa e benefica della bontà divina. Nel frammento 24 Haase di Seneca si legge: «Vi è qualcosa di grande, una divinità più grande di quanto si possa pensare, che è guida alla nostra vita. Cerchiamo di agire in modo di esserle accetti. Non serve che la coscienza sia chiusa dentro di noi: di fronte a Dio siamo aperti» (Nihil prodest inclusam esse conscentiam: patemus Deo). In altre parole la ratio nell’uomo è coscienza del bene, ma al tempo stesso coscienza sicura dell’insufficienza del bene in ogni sua umana attuazione, sì che, posto di fonte a manifestazioni del bene che sono sempre relative, transitorie, caduche, l’uomo è rinviato al bene più alto, assoluto, incorruttibile, eterno. Pur fallibile e relativa, la ratio in noi è rivelatrice di valori assoluti, ci apre alle dimensioni dell’eterno e del divino, proprio in quanto manifesta la nostra condizione di creature imperfette. La soggettività della coscienza trova controllo e correzione nel bene oggettivo cui rimanda, e questo a sua volta può farsi operante in noi solo come coscienza.
SENECA CI METTE IN GUARDIA. 1. Chi vive nella prosperità è avido di beni altrui ed è esposto all’altrui avidità. Ad Lucilium ep. 19,7.
L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Nutrimi con l’erba fresca dei tuoi misteri. Ti ho abbandonato: non m’abbandonare. / Da te mi sono allontanato: vieni a cercarmi. / Conducimi ai tuoi pascoli. // Nutrimi con l’erba fresca dei tuoi misteri / dei quali un cuore puro è la dimora, / che porta in sé lo splendore delle tue rivelazioni (Isacco il Siro, vissuto nel VII secolo).
5 agosto 1999.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Se ti riferisci ai tuoi. Certa lucidità di giudizio nel giudicare i familiari non è che aridità di affetti. Sforzo di tutta l’anima. Si è responsabili anche del proprio grado d’intelligenza, perché anche questa nasce da uno sforzo preliminare di tutta l’anima verso la verità. (Ugo Bernasconi)
Superiorità della donna. L’uomo chiede alla donna di essere bella, lei chiede a lui di essere intelligente. I grandi poeti e il regime. Dai grandi poeti – Dante, Petrarca, Parini, Leopardi, Manzoni – nessuno ha servito un regime. Servivano la patria, ma in senso rivoluzionario. Ridere. È un fatto di socievolezza. Uno piange da solo; non si mette a ridere da solo che il pazzo. (Massimo Bontempelli)
Pensiero e parola. Il linguaggio è la madre, non l’ancella del pensiero. Il linguaggio deve essere la bacchetta del rabdomante che scopre le sorgenti del pensiero. La crema e la feccia. Un buongustaio mi disse, a proposito della crema della società, che lui preferiva la feccia dell’umanità. Errore e verità. Chi mai vorrà cacciar via un errore che lui stesso ha messo al mondo, per sostituirlo con una verità adottata? Per riparare ad un errore non basta scambiarlo con una verità. Altrimenti si mente. (Karl Kraus, Detti e Contraddetti)
LA DEMOCRAZIA PER SMANTELLARE LA POLVERIERA BALCANICA. L’aggressione contro gli innocenti, l’estirpazione dei popoli dalla loro terra natale hanno riportato in Europa l’orrore dell’odio razziale. È contro questo odio che si è determinata l’inevitabilità del ricorso alle armi. Una tragica realtà di violenze, di lutti, di distruzioni ci angoscia ogni giorno. Urge che facciamo ancor più forti la voce della politica e la tenacia del negoziato, affinché garanzia del rispetto dei diritti umani e promesse certe di una pace vera siano subito e insieme stabilite. La dura lezione del conflitto balcanico spinge ad applicare, a rendere più lungimirante la nostra concezione europea. Ogni focolaio bellico del nostro continente è ferita inferta alla stessa Unione europea e ai suoi valori. La pace duratura può raggiungersi solo allargando i confini dell’Unione. Essa fonda sul principio dell’inclusione e non dell’esclusione. È questa l’idea-forza, la pax europea tra uguali che dobbiamo offrire, con iniziative immediate e concrete, ai popoli dell’Europa che sono fuori dall’Unione. La sicurezza, l’avvenire della regione balcanica non risiedono nella moltiplicazione di piccoli Stati nazionalisti. Risiedono nel disegno di un percorso di estensione, graduale nel tempo ma certo nella conclusione, della cittadinanza europea ai popoli che nel continente hanno vissuto e vivono la loro identità storica. Questo sforzo europeo per una pace che non sia solo un armistizio deve vedere in prima linea noi italiani.
Questo brano di esemplare chiarezza è tratto dal discorso del presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, letto alle Camere riunite il 18 maggio 1999, dopo aver prestato giuramento.
L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. La correzione di un Padre. Salvami dal diventare uno stolto / che non accetta la tua correzione, uno stolto che recalcitra davanti ad essa, / uno stolto che non vuole accettarla / come una benedizione. Uno stolto capriccioso / che la volga nella propria perdizione (Søren Kierkegaard, Preghiere, Brescia 1953).
12 agosto 1999.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Facile quando si ha ragione. Quando si ha ragione si è facilmente generosi. Leggi precise e chiare! Ogni legge che restringe in più precisi e chiari limiti la legge medesima è preferibile, a parità di altre condizioni, ad un’altra che lo fa meno. Assioma (che dovrebbe essere) evidente in politica. (Cesare Beccaria, 1738-1794)
Galantuomo, non uomo galante. Un galantuomo, oh, quanto è diverso da un uomo galante! (Giambattista Giovio, 1748-1814).
L’OPZIONE PEGGIORE: FAR FINTA DI NON SAPERE. Il silenzio degli amici italiani di Milosevic su quanto si è venuto a sapere del Kosovo è incomprensibile o, per quel che si capisce, francamente scandaloso. Sono sempre più frequenti e sempre più raccapriccianti le notizie circa la scoperta di stanze di tortura arredate con tutti gli strumenti del caso, sul ritrovamento dovunque di decine di fosse comuni e di forni crematori adoperati dai valorosi soldati serbi per far sparire i corpi delle loro vittime. La «pulizia etnica» ha fatto massiccio ricorso agli stupri di massa, agli incendi, all’assassinio, alle violenze più spaventose. «Ebbene, di fronte a tutto ciò – si chiede Ernesto Galli Della Loggia – qual è stata la reazione di tutti coloro che per settimane si sono sforzati di dimostrare che la guerra della Nato era un errore e un crimine, che bombardamenti e repressioni serbe erano da considerare sullo stesso piano? Nulla, nessuna reazione, silenzio di tomba». Sullo stesso tema lo scrittore tedesco Peter Schneider scrive: «Colpisce che chi ha giudicato criminale l’intervento della Nato non abbia speso una parola sulla sua origine: le espulsioni in massa e gli eccidi della popolazione albanese del Kosovo. Restano agli oppositori dell’intervento della Nato solo due opzioni: o continuare a negare i fatti oppure devono spiegare che essi riconoscono sì la gravità dei crimini, ma ritengono che è meglio lasciarli accadere piuttosto che fermarli con la forza. Chi sceglie questa via, però, non può certo pretendere di aver dalla sua parte una morale più alta. Perché chi osserva un delitto, standosene con le mani in mano e senza intervenire, dovrebbe meritare più rispetto di chi tenta d’impedirlo? Chi non agisce, non può sbagliare; ma non per questo rimane senza colpa» (Corriere della Sera, 28 giugno 1999).
Un doloroso sospetto: per chi è ancora un prigioniero della mente, nella sua cieca adesione all’ideologia comunista, se a commettere orrendi crimini è un comunista, il crimine non è più crimine. Una domanda inevitabile: la guerra si è conclusa grazie anche alla tenace mediazione russa. Ma una Russia che fosse ancora una grande potenza militare, come lo era l’Unione Sovietica, si sarebbe mai adoperata per spegnere quell’incendio?
«SONO INNAMORATO? SÌ, POICHÉ’ STO ASPETTANDO». 1. L’attesa è un incantesimo: io ho avuto l’ordine di non muovermi. L’attesa di una telefonata si va così intessendo di una rete di piccoli divieti, all’infinito, fino alla vergogna: proibisco a me stesso di uscire dalla stanza, di andare al gabinetto, addirittura di telefonare per non tenere occupato l’apparecchio; per la stessa ragione, io soffro se qualcuno mi telefona; l’idea che di lì a poco dovrò uscire, correndo così il rischio di essere assente al momento dell’eventuale chiamata riconfortante, mi tormenta. Tutti questi diversivi sono dei momenti perduti per l’attesa, delle impurità d’angoscia, poiché, nella sua purezza, l’angoscia dell’attesa esige che io me ne stia seduto in una poltrona con il telefono a portata di mano, senza far niente.
L’Autore di questi due passi è Roland Barthes (1915-80), il famoso semiologo francese che ha cercato di fissare sulla pagina scritta i «segni» dell’amore attraverso la rilettura di una serie di capolavori della letteratura moderna. Ne nacque nel 1977 un libro avvincente: Frammenti di un discorso amoroso (Torino 1979).
POETI ITALIANI DEL NOVECENTO. Vola alta parola. Vola alta, parola, cresci in profondità, / tocca nadir e zenith della tua significazione, / giacché talvolta lo puoi. / Però non separarti / da me, non arrivare, / ti prego, a quel celestiale appuntamento / da sola, senza il caldo di me / o almeno il mio ricordo. Sii / luce, non disabitata trasparenza… (Mario Luzi, Per il battesimo dei nostri frammenti, Milano 1985).
19 agosto 1999.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Aforisma e verità. L’aforisma non coincide mai con la verità; o è una mezza verità, o una verità e mezzo. È senz’altro vero. È senz’altro vero che io ho raccomandato il riconoscimento della bellezza come unica difesa contro la stupidità; e anche che ho ricondotto tutti i mali di questo mondo al feroce prosciugamento e alla maligna contaminazione della sorgente di ogni vita. Non c’entra. Lo spirito non è legato a pregiudizi di classe. (Karl Kraus, Detti e Contraddetti)
PERCHÉ IN ITALIA I GIOVANI NON FANNO PIÙ FIGLI? In Italia i giovani non fanno più figli perché non hanno lavoro. Un ragazzo che non sia un incosciente non mette al mondo una creatura quando non sa come crescerla, a meno che i genitori non siano tanto facoltosi da mantenere tutti. In questa situazione, invece di prendersela con i ventenni e i trentenni mettiamo sul banco degli accusati chi non riesce a garantire un futuro alle nuove generazioni se non attraverso contratti part-time o lavori talmente flessibili da risultare impalpabili. Se sono diplomati, si dice loro che quel titolo di studio è ancora troppo poco per trovare lavoro; se sono laureati, gli si racconta che sono istruiti su qualcosa che in fondo non serve; se si sono specializzati in corsi professionali, si farfuglia che quella diramazione è uscita dal mercato; se sono meridionali, si impone loro di andare al Nord; se sono del Nord, di andare ancora più su, spostando sempre più in là la meta da raggiungere fino allo sfinimento delle speranze. E questi dovrebbero poi mettere su famiglia? Non garantendo il lavoro si priva l’uomo e la donna della più elementare libertà, quella di procreare in serenità. Ecco cosa abbiamo dinanzi a noi, una popolazione sempre più vecchia e sfinita perché si è tolta la fiducia di migliorare generazione dopo generazione. Personalmente ho raggiunto un livello di benessere superiore a quello di mio padre e lui stava meglio rispetto a mio nonno. Ma il figlio? Lui no, lui si batte tutto il giorno per reperire un rapporto stabile, un’ombra di sicurezza, un’oncia di tranquillità E come lui ce ne sono a milioni (Gabriele La Porta, Tempo del 3/6).
L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Senza lo Spirito. Senza lo Spirito / Dio è lontano, / Cristo resta nel passato, / l’evangelo è lettera morta / la chiesa una semplice organizzazione, / l’autorità dominio, / la missione propaganda, / il culto un’evocazione / e l’agire cristiano / una morale da schiavi. // Ma in lui / il cosmo si solleva / e geme nelle doglie del regno, / Cristo risorto è presente, / l’evangelo è potenza di vita, / la chiesa significa comunione trinitaria, / l’autorità è servizio liberante, / la missione è Pentecoste, / la liturgia è memoria e anticipazione, / l’agire umano / è deificato (Ignazio IV Hazim, patriarca greco-ortodosso di Antiochia – Dal volume: Il libro delle preghiere di Enzo Bianchi, Torino 1997).
26 agosto 1999.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Desiderio e amore. Cieco è il desiderio. A essere amore deve sapersi togliere le bende. L’astuzia. L’astuzia, segno d’intelligenza nelle bestie; dalle bestie in su segno di dappocaggine. L’eroismo. L’eroismo è sempre un impeto di tutto l’essere a tener fede ai diritti della coscienza. (Ugo Bernasconi)
Non avere rimpianti. Avessi cent’anni, il mio giorno migliore sarebbe sempre domani. Scrivi comunque quello che pensi. Quando non ti è permesso di scrivere tutto quello che pensi, accontentati di scrivere soltanto quello che pensi. (Ugo Ojetti)
L’inautentico. Chi è inautentico non crede all’autenticità in genere. E se ci credesse non comprenderebbe come si possa essere autentici in un tempo in cui nessuno ha realmente bisogno di esserlo. Le possibilità perdute. Ciò che ci tortura sono le possibilità perdute. Essere sicuri di una impossibilità al confronto è un guadagno. Per che cosa prendere o non prendere tempo. Si prenda tempo per tutte le cose; salvo per le cose eterne. (Karl Kraus, Detti e Contraddetti)
«RIMETTI A NOI…». MA NOI LI RIMETTIAMO? Occorre ripensare quelle parole del Padre Nostro, di una semplicità stupefacente, anche sul piano internazionale. Un problema tra molti: quello della remissione del debito estero dei Paesi poveri, non per un sussulto di amore del prossimo, ma solo per giustizia. In realtà questi Paesi hanno già abbondantemente pagato il loro debito, per gran parte contratto in una situazione finanziaria internazionale totalmente differente: i crediti, alla fine degli anni ‘70, erano molto accessibili, con interessi ragionevoli, ma le condizioni vennero rapidamente cambiate dall’establishment finanziario internazionale che elevò i tassi e impose poi anche un apprezzamento impensabile del dollaro. Nel giro di pochi mesi quei Paesi, che avevano sperato in finanziamenti per lo sviluppo, si trovarono a dover sborsare alle banche e poi ai Paesi occidentali cifre astronomiche di soli interessi. È, dunque, chiaro che, se ci si rifà alle condizioni in cui i debiti vennero contratti, tutto è già stato pagato e più volte. Durante l’ultimo vertice del G7 a Colonia qualche passo è stato compiuto: si è ammesso per la prima volta che il debito può essere condonato, almeno in parte, anche se non si è ancora indicata la via tecnico-legislativa da seguire. La Chiesa cattolica rilancia con forza la campagna per la cancellazione del debito dei Paesi poveri nella prospettiva del Giubileo del 2000; ma su questo problema, la cui mancata soluzione affama sistematicamente migliaia di milioni di esseri umani, occorre unire le forze nel fare opera di informazione per dissipare menzogne e pregiudizi e spingere gli Stati democratici a scelte di giustizia.
MA CHE COSA SI VINCE E CHE COSA SI PERDE? «Si vince con cinquecento parole, non una di più». Lo dice Pippo Baudo in una lunga intervista a La Repubblica, ed è probabile che abbia ragione. Chissà se Baudo si rende conto di avere emesso una smentita storica, addirittura epocale. Lo smentito è don Lorenzo Milani, colui che disse più lucidamente, più disperatamente di altri che la sconfitta dei poveri sta tutta nel loro risicato vocabolario. Resta da capire – e non è una domanda da poco – che cosa si vince, e che cosa si perde. Quale distanza c’è tra successo e dignità, tra potere e verità (Michele Serra, Che tempo fa, Milano 1999).
L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Preghiera per il giorno che sta per cominciare. Signore è l’alba. Fa’ che io vada incontro nella pace / a tutto ciò che mi porterà questo giorno. / Fa’ che io mi consegni totalmente / alla tua santa volontà. / Donami in ogni momento la tua luce e la tua forza. // Insegnami ad agire con apertura e intelligenza / verso tutti i miei fratelli e le mie sorelle / e verso tutti gli uomini, / senza mortificare o contristare nessuno. // Signore, donami la forza di portare / la fatica del giorno che si avvicina, / e di tutti gli eventi inclusi nel suo corso. // Guida la mia volontà, / insegnami a pregare, a credere, / a perseverare, a soffrire, a perdonare / e ad amare! (Uno Starec del Monastero di Optina. Dal volume: Vladimir Kotelnikov, Pravoslavnaja asketika i russkaja literatura, Sankt-Peterburg 1994).
2 settembre 1999
LINEA RECTA BREVISSIMA. Quattro cose nuocciono alla giustizia. Quattro cose spengono la giustizia: l’amore, l’odio, il timore e il guadagno. Dai, taglia corto. Spesso nello scrivere offende più la lunghezza che l’oscurità. Medicina. I medici coprono gli errori loro con la terra. Quando si è infelici. Quattro sorti d’uomini sono infelici: chi soccombe a peccato enorme; chi può far del bene e non lo fa; chi non sa e non vuole imparare; e chi sa insegnare e non insegna. (Orazio Rinaldi, vissuto nel 1500)
IL DELIRIO DI CAVOUR MORENTE. Mercoledì 29 maggio 1861 Cavour rientrò in casa esausto e preoccupato. «Non ne posso più – confidò al domestico – ma bisogna lavorare lo stesso. Il Paese ha bisogno di me». La notte si sentì male e il mattino seguente gli furono praticati tre salassi. Di giorno in giorno il peggioramento divenne evidente. La malattia di Cavour era una malattia perniciosa con accessi di febbre intermittente accompagnati da delirio. Il martedì sera, 4 giugno, essendosi diffusa in Torino la notizia della gravità della malattia, il palazzo Cavour fu come assediato dalla popolazione e si dovette tenerlo aperto tutta notte. Fuori, per le strade adiacenti, vegliava in silenzio una folla cupa e desolata, a tratti minacciosa per il timore che il clero rifiutasse i sacramenti al presidente del Consiglio. Il 5 giugno, verso le nove, il sovrano venne a visitare l’ammalato. Il conte lo riconobbe e gli chiese subito se fosse giunto dalla Francia il riconoscimento del Regno d’Italia. E aggiunse: «Sire, ho tante cose da comunicarvi, ma sono troppo malato». Le sue parole passarono allora alla questione che più lo assillava: il Meridione o, com’egli diceva, i napoletani, cioè gli ex-sudditi del regno di Napoli: «E i nostri poveri napoletani così intelligenti! Ve ne sono che hanno molto ingegno, ma ve ne sono altresì che sono molto corrotti. Questi bisogna lavarli…».
Quando Vittorio Emanuele si fu accomiatato, Cavour cominciò a delirare. Le sue parole furono raccolte e messe poi per iscritto dalla nipote Giuseppina Alfier, che assisteva amorevolmente lo zio; William de La Rive le riporta nel penultimo capitolo del suo Le conte de Cavour, la biografia apparsa nel 1862, l’anno seguente alla morte dello statista, a Parigi (Vita di Cavour, Milano 1951). Ecco le parole estreme di Cavour: «L’Italia del Settentrione è fatta, non vi sono più né lombardi, né piemontesi, né toscani, né romagnoli, noi siamo tutti italiani; ma vi sono ancora i napoletani. Oh! Vi è molta corruzione nel loro Paese. Non è colpa loro, povera gente: sono stati così mal governati! È quel briccone di Ferdinando! No, no, un governo così corrotto non può essere restaurato: la Provvidenza non lo permetterà. Bisogna moralizzare il Paese, educare l’infanzia e la gioventù, creare sale d’asilo, collegi militari; ma non si pensi di cambiare i napoletani coll’ingiuriarli. Essi mi domandano impieghi, croci, promozioni; bisogna che lavorino, che siano onesti, ed io darò loro croci, promozioni, decorazioni. Ma soprattutto non lasciargliene passare una: l’impiegato non deve neanche essere sospettato. Niente stato d’assedio, nessun mezzo da governo assoluto. Tutti sono buoni di governare con lo stato d’assedio. Io li governerò con la libertà e mostrerò ciò che possono fare di quel bel Paese dieci anni di libertà. In venti anni saranno le province più ricche d’Italia. No, niente stato d’assedio, ve lo raccomando. Garibaldi è un galantuomo: io non gli voglio alcun male. Egli vuole andare a Roma e a Venezia; e anch’io. Nessuno ne ha più fretta di noi. Quanto all’Istria e al Tirolo, è un’altra cosa. Sarà il lavoro di un’altra generazione. Noi abbiamo fatto abbastanza, noi altri: abbiamo fatto l’Italia, sì l’Italia e la cosa va…».
IN QUELLE PAROLE IL SUO VERO TESTAMENTO. Quando a scuola leggevo questo documento, umanissimo e alto, era assai difficile che giungessi alla fine perché la commozione ad un certo punto mi serrava la gola. Cavour pronunciò quelle parole sul letto di morte e la sua voce si sentiva distintamente anche nelle altre stanze, come se immaginasse di tenere un discorso in Parlamento. Nel suo delirio Cavour morente ci ha lasciato il ritratto della sua anima e il suo vero testamento. Il conte enuncia con appassionata convinzione ciò che egli intende fare in prima persona per l’Italia appena assurta all’unità. Ma ecco, all’improvviso, si affaccia la consapevolezza che egli ha già fatto la sua parte e che ora tocca agli altri farsi carico di compiti immani, assumersi la responsabilità delle decisioni conseguenti.
9 settembre 1999.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Meglio se accompagnate da riso. Le stravaganze, accompagnate da riso, sono meno gravi; se accompagnate da ardore e serietà, sono più pericolose (Ippocrate, Aforismi 6, 53). Prima il riposo, poi il rimedio. La miglior cura per le malattie al loro insorgere è il riposo; i rimedi giovano nei momenti di tregua (Seneca, De ira 3, 39, 2). Chi vince sempre. In fin dei conti vince proprio chi non ha voglia di vincere, ma rispetta la dignità e i sentimenti del proprio partner (Levi Appulo). Il giusto amore. Il giusto amore evita sia l’insana soggezione che il dominio (Max Horkheimer).
I PRETESI «FURTI» DI VIRGILIO. Ad Augusto che, dalla Spagna, gli chiede un’anticipazione dell’Eneide, Virgilio, secondo la testimonianza di Macrobio, risponde: «Quanto al mio Enea, se lo ritenessi già degno delle tue orecchie, te lo manderei volentieri. Ma l’impresa iniziata è così vasta che devo essere stato pazzo per avere pensato a cominciarla». In effetti è difficile immaginare genesi più tormentata e contraddittoria che quella dell’Eneide: a confermare, a proposito dei classici, quanto sia convenzionale e illusoria l’immagine di una loro pace ideale, di una loro lontananza dai conflitti. Attratto dalla pace dei campi e colpito, più che dal trionfo dei vincitori, dalla disperazione dei vinti, Virgilio però non poteva più eludere l’attesa di un poema epico nazionale. Trovò la soluzione più semplice e temeraria, piegando la tradizione epica alle leggi della propria pietas malinconica, «presagendo in un’ora decisiva del mondo» dirà Sainte-Beuve «ciò che i posteri avrebbero amato». Certo non si fecero attendere i collezionisti dei suoi Furti o delle sue Copiature (come attestano gli otto volumi di Avito). E la penosa disputa sui suoi «plagi» si è protratta fino ai nostri giorni, trovando incauti e accaniti fautori in ogni letteratura, soprattutto in quella tedesca. Eppure Virgilio, come racconta Donato nella Vita, aveva già dato la sua risposta. «Perché non tentano anche loro gli stessi furti? Si accorgerebbero che è più facile strappare la clava a Ercole che un verso a Omero». Ma si sa che le battaglie contro l’ottusità non sono mai vinte, anche se, per fortuna, mai perdute (Giuseppe Pontiggia, I contemporanei del futuro, Milano 1998).
L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Un cuore capace di ascolto. E ora, / Signore mio Dio, / dona al tuo servo / un cuore / capace di ascolto (Bibbia, «Primo libro dei Re»). Sequela. Signore, / rendici capaci di vivere con amore la nostra vocazione, / da veri innamorati della bellezza spirituale, / rapiti dal profumo di Cristo / che esala da una vita di conversione al bene, / stabiliti non come schiavi sotto una legge, / ma come uomini liberi guidati dalla grazia (Agostino d’Ippona, Regola 8. I – Dal volume Regole monastiche d’Occidente, Bose 1989).
16 settembre 1999.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Parola a rischio. Amore è parola a rischio (Nelo Risi). Non è un cuore. Un cuore solitario non è un cuore (Antonio Machado). Azzurro. È il colore dei luoghi estremi, l’azzurro, specchio di misteriose profondità e infinite lontananze (Ernest Jünger). Quando si è cittadini. Cittadino è chi condivide dei beni (civis est socius bonorum – Tommaso Campanella, Aforismi politici n. 8, 1607).
ERRORI E SCELTE DOVEROSE DEI CATTOLICI ITALIANI IN POLITICA. Due atteggiamenti errati. Il primo è continuare ad essere nostalgici di una Dc che non c’è più. L’unità politica dei cattolici non esiste più né nei fatti né nelle dichiarazioni delle gerarchie. Il secondo errore consiste nel non voler scegliere, rifugiandosi nell’astensionismo. Le «tre scelte». Tre sono le scelte essenziali al bene comune su cui i cattolici impegnati in politica possono e debbono portare un loro specifico contributo: la sussidiarietà per trasformare le istituzioni e sburocratizzarle, facendo emergere la responsabilità delle comunità locali; una riforma seria e umana insieme dello Stato sociale, senza privilegi e zone franche per le varie corporazioni; una politica di effettivo sostegno al primo e più importante degli organismi sociali, la famiglia, a difesa della quale sono consacrati gli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione. I cattolici, a mio avviso, sono impegnati a condurre una battaglia comune su queste tre questioni che sono squisitamente etico-politiche. Per farlo, però, è necessario creare «luoghi di discernimento» tra credenti diversamente dislocati in campo politico. E se non si realizzasse un’onesta, chiara convergenza su queste scelte? In tal caso la cristianità italiana non avrebbe più nulla da dire in campo politico.
POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO. L’annuncio a Maria. Ti chiamava qualcuno in quel silenzio: / tu lo sentivi, e ti chiamava dentro, / là nello spirto: ove l’amore nasce, / ove più sgorga l’interiore senso, / ove più s’ode e più si scruta il tutto, / ove risiede l’infinito mondo / che porta ogni mortale in sé racchiuso: / là ti chiamava e vi porgevi il cuore. / «Vergine madre, madre del mio Figlio!» / udisti allor nelle tremanti membra: / e in quella voce ravvisasti Iddio (Aldo Agazzi, Poemetti, Brescia 1989).
23 settembre 1999.
LINEA RECTA BREVISSIMA. È vero per il corpo ed anche di più per l’anima. Non si cicatrizza una ferita sulla quale si provano troppi medicamenti. Gioia e saggezza. Quello che manca alla tua gioia è la misura di ciò che manca alla tua saggezza. Ripartire dalla nostra interiorità. Tutte le tue gioie nasceranno da te (Seneca).
L’amore e il sesso. L’amore è personale e illimitato, ci completa e libera dall’ego. Il sesso si può farlo coincidere o non coincidere con l’amore. Può rendere più forte e profondo l’amore, o disintegrarlo (Henry Miller). Da Cartesio a Kafka. «Non mancano dolcezze nell’amare qualcuno senza osare dirglielo» – scriveva Cartesio. E Kafka: «Io l’amo eppure non le posso parlare, sto sempre in agguato per non incontrarla».
CIÒ CHE GL’ITALIANI NON SANNO: LE ULTIME 24 ORE DI CAVOUR. Il mattino del 5 giugno 1861 venne chiamato il parroco della Madonna degli Angeli, fra’ Giacomo da Poirino, col quale il conte si era inteso fin dal 1854. Da lui, dopo una cordiale stretta di mano e senza aver nulla ritrattato, Cavour si confessò e ricevette l’assoluzione. Il colloquio tra il sacerdote e il penitente durò mezz’ora e quando padre Giacomo si ritirò, Cavour disse a Carlo Luigi Farini: «Debbo prepararmi al gran passo dell’eternità. Mi sono confessato e ho ricevuto l’assoluzione; più tardi padre Giacomo mi comunicherà. Voglio che si sappia. Voglio che il buon popolo di Torino sappia che io muoio da buon cristiano». Nel pomeriggio gli furono amministrati i sacramenti. Il giorno seguente alle ore 5,30 fra’ Giacomo fu chiamato d’urgenza per impartire al moribondo l’estrema unzione. Il conte lo riconobbe, gli strinse la mano e disse: «Frate, frate, libera Chiesa in libero Stato». Fra’ Giacomo da Poirino, colpevole di aver assolto senza ritrattazione lo statista colpito dalla scomunica del 26 marzo 1860 contro gli usurpatori degli Stati pontifici, venne convocato a Roma e sospeso a divinis con un provvedimento revocato solamente sotto Leone XIII. Il conte pronunciò ancora una sola frase e fu per l’amata patria: «L’Italia è fatta, tutto è salvo». L’uomo che poche settimane prima, mentre Garibaldi lo ingiuriava in Parlamento, aveva detto al fedele Nigra: «Preferisco veder sparire la mia popolarità, perdere la mia reputazione, ma veder fare l’Italia», sapeva di aver impegnato la sua stessa vita in qualcosa che ai suoi occhi appariva come «la più bella impresa dei tempi moderni». Alle 6,45 di giovedì 6 giugno 1861, previa un’ora di calma, Cavour spirò. Era vissuto quasi cinquantuno anni.
DON PRIMO MAZZOLARI: IL PASSO DI UN PARROCO. «Non è sempre possibile condividere le sue posizioni. Don Primo camminava avanti con un passo troppo lungo e, spesso, non gli si poteva tener dietro: e così ha sofferto lui e abbiamo sofferto anche noi. È il destino dei profeti». Con queste parole Papa Paolo VI nel 1970 ricordava don Primo Mazzolari, il «parroco-scrittore» di cui il 12 aprile ricorreva il 40° anniversario della morte. Nato a Boschetto (nella periferia di Cremona) nel 1890, Mazzolari viene ordinato sacerdote all’età di 22 anni. Difensore dei poveri e convinto assertore della libertà e della giustizia, don Mazzolari si rifiuta nel 1925 di cantare il «Te Deum» per i fascisti dopo il fallito attentato a Mussolini e si astiene quattro anni dopo dal voto in occasione del plebiscito fascista. Nel 1931, chiamato alla finestra, viene ferito con tre colpi di rivoltella. Nel ‘44 collabora con i partigiani nella Resistenza contro il nazifascismo e nel ‘49, cinquant’anni fa, fonda e dirige Adesso, quindicinale di impegno cristiano. «Il suo giornale – disse Giovanni Paolo II nel 1978 – era la bandiera dei poveri, una bandiera pulita, tutta cuore, mente e passione evangelica». Il suo tempo, però, non lo capì e così nel ‘51 il giornale interrompe le pubblicazioni e il Sant’Ufficio proibisce a don Mazzolari di predicare fuori della sua parrocchia. Ma l’allora arcivescovo di Milano, Montini, e futuro Papa Paolo VI, lo invita nel ‘57 a predicare alla grande missione di Milano. Nel ‘59, colpito da un ictus mentre predica ai suoi parrocchiani, don Primo Mazzolari muore dopo sette giorni di agonia.
Se mi è consentito, vorrei dare un consiglio ai giovani che vogliono incontrare un grande cristiano come don Primo e la difficile temperie storica del secondo dopoguerra in Italia: cominciate col prendere in mano i suoi scritti pubblicati nelle edizioni della Locusta di Vicenza e poi procuratevi la ristampa anastatica di Adesso. Ne vale la pena.
30 settembre 1999.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Troppo comodo. È facile chiedere scusa a una segreteria telefonica (Charles M. Schulz). Le parole giuste. Le parole giuste rendono la bocca profumata (Baltasar Graciàn). Un… contraddetto. Il dubbio non è poi così bello come lo si dipinge (Giuseppe Pontiggia). A proposito del dirsi tutto e del parlare a cuore aperto. Apritevi pure, ma senza squartarvi (Nanni Moretti). Dev’essere grossa. Se un saggio fa una pazzia, dev’essere grossa (battuta che Goethe mette in bocca a Faust). Il conoscere profondo. Si conoscono solo coloro per i quali si soffre (Johann W. Goethe).
L’OPERA COMPIUTA E LO SGUARDO APERTO AL FUTURO. Enorme fu l’eco della morte di Cavour in Italia e all’estero, a livello di opinione pubblica, di stampa, di ambienti politici e diplomatici. Spiace, però, dover ricordare che neppure in quell’ora Mazzini e la «Civiltà cattolica» siano stati capaci di superare il loro odio teologico verso Cavour. L’uno ritenne che la morte del grande statista sarebbe stata «vantaggiosa», non avendo i suoi successori la sua popolarità e il suo stile; l’altra scrisse addirittura che era «una vendetta celeste». E non furono i soli ad essere ingiusti e meschini. Ben diverso fu il giudizio di uno dei maggiori storici tedeschi, Heinrich Von Treitschke, che nel 1869, a otto anni di distanza dalla morte dello statista, dedicò a lui un saggio, Il conte di Cavour, che fu molto letto e commentato. Von Treitschke rende un appassionato omaggio all’uomo di Stato che ha creato l’Italia: Cavour «non se ne stette a scaldarsi le mani alle rovine fumanti della patria, ma compì il più grande atto di moralità che ad un mortale sia concesso», lavorando alla resurrezione del suo popolo, alla sua indipendenza dallo straniero, e a stabilire un sistema politico tra i più avanzati in Europa.
Cavour dopo l’unificazione si sarebbe misurato con mali e arretratezze plurisecolari, non sanabili certamente con il genio di un solo uomo. Lo spaventoso degrado e lo stato d’abbandono in cui versavano vaste zone del Mezzogiorno, l’analfabetismo di massa delle loro popolazioni, il dilagare in esse dell’illegalità erano piaghe di cui l’intera nazione doveva ormai farsi carico; né dipendeva da Cavour portare i cattolici sulle posizioni di un Manzoni, per il quale l’unità nazionale dello Stato italiano, liberando la Chiesa dalla sciagura del potere temporale, era via obbligata perché la fede cattolica tornasse ad animare liberamente, col suo messaggio religioso e morale, l’Europa dei tempi moderni. Cavour, d’altra parte, era drammaticamente consapevole della gravità dei problemi ed aveva altresì intravisto – il delirio è lì ad attestarlo in modo commovente e sublime – la direzione in cui muoversi, confidando nel dinamismo della libertà e nella forza ordinatrice della legge. Comunque, al di là del problema, del resto privo di qualsiasi possibile riscontro, sul «come» Cavour avrebbe governato l’Italia unita, stava dinanzi allo storico tedesco e sta dinanzi a noi la realtà, imponente, di ciò che lo statista italiano aveva fatto. «Il cuore – scrive Von Treitschke – gli si era dilatato per la coscienza di una missione che apparteneva alla storia del mondo…».
L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Il Signore mi restituirà la mia bellezza. Nel suo dolore, l’anima malata dice: / chi mi restituirà la bellezza / di cui ero adorna / perché non pecchi più? / La mia natura è bella / e splendente come il giorno; / ma se succede si spenga e si oscuri, / chi la rischiarerà ancora / per restituirle la bellezza? / O anima che hai perduto la bellezza, / la tua bellezza è fra le mani del tuo Signore: / egli l’ha custodita per te / fino al momento in cui / farai ritorno a lui. / Allora, egli te la restituirà / secondo la sua promessa. / Ci tiene assolutamente a rendertela (Giacomo di Serugh, 450-520 d. C.).
7 ottobre 1999.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Come faccio sempre. Risponderò come da me si suole, / liberi sensi in semplici parole (II, 81, 7-8). Efficienza, non arbitrio. Rapido sì, ma rapido con legge (III, 2, 8). Gerusalemme, Gerusalemme! La città, di Cristo albergo eletto, / dove morì, dove sepolto fu, / dove poi rivestì le membra sue (III, 5, 6-8). Te lo conceda il Cielo! Volere il giusto e poter ciò che vuoi (IV, 63, 2). Diversi sono i livelli dell’errore. Vario è l’istesso error nei gradi vari (V, 36, 8). (Torquato Tasso, Gerusalemme liberata)
IL GRANDE BALZO ECONOMICO E L’OTTUNDERSI DELLE COSCIENZE. Un acuto studioso del cambiamento socio-culturale, Gabriele Calvi, nel numero di luglio 1995 della sua rivista trimestrale Socialtrends ci invita giustamente, prima di individuare gli aspetti negativi, a ripensare al modo in cui l’Italia è passata da condizioni arretrate alla prosperità. Dal 1945 in poi – scrive Calvi – il Paese è stato ricostruito e si è progressivamente sviluppato. Si deve prender atto di questo «miracolo», prima di procedere ad un’analisi dei suoi effetti culturali, per due buoni motivi. Anzitutto, va riconosciuto che vi è stata una dimensione eroica in quel «saper fare». In secondo luogo, la turbolenza e la velocità dello sviluppo sono delle attenuanti per ciò che colpevolmente non è stato fatto o non si è riusciti a fare. Se non si è capito compiutamente quanto accadeva e non vi si è posto un controllo, ciò è dipeso anche dalla portata e dalla rapidità della trasformazione per la quale un Paese già povero ed uscito miserevole dalla guerra, ha saputo svilupparsi fino a divenire un Paese avanzato. In poco più di tre decenni il Paese ha attuato la sua prima, vera rivoluzione industriale: sono scomparse l’agricoltura pre-industriale e la civiltà contadina; il reddito delle famiglie si è duplicato o triplicato; la ricchezza è stata ridistribuita con rilevanti trasferimenti ai privati; il risparmio dei cittadini è divenuto molto consistente e supera ancor oggi l’ammontare del debito pubblico; sono stati saturati i bisogni primari per la maggioranza della popolazione, che ha potuto acquistare i «beni di cittadinanza» fondamentali (casa, elettrodomestici, automobile, ecc.); la politica dello «stato sociale» ha distribuito immensi benefici anche sotto forma di istruzione, assistenza sanitaria, previdenza, ammortizzatori sociali; è migliorata la pari opportunità fra i sessi e per alcuni segmenti della popolazione; si è accelerata la mobilità sociale; vi è stato pure un sostanziale miglioramento della salute; la speranza di vita ha raggiunto i 75 e 78 anni per maschi e femmine, rispettivamente. Questa evoluzione socio-economica costituisce un successo, frutto delle fatiche e dei sacrifici di quasi due generazioni. È stato un progresso cui si è tuttavia accompagnato uno stato crescente di euforia e una sorta di ottundimento delle coscienze che ha impedito di avvertire i rischi della trasformazione stessa, dell’aumento impetuoso della prosperità, delle proposte di consumo oltre la necessità, fino all’opulenza ed al superfluo.
IL PASTORE E L’ATTORE. La differenza fra un pastore e un attore – scrive Kierkegaard – è proprio il momento essenziale: che il pastore sia povero quando predica sulla povertà, che sia schernito quando predica di sopportare gli scherni, ecc. L’attore ha precisamente il compito d’ingannare, eliminando il momento esistenziale. Il pastore ha precisamente il compito, nel senso più profondo, di predicare con la sua vita. In modo un po’ paradossale si potrebbe dire: predicare è qualcosa che assomiglia a tenere la bocca chiusa, ma esistenzialmente è esprimere coi fatti, è esprimere con la propria vita ciò per cui di solito si usano parole. Non c’è in fondo bisogno dell’organo rombante, degli ampi gesti, ecc.: anche un muto può predicare, anche un mutilato senza braccia (Søren Kierkegaard, Diario, Brescia 1980, vol. 6, p. 199).
POESIA D’AMORE. Il pensiero. Se tu ami quanto io amo, / allora ogni minuto dal tuo cuore / un pensiero si diparte; / e con l’ali del desiderio vola / finché incontra in linea retta / un mio pensiero / così simile al tuo, che non possiamo sapere / se vada o venga da entrambi / finché non definiamo / a chi di noi due quel pensiero sia dovuto (Edward Herber di Cherbury, in Poeti metafisici inglesi del Seicento, a cura di Giorgio Melchiori, Milano 1961).
14 ottobre 1999.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Con gli amici malfidi. Non ci si deve fidare dei falsi amici, ma piuttosto utilizzarli in maniera che vi rechino il minor danno possibile. Non è poi privo di un certo fondamento l’osservazione di Ovidio: «Spesso anche chi fa finta di voler bene comincia a voler bene sul serio» (Erasmo da Rotterdam, Ep. 1825, 21.5.1527). Dovrebbe essere ovvio e non lo è. Non si può essere più gli stessi, nelle forme di ieri (Levi Appulo). Le molteplici identità dei giovani d’oggi. Sono i protagonisti del tempo libero. Sono i pretendenti al lavoro. Sono i partecipanti al dramma della scuola. Sono gli eroi del volontariato (chi ne avrebbe aspettati tanti?). Sono i distruttori di se stessi (le auto, le notti, le sfide, la droga). Sono gli spettatori passivi dello spettacolo (colonizzati da milioni di ore di televisione). Sono gli inventori del linguaggio della moda, ma ne vengono subito espropriati da industrie abilissime che trasformano gli inventori in compratori entusiasti. (Furio Colombo)
QUAL È IL RAPPORTO TRA BENESSERE E FELICITÀ? La trasformazione della nostra società, nel corso degli ultimi decenni, è stata oggetto di molti studi, svolti con obiettivi e metodi di varie discipline. Uno degli aspetti più sfuggenti della trasformazione rimane la nostra «cultura», intesa in questo caso come l’insieme dei significati, delle aspirazioni e dei valori, delle norme e soprattutto dei comportamenti con i quali la maggioranza degli italiani esprime la concezione di sé, il senso della vita e del lavoro, delle relazioni con la società, con l’umanità, con i beni materiali e immateriali, l’ambiente, la natura. Come cittadini abbiamo il diritto-dovere di porci domande che riguardano il percorso della nostra collettività e anche di tracciarne un bilancio. Un dato scontato è che la cultura sia mutata perché sono profondamente cambiati l’economia e l’assetto sociale del Paese. Si può dare per scontato, pure, che il bilancio della trasformazione culturale presenti voci positive e negative. Le prime, per comprensibili motivi, hanno goduto di maggior attenzione nella comunicazione sociale, e sono divenute patrimonio della consapevolezza diffusa. Poiché un elenco analitico sarebbe qui fuori luogo, possono essere citati: la crescita dell’autonomia, dell’iniziativa e della capacità reattiva dei cittadini; l’imponente sviluppo del tessuto connettivo costituito dai soggetti intermedi fra la famiglia e lo Stato; la crescente importanza attribuita ad alcuni diritti, il formarsi di visioni sovra nazionali, l’adesione a programmi di tutela ambientale. Tutte queste voci hanno rilevanza culturale, ma, per quanto grande essa sia, la riflessione ha l’obbligo di concentrarsi anche su quelle negative, cioè sul rovescio della medaglia che fregia il nostro petto e della quale andiamo orgogliosi. Certo, è perfettamente comprensibile la riluttanza a considerare i risultati negativi di un qualsivoglia bilancio quando ne esistano di positivi. La lacuna resta in ogni caso da colmare. Una riflessione ispirata da questa scelta deve saper accettare, come prioritaria, l’ipotesi che la società italiana non abbia saputo governare sapientemente l’acquisizione della prosperità. Il controllo dell’ipotesi può dunque comportare non solo il costo di una faticosa revisione, capace di discernere la realtà dai luoghi comuni e dalle presunte certezze, ma pure il costo emotivo indotto da constatazioni tanto più sgradevoli quanto più coinvolgono personalmente. La prima fra tutte è che benessere e qualità della vita non crescono generalmente con l’aumento della prosperità socioeconomica.
L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Preghiera per il giorno che sta per cominciare. Signore è l’alba. / Fa’ che io vada incontro nella pace / a tutto ciò che mi porterà questo giorno. / Fa’ che io mi consegni totalmente / alla tua santa volontà. / Donami in ogni momento la tua luce e la tua forza. // Insegnami ad agire con apertura e intelligenza / verso tutti i miei fratelli e le mie sorelle / e verso tutti gli uomini, / senza mortificare e contristare nessuno. / Signore, donami la forza di portare / la fatica del giorno che si avvicina, / e di tutti gli eventi inclusi nel suo corso. // Guida la mia volontà, / insegnami a pregare, a credere, / a perseverare, a soffrire, a perdonare / e ad amare! (Uno Starec del Monastero di Optina. Dal volume: Vladimir Kotelnikov, Pravoslavnaja asketika i russkaja literatura, Sankt-Peterburg 1994).
21 ottobre 1999.
LINEA RECTA BREVISSIMA. La certezza della pena. Non è la disciplina intera / ove uomo perdono e non castigo aspetti. / Cade ogni regno, e ruinosa è senza / la base del timor ogni clemenza. L’attrazione del proibito. Istinto è de l’umane genti / che ciò che più si vieta uom più desia. Coraggio! Cor mio, confida e osa. Era la notte. Era la notte, e il suo stellato velo / chiaro spiegava e senza nube alcuna, / e già spargea rai luminosi e gelo / di vive perle la sorgente luna. Sotto le ali del sonno. Il sonno, che dei miseri mortali / è col suo dolce oblio posa e quiete, / sopì coi sensi i suoi dolori, e l’ali / dispiegò sovra lei placide e chete. Lì vorrei riposare. In terra nuda e sotto il cielo aperto. (Torquato Tasso, Gerusalemme liberata)
LA FATICA DEL TRADURRE. A fine agosto Guido Ceronetti, traduttore d’eccezione, ci ha ricordato in bell’articolo che «trasferire ai contemporanei l’universo di Marziale o di Isaia è un’avventura tra le più emozionanti» (Corriere della Sera, 25.8.1999). Ceronetti, che ha passato trenta e più anni a trasporre da una lingua all’altra libri diversissima, riconosce il segreto della riuscita del suo lavoro in quest’acuta osservazione di Guido Piovene: «Una delle qualità necessarie al filologo è una forte immaginazione sul fatto lessicale, la capacità di rivivere la realtà che esso manifesta». L’articolo di Ceronetti mi ha fatto tornare alla mente un brano sullo stesso argomento scritto da Giuseppe De Luca, il prete più colto che abbia avuto l’Italia in questo secolo. Eccolo.
«Una traduzione vuole molto tempo, come intelligenza spirituale e discussione formale del testo; come esattezza, come forza di resa e di rendimento in altra lingua. Vi sono traduzioni e traduzioni: quelle che servono l’attualità e quelle che servono, non diremo scioccamente l’immortalità, ma una tal quale durabilità. Le prime, di natura commerciale, son presto fatte e non guardano per il sottile; le altre, invece, d’una natura diversa, che si dicono artistiche mentre bisognerebbe chiamarle semplicemente oneste, costano perplessità, rimuginamenti, scrupoli, pentimenti, ritorni, rifacimenti; non vengono mai a terra perché non raggiungono mai un lido, anche arenoso, di certezza. Certezza, non di gretto significato logico, ma d’equivalenza spirituale. Chi scrive di suo, mantiene quel tono che vuole; chi traduce, non deve mai stonare dalla voce dell’autore, che è ferma sulla carta come in un disco di grammofono, non si modifica, mentre, invece, noi che la leggiamo, la leggiamo con animo sempre mutato». Il brano è riportato dall’introduzione di Giuseppe De Luca al volume di Daniel Sargent, Tommaso Moro, Brescia 1940.
DUE DATI PER NON BENDARCI GLI OCCHI. Lo contraggono cinque persone al minuto. «Qualcuno vorrebbe farci credere – afferma Kofi Annan, il segretario generale dell’Onu alla Conferenza sull’Aids che si tenne a Londra nel giugno u.s. – che, dal momento che sono stati scoperti dei rimedi più efficaci, l’emergenza Aids sia ormai superata. I fatti ci dicono il contrario». Ogni giorno circa 7 mila giovani tra i 10 e i 24 anni contraggono l’Hiv, il che vuol dire 5 ogni minuto. Ogni anno, sono 1,7 milioni i giovani che contraggono il virus in Africa, e 700 mila in Asia e nel Pacifico.
I cattolici in Europa. I cattolici in Europa sono 283.313.000 su un totale di 684.421.000 abitanti. In anni recenti c’è stato un calo della popolazione e proporzionalmente del numero dei cattolici, anche se è leggermente aumentato il rapporto percentuale di questi ultimi: costituiscono ora il 41,4% della popolazione, nel 1995 erano il 40,6%. Complessivamente tra il 1991 e il 1997 il numero dei sacerdoti è calato di 10.896 unità. Sono ora 213.398 in totale. In calo anche i religiosi non sacerdoti, da 28.091 a 24.460, e le religiose, da 442.125 a 388.693. Queste ultime, con un regresso netto del 12% nel periodo 1991-1997, fanno registrare al Vecchio continente un primato negativo. La fonte è l’Annuario statistico della Chiesa, che confronta i dati del 1991 e quelli del 1997.
L’ANGOLO DELLA POESIA. Che sia un giorno bello e puro. Mio Dio, / fa’ che il giorno della mia morte / sia bello e puro. / Che sia grande pace in quel giorno, / in cui forse la mia fronte / non sarà più affaticata / da scrupoli, ironia o altro. Mio Dio, / fa’ che io prenda le mani / dei miei figli tra le mie / e possa andarmene / con una grande calma nel cuore (Francis Jammes, Il lutto delle primule).
28 ottobre 1999.
LINEA RECTA BREVISSIMA. La prova della generosità. La prova della generosità di un uomo non sta nelle promesse che egli fa, ma nelle promesse che mantiene. Le cose più gradite. Non esigere nulla dagli altri e pensa solo a giovare a tutti. Le cose che non si pretendono giungono più gradite. (Levi Appulo)
31 OTTOBRE 1999, UN GRANDE GIORNO! Tra i giorni più belli nel corso degli ultimi cinque secoli c’è una data memorabile: quella di domenica prossima, 31 ottobre 1999. L’evento legato a quella data non è stato finora neppure sfiorato dal tamtam televisivo, e neppure dai giornali o dalle riviste più serie; ciò non toglie che esso sia d’importanza epocale e non riesco a parlarne senza commuovermi. La sede ove esso avrà luogo è la città tedesca di Augusta dove già nel 1530, a un decennio appena dalla rottura fra la Chiesa cattolica e la Chiesa evangelica, sorta dalla protesta luterana, era stato raggiunto un accordo di alto profilo tra le due parti, la Confessio augustana, non certo conforme ai calcoli miopi e alle ambizioni dei principi e dei sovrani dell’epoca. Dopo 469 anni, alle soglie del Terzo Millennio, ad Augusta i rappresentanti della Chiesa cattolica e quelli della Federazione luterana mondiale, sulla base del dialogo intercorso da molti anni, dichiarano solennemente alle rispettive Chiese e al mondo di avere ormai «una concezione comune della nostra giustificazione per grazia di Dio nella fede in Cristo». Quell’articolo primo e fondamentale della dottrina cristiana, su cui più forte era stato il contrasto fra le due Confessioni, oggi è formulato nella stessa maniera e con le stesse parole da cattolici ed evangelisti, sì che «le rispettive Chiese sono in grado oggi di esprimersi in modo vincolante sull’argomento».
IL CONSENSO RAGGIUNTO E LE SUE CONSEGUENZE. Nella parte conclusiva della Dichiarazione congiunta si sottolinea quanto sia ampio e importante il consenso raggiunto tra cattolici e luterani: «Un consenso alla cui luce sono accettabili le differenze di linguaggio, di spiegazioni teologiche e di accentuazioni». Il risultato conseguito è, dunque, di enorme rilevanza: «La presentazione luterana e la presentazione cattolica della fede giustificante, pur nella loro diversità, rinviano l’una all’altra e non consentono più di negare il consenso sulle verità di fondo» (paragrafo 40). Le ultime due considerazioni di quel mirabile documento – il cui testo integrale fu pubblicato in Il Regno – Documenti, 1997, n. 7 – ci aiutano a storicizzare, nel senso migliore del termine, le vicende di quasi mezzo millennio, sostituendo a una visione manichea e integralistica di esse (tutta la verità di qui, tutto l’errore di là) un metodo ben diverso e una disposizione d’animo più libera e insieme più fedele al Vangelo. Eccole: «Nella misura in cui si riferiscono alla giustificazione, anche le condanne dottrinali del XVI secolo appaiono in una nuova luce: la dottrina delle Chiese luterane espressa in questa dichiarazione non cade sotto le condanne del Concilio di Trento. Le condanne degli scritti confessionali luterani non riguardano la dottrina della Chiesa cattolica espressa in questa dichiarazione» (paragrafo 41).
CHE COSA MI RITORNA IN MENTE. Riflettendo sul significato che la data del 31 ottobre 1999 avrà nei decenni futuri, il cuore si apre alle più ardite speranze, ma il pensiero va inevitabilmente all’esercito, eroico e silenzioso, di credenti dell’una e dell’altra confessione i quali hanno compreso che non si può essere veramente cristiani se non si è ecumenici e dell’ecumenismo hanno fatto l’insegna, il compito della loro esistenza. Penso a Erasmo da Rotterdam, così frainteso e insultato dall’una e dall’altra parte; a lui che fu la mente ecumenica più lucida e antiveggente nel momento stesso in cui si consumava la tragedia della rottura dell’unità religiosa della cristianità. A lui ancora oggi non è stato reso l’onore, il riconoscimento grato che gli è dovuto. Due altre associazioni mentali sorgono spontanee in me in quest’ora di grande gioia. La prima è il motto di Thomas More, umanista e statista martire: Time always trieth out the truth («Il tempo prova sempre la verità»). La seconda è il ricordo di una figura di prete missionario protagonista di un romanzo di Cronin e resa celebre dal film omonimo: Le chiavi del Regno.
4 novembre 1999.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Qui Eraclito anticipa san Paolo. Dopo la morte attendono gli uomini le cose che essi non sperano e neppure possono immaginare (Eraclito, Frammento 27). Che cosa sono gli uomini? Immortali mortali, mortali immortali (Eraclito, Frammento 62). La dimora della nostra sorte. La felicità non consiste negli armenti e neppure nell’oro. L’anima è la dimora della nostra sorte (Democrito, Frammento 171).
AMMALATI DI PROSPERITÀ. I mutamenti indotti nel costume e nella mentalità dalla prosperità elevata a valore assoluto, o comunque preminente, devono farci riflettere seriamente perché sono radicali e pervasivi. Le conseguenze a livello individuale saltano immediatamente agli occhi. Il solo imperativo categorico è il successo da conseguire con ogni mezzo, ignorando che la realtà della condizione umana è ancorata anche a prove difficili ed esposta all’imprevedibilità del futuro. Un atteggiamento egocentrico non fa che accrescere la tendenza ad autolegittimare ciò che di volta in volta si vuole, mettendo tra parentesi le regole della convivenza e la responsabilità che ognuno ha verso gli altri. Di qui l’ipertrofia dell’arbitrio e della trasgressione, l’affievolirsi dei legami familiari e di classe sociale, l’esplosione incontrollata dei bisogni secondari e superflui. In un contesto del genere, con un’immagine della vita così deformata, non è difficile vedere quali sono le conseguenze a livello sociale. Oggi più che mai occorrono uomini e donne che vivano con i giovani e per i giovani, mirando a suscitare in essi la consapevolezza che una società si regge solo se un giorno si rende operante, col proprio agire, un patto sociale elementare che abbia il suo tessuto connettivo nei valori di reciprocità, rispetto della legalità, solidarietà. Ha detto molto bene Gabriele Calvi: «Si sono concepiti i diritti sempre più come gratuiti e i doveri come opzionali»; ma in una simile situazione la tolleranza diventa sempre più qualcosa di affine all’indifferenza, il confronto e l’emulazione sembrano legittimare un comportamento aggressivo e spietato, il garantismo si trasforma in diritto all’impunità. A tutto ciò si aggiunge uno strano paradosso: mentre continua implacabile la superproduzione di regole e di regolamenti da parte di istituzioni e di organismi, ai più diversi livelli, è sempre meno garantito il rispetto delle norme fondamentali, che sono poche e che dovrebbero essere sacrosante per tutti. Ma una società che professa sempre più sfacciatamente una sorta di neopaganesimo materialista, propensa com’è al culto idolatrico del danaro e del divertimento, non è già, nella sua cieca insensatezza, molto prossima all’autodistruzione? Il nostro compito non è, però, quello di profetizzare sciagure e di cedere al pessimismo paralizzante. Tutti siamo chiamati ad essere lievito di speranza e di riscatto in ogni situazione e a confidare nei giovani, con i quali il futuro è già in mezzo a noi.
NON C’È SALVEZZA SENZA PENTIMENTO. Due riflessioni di Bukowskij. 1. «Che differenza fa?», mi dicevano con stizza sia in Oriente, sia in Occidente. «Quel che conta è che il comunismo sia crollato, e per di più senza sangue». Dunque meglio dimenticare in fretta gli incubi del passato, scuotersi di dosso la polvere e via, avanti verso il capitalismo! Non so, ma chissà perché questa perdita di memoria freudiana, questa perdita di coscienza mi allarma molto più delle conseguenze della crisi attuale. È come se la vita per centinaia di milioni di persone ricominciasse da zero, senza rimpianti e senza pentimento, senza neppure il tentativo di ripensare l’esperienza vissuta. 2. Noi, quei pochi che si sono rifiutati di diventare complici del male, noi siamo pronti a perdonare i colpevoli, ma i colpevoli non devono assolversi da sé. Sono loro che hanno bisogno di essere perdonati, e se non ne sentono l’urgenza, allora vuol dire che il caso è senza speranza. Pensatela come volete, ma io non posso credere che un uomo rinasca di nuovo senza dolore per il male commesso, senza una tormentosa critica dei suoi antichi valori, e meno ancora posso credere alla possibilità che ciò avvenga per un popolo intero che ha vissuto per decenni in un clima di mostruosa menzogna (Vladimir Bukowskij, Gli archivi segreti di Mosca, Milano 1999).
11 novembre 1999.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Se è lontano e sconosciuto. Tutto ciò che non si conosce è ritenuto meraviglioso (Tacito). L’unicità di Israele. La religione ebraica fu fondata sul divieto di divinazione. Sulla divinazione sorsero, invece, tutte le altre religioni. È qui una delle principali ragioni per cui il mondo delle nazioni antiche si divise fra ebrei e pagani (Giambattista Vico). La virulenza del linguaggio. La violenza del linguaggio è contro lo spirito cristiano. Rende estranei alla pietà e ostili alla fede (Levi Appulo).
Dolci inganni, estremi danni. Dolci cose ad udir e dolci inganni / ond’escono poi sovente estremi danni (II, 69, 7-8). La fortuna quaggiù. La fortuna qua giù varia a vicenda / mandandoci venture or tristi or buone, / ed ai voli troppo alti e repentini / sogliono i precipizi esser vicini (II, 70, 5-8). (Torquato Tasso, Gerusalemme liberata)
«SEGRETISSIMO»: LE CARTE DEL POLITBJURO. Tutto passava per le loro mani e decidevano su tutto, apponendo le loro firme su ogni carta che desse informazioni o impartisse ordini tassativi: Breznev, Cernenko, Andropov, Gorbacev, Ustinov, Gromyko, Ponomarev. Spesso il documento reca a margine annotazioni scritte di loro pugno, sottolineature e aggiunte. Quei signori prendevano le decisioni più disparate, dall’arresto dei personaggi scomodi al tipo di punizione a cui dovevano sottostare, dal finanziamento del terrorismo internazionale alle campagne di disinformazione da lanciare in Occidente, fino alla messa a punto di vere e proprie aggressioni a danno di altri Paesi. «In quei documenti – com’è stato ben detto – troviamo l’alfa e l’omega di tutte le tragedie del nostro secolo sanguinoso e più esattamente di questi ultimi trent’anni». I documenti riguardanti le sedute del Comitato centrale del Partito comunista dell’Unione Sovietica sono, per ovvie ragioni, incomparabilmente più importanti di quelli di cui si è avuto notizia in queste ultime settimane sulle piccole e le grandi spie al servizio dell’Unione Sovietica, sui traditori pagati e su quelli che erano tali per amore della Causa. Dopo lunghe ricerche quelle carte, oltre tremila pagine, finirono nelle mani di un uomo che era perfettamente in grado di leggerle e coglierne la burocratica disumanità, avendo egli sperimentato il sistema di oppressione al cui vertice erano coloro che firmavano quei documenti: Vladimir Bukowskij. Sì, lui, il dissidente che aveva subito l’internamento psichiatrico, in base al principio secondo il quale «chi non è comunista non può che essere pazzo», e che poté riparare in Occidente negli anni Settanta, in cambio della scarcerazione del leader comunista cileno Luis Corvalan. Lo scrittore russo – che non ha mai cessato d’indagare sui meccanismi perversi della dittatura comunista e sulle complicità criminali di non pochi Paesi democratici nel puntellare, per cecità o per affari, quel regime – ha ordinato in un grosso volume i risultati della sua fatica: Gli archivi segreti di Mosca, tradotto in italiano e pubblicato quest’anno nelle edizioni Spirali di Milano. «Solo alcuni anni fa – ricorda con amarezza Bukowskij nelle pagine introduttive del suo libro – il contenuto di queste carte veniva respinto con indignazione come paranoia anticomunista, nella migliore delle ipotesi, e peggio come calunnia. Chi di noi si azzardava a parlare della mano di Mosca in quegli anni nemmeno tanto lontani, veniva perseguitato dalla stampa e accusato di maccartismo; insomma diventava un paria. Persino chi era propenso a crederci si rifugiava nelle solite frasi: mancano le prove, sono tutte congetture. Eccole qui le prove, con tanto di firma e di numero di protocollo, disponibili per le analisi, le perizie e gli esami».
SULLA STUPIDITÀ. Non sappiamo veramente che cosa sia la stupidità finché non ne abbiamo sperimentato le conseguenze su noi stessi (Paul Gauguin). C’è gente che nasce stupida, ma altri vanno all’università per diventarlo (Raffaele La Capria). La donna più stupida può tener testa a un uomo intelligente, ma ce ne vuole una molto intelligente per tener testa a un idiota (Rudyard Kipling). Nell’intelligenza c’è la scintilla dell’umano, che si realizza nella ricerca continua di sé e nel rapporto dell’io con gli altri. Nella stupidità è proprio l’umano che viene offeso ed è per questo che la stupidità è una delle prime componenti della violenza. L’intelligenza riscrive ciò che entra nella propria esperienza secondo armonia, la stupidità è sempre rottura e rumore (Marino Niola).
18 novembre 1999.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Sono vere tutt’e due le affermazioni. La fama cresce col diffondersi / fama crescit eundo (Virgilio, Eneide IV, 174-175). La presenza delle cose ne fa diminuire la fama / minuit praesentia famam (Claudiano, De bello Gildonico v. 385). Se è autentica filosofia. La filosofia, per giovare al genere umano, deve sollevare e reggere l’uomo caduto e debole, non convellergli (=torcergli) la natura né abbandonarlo nella corruzione (Giambattista Vico, La scienza Nuova, 1730 – Assiomi e Degnità, n. 5).
I politicanti. Sono come i pronomi reciproci greci che mancano di nominativo, del singolare e di tutti i casi del soggetto: non si possono pensare che al plurale e nei casi obliqui (vol. 2, pag. 201). Che cos’è il Cristianesimo? Il Cristianesimo è lo scandalo del divino (vol. 8, pag. 47). (Søren Kierkegaard, Diario, Brescia 1980)
BUKOWSKIJ ESPLORA UN «CASO» IN APPARENZA INNOCENTE. Ho davanti a me un documento che riguarda un uomo, K. Sorsa, a me sconosciuto. Poi, nel 1992, ho saputo che stava per diventare Presidente della Finlandia. Il documento del Politbjuro che lo riguardava non conteneva nulla di sensazionale. Mi insospettì solo il fatto che fosse stranamente classificato «segretissimo». Cominciai allora a cercare altre carte a integrazione di quella delibera del Comitato Centrale. Dopo innumerevoli sforzi riuscii a trovare un rapporto della sezione internazionale del Cc del Pcus che, in data 11 dicembre 1980, trasmette l’ordine dei massimi dirigenti sovietici ma ne spiega anche il perché. Eccone il testo: «K. Sorsa, presidente del Partito Socialdemocratico Finlandese, compie cinquant’anni il 21 dicembre 1980. Nel suo ruolo di uomo di partito e di governo – come Presidente del Consiglio, Ministro degli Esteri e Presidente della commissione parlamentare per i rapporti con l’estero – Sorsa persiste nel suo atteggiamento nei confronti dell’Urss e del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, contribuisce al felice sviluppo dei rapporti Finlandia-Urss e assicura solidi contatti fra il suo e il nostro partito. Sul piano internazionale, e innanzi tutto nell’ambito dell’Internazionale Socialista, Sorsa collabora fedelmente con noi. In considerazione di quanto fin qui esposto e del fatto che Sorsa – eletto tra i vice-presidenti all’ultimo congresso dell’Internazionale Socialista – coordinerà in futuro l’attività di questo organismo e ne gestirà i contatti con le altre forze politiche, si ritiene opportuno incaricare l’ambasciatore sovietico in Finlandia di porgere personalmente a lui gli auguri da parte del Cc per il suo cinquantesimo compleanno».
L’informazione per la Finlandia era sensazionale perché Sorsa nel 1992 era candidato alla presidenza della Repubblica. Io avevo consegnato quel documento ai maggiori giornali finlandesi, ma dopo sei mesi non lo avevano ancora pubblicato. Quando, però, fu pubblicato, il signor Sorsa, il fedele collaboratore di Mosca, fece pubblica ammenda e ritirò la sua candidatura (Vladimir Bukowskij, Gli archivi segreti di Mosca, Milano 1999).
SULLA STUPIDITÀ. I proverbi. 1. La mamma degli stupidi è sempre incinta. 2. Uno sciocco trova sempre uno più sciocco di lui che l’ammira.
La forma più pericolosa oggi. Oggi il cretino è specializzato (Ennio Flaiano). La super-specializzazione produce sempre super-imbecilli (Edgar Morin). Dei cretini intelligentissimi. Sembra impossibile, ma ce ne sono (Leonardo Sciascia).
Eduardo la pensava così. Una volta chiesero a Eduardo De Filippo se ci fosse qualcosa che lo spaventasse più della guerra. Lui rispose: «I fessi».
L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Con la semplicità dell’amore. Liberami, Signore / dalla pigrizia che si agita, / sotto la maschera del fare, / e della mollezza che compie / ciò che non è richiesto, / per riuscire a eludere un sacrificio! // Ma donami l’umiltà / nella quale soltanto è il riposo, / e liberami dall’orgoglio / che è il fardello più pesante. // Penetra tutto il mio cuore, / tutta la mia anima, / con la semplicità dell’amore (Thomas Merton, 1915-1968).
25 novembre 1999.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Anima e corpo. È conveniente che gli uomini facciano conto dell’anima più che del corpo perché la perfezione dell’anima fa scomparire la deformità del fisico, mentre la forza del corpo scompagnata dal raziocinio non rende affatto migliore l’anima (Democrito, Frammento 170). Interiorità e spiritualità del bene morale. Non ci si deve vergognare più dinanzi agli uomini che dinanzi a se stessi; e non si deve fare il male più facilmente quando pensiamo che nessuno verrà a saperlo; bisogna, infatti, vergognarsi soprattutto dinanzi a se stessi e imprimersi nell’anima questa norma, perché non si faccia nulla di sconveniente (Democrito, Frammento 264). La scienza dell’uomo non è la zoologia. L’uomo è posto fittiziamente come animale, e si finisce con lo scoprire che come animale è estremamente imperfetto e addirittura impossibile (Hans Freyer).
ERACLITO CI HA DISCHIUSO LA COSCIENZA DELLO SPIRITO. Se mi si chiedesse quali sono i grandi testi da cui è nata la nostra civiltà, nel significato più alto del termine, non esiterei un attimo a indicare il primo di essi, e non solo in ordine di tempo, nel Frammento 45 di Eraclito: «I confini dell’anima non li potrai mai raggiungere, per quanto tu ti spinga innanzi nel percorrere le sue strade, tanto profondo è il suo logos». Bruno Snell ha chiarito le novità che comporta il concetto di «profondità» che Eraclito attribuisce al logos contenuto nel frammento citato. Questo è il passaggio essenziale della celebre pagina del filologo tedesco:
«Per noi questa concezione della profondità dell’anima è qualcosa di comune, e vi è in essa qualcosa di totalmente estraneo ad un organo fisico e alla sua funzione. Dire che qualcuno ha una mano profonda, un orecchio profondo, non ha senso, e se parliamo di un occhio “profondo”, ciò ha un significato diverso (si riferisce all’espressione, non alla funzione). La rappresentazione della profondità è sorta proprio per designare la caratteristica dell’anima, che è quella di avere una qualità particolare che non riguarda né lo spazio né l’estensione, anche se poi siamo costretti a usare un’immagine spaziale. Con essa Eraclito vuol significare che l’anima si estende all’infinito, proprio al contrario di ciò che è fisico. Questa rappresentazione della “profondità” del mondo spirituale dell’anima non sorge soltanto in Eraclito, ma già nella lirica precedente, come dimostrano le parole bathyphron, bathymetes, “di mente profonda, di pensiero profondo”, “senso profondo”, ma anche “profondo dolore”, e ovunque l’idea di “profondità” si riferisce a quella “illimitatezza” del mondo spirituale che lo distingue da quello fisico» (La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Torino 1963, pp. 40,41).
IL MISTERO DELLE AFFINITÀ ELETTIVE. Le affinità elettive sono manifestazioni di quella saggezza di cui parla Platone: sommamente amabile fra tutte, essa è capace di suscitare tra i mortali un amore molto più ardente di quello che riescono a destare in noi le meravigliose bellezze dei corpi, benché non si colga con gli occhi del corpo. L’anima, infatti, ha i suoi occhi e si capisce, allora, quanto sia vero il detto greco: presso gli uomini l’amore nasce attraverso lo sguardo. Accade talvolta che, grazie agli occhi dell’anima, un affetto di straordinaria intensità leghi tra loro persone che non hanno avuto neppure l’occasione di vedersi e di conversare insieme. Come per misteriose ragioni uno è sedotto da una forma di bellezza, e uno da un’altra, così sembra esistere una segreta affinità spirituale per cui siamo afferrati dal fascino intellettuale di alcuni e non di altri (Erasmo da Rotterdam, Epistola 999 a Ulrich von Hutten, 23 luglio 1519).
L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Un cuore capace di ascolto. E ora, / Signore mio Dio, / dona al tuo servo / un cuore / capace di ascolto (Bibbia, «Primo libro dei Re»). Sequela. Signore, / rendici capaci di vivere con amore la nostra vocazione, / da veri innamorati della bellezza spirituale, / rapiti dal profumo di Cristo / che esala da una vita di conversione al bene, / stabiliti non come schiavi sotto una legge, / ma come uomini liberi guidati dalla grazia (Agostino d’Ippona, Regola 8. I – Dal volume Regole monastiche d’Occidente, Bose 1989).
2 dicembre 1999.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Osare molto quando il pericolo è grande. Spesso avvien che nei maggiori perigli / sono i più audaci gli ottimi consigli (VI, 6, 7-8). Confida e osa! Io mi starò qui timida e dogliosa? / Ah! Non starò: cuor mio, confida e osa (VI, 86, 3 e 5). (Torquato Tasso, Gerusalemme liberata)
Facciamo proprio così. Ciechi come siamo, ce la mettiamo tutta ad accarezzare i nostri propri difetti. Non parlare a cuor leggero di eresie. Non è necessariamente un’eresia una proposizione che può dispiacere all’uno o all’altro; e quanto più il nome «eretico» è odioso alle orecchie di un cristiano, tanto più bisogna evitare di usarlo a cuor leggero. (Erasmo da Rotterdam, Lettera 939, 1519)
INCONTRARE DOPO PIÙ DI VENT’ANNI IL PRIMO AMORE. Che cosa rimane in noi del primo amore? Ho letto un testo poetico in cui l’autore si pone la stessa domanda, avendo incontrato, dopo più di vent’anni, colei che aveva amato quand’era appena ragazzo. Eccolo:
Sei ancora viva, Elizabeth, che nei miei primi anni ho amato più di me stesso, e riappari ora ai miei occhi. Quando ti incontrai ero quasi un ragazzo e sono quasi vecchio oggi che ti rivedo. Avevo sedici anni e tu all’incirca due di meno, quando il tuo viso mi rapì in un amore innocente. Quel viso ora è irriconoscibile nel tuo aspetto: dimmi, dove se n’è fuggito? …Il tempo, sempre invidioso di ogni fresca bellezza, ti ha rapita a te stessa, ma non ha potuto rapirti a me. Quell’avvenenza del tuo volto che tante volte trattenne i miei occhi, occupa ancora adesso il mio cuore. Ed ecco mi sovviene di quel giorno lontano in cui ti vidi per la prima volta… I tuoi biondi capelli si sposavano al candore del collo e rose erano le tue labbra; quando i tuoi occhi stellanti catturarono i miei e attraverso gli occhi mi giunsero fino al cuore, io rimasi a lungo imbambolato, come se mi avesse colpito un fulmine, a pendere dal tuo viso. Fui preso dalla tua bellezza, fosse essa perfetta o che a me sembrasse maggiore di quanto non era… Questo giorno ci ricongiunge, dopo che tanti inverni sono trascorsi e noi, separati, seguimmo differenti destini: un giorno tale che di rado ebbi a viverne di più felici per la commozione di incontrarti ancora viva. Tu che un tempo, in tutta innocenza, t’impadronisti dei miei sentimenti, anche oggi, con altrettanta innocenza, mi sei rimasta cara.
Questa pagina, delicatissima e di grande penetrazione psicologica, è di Thomas More e fu pubblicata nel 1518, in appendice alla sua celeberrima Utopia. Le poesie di More si possono leggere nel bel volume Tutti gli epigrammi, per la prima volta pubblicato integralmente in italiano, con testo latino a fronte, dalla San Paolo nel 1994. La traduzione è del compianto Luigi Firpo, il massimo studioso italiano di More, e di Luciano Paglialunga. L’edizione italiana riproduce le introduzioni e le note dell’edizione critica delle poesie latine di More, The Complete Works of St. Thomas More, della Yale University Press, 1984.
GLI ANALFABETI, GLI SCHIAVI DEL TERZO MILLENNIO. Nel 1950, all’indomani della seconda guerra mondiale, gli analfabeti erano il 45% della popolazione mondiale; oggi sono il 22,6% cioè un miliardo, un sesto della popolazione mondiale. Per la maggior parte donne. Gli analfabeti entreranno così nel terzo millennio incapaci di leggere un libro, di scrivere il proprio nome, di compilare un modulo alla posta o in banca e tanto meno di usare il computer. Essi sono destinati ad essere gli schiavi del terzo millennio perché vivranno in condizioni ancora più disperate delle attuali soprattutto per ciò che riguarda la casa, il lavoro, la salute. Alle cifre sugli adulti occorre poi aggiungere i 130 milioni di bambini attualmente esclusi dall’istruzione di base, senza contare poi gli altri cento e cento milioni che ricevono un’istruzione scadente, in modo saltuario, in luoghi fatiscenti e angusti. Il fatto è che il diritto all’istruzione è la condizione fondamentale per la conoscenza e l’esercizio di tutti gli altri diritti, strettamente legato com’è alla dignità umana, alla cura della propria salute, alla partecipazione alla vita politica di un Paese.
L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Preghiera per ottenere il dono delle lacrime. Dio onnipotente e d’infinita mitezza, / che per il tuo popolo assetato / hai fatto sgorgare dalla pietra / una sorgente d’acqua viva, / fa’ sgorgare dalle durezze del nostro cuore / lacrime di compunzione, / affinché possiamo piangere i nostri peccati, / e per la tua misericordia / ne possiamo ricevere la remissione e il perdono. / Per Cristo nostro Signore (Dalla liturgia romana Missa pro petitione lacrimarum).
9 dicembre 1999.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Un augurio. Per diverso sentiero egual fortuna (IX, 45, 2). In ogni avversità. Nelle fortune avverse ancora amici (IX, 89, 8). Epigrafe per l’innominabile. Alla sua patria, alla sua fede infido (X, 51, 2). (Torquato Tasso, Gerusalemme liberata)
Amicizia e libertà politica. In piccola misura vi sono amicizie e giustizia anche nelle tirannidi, mentre nelle democrazie ve n’è in grandissima misura: infatti molto vi è di comune tra coloro che sono uguali (Aristotele, Etica Nicomachea VIII, 1161 b).
UNA FAVOLA FANTASCIENTIFICA SULL’AMICIZIA. Nel volume Young Mutants (Storie di giovani mostri) curato da Isaac Asimov c’ è un racconto di John Brunner, A che servono gli amici? in cui si narra di una famiglia che vive in un futuro imprecisato, un futuro in cui i genitori possono scegliere di avere un figlio precondizionato, cioè con le caratteristiche fisiche e intellettuali che a loro piacciono di più. Anche Jack Patterson, un uomo di successo, e sua moglie Lorna hanno scelto per Tim, il loro unico figlio, alcune caratteristiche (un alto quoziente intellettuale, capelli «biondi e ricci», occhi «azzurri e innocenti», simpatiche lentiggini, ecc.), ma il programma di precondizionamento ha reso il figlio un perfetto egocentrico, un individuo asociale che rischia di finire in un riformatorio dopo essere già stato respinto da una scuola speciale. Lo psichiatra più noto e più caro di tutto lo Stato, il dottor Held, al quale i genitori impotenti frustrati si rivolgono, consiglia loro, come risultato estremo, di affittare un Amico per il figlio. La diagnosi, infatti, è disperata. «Vostro figlio», egli dice agli sconcertati genitori, «fisicamente è al di sopra della media, per la sua età. Emotivamente, è interessato solo alla propria gratificazione. È incapace di provare empatia o simpatia, e di rispettare le opinioni altrui. Il suo è un tipico caso di arresto dello sviluppo della personalità». Brunner, dunque, ci presenta una società di un futuro, non sappiamo quanto lontano, in cui gli amici si possono, con un regolare contratto, noleggiare: sono infatti degli umanoidi, cioè dei manufatti con caratteristiche simili a quelle umane che vengono prodotti in lontani pianeti e che vengono importati a caro prezzo, con astronavi interstellari, sulla Terra. L’esito dell’insolita cura ha successo, Tim «guarisce» ed impara, aiutato dall’Amico, a capire i sentimenti degli altri ed a tirar fuori ciò che di buono in lui c’era nonostante tutte le apparenze contrarie. Il racconto si conclude con lo psichiatra che consiglia agli esterrefatti genitori di farsi curare anche loro dall’Amico. La morale di questa favola fantascientifica è racchiusa in una massima sapienziale che pronuncia il dottor Held: «In fondo, gli Amici servono a questo: a migliorarci come esseri umani».
Con queste suggestive riflessioni si apre il bel volume Educare all’amicizia di Massimo Baldini, edito recentemente da La Scuola di Brescia. È molto difficile, infatti, prescindere da un fattore essenziale come l’amicizia nella formazione dei figli degli uomini.
IL TESTAMENTO DI HENRI BERGSON. Bergson durante l’inverno 1924-25 subisce il primo, duro attacco di reumatismo deformante. La malattia doveva condannarlo per sedici anni a una immobilità pressoché completa, non lasciando intatto che il pensiero. Il filosofo, però, volle scrivere sempre di suo pugno, anche se con grande fatica, le sue riflessioni. Fu così che nel 1932 poté terminare la stesura dell’ultimo capolavoro: Le due fonti della morale e della religione, che gli era costato venticinque anni di studio. Cinque anni dopo, l’8 febbraio del 1937, Bergson redasse il suo testamento, che è assai poco conosciuto dai più, anche se su di esso bisogna richiamare l’attenzione per almeno due fondamentali motivi. Sull’orientamento religioso, il filosofo, sempre estremamente riservato, qui ci offre un singolare ritratto della sua anima. «Le mie riflessioni – è detto testualmente – mi hanno portato sempre più vicino al cattolicesimo in cui vedo il coronamento completo dell’ebraismo. Mi sarei convertito se non avessi visto che da anni si preparava la formidabile ondata di antisemitismo che sta per scatenarsi sul mondo. Ho voluto restare tra quelli che domani saranno perseguitati». Ma il testamento ci illumina anche su un altro aspetto della sua personalità. C’è, infatti, una clausola draconiana per quanto riguarda i suoi scritti: «Dichiaro di aver pubblicato tutto ciò che volevo portare a conoscenza del pubblico. Interdico formalmente la pubblicazione totale o parziale di qualsiasi manoscritto, di corsi, di appunti di lezioni e conferenze, e così pure delle mie lettere». Anche qui Bergson ci dà uno splendido esempio di discrezione e di serietà.
16 dicembre 1999.
LINEA RECTA BREVISSIMA. L’aura che ricrea. Aura spira da voi che mi ricrea (I, 104,3). La frode. I meriti usurpa del valor la frode (VIII, 64, 8). La penombra. Per l’ombra mista d’una incerta luce (IX, 20, 2). Il sonno e la morte. Dal sonno alla morte è picciol varco (IX, 18, 8). (Torquato Tasso, Gerusalemme liberata)
Verrebbe voglia di dirlo a parecchi. Il problema è che siete diventati ricchi, ma non siete diventati signori (Levi Appulo). La differenza. Ogni tanto qualcuno chiede come mai ci s’indugi tanto per la pena di morte negli Usa e non abbastanza quando quel barbaro supplizio viene comminato in Cina o in Arabia. La spiegazione è semplice: gli Usa sono pur sempre, insieme a tante altre cose che possono anche non piacerci, una grande democrazia (Michele Serra). Gli amici dei nostri figli. I genitori devono imparare a collaborare con gli amici dei figli, offrendo ospitalità e mettendosi a loro disposizione (Gustavo Pietropolli Charmet, Amici compagni complici, Milano 1997).
IL RITRATTO DEL PITTORE E QUELLO «IN FORMA DI LETTERA». Nel maggio del 1519, inviando ad Alberto di Brandeburgo un medaglione che di lui aveva disegnato il pittore fiammingo Quentin Metsys, Erasmo scriveva: «Vi invio l’ombra di Erasmo. Il mio miglior ritratto voi lo troverete nei miei scritti» (potiorem imaginem mei in libris expressam, Opus epistolarum 1101). Sette anni dopo, nel 1526, era Albrecht Dürer a ritrarre il leader degli umanisti riformatori, per il quale l’incisore di Norimberga era colui che penetrava più profondamente nell’anima del suo modello: «Egli è il solo che sia paragonabile ad Apelle» (Ep. 1398). Tuttavia anche il quadro di Dürer reca in greco la scritta: «L’immagine vera, quella autentica, sono i suoi scritti che ve la riveleranno». Dunque Dürer ha la consapevolezza di non poter esprimere, se non in parte, l’immagine vera di Erasmo, perché essa la si può rintracciare assai meglio, per chi sia in grado di farlo, nella sua immagine della vita così come emerge dai suoi scritti. Dunque Erasmo e Dürer concordano nel rinviare ad un completamento perfettivo del disegno e del dipinto con la parola scritta, che ci introduce più direttamente al mondo interiore e al sentire della persona ritratta.
Erasmo si fece ritrattista anch’egli, ma in forma di lettera. Sono lettere, infatti, i ritratti del suo coetaneo e maestro di vita spirituale John Colet e del francescano Jean Vitrier. E sono lettere anche i quattro ritratti che egli delineò nell’arco di tredici anni, tra il 1519 e il 1532, del suo più caro amico, Thomas More. In quegli scritti, che sono autentici capolavori, l’umanità si comporta come un reporter penetrante e persino indiscreto nel riferire hobby, dettagli e atteggiamenti dell’inglese. La verità è che all’alba dell’età moderna Erasmo propone More – il laico nutrito di vasta cultura, il cristiano di profonda pietà a cui ripugna il clericalismo, il pensatore geniale, il politico integerrimo – come il modello accattivante di un’umanità rinnovata e, per così dire, festiva. La testimonianza resa da Erasmo a Thomas More è ancora più credibile e affascinante perché sulla testa dell’inglese non si era ancora abbattuta la mannaia di Enrico VIII e, dunque, non c’era l’aureola del martire. Ed è una vera sorpresa vedere l’umanista inglese celebrare la superiorità di More su una questione di grande importanza: More è colui che anticipa il meglio di un’umanità futura per il modo con cui apre la via a un mutamento epocale come l’accesso delle donne alla cultura superiore e all’arte. Quei testi preziosi non sono ancora entrati a far parte della nostra cultura perché scritti in lingua latina e difficilmente accessibili. Posso, però, dire ai lettori che sono stati finalmente tradotti e commentati in italiano e stanno per essere pubblicati.
POETI DEL ‘900. Il sentiero si apre camminando. Camminando / si apprende la vita / camminando / si conoscono le cose / camminando / si sanano le ferite del giorno prima. / Cammina / guardando una stella / ascoltando una voce / seguendo le orme di altri passi. / Cammina / cercando la vita / curando le ferite / lasciate dai dolori. / Niente può cancellare il ricordo / del cammino percorso (Rubén Blades). Viandante, il sentiero non è altro / che le orme dei tuoi passi. / Viandante, non c’è sentiero, il sentiero si apre / camminando (Antonio Machado).
23 dicembre 1999.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Su questo si regge il mondo. Che piacere ti fa l’uomo quando per la strada ti dice «Per favore», oppure «Grazie!». E lo dice con tanta grazia come se ti augurasse la salvezza dell’anima. Solo su questo calore umano si regge il mondo (Andrej Sinjavskij). Cos’è, nella sua essenza, una rosa? Buttate pure via / ogni opera in versi o in prosa. / Nessuno è mai riuscito a dire / cos’è, nella sua essenza, una rosa (Giorgio Caproni).
NATALE, CIOÈ L’INAUDITO. L’annuncio cristiano inaugura la nuova era dell’umanità. Grazie alla luce del Vangelo, l’uomo è chiamato a percepire la dignità dei suoi simili e il suo stesso valore in un modo del tutto inedito. A partire dal Vangelo la persona umana acquisisce un diverso e più alto punto di vista sul suo destino e sul suo rapporto con Dio. Prendo in mano il primo degli scritti immediatamente successivi a quelli che formano il Nuovo Testamento, l’A Diogneto, ed ecco in quali termini ci parla del Natale, cioè del mistero-chiave del cristianesimo, l’Incarnazione. Scelgo un solo brano. «Colui che è l’unico Signore onnipotente, il creatore di tutte le cose, l’Iddio invisibile, proprio lui ci ha inviato il Logos santo e l’ha fatto abitare presso gli uomini dandogli una stabile dimora nei loro cuori. Cristo è colui che è stato inviato da Dio agli uomini e Dio non lo fece per dominare e atterrire. Egli inviò il Figlio suo in mitezza e bontà. Inviò Cristo che era Dio come uomo per salvare gli uomini, mediante la persuasione dell’amore e non con la violenza. In Dio, infatti, non c’è violenza».
L’evento che muta il corso della storia è, dunque, la persona di Gesù Cristo. Egli ha portato ogni novità, avendo portato se stesso, come scriverà Ireneo. Il primo dei sinottici, Marco, inizia chiamando Gesù, «Figlio di Dio» in senso proprio ed unico. Alcuni decenni dopo il quarto degli evangelisti, Giovanni, ci dischiuderà nel prologo la profondità del Verbo incarnato: da lui si origina, infatti, e in lui si rende intelligibile tutta la creazione e il disegno d’ineffabile grandezza per il quale la vita stessa di Dio divenne per tutti gli uomini «la luce vera, quella che illumina ogni uomo che viene in questo mondo» (Gv. 1, 9). È questo l’inaudito: «La vita eterna che era presso il Padre noi l’abbiamo visto e udito», attesta Giovanni nella Prima Lettera (1, 2-3). Il simbolo di Niceno dirà che Cristo s’incarnò «per noi uomini e per la nostra salvezza». Il fatto cristiano consiste tutto in questa buona notizia: Dio è Amore e ci dona se stesso in Cristo. La fede è accogliere questo dono.
DUE PENSIERI IMPROVVISI. Primo. Incontrare Cristo attraverso le pagine del Vangelo, e starsene in sua compagnia, costituisce un’esperienza indimenticabile, che ognuno può vivere in qualsiasi momento. Chi non lo fa, almeno di tanto in tanto, nella sua vita non arriverà mai a comprendere che cosa significhi «essere sorpreso dalla gioia». A ricordarcelo è un passo di Benedetto Croce tratto dal saggio Perché non possiamo non dirci «cristiani». Annota il maggior filosofo italiano del ‘900: La continua e violenta polemica antichiesastica, che percorre i secoli dell’età moderna, si è sempre arrestata e ha taciuto riverente al ricordo della persona di Gesù, sentendo che l’offesa a lui sarebbe stata offesa a se medesima, alle ragioni del suo ideale, al cuore del suo cuore. Perfino qualche poeta, il quale, per la licenza che ai poeti si concede di atteggiare fantasticamente in simboli e metafore gli ideali e i contro-ideali a seconda dei moti della loro passione, vide in Gesù – in Gesù che amò e volle la letizia – un negatore della gioia e un diffusore di tristezza, finì col dare la palinodia del suo primo detto. È quanto accadde al tedesco Goethe e all’italiano Carducci (il saggio citato è edito da La Locusta di Vicenza e da Adelphi di Milano).
Secondo. Penso con orrore a quello che nella loro orgogliosa sicurezza progettavano per il Terzo Millennio i due totalitarismi meglio attrezzati a costruire il futuro dell’umanità senza Cristo: il nazismo e il comunismo sovietico. Il secolo che ormai volge alla fine ha visto, però, il nazismo travolto dalla guerra che aveva scatenato per imporre al mondo il suo «ordine», e il comunismo crollare per un processo di inarrestabile autodisgregazione sociale e politica. Chi pronunciò il Discorso della Montagna e altre divine parole è, invece, lì, nostra misura e meta delle generazioni che verranno, a dare il suo nome al Terzo Millennio.
30 dicembre 1999.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Perché si sottolinea un brano e non un altro? Non saprei cosa rispondere. A volte le parole colpiscono per la loro bellezza, a volte per il modo sorprendente e paradossale di dire una verità. Ma le risonanze che producono sono sempre misteriose (Giovanni Fallani). La nuova idea cristiana della coscienza e di Dio. Sebbene tutta la storia passata confluisca in noi e della storia tutta noi siamo figli, l’etica e la religione antiche furono superate e risolute nell’idea cristiana della coscienza e dell’ispirazione morale e nella nuova idea del Dio nel quale siamo, viviamo e ci muoviamo; e perciò, specificamente, noi nella vita morale e nel pensiero, ci sentiamo direttamente figli del cristianesimo… E serbare e riaccendere e alimentare il sentimento cristiano è il nostro sempre ricorrente bisogno, oggi più che mai pungente e tormentoso, tra dolore e speranza (Benedetto Croce).
I GRANDI TESTI NON CONOSCIUTI: PAUL VALÉRY COMMEMORA BERGSON. Signori, nei primi giorni di questo nuovo anno, sabato scorso 4 gennaio, soccombendo a una congestione polmonare, è morto all’età di 81 anni Monsieur Bergson. Il corpo di quest’uomo illustre è stato trasportato al cimitero di Garche, nelle condizioni necessariamente le più semplici e le più commoventi. Nessuna cerimonia, nessun discorso, funerali civili, presenti solo una trentina di amici… fu così che salutammo per l’ultima volta il più grande filosofo del nostro tempo. Con queste parole inizia l’allocuzione che Paul Valéry pronunciò all’Accademia francese il 9 gennaio 1941, pochi giorni dopo il decesso di Henri Bergson, nell’ora più buia della Francia, quando le armate hitleriane spadroneggiavano su tutto il suo territorio.
Egli era il nostro orgoglio. – prosegue Valéry – Che la sua metafisica ci avesse o non ci avesse sedotti, che noi l’avessimo seguito o meno nella profonda ricerca, alla quale ha consacrato tutta la vita, e nell’evoluzione veramente creatrice del suo pensiero, sempre più ardito e più libero, egli è stato per noi il modello più autentico delle virtù intellettuali più elevate. Una sorta di autorità morale nelle cose dello spirito era unita al suo nome, che era universale… Le sue ipotesi e le sue analisi divennero celebri in tutto il mondo. E mentre i filosofi, dopo il secolo XVIII, erano stati quasi tutti sotto l’influenza di concezioni fisico-meccaniche, Bergson si era lasciato felicemente ispirare dalle scienze della vita. La biologia lo ispirava. Egli considerò la vita, la comprese e la concepì come portatrice dello spirito… Non temette affatto di cercare nell’osservazione della propria coscienza qualche luce su problemi che non saranno mai risolti. Ma egli aveva reso il servizio essenziale di restaurare e di riabilitare il gusto di una meditazione, più vicina alla nostra essenza di quanto possa esserlo lo sviluppo puramente logico di concetti… Per lui il vero valore della filosofia stava, infatti, nel ricondurre il pensiero a se stesso.
Fu qui, in questo immenso lavoro di approfondimento e di liberazione a un tempo, che il genio di Bergson si manifestò in tutta la sua potenza. Egli osò addirittura, annota Valéry, improntare alla poesia di immagini nuove e felicissime quell’implacabile rigore scientifico a cui il suo spirito non avrebbe mai potuto rinunciare. Si forgiò così uno stile di straordinaria efficacia e bellezza, lo stile bergsoniano appunto, in cui la speculazione teoretica si apre alla souplesse e alle nuances del genio e della lingua francese.
L’ANGOLO DELLA POESIA. Sul fondo dell’acqua. Sul fondo dell’acqua, / deposte su una roccia, / foglie d’albero (Naito Joso, 1662-1704). La brezza. Una brezza soave spira: / sui campi verdi, / ombre di nuvole (Morikawa Kyoroku, 1656 – 1715). Sul cammino d’una fanciulla. Farfalle / sul cammino d’una fanciulla, / davanti e dietro di lei (Chiyo-jo, 1701 – 1775). Alba radiosa. Il giorno irrompe: / il colore del cielo / si cambia d’abito (Issa, 1762 – 1826). Io e la luna. Che splendida luna! / La guardo da solo / e vado a letto (Ozaki Hōsai, 1885 – 1927). Poggio l’orecchio al tronco. Spuntano i germogli. / Al tronco di un grande albero, / poggio l’orecchio (Takahama Kyoshi, 1871 – 1959). Dal volume Haiku, a cura di Leonardo Vittorio Arena, Milano 1995.
La rubrica “Detti e contraddetti” è stata pubblicata sul Giornale di Brescia con cadenza settimanale dal 5 gennaio 1988 al 25 gennaio 2007.