DETTI E CONTRADDETTI 2001 – SECONDO SEMESTRE
5 luglio 2001.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il vero signore. 1. Il vero signore è simile a un arciere: se manca il bersaglio, ne cerca la causa in se stesso (Confucio). 2. Esser mediocre a gran signor non lice (Giuseppe Parini).
Saper ascoltare. Chi sa ascoltare non soltanto è simpatico a tutti, ma dopo un po’ finisce con l’imparare qualcosa (Wilson Mizner). Il «di più» dell’arte. Uno dei compiti principali dell’arte è stato sempre quello di creare esigenze che al momento non è in grado di soddisfare (Walter Benjamin). L’arte libera. Più l’arte è controllata, limitata, lavorata e più è libera (Igor Stravinskij). La dignità dell’artista. La dignità dell’artista sta nel suo dovere di tener vivo il senso di meraviglia nel mondo (Gilert K. Chesterton). Non solo parlare. Tra il dire e il… dire ci sia il pensare (Levi Appulo). La vera bellezza. La vera bellezza non ha niente a che vedere con l’età (Louise Bourgeois, scultrice). A forma di croce. Il piccolo uccello, quando è formato, / vola nel vento e a forma di croce spiega le ali. / Ma se le ali rimangono chiuse, / rifiutandosi al farsi segno della croce, / anche l’aria si rifiuta all’uccello (Efrem il Siro, vissuto nel IV secolo dopo Cristo).
SE IL POLITICO È SCHIAVO DELLA PROPRIA VANITÀ. In uno degli scritti più penetranti – tradotto in italiano da Antonio Giolitti con il titolo Il lavoro intellettuale come professione (Torino 1969) – Max Weber si chiede: «Che uomo deve essere colui al quale è consentito mettere le mani negli ingranaggi della storia?». Per far politica a un certo livello occorre, infatti, non un qualsiasi tipo di uomo, ma una persona dotata di specifiche e non generiche qualità perché assolvere un compito politico – diretto alla polis, ossia all’attuazione del bene comune – è insieme una professione e una chiamata. Orbene per Max Weber il «peccato mortale della politica» è certamente il potere per se stesso, allo scopo di soddisfare la propria vanità o il proprio interesse personale: «Proprio in quanto la potenza è l’indispensabile strumento di ogni politica e l’aspirazione al potere una delle sue forze propulsive, non si dà aberrazione dell’attività politica più deleteria dello sfoggio pacchiano del potere e del vanaglorioso compiacersi nel sentimento della potenza, o, in generale, di ogni culto del potere semplicemente come tale» (pag. 103). Il politico schiavo della propria vanità è continuamente in pericolo di diventare un istrione, preoccupato com’è dell’impressione che egli fa sul popolo divenuto ai suoi occhi un «pubblico» di spettatori. Il politico vanaglorioso, prigioniero della «prestigiosa apparenza», è indotto di continuo a sfoggiare il potere ed il suo agire decade inevitabilmente in un «agitarsi inconcludente». Forse è per questi rischi insiti nella vanità del politico che sia gli idealisti alla Platone, sia i realisti come Machiavelli hanno sempre invitato chi governa a guardarsi dall’adulazione: «bestia terribile e perniciosa, in cui la natura infuse un certo piacere non privo di fascino» (Fedro 240 b), «vera peste da cui è difficile difendersi perché li uomini si compiacciono tanto nelle cose loro proprie e in esse si ingannano» (Il Principe, cap. 23).
RIFLESSIONI SULL’ARTE. 1. Il problema del rapporto arte-vita, della creazione e della realtà non si era mai posto in maniera così acuta come nei tempi moderni. La creazione artistica non deve essere soggetta a norme ad essa esterne, morali, sociali o religiose. Ma l’autonomia dell’arte non significa affatto che la creazione artistica possa o debba essere separata dalla vita spirituale e dallo sviluppo spirituale dell’uomo. L’arte non è una cosa vuota. L’arte libera cresce dalla profondità spirituale dell’uomo, come libero frutto (Nikolaj Berdiaev, 1910). 2. Non ritengo mio compito quello dell’invenzione… Non ho alcun desiderio di brillare in questo campo; l’invenzione è per l’artista semplicemente il mezzo per far meglio risaltare la realtà e concentrarsi su di essa (Aleksandr Solzenicyn, 1976). Una letteratura che non sia l’atmosfera della società ad esse contemporanea, che non ardisca di trasmettere alla società il proprio dolore e la propria inquietudine, di mettere in guardia al momento opportuno contro gli incombenti pericoli morali e sociali, non merita neppure il nome di letteratura, ma appena di cosmesi (A. Solzenicyn, 1996).
12 luglio 2001.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Non cedere all’indifferenza. L’indifferenza è morte prematura (Anton Checov). La bestemmia del disperato. Dio gradisce di più le bestemmie di un disperato che le lodi compassate del benestante durante il culto domenicale (Martin Lutero). Le mani giunte. Fanno restare senza fiato, oggi, / le mani giunte (Paul Celan). L’assordante silenzio dei cosiddetti onesti. Non ho paura delle parole dei violenti, ma del silenzio degli onesti (Martin Luther King). Quando cambia il cuore del proprio cuore. L’amore entrò nel mio cuore col desiderio di dimenticare sempre me stessa e da quel momento fui felice (Teresa di Lisieux).
FANTAPOLITICA E MITOPOIESI. Lo confesso, non ho mai sopportato l’esaltazione fanatica del lider maximo di turno, quali che siano i suoi meriti veri o presunti, le speranze fatte balenare agli occhi dei suoi sostenitori, l’ampiezza dei consensi ottenuti. Un’altra volta in questa rubrica ho ricordato che fu un soldato inglese a farmi capire, quand’ero giovanissimo, perché in politica non si deve mai idolatrare un capo. Conversavo con lui nella stazione ferroviaria di Gioia del Colle, in Puglia, in attesa di un treno che non arrivava mai. Si era nel dicembre del 1943. A un certo punto gli dissi incautamente: «Voi inglesi siete certamente orgogliosi di avere una guida come Winston Churchill». La risposta fu: «I capi politici non vanno mai esaltati. Noi inglesi ci riteniamo molto fortunati se, alla fine del loro mandato, possiamo constatare che hanno meritato il nostro rispetto». Non ho mai dimenticato quelle parole. L’adulazione, e peggio l’idolatria, del capo è in ogni ambito, non escluso quello religioso, rivelatrice di un’atavica disposizione al servilismo e all’autocensura, anche in chi esibisce il suo presunto anticonformismo. Essa è comunque pericolosa per chi si sia insediato al potere, soprattutto all’indomani di una sonante vittoria, perché lo spinge a smarrire quel senso del limite senza del quale non è neppure immaginabile una politica al servizio del bene comune. Propongo alla riflessione dei lettori un testo «adulatorio» esemplare per commistione di mitopoiesi e fantapolitica: «Berlusconi è come Michelangelo: ha fatto un’opera d’arte delle sue aziende. Ha fatto un’opera d’arte con il partito. È un’opera d’arte anche lui. È come Michelangelo. Politica e cultura coincidono». Questa dichiarazione è di Vittorio Sgarbi e l’Ansa l’ha trasmessa alle ore 20,45 del 12 giugno 2001.
NEL LABIRINTO DI PIER LUIGI PIOTTI. Una buona ragione. Non ce la faccio a vivere. Mi sento / abbandonata, sola, sola, sola. / Una buona ragione per morire. // Ma noi che a ciglio asciutto commentiamo, / sordi a quel grido, noi dov’eravamo? / Troppo distratti per poterla udire (Per Agata Azzolina, suicida dopo la morte del marito e del figlio, assassinati da mano mafiosa). Care piccole cose. Care piccole cose, senza noi / subito spente, mute, polverose; / casa mia dolce, dolci cose / che in lei splendete, che sarà di voi?
Queste due brevi poesie fanno parte della raccolta Nel labirinto di Pier Luigi Piotti, appena uscito per i tipi della Grafo Edizioni, Brescia 2001.
19 luglio 2001.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Ma che sa il cuore? Certo, il cuore, a chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su quello che sarà. Ma che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto (Alessandro Manzoni). Il mio consiglio ai giovani. Questo è il mio consiglio ai giovani: aver curiosità (Ezra Pound in un’intervista alla televisione italiana, 7 giugno 1968). La differenza. Tutta la differenza fra costruzione e creazione è esattamente questa: una cosa costruita si può amare solo dopo che è stata costruita; ma una cosa creata si ama prima di farla esistere (Gilbert K. Chesterton). La libertà non è un fine. La libertà non è un fine, è un mezzo. Chi la scambia per un fine, quando la ottiene, non sa che farsene. (Nicolàs Gòmez Dàvila).
L’INCONTRO CHE STA ALL’INIZIO DELLA NOSTRA CIVILTÀ. Nel suo pellegrinaggio ai luoghi legati alla storia della salvezza, la terza tappa di Giovanni Paolo II, dopo il Sinai di Mosè e la Terra Santa, è stata Atene. Nel discorso tenuto il 4 maggio 2001, alla presenza del presidente della Repubblica greca, Kostas Stephanopoulos, il Papa ha sottolineato con grande forza il valore decisivo per la civiltà europea, e anche per quella del mondo intero, dell’incontro tra cultura classica e cristianesimo. Sono lieto di proporre ai lettori la traduzione italiana dei passaggi centrali di quel discorso, il cui testo è stato pubblicato integralmente su L’Osservatore Romano del 5 maggio 2001.
«Molto tempo prima dell’era cristiana l’influenza della Grecia era diffusa ampiamente. Nell’ambito della stessa letteratura biblica, gli ultimi libri dell’Antico Testamento, alcuni dei quali scritti in greco, sono profondamente segnati dalla cultura ellenica. La traduzione greca dell’Antico Testamento, nota con il nome di Settanta, ebbe una grande influenza nell’antichità. Il mondo con il quale Gesù entrò in contatto era ampiamente pervaso dalla cultura greca. Quanto ai libri del Nuovo Testamento, essi sono stati divulgati in greco, il che permise loro di diffondersi più rapidamente. Non si trattava però di una semplice questione linguistica: i primi cristiani fecero parimenti ricorso alla cultura greca per trasmettere il messaggio evangelico. Certo, i primi incontri tra i cristiani e la cultura greca furono difficili. Prova ne è l’accoglienza riservata a Paolo quando andò a predicare nell’Aeropago (Atti degli Apostoli 17, 16 – 34). Spetterà ai primi Apologisti, come il martire san Giustino, dimostrare che un incontro fecondo tra la ragione e la fede è possibile. Una volta superata la sfiducia iniziale, gli scrittori cristiani iniziarono a considerare la cultura greca come un’alleata piuttosto che una nemica e i grandi centri del cristianesimo ellenico videro la luce attorno al bacino del Mediterraneo».
In tutti i grandi Padri della Chiesa, latini e greci, la simbiosi tra l’eredità ellenica classica e il messaggio cristiano trova un’espressione di straordinaria potenza e creatività. «Gradualmente – continua il Papa – il mondo ellenico divenne cristiano e la cristianità divenne, in un certo senso, greca; quindi nacquero la cultura bizantina in Oriente e la cultura medievale in Occidente, tutte e due ugualmente pervase di fede cristiana e di cultura greca». E quella simbiosi sta alla base della grandiosa sintesi teologica e filosofica di Tommaso d’Aquino; né sarebbe possibile intendere l’umanesimo cristiano, da Petrarca a Erasmo da Rotterdam, e l’arte e la cultura del Rinascimento senza il contributo della Scuola di Atene celebrata nell’opera pittorica di Raffaello.
POESIA DEL NOSTRO TEMPO. Preghiera. Le foreste ci precedono / ci seguono i deserti. Sparge il sale, / per dove passa l’angelo del male. // Dio della vita, amore immenso, salvaci. / Salva le foreste / dal sale e dalla scure; / le creature / dall’angelo ribelle; / l’umanità dall’uomo assatanato. // Rissosi in piccoletta stanza / fa che possiamo riscoprire il senso / di una nuova salvifica alleanza (Pier Luigi Piotti, Nel labirinto, Brescia 2001).
26 luglio 2001.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Quel niente che è tutto. L’arte non insegna niente, tranne il senso della vita (Henry Miller).
L’arte autentica eleva. L’arte non deve ami tentare di farsi popolare. Il pubblico deve cercare di diventare artistico. La bellezza e la rivoluzione. La bellezza, senza dubbio, non fa le rivoluzioni. Ma viene un giorno in cui le rivoluzioni hanno bisogno della bellezza. (Oscar Wilde)
QUANDO MANCA IL CONSENSO DELLA MAGGIORANZA SU GRANDI QUESTIONI DI CARATTERE MORALE. Nella rivista di cultura e attualità religiosa Jesus del giugno 2001 Franco Monaco affronta un problema delicato: l’intreccio spinoso tra verità, valori e democrazia. Può succedere, e spesso in concreto succede, che su problemi di grandissima rilevanza etica la maggioranza prenda decisioni in contrasto con la visione cristiana della vita. In quei casi, la decisione può e deve essere contestata dai cristiani sul piano etico, ma essa rimane legittima sul piano giuridico e politico. Può e deve addolorarci molto che in un Paese i più non siano disposti a riconoscere la verità di certi valori cristiani, ma in una democrazia il principio di maggioranza informa le procedure, le regole e le leggi inerenti alla vita della comunità. Perché cittadini di diverse fedi e di opposte opinioni possano convivere senza imporre o subire violenza la storia non conosce una prassi meno incivile e più funzionale di quella garantita dal metodo democratico. In questi casi che cosa fare? I cristiani laici devono agire lungo due direttrici. Occorre, in primo luogo, testimoniare, sul piano personale e comunitario, la verità tutta intera di quei valori e di quei diritti, ancorché essi risultino minoritari sul piano sociale e politico; ma non per questo i cristiani devono disertare le istituzioni politiche e separarsi dagli altri concittadini, facendo ghetto. Il loro compito è lavorare alla ricerca e all’attuazione del bene comune, concretamente possibile nella situazione in cui sono chiamati a vivere, «attraverso un’azione volta a far maturare un più largo consenso intorno a quei valori-diritti ancora non adeguatamente apprezzati dalla maggioranza».
Se dovessi indicare un testo a cui torno spesso, quando si devono affrontare questioni tanto importanti, rinvierei i lettori più pensosi a un piccolo scritto che si colloca alle sorgenti dell’esistenza cristiana, quando i seguaci della nuova forma di vita erano, sì, statisticamente minoranza, ma sapevano molto bene qual era il loro insostituibile ruolo nel mondo. Parlo dell’A Diogneto. Si può leggerlo nelle edizioni La Scuola (Brescia 1985). In questo caso mi sento autorizzato a scrivere che il consiglio è pienamente condiviso anche da Franco Monaco, discepolo prediletto di Giuseppe Lazzati.
«EUROPA, CONOSCI TE STESSA… PER COSTRUIRE IL TUO FUTURO». Nei rapporti con la cultura greca l’annuncio del Vangelo ha dovuto compiere sforzi di vigile discernimento, per accoglierne e valorizzarne tutti gli elementi positivi, respingendo nel contempo gli aspetti incompatibili con il messaggio cristiano. Quel dialogo rispettoso e franco ha potato a compimento l’ideale greco della cosmopolis per un mondo veramente unito, pervaso di giustizia e fraternità. Siamo in un periodo decisivo della storia europea; spero con tutto il cuore che l’Europa che sta per nascere riprenderà in modo rinnovato e creativo la lunga tradizione di incontro fra la cultura greca e il cristianesimo, dimostrando che non si tratta di vestigia di un mondo scomparso, ma dei fondamenti dell’autentico progresso umano a cui il mondo aspira. Sul frontone del tempio di Delfi sono incise le parole Conosci te stesso; invito, quindi, l’Europa a conoscere se stessa sempre più a fondo. Tale conoscenza si realizzerà solo se essa esplorerà nuovamente le radici della sua identità: radici che affondano profondamente nell’eredità ellenica classica e nell’eredità cristiana, che portarono alla nascita di un umanesimo fondato sulla percezione che ogni persona umana è fin dalla sua origine immagine e somiglianza di Dio (Dal discorso che Giovanni Paolo II pronunciò ad Atene il 4 maggio 2001).
2 agosto 2001
LINEA RECTA BREVISSIMA. Lui sì che è un uomo formidabile! Quando suona il campanello della sua coscienza, finge di non essere in casa… Non ha mai capito nulla, ma quel nulla lo sostiene e lo difende con argomenti così importanti ed autorevoli che finisce col credere di essere un uomo formidabile (Leo Longanesi). Gli occhi del cuore. Non si vede bene che col cuore; l’essenziale rimane invisibile agli occhi (Antoine de Saint-Exupéry). Dove sta la nostra gioia. Ciò che rende lieta la vita non è fare le cose che ci piacciono, ma trovare piacere nelle cose che dobbiamo fare (Johann W. Goethe). Sperare e disperare. Sperare / a voce bassa e vergognosamente / è la cosa difficile. / La cosa facile è disperare / ed è la grande tentazione (Charles Péguy).
QUANDO UN SONDAGGIO NON DOVREBBE MAI ESSERE FATTO. La curiosità, si sa, è la prima virtù di un reporter insieme, probabilmente, alla velocità. Ma questa curiosità non sempre può essere appagata: ci sono questioni insondabili, o sondabili solo in tempi molto lunghi. Una realtà difficile da accettare per un giornalista. Pane quotidiano per noi ricercatori. Qualche tempo fa mi arrivò la richiesta di realizzare un sondaggio sulla pena di morte per i pedofili. Un tema di sicuro appeal giornalistico, visto e considerato che la cronaca nera ci riporta ogni giorno squallidi casi di abuso sui minori. Proprio il giorno prima era stato ritrovato il cadavere di Silvestrino Delle Cave, il piccolo di nove anni barbaramente violentato e ucciso in provincia di Napoli. Cercai di spiegare al giornalista che mi voleva commissionare il lavoro, che il risultato dell’indagine sarebbe stato inficiato dall’ondata emotiva seguita alla morte del bambino. Lui insistette. Alla fine mi rifiutai di svolgere il sondaggio. Un rifiuto che altri miei colleghi non opposero. Tanto che il sondaggio, qualche giorno dopo, uscì regolarmente.
Questo brano esemplare è tratto dal volume Opinioni in percentuale – I sondaggi tra politica e informazione, Bari 2001. L’autore è Nando Pagnoncelli, direttore di Abacus, uno dei professionisti più intelligenti e preparati fra quanti in Italia operano nel settore delle ricerche di mercato e dei sondaggi sociali e politici.
BEPPE FENOGLIO E LE FORZE TEMPESTOSE CHE SOVRASTANO LA VITA. Non limiterei le qualità di Fenoglio, come alcuni vogliono, alla compatta concisione del cronista; troppo più complessa e straziata essendo la sua visione del mondo, la dolcezza dei paesaggi, i contraccolpi della memoria, il respiro della natura, e direi la reverenza quasi religiosa che egli porta alla scarna e infinita avventura umana. Dietro ogni tratto di cronaca sta la rivelazione delle forze tempestose che sovrastano la vita, severe imperative e implacabili. Prima di una fucilazione, Johnny manda al condannato un pacchetto di sigarette. «Ma ricordati – aggiunge a un compagno intenerito – che senza morti, i loro e i nostri, nulla avrebbe senso». Di fronte a un morto nemico un ragazzo partigiano bisbiglia: «Ho capito una cosa Johnny. Che sua madre e la mia sono la medesima unica persona». E infine, quando portano entro un lenzuolo – «come un morto in montagna o in mare» – il cadavere di un compagno, Johnny «ci vide il sigillo di eternità, come fosse un greco ucciso dai persiani due millenni avanti». In questo riverbero tragico e quasi fatale della grandezza nel destino dell’uomo sta soprattutto la indubitabile poesia di Beppe Fenoglio.
Ecco un breve, intenso giudizio su Fenoglio, un ritratto essenziale di un autore che onora il nostro Novecento letterario. È tratto dal volume Il critico giornaliero, in cui sono raccolti gli «scritti militanti di letteratura 1948-1993» di Geno Pampaloni (Torino 2001).
POESIA DEL NOSTRO TEMPO. La storia di un fanciullo metafisico. Era un povero fesso, / attraversò la vita / chiedendole permesso. / Diceva: ciò che è mio è tuo. // «Da dove? Per dove?» Era il suo tormento. / Veniamo da padri lontani, andiamo / dove ci porta il vento. / Ci sovrasta un disegno; / ma prima o poi, qualcuno anche per noi / colpirà nel segno. // Sorridendo a se stesso sparì nel buio pesto. / «Ma non è finita», lasciò scritto, / «ci rivedremo presto». // Ah, già dimenticavo: lui / fece tutto da solo; era un «enne-enne», / un Peter Pan, un pargolo perenne / nato, cresciuto, morto in mezzo ai cavoli (Pier Luigi Piotti, Nel labirinto, Brescia 2001).
9 agosto 2001.
LINEA RECTA BREVISSIMA. I bambini, il vero tesoro dell’umanità. Dove sono i bambini lì c’è un’età dell’oro (Novalis). Se c’è qualcosa che desideriamo cambiare nel bambino… Se c’è qualcosa che desideriamo cambiare nel bambino, dovremmo prima esaminarlo bene e poi vedere se non è qualcosa che faremmo meglio a cambiare in noi stessi (Carl G. Jung).
Bellezza e malinconia. 1. La malinconia è la nobile compagna della bellezza, al punto che non so concepire un tipo di bellezza che non abbia in sé il dolore (Charles Baudelaire). 2. Un velo di mestizia par che avvolga la Bellezza; e non è velo, ma il volto stesso della Bellezza (Benedetto Croce).
UNA STRATEGIA COMUNE PERCHÉ IL MONDO ABBIA UN FUTURO. In teoria tutti sono d’accordo nel riconoscere che la qualità della nostra vita dipende dal progresso sociale e da un’adeguata gestione dell’ambiente, ma anche dai risultati economici. Il problema non è convenire su questo principio indiscutibile; il problema, come dimostrano i fatti, si manifesta quando si tenta di tradurre il principio affermato in linee d’intervento concreto. E qui a far difetto sembra essere proprio la volontà politica. Nel 1992, al vertice sulla terra di Rio de Janeiro, i Governi mondiali intervenuti s’impegnarono solennemente a favorire uno sviluppo sostenibile, ma in quasi dieci anni non hanno fatto seguire a quell’impegno decisioni coerenti. L’Europa non crede che si possa ancora calpestare i bisogni della gente e procedere ciecamente verso il disastro e per bocca del suo presidente, Romano Prodi, si batte perché i Paesi più economicamente avanzati si assumano finalmente le loro responsabilità. E questo per due motivi fondamentali.
«In primo luogo, malgrado il livello del nostro tenore di vita sia per molti versi superiore a quello goduto in qualsiasi epoca precedente, una serie di fatti minaccia gravemente la qualità della nostra vita. Fenomeni che si stanno sviluppando lentamente, ma che rischiano di deteriorare pesantemente la vita delle future generazioni: non quelle lontane, ma quelle dei nostri figli e nipoti. Mi riferisco al pericolo che si possa lasciare in eredità a chi ci segue un pianeta depauperato delle sue risorse naturali e avviato a modifiche ambientali dagli effetti imprevedibili. Evitarlo è una nostra responsabilità, una responsabilità che abbiamo ora. Non abbiamo il diritto di sfuggire a tale responsabilità. In secondo luogo occorre indirizzare le nostre economie verso modelli di sviluppo più sostenibili e socialmente compatibili. Questa sfida richiede mutamenti nei nostri comportamenti quotidiani, anche in termini di attività produttive, ma ha dentro di sé i germi di nuove opportunità di sviluppo. E sono opportunità di grande rilievo. Le politiche per uno sviluppo sostenibile innescheranno, infatti, un’ondata di innovazioni tecnologiche, di investimenti, di ricerca scientifica: quindi nuova occupazione ad ogni livello formativo. Dobbiamo assolutamente saper sfruttare a pieno questa opportunità: è il nostro immediato futuro».
IL PREZZO DA PAGARE PER LE COSE CHE NON HANNO PREZZO. I miopi, si sa, abbondano anche nella classe politica e imprenditoriale. A costoro Prodi risponde nel suo intervento su La Stampa del 15 giugno scorso in questi termini: «Certo, in alcuni settori, nell’immediato, le misure per contrastare le tendenze non sostenibili comporteranno costi rilevanti. Questi costi saranno equilibrati dalle fonti di reddito delle nuove produzioni, in grado di offrire prodotti migliori con minori sprechi. Le riduzioni di posti di lavoro, che si verificheranno in determinati settori, saranno compensate da maggiore occupazione in altri. Inutile nascondersi dietro un dito: il futuro ha un prezzo, anche a causa dei ritardi, dei continui rinvii, delle mancate scelte e degli errori accumulati da chi ci ha preceduto. Ma qual è il prezzo della vita e dell’avvenire dei nostri figli? Queste cose non hanno prezzo. Dobbiamo tuttavia ripetere che le misure di riconversione saranno accompagnate dai necessari ammortizzatori perché il cambiamento non sarà fatto con un subitaneo big bang, ma sarà diluito nel tempo affinché gli oneri siano il meno pesanti possibile. È, però, mio desiderio che in materia di sviluppo sostenibile l’Unione Europea arrivi a primeggiare a livello mondiale, sia percorrendo nuove strade nel campo della ricerca tecnologica e scientifica, sia fungendo da esempio per tutti. Per questo dobbiamo cominciare col mettere ordine in casa nostra».
23 agosto 2001.
LINEA RECTA BREVISSIMA. L’esplorazione più difficile. È più facile andare su Marte o sulla Luna che penetrare nel proprio io (Carl G. Jung). L’uomo superiore e l’uomo volgare. L’uomo superiore vive in pace con tutti, ma non agisce come tutti. L’uomo volgare agisce come tutti e non va d’accordo con nessuno (Hugo von Hofmannsthal). Parola di Tito Livio. Non sappiamo sopportare né i nostri vizi né i loro rimedi.
SULLA LIBERTÀ DI DISCUSSIONE, LA LEZIONE DI J. S. MILL. Il secondo capitolo del capolavoro di John Stuart Mill, Della libertà, tratta della libertà di pensiero e di discussione. Ci limitiamo a citare i passaggi essenziali, certi di far cosa gradita ai lettori, perché le considerazioni sviluppate dal più illustre pensatore inglese dell’Ottocento conservano pienamente la loro validità.
Proibire di accogliere un’opinione perché la si reputa falsa equivale a impedire che venga discussa, affermando con certezza assoluta la presunzione d’infallibilità del proprio giudizio. Ogni uomo sa bene che è fallibile, ma pochi trovano necessario prendere le precauzioni contro la propria fallibilità; pochi ammettono che la questione di cui si discute, e sulla quale sono convinti di aver ragione, possa essere stata male impostata. La libertà illimitata di contraddire e disapprovare è, appunto, la condizione senza cui non potremmo mai stabilire un’opinione vera. Un essere umano non ha altro mezzo per assicurarsi razionalmente di essere dalla parte del vero. La fonte di tutto quanto vi è di rispettabile nell’uomo, sia come essere intellettuale che come essere morale, è la capacità di correggersi. L’uomo può rettificare i suoi errori per mezzo dell’esperienza e della discussione. Non della sola esperienza: occorre infatti anche la discussione per mostrare come l’esperienza debba essere interpretata. Gli uomini il cui giudizio ispira fiducia sono quelli che prestarono attenzione ad ogni critica mossa sulle loro opinioni e sulla loro condotta: si abituarono così ad ascoltare pazientemente tutto quello che poteva dirsi contro di loro e a trarne profitto da quanto vi era di giusto. L’abitudine costante di correggere e di completare le nostre opinioni ponendole a confronto con quelle degli altri, lungi dal generare dubbi e incertezze, è il solo fondamento stabile di una ragionevole fiducia.
IL PESSIMISMO DI JADER JAOCOBELLI SU L’OSCURITÀ E LA RETICENZA DEI POLITICI ITALIANI. È indubbio che i nostri politici abbiano una buona dose di oscurità: hanno l’oscurità del tempo, quella che può essere oggi rimproverata un po’ a tutti, e un supplemento di oscurità specifica. Concorre a questa loro particolare oscurità la situazione politica del nostro paese, la crisi delle ideologie ottocentesche a cui, sia pure formalmente, continuano a richiamarsi, il fatto che in Italia nessuno possa governare da solo e perfino fare l’opposizione da solo, essendo inevitabile allearsi, costi quel che costi, anche con forze non omogenee. Inoltre tutti i partiti sono oggi interclassisti tanto da imporre loro qualche volta la quadratura del cerchio. Questi fatti concorrono tutti a rendere fatalmente oscuro e spesso ambiguo il loro linguaggio. Ma c’è di più. Alla televisione tutti questi mali si accentuano perché dal video non ci si rivolge soltanto ai propri aderenti o simpatizzanti, come in un comizio, ma a tutto l’elettorato. Ed è evidente che, se si vogliono ottenere consensi fuori della propria area, è necessario stemperare, sfumare le affermazioni, atteggiarsi a sostenitori di quelle convinzioni che si credono più largamente diffuse. Con il risultato che la gente dice che sono tutti uguali, tutti furbi, tutti ingannevoli («Per la radio e la televisione», in AA.VV., Il linguaggio della divulgazione, Milano 1982).
30 agosto 2001.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il buon critico. Buon critico è colui che narra le avventure della sua anima in mezzo ai capolavori (Anatole France). Il critico deve descrivere non prescrivere (Eugène Jonesco).
Paradosso cristiano. Il cristianesimo è stato predicato da ignoranti e creduto da uomini dotti, e in questo non somiglia a niente di conosciuto (Joseph de Maistre). Non sembra, ma è così. L’attività del cretino è molto più nociva dell’ozio dell’intelligente (Mino Maccari). Solo allora è bello. Il debito è bello quand’è pagato (Aleksandr Puskin). La memoria dei creditori. I creditori hanno miglior memoria dei debitori (Benjamin Franklin).
Quando la verità si corrompe. La verità si corrompe quando si dimentica il processo concreto da cui nasce. Il successo non è indice di valore. Il volume di applausi non misura il valore di un’idea. Allora sì che il sentimento è autentico. L’autenticità di un sentimento dipende dalla chiarezza dell’idea. Il contrassegno della bestia. Rifiutarsi di stupirsi è il contrassegno della stupidità. (Nicolàs Gòmez Dàvila, 1913 – 1994, scrittore e pensatore colombiano di formazione europea)
IN QUEL RAPPORTO SI MANIFESTA L’UOMO. L’essenza di ogni forma di linguaggio sta nel modo di rapportarsi al silenzio. Il silenzio e la parola si determinano reciprocamente, poiché solo chi sa tacere può veramente parlare allo stesso modo che il silenzio autentico è possibile solamente a chi sa che cosa dire. Il silenzio non significa qualcosa di meramente negativo, che debba rimanere inespresso, ma esige un comportamento attivo, un fervore di vita interiore, un’intensa commozione in virtù della quale un uomo diviene padrone di se stesso e si apre a ciò che lo supera. Solo da questa serenità meditante proviene alla parola quella forza silenziosa che la rende significativa. Il silenzio, inoltre, è l’unica via per la quale si coglie e si rivela lo sguardo interiore. Solo in tale maniera si può sperimentare la potenza di significato della parola e la parola trae tutta la sua energia. Priva di questo rapporto col silenzio, la parola diviene vaniloquio; senza questo rapporto con la parola, il silenzio diventa clausura e incomunicabilità. Il silenzio e la parola formano, dunque, un tutto. In quel tutto sta il cuore di una persona, il suo valore.
SUL CAMBIAMENTO. Accettare, cambiare, saper distinguere. O Dio, dacci la serenità per accettare quello che non si può cambiare, il coraggio di cambiare quello che va cambiato, e la saggezza per distinguere l’uno dall’altro (Reinhold Niebuhr). La saggezza di Trilussa. «Ognuno crede a le raggioni sue» disse er Camaleonte, «come fai? / Io cambio sempre e tu non cambi mai». / «Credo che se sbajamo tutt’e due (dalla poesia Er carattere).
6 settembre 2001.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Le lacrime. Le lacrime sono le parole del silenzio (Amselle Jean-Loup). L’eterna astuzia dei furfanti e dei camaleonti. Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi (Giuseppe Tomasi di Lampedusa). Cane e padrone. Mostrami il tuo cane e ti dirò chi sei (Riccardo Bacchelli). Se il calvo è uomo di spirito… Quel che il Tempo lesina agli uomini in fatto di capelli, glielo risarcisce in fatto di spirito (William Shakespeare).
FAR RITROVARE ALL’UOMO LA DIMENSIONE INTERIORE. La cultura in cui noi crediamo non può essere che di autentica ispirazione umanistica, capace cioè di far ritrovare a noi stessi e agli altri, sempre di nuovo contro ogni forma di dispersione e di imbonimento pubblicitario, la via dell’interiorità e della responsabilità. Una cultura è umanizzante se non si lascia rinchiudere in un sapere tecnico-settoriale, se rimane sempre aperta alla ricerca del significato. In un’epoca come la nostra – in cui tutto ci spinge alla omologazione e alla passività, l’industria culturale tende a spegnere l’iniziativa e la dignità dei singoli, e la resa all’onnipresente potere mediatico sembra inevitabile – bisogna ridare voce alle micro-azioni, ai rapporti personalizzati, alla testimonianza vissuta, così come avvenne per le due più grandi rivoluzioni che l’umanità abbia conosciuto: quella di cui Socrate fu il primo grande iniziatore e l’altra che ebbe la sua fonte ispiratrice nel Cristo dei Vangeli. Fare cultura nel nostro tempo significa costruire un nido di resistenza alla menzogna, alla sopraffazione, alla violenza psicologica, alla viltà e alla stupidità. È un compito a cui si può essere fedeli nella misura in cui si rimane liberi di fronte al danaro, al successo, alla volontà di dominio. Il lavoro normale nel campo dello spirito, il solo che meriti di lasciare un segno, è quello della paziente attesa, del risveglio delle coscienze, dell’ascolto attento delle esigenze di autenticità, di franchezza, di dedizione a un compito comune. Esigenze, queste, che onorano l’umanità e che il cristiano può ben leggere come presentimento e nostalgia dell’Assoluto.
L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. Aprimi tu il sentiero della vita. Aprimi tu, Signore mio Dio, il sentiero della vita e fa’ che io sappia quello che vuoi da me. Dammi fortezza nelle prospere cose e nelle avverse, sì che io in quelle non presuma né in queste mi abbatta e di niente io goda o mi dolga, se non di ciò che a te mi avvicina o da te mi allontana.
Rendimi obbediente senza ripugnanza, povero senza rammarico, casto senza presunzione, paziente senza mormorazione, umile senza finzione, giocondo senza dissipazione, austero senza tristezza, benefico senza arroganza (San Tommaso d’Aquino, 1225-1274).
13 settembre 2001.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il lato debole. Signori, si cade sempre dalla parte da cui si pende (François Guizot nel discorso pronunciato il 5 maggio 1837 alla Camera dei Deputati francesi). Cadere in piedi. Cader co’ buoni è pur di lode degno (Dante Alighieri). Ciò che più importa. L’importante è che la morte ci colga vivi (Marcello Marchesi). La gioia e il dono. La gioia non può essere separata dal dono. In Dio tutto è gioia perché tutto è dono (Paolo VI).
PER ACCRESCERE L’OGGETTIVITÀ DELL’INFORMAZIONE. Qualche considerazione epistemologica. 1. In primo luogo è più che opportuno distinguere tra l’obiettività di una persona e l’oggettività di un’informazione o proposizione. La prima è un predicato delle persone oneste e in buona fede; la seconda è un predicato di proposizioni, modi di argomentare, teorie. L’obiettività è una virtù personale; l’oggettività si ha quando l’informazione o l’argomentazione che presume di descrivere e spiegare un fatto è pubblicamente controllabile e, quindi, falsificabile.
L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. O sole di salvezza. Inno mattutino. O Gesù, sole di salvezza, rifulgi nell’intimo dei cuori ora che, passata la notte, più gradito rinasce il giorno nel mondo (O sol salutis, intimis, / Jesu, refulge mentibus / dum, nocte pulsa, gratior / orbi dies renascitur). Dandoci un tempo di misericordia, concedi a noi di lavare il nostro cuore per offrirtelo, purificato dal pianto, affinché l’amore, lieto, lo infiammi (Dans tempus acceptabile, / da lacrimarum rivulis / lavare cordis victimam, / quam laeta adurat caritas). Viene il giorno, il tuo giorno, nel quale tutte le cose rifioriscono: anche noi ci rallegriamo perché ricondotti sulla tua via dalla tua mano (Dies venit, dies tua, / in qua reflorent omnia: / laetemur et nos, in viam / tua reducti dextera). Ti adori prostrato, clemente Trinità, la macchina del mondo, e noi, fatti nuovi mediante la grazia, canteremo un cantico nuovo. (Te prona mundi machina, / clemens, adoret, Trinitas / et nos novi per gratiam / novum canamus canticum).
Quest’inno fu composto da Gregorio Magno, che visse tra il 540 e il 604 e fu papa dal 590 sino alla morte.
20 settembre 2001.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Se questo è discolparsi… L’uomo preferisce discolparsi con la colpa altrui piuttosto che con la propria innocenza. Capita molto spesso. Aver ragione è una ragione in più per non aver successo. Quando la società è afrodisiaca e consumistica. La volgarità dell’anima e del corpo è il castigo che l’ascetismo impone alla società che lo rifiuta. (Nicolas Gòmez Dàvila)
La smania di arricchire. Chi ha fretta di arricchire non si conserverà innocente (Libro dei Proverbi). L’incredibile assurda follia. I ricchi di tutti i paesi sono stati sempre più disposti a spendere per le armi che per il benessere. Sono meno riluttanti a pagar le tasse per motivi bellici che per motivi sociali… Quest’aspetto della psicologia umana io non riesco proprio a spiegarlo (Arnold J. Toynbee).
DANTE, LA COSCIENZA DEL PROPRIO VALORE: IL SUO «SDEGNO» E LA SUA «UMILTÀ». Nella Divina Commedia è contenuta la presa di posizione di Dante nei confronti dell’esistenza, la sua critica alla vita del tempo, gli ideali per i quali combattere. Il contenuto della sua opera si manifesta sempre come concretamente vissuto; la materia si dispiega nel corso di un viaggio, ma il viaggiatore è il poeta stesso. Parlando di uomini e di eventi, egli disegna il quadro della propria umanità. Di solito questo avviene senza un intendimento particolare, come riflesso immediato dell’esperienza diretta; a volte consapevolmente, contro il disconoscimento e contro un destino ostile; a volte ancora, il poeta tradisce se stesso senza saperlo. I valori determinanti per Dante erano straordinari. Egli era una coscienza permeata di un inflessibile senso dell’onore e di natura così vigorosa da edificare la sua opera gigantesca nella sventura, in quella forma di esistenza che gli fu imposta, l’esilio. La Commedia non è un epos né una poesia lirica, ma il canto di un’alta e retta esistenza, che la ragione e la fede esigono; il poema dantesco, in tutta la sua bellezza poetica, ha pertanto il carattere di un giudizio a cui il poeta attribuisce un significato universale, d’importanza decisiva.
Dante era sorretto da una fortissima coscienza del proprio valore, al punto da affiancare se stesso insieme ai più grandi poeti dell’antichità e specificatamente a Virgilio. Quando Dante compose il IV canto dell’Inferno, in cui si descrive l’incontro dei poeti antichi con Virgilio e il suo protetto, egli era ben lungi dal rappresentare, per la coscienza del suo tempo, quello che divenne in seguito. Annoverandosi tra i sommi poeti, agiva nello stesso modo di un giovane poeta del nostro tempo che si dichiarasse pari a un Goethe o a un Shakespeare. In lui, però, non vi è hybris, non vi è tracotanza, ma imperturbabile distinzione di sé nei confronti di tutto ciò che è indegno. Tale atteggiamento viene caratterizzato principalmente da una parola: la parola «sdegno». Essa esprime anzitutto il disprezzo dell’uomo d’alto sentire per la bassezza in cui egli s’imbatte, ma anche il rifiuto insofferente della volgarità insita nel mondo e il dispetto di dover esistere in esso. Ma ciò che più sorprende in Dante è che la possente consapevolezza che egli ha della propria importanza è sempre unita all’«umiltà». L’umiltà del sommo poeta non è, sotto nessun riguardo, debolezza, ma piuttosto un inchinarsi della forza, della nobiltà della persona e della sua opera, non appena esse siano giunte al cospetto di ciò che è veramente alto. Vi è, dunque, una connessione tra grandezza, grazia e umiltà. L’umiltà è riconoscimento grato e accoglienza di ciò che ci è donato e che ci supera da ogni lato (Romano Guardini, Linguaggio-Poesia-Interpretazione, Brescia 2000, pp. 115-139 passim).
L’ANGOLO DELLA PREGHIERA. A Maria, madre di Dio. Santa Maria, madre di Dio, conservami un cuore di fanciullo, terso e puro come una sorgente. Ottienimi un cuore semplice, che non gusti le tristezze, un cuore ardente nel donarsi e tenero alla compassione. Un cuore fedele e generoso, che non dimentichi alcun bene né serbi rancore di alcun male. Fammi un cuore dolce e umile, che ami senza domandare di esser riamato, contento di scomparire in altri cuori davanti al tuo Figlio divino. Dammi un cuore indomabile e grande, che nessuna ingratitudine chiuda e nessuna indifferenza prostri; un cuore tormentato dalla gloria di Gesù Cristo e ferito dal suo amore (Léonce de Grandmaison, 1868-1927).
27 settembre 2001.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il coraggio di vivere. L’arte del vivere somiglia più alla lotta che alla danza (Marc’Aurelio). Chi non stima la vita, non la merita (Leonardo). Spesso è da forte / più che il morire, il vivere (Vittorio Alfieri). Se la si conosce nei particolari… Una vittoria, descritta nei particolari, non si sa più che cosa la distingua da una sconfitta (Jean-Paul Sartre).
L’ortodossia. L’ortodossia è la tensione fra due eresie. La verità. La verità è la gioia dell’intelligenza (Nicolas Gòmez Dàvila).
PERCHÈ CI VUOLE ANCHE UNA «ALFABETIZZAZIONE MUSICALE». Io non credo affatto che quando si studia musica ci si debba aspettare qualcosa di straordinario. Essa è un elemento assai importante dell’educazione e dell’istruzione, che offrirà a te e a altri molti momenti luminosi, ma solo se non ti poni l’obiettivo orgoglioso di diventare musicista e di suonare perfettamente. Quando s’impara a leggere e scrivere, non ci si preoccupa del fatto che un alunno diventi o no scrittore: no, obbligatoria è l’alfabetizzazione, cioè l’esser in grado di leggere libri e di esporre i propri pensieri; se poi, oltre a questo, si manifesta un talento letterario, questo sarà un’aggiunta gratuita, un dono del destino. Così, anche nella musica è necessario l’alfabetismo, la capacità di cogliere e usare le ricchezze della cultura musicale. Se acquisterai tale capacità in seguito agli studi, credo che l’obiettivo sia conseguito. Qualora poi, al di là dello scopo che si vuol conseguire, si evidenzi anche il talento, ciò sarà un regalo improvviso; ma esigerlo per sé o da sé non è una cosa giusta. Cresci, studia, evolviti, impara a partecipare a quanto di meglio ha l’umanità: ecco il tuo obiettivo.
In questo brano un padre cerca di far comprendere alla figlia con quale animo bisogna studiare musica. Quel padre è Pavel Florenskij, che scrive alla figlia Olecka l’8 aprile 1934 dal lager staliniano di Skovorodino. La lettera è inclusa nel volume Non dimenticatemi, Milano 2000. È interessante notare che Florenskij torna sull’argomento anche in due lettere, questa volta scritte dall’inferno delle Solovki, in data 7 novembre e 7 dicembre dello stesso 1934. Nella prima lettera confida alla figlia la commozione provata nell’ascoltare, per caso, da un altoparlante, benché la trasmissione venisse di tanto in tanto interrotta, un concerto di Mozart e l’Appassionata di Beethoven, «una musica di una bellezza estrema, oltre la quale non si può andare». Quanto mai puntuale è anche l’annotazione che si legge nella seconda lettera: «Bisognerebbe dare ai bambini che studiano musica più impressioni musicali. Solo allora la musica diventerà per loro più interessante e avranno voglia di lavorarci sopra».
SE IL LINGUAGGIO È GENERICO E VACUO… Può accadere di trovare un giornale che, riportando due discorsi parlamentari, si esprime in questo modo: «Il ministro Tale afferma: alle regioni daremo strumenti concreti. L’onorevole Talaltro ribadisce: bisogna opporsi a chi spinge il paese in direzioni sbagliate». Non faremo agli oratori il torto di pensare che abbiano solo detto cose così generiche, ma è certo che il giornale le ha immediatamente selezionate come le più significative. In realtà non c’è nulla di più astratto dell’espressione «strumenti concreti», e dire che «bisogna opporsi a chi spinge il paese in direzioni sbagliate» non dice nulla se non si passa all’analisi delle direzioni e dell’errore in questione» (Umberto Eco, «Il linguaggio politico», in AA.VV., I linguaggi settoriali in Italia, a cura di Gian Luigi Beccaria, Milano 1973).
4 ottobre 2001.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Saper accogliere una confidenza. Confidarsi è natura, accogliere le confidenze così come vengono fatte è cultura. Il vero dinamismo. Il vero dinamismo consiste nell’agire sempre con calma e senza arrivare mai in ritardo. (Johann W. Goethe)
Segno di superiorità. La generosità è sempre segno di superiorità (Baltasar Graciàn). Il problema come cibo… Il filosofo vive di problemi come l’uomo di cibi. Un problema insolubile è un cibo indigesto (Novalis). Bugia e verità. Una bugia fa in tempo a viaggiare per mezzo mondo mentre la verità si sta ancora mettendo le scarpe (Mark Twain). Le persone che frequentiamo. È sbagliato giudicare un uomo dalle persone che frequenta. Giuda, per esempio, aveva degli amici irreprensibili (Marcello Marchesi). A mio agio e d’accordo… Io credo nelle persone, però non credo nella maggioranza delle persone. Anche in una società più decente di questa, mi sa che mi troverò a mio agio e d’accordo sempre con una minoranza (L’affermazione è fatta da Nanni Moretti a un certo punto del suo film Caro diario).
ALAIN, UNA SPECIE DI SOCRATE DEL XX SECOLO. Il filosofo Émile-Auguste Chartier è noto col nome di Alain, come usava firmare i suoi scritti immortalati da Gallimard nei quattro volumi della prestigiosa Pléiade. Era una specie di Socrate del XX secolo. Con il grande ateniese aveva in comune l’arte maieutica, la passione educativa, l’assoluta probità intellettuale. Il suo modo d’insegnare era quindi tutt’altro che convenzionale. Quando le maître entrava in classe era costretto a passare davanti a una parete su cui si allineavano lavagne sulle quali gli studenti, di propria iniziativa annotavano un pensiero di un autore, desiderosi di ricevere un commento da parte sua. Alain leggeva; ripeteva più volte «Non capisco» e indugiava; in seguito, come un motore che si mette in moto a fatica, il suo pensiero cominciava a girare e a prendere velocità. Infine la sua voce, di solito quasi sorda, si levava in tutta la sua forza. E per lui come per i suoi allievi era una festa dello spirito. Tra le molte intuizioni geniali vi è quella di aver capito che occorre spronare gli studenti a mettere per iscritto le proprie idee su qualsiasi argomento, sotto forma di brevi saggi, i cosiddetti topos, per imparare a pensare correttamente in maniera personale. Nel 1925 diventò sua allieva una quindicenne, in cui sovrana era la purezza d’anima, assoluto il bisogno di cercare la verità e di esprimerla con coraggio. Quella studentessa era Simone Weil.
UN TOPOS DI SIMONE WEIL SEDICENNE SU IL BELLO E IL BENE. Nel febbraio del 1926, quando aveva sedici anni, la Weil consegnò al maestro un saggio, Le Beau et le Bien, in cui portava la sua riflessione su un episodio della vita di Alessandro Magno: il condottiero soffriva la sete, insieme ai soldati che aveva guidato attraverso il deserto, ma quando uno di essi gli portò dell’acqua dentro un elmo, lui la versò per terra. La Weil osserva: «Nessuno, e meno che mai Alessandro, avrebbe osato prevedere un’azione così sorprendente come la sua; ma una volta compiuta l’azione, non c’è alcuno che non senta che doveva essere fatta». Il suo commento continua: «L’appagamento di Alessandro, se avesse bevuto, l’avrebbe separato dai suoi soldati… Basterebbe, quindi, essere giusti e puri per salvare il mondo ed è quel che esprime il mito dell’Uomo-Dio, che riscatta il peccato degli uomini con la sola giustizia e senza alcuna azione politica. Il sacrificio è l’accettazione del dolore, il rifiuto di obbedire all’animale che è in noi, la volontà di riscattare gli uomini che soffrono partecipando volontariamente alla loro sofferenza. Ogni santo ha versato l’acqua, ogni santo ha rifiutato qualunque felicità che l’avrebbe separato dalle sofferenze degli uomini».
La maggiore biografa di Simone Weil, la sua amica Simone Pétrement, dice molto opportunamente che queste parole lasciano intravedere già tutta la vita della Weil. Occorre, inoltre, aggiungere che l’Uomo-Dio, che appariva un mito alla giovanissima studentessa ebrea, si rivelerà in seguito, ai suoi occhi, come l’evento decisivo di tutta l’avventura umana, il solo in grado di rischiarare ogni nobile lotta, ogni battaglia per la verità, il sacrificio per gli oppressi. Per un approccio serio all’eccezionale personalità della Weil ci permettiamo di segnalare con La vita di Simone Weil di Pétrement, tradotta in italiano dall’Adelphi (Milano 1994) e il bel volume Simone Weil mistica e rivoluzionaria di Roberto Rondanina (Milano 2001).
11 ottobre 2001.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Se non c’è sfumatura, non c’è verità. Bisogna considerare una vera e propria maledizione i «giudizi in blocco» e le presunte «sintesi epocali». Gli uni e le altre piacciono molto agli integralisti e ai retori, ma un discorso che manchi di sfumature manca sempre di verità (Levi Appulo). I pensieri che vengono dopo. I pensieri che vengono in un secondo tempo di solito sono più saggi (Cicerone).
Non tradire mai gli oppressi. Ancora bambina, qualunque cosa leggessi o sentissi raccontare, mi mettevo sempre istintivamente, più per sdegno che per pietà, al posto di quanti erano vittime di un’oppressione. La cartina di tornasole. Non è dal modo in cui un uomo parla di Dio ma dal modo in cui parla delle cose terrestri, che si può meglio discernere se la sua anima ha soggiornato nel fuoco dell’amore di Dio. (Simone Weil)
MOMENTO ATTUALE DELL’ECUMENISMO. Dopo Basilea, nel 1989, e Graz, nel 1997, il terzo appuntamento promosso dal movimento ecumenico che raggruppa le Chiese europee cattoliche, protestanti e ortodosse, si è svolto nell’aprile del 2001 a Strasburgo. Nella città alsaziana, però, non si respirava l’ottimismo di Basilea, né l’entusiasmo di Graz. I passi in avanti realizzati tra l’89 e il ‘99 – l’anno in cui venne firmata la Dichiarazione congiunta sulla giustificazione dalla Chiesa cattolica e dalla Federazione luterana mondiale – sono stati molti e assai significativi. È parso a molti che le Chiese si fossero spinte avanti nel dialogo ecumenico al livello più alto, senza riuscire a trascinare i rispettivi fedeli verso i nuovi traguardi.
Forse chi ha espresso meglio il disagio dell’attuale momento ecumenico è stata Elisabeth Parmentier, pastore evangelico. Ecco le sue parole: «Siamo tra il mattino di Pasqua e la sosta alla taverna di Emmaus. La strada che i due discepoli percorrono sembra quella di chi si assume la fatica ecumenica: sono senza speranza, sfiduciati, eppure Cristo li raggiunge e cammina al loro fianco. Proprio perché abbiamo fatto dei progressi reali in campo ecumenico, assistiamo in tutte le Chiese alla tentazione di chiudersi, di tornare indietro. Il dialogo teologico è stato importantissimo, perché ci ha mostrato che sulle questioni prioritarie, come la salvezza e la giustificazione, siamo più vicini di quanto crediamo. Divergiamo, invece, ancora su temi meno essenziali, come l’autorità, le strutture decisionali, il senso dell’uno o dell’altro sacramento. Ma queste dispute spesso nascondono la paura di perdere la propria identità e di sentirsi spiazzati sul proprio territorio».
Senza dubbio a Strasburgo su tre punti si è convenuto di procedere insieme: l’impegno per l’unità visibile della Chiesa, lo stile richiesto dall’attuale missione in un’Europa secolarizzata e la presenza cristiana nella costruzione della nuova società europea. Tuttavia da Elisabeth Parmentier ci viene un monito, un appello da non disattendere: «Le Chiese devono capire che il loro ruolo nella società è cambiato e non possono più pensare di esercitare il potere che avevano in passato. A tutte è richiesta una conversione di mentalità, da idee di grandezza, anche finanziaria, da una teologia trionfalistica a una più umile e credibile. Ed è un cammino da fare insieme».
NOI NASCIAMO CON QUESTO LIBRO NELLE VISCERE. Un piccolo libro, i Salmi: 150 canti, 150 gradini eretti fra la morte e la vita; 150 specchi delle nostre rivolte e delle nostre fedeltà, delle nostre agonie e delle nostre resurrezioni. Più che un libro, è un essere vivente che parla e che ci fa soffrire, che geme e muore, che resuscita e canta, alle soglie dell’eternità, e ci prende, cattura i secoli trascorsi e quelli che verranno. Quel poema nasconde un mistero, affinché le generazioni non cessino di tornare ad esso, di purificarsi alla sua sorgente, d’interrogarne ogni versetto come se i suoi ritmi battessero la pulsazione del mondo, perché il mondo si è riconosciuto in esso… Da quasi due millenni i conventi e i ghetti, la sinagoga e la chiesa s’incontrano misteriosamente in questo scrigno di amore per salmodiare, qui in latino, là in ebraico, gli inni dei pastore d’Israele, quel libro in cui ogni lettera vive e danza come un fuoco di gioia (Les psaumes, Paris 1956, pp. 1-2. La citazione è tratta dall’introduzione di André Chouraqui).
18 ottobre 2001.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Traccia per un tema di maturità. Esaminando l’evoluzione del concetto di Vir a quello di Vip, tratteggiate il passaggio tra la cultura classica latina e quella italiana (Stefano Benni). La Televisione. La Televisione è la maiuscola madre putativa dei nostri affanni quotidiani (Sergio Pent). Non tre, ma quattro dimensioni. Chi desideri cogliere qualcosa del senso della vita deve essere un uomo, o una donna, a quattro dimensioni. Bisogna che abbia una pluralità di linee nella ricerca e che sperimenti diverse forme di esistenza attraverso la politica, l’estetica, la filosofia e la religione. Solo mediante prospettive diverse un’anima può arrivare a percepire l’unità di fondo tra ciò che è e ciò che deve essere (Levi Appulo). Non siamo umili. Tanta gente è umiliata, ma non umile (San Bernardo). Se siamo ciechi. La luce esiste anche in un mondo di ciechi. È stato detto: «Hanno occhi e non vedono». La luce non si spegne se gli occhi non la vedono (Giovannino Guareschi).
PER BATTERE ANCHE TRA NOI LA TENTAZIONE DELL’INTEGRALISMO. Per sconfiggere la tentazione dell’integralismo anche tra noi cristiani occorre marcare sempre di nuovo il debito di riconoscenza che la civiltà europea, ed anche quella del mondo, debbono alla cultura greca classica e all’ebraismo. Nei primi secoli dell’era cristiana gli Apologisti e i Padri della Chiesa affrontarono il problema del rapporto tra il pensiero greco e la rivelazione con una grandezza d’animo sorprendente, se si pensa che la nuova fede iniziava allora il suo cammino e la rivendicazione della propria originalità poteva indurre i cristiani ad atteggiamenti di rifiuto e di incomprensione nei confronti di ciò che l’aveva preceduta. Ed invece già il primo Apologista cristiano, Giustino, e il primo dei Padri della Chiesa, Clemente Alessandrino, associarono con decisione al disegno della salvezza la funzione svolta dalla filosofia greca nella praeparatio evangelica: accanto ad una storia ebraica della rivelazione procede, quindi, una storia sacra dei pagani, una grandiosa ricerca di Dio che avanza nell’oscurità. Clemente Alessandrino giungerà a scrivere che vi sono, pertanto, due antichi Testamenti, la Bibbia e la Filosofia (Stromata VI, 42,44,106), e uno Nuovo, che come un fiume trascina nel suo corso acque che vengono da lontano. Questa è anche la nostra visione ed è per ragioni profonde, e non occasionali, che pensiamo doveroso riproporre con forza in primo luogo la figura e il messaggio di Socrate, ma anche le conquiste più solide di Platone, Aristotele e Plotino. Se dovessi indicare in estrema sintesi lo spirito, l’ispirazione profonda di ogni autentico umanesimo cristiano, ecco i testi fondamentali che amo ricordare a me stesso e a quanti, da tredici anni ormai, seguono questa rubrica. Il primo è tratto dall’Apologia di Socrate, 38a: «Una vita senza l’esame del pro e del contro non è degna per l’uomo di essere vissuta». Il secondo è di San Pietro, Prima Lettera 3, 14-16: «Non abbiate paura e non vi turbate. Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi. Tuttavia questo sia fatto con dolcezza, con rispetto e con retta coscienza». Il terzo appartiene a Sant’Ambrogio ed è citato ben quarantaquattro volte nell’ opera di Tommaso d’Aquino: «Una verità, da chiunque ci venga fatta conoscere, viene sempre dallo Spirito Santo».
25 ottobre 2001.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Quando l’avversario è aiutato a battervi. Il grande trionfo dell’avversario è farvi credere quello che va dicendo di voi (Paul Valéry). Tipico delle grandi azioni. Qual è la grande azione che non sia un estremo nel momento in cui s’intraprende? Solo quando è compiuta, essa sembra possibile agli esseri comuni (Stendhal). Azzurro. L’azzurro è per sempre destinato dalla Divinità ad essere una fonte di gioia (John Ruskin). Per riascoltare Dio. Un maestro ha detto, qualche secolo fa, che il vero prodigio della teofania al Sinai fu il silenzio inaudito imposto da Dio a tutti i rumori del mondo affinché si rendesse percettibile la voce celeste che da sempre e per sempre scandisce i comandamenti. Basterebbe porsi in ascolto e quella voce la udiremmo ancora (Elena Loewenthal).
11 SETTEMBRE 2001, DI FRONTE ALLE TWIN TOWERS ATTERRATE. «Il lutto per l’umanità. Siamo tutti in lutto / per il genere umano. Tutto. / Davanti alla ferocia illimitata / contro la gente disarmata. / Di fronte ai “distinguo” meschini / di individui sempre più piccini. / Fra i necessari proclami, / le soddisfazioni infami, / gli estetismi davanti ai rottami. // “Come nei film di apocalissi e disastri / e genocidi e inevitabili sinistri!”… / … E si stava qua e là ancora a chiedere / tante scuse, a discutere se concedere / qualche perdono, o no, / per crimini vicini e lontani, / negoziando risarcimenti contabili / e indennizzi per stragi incalcolabili… // Churchil in un analogo momento / terribile di “lacrime e sangue” / (e malgrado i poeti metafisici / di “Per chi suona la campana? / Elementare, suona per te!”) / esortava i concittadini / a “Business as usual” – cioè / fare il proprio dovere. / Senza “distinguo”. / Continuare il proprio lavoro, / senza lagne di “benché” o di “sicché”. // Certo, a settant’anni passati, / si sperava di avere già dato, / e provato. / Si contava di aver superato / la malvagità scatenata, / la crudeltà più efferata / che colpisce non te o me, o chissà / chi, ma l’intera umanità. // Già. A parte la globale pietà, / la prima a morire sarà / ora la solidarietà? / E chi ancora parlerà / sinceramente di ospitalità, / seriamente di generosità, / ovviamente di fraternità / o semplicemente di Libertà?».
Questi versi sono di Alberto Arbasino. Li ho letti su La Repubblica del 15 settembre 2001.
DISTINGUERE FRA I PACIFISTI E I NON VIOLENTI. I pacifisti e i non violenti non vanno confusi fra loro. Era non violenta l’India che lottava contro il colonialismo britannico, così come lo erano i dissidenti dell’Est e dell’Urss, durante la guerra fredda. Il loro rifiuto della violenza fu sempre una forma di resistenza. Il filosofo ceco Patocka era disarmato, ma teorizzava al tempo stesso l’opposizione intrepida di chi conduce la propria esistenza alla maniera di un soldato al fronte. Havel era non violento e al tempo stesso si ergeva contro i pacifisti occidentali, accusandoli di aver lo sguardo fisso sui missili dell’Ovest e di non voler vedere i missili e gli orrori prodotti dal comunismo sovietico. In India come in Europa orientale si trattava di abbattere soprusi e tirannie, pur evitando la contrapposizione armata. L’equiparazione tra pacifismo e non violenza è un golpe verbale che offende gli eredi di Gandhi o di Sacharov e inganna chi vorrebbe un linguaggio di verità, di autentica meditazione, e soprattutto di buon senso. Salman Rushdie ha scritto: Il fondamentalista crede che noi non crediamo in niente. Non sarebbe male che i nemici della violenza smentissero quello che gli ideologi del nuovo totalitarismo pensano di noi e della nostra presunta decadenza (Barbara Spinelli, In che cosa crede il pacifista?, ne La Stampa del 14 ottobre 2001).
VERDI, SEMPLICEMENTE ED ESATTAMENTE. Verdi non era banale! Era raffinatissimo, semplice ma raffinatissimo. Io da italiano mi sono messo in testa che dobbiamo ridare a Verdi la grandezza che merita. Altro che um-pa-pa, come dicono certi critici tedeschi. La Scala ha un compito morale: riportare il discorso critico su Verdi per consegnare quel genio nella sua forza originaria alle nuove generazioni. Quanto ai cantanti che fanno e disfanno, tagliano e aggiungono, Verdi è stato sempre chiaro. Ecco le sue parole: «Io voglio un solo creatore e mi accontento che si eseguisca semplicemente ed esattamente quello che è scritto». Oh, porca miseria! Questa non è mica una frase detta di traverso! E io questo voglio fare: fare quello che Verdi ha scritto. E la tradizione? C’è una frase di Wilhelm Furtwängler che non ho mai dimenticato: «In campo musicale la tradizione è il brutto ricordo dell’ultima brutta esecuzione» (Riccardo Muti).
1 novembre 2001.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Grande è allora la sua autorità. Non si può spiegare quanto sia grande l’autorità di un dotto di professione, allorché vuol dimostrare agli altri le cose di cui sono già persuasi (Alessandro Manzoni). L’artista e il suo tempo. L’artista è figlio del suo tempo, ma guai a lui se diventa anche il suo discepolo o peggio ancora il suo favorito (Friedrich Schiller).
DOPO L’11 SETTEMBRE 2001. Potremo pensare e dire queste cose, d’ora in poi? Tra i commenti e le reazioni che hanno accompagnato l’orrore di quanto è accaduto l’11 settembre, mi pare che meritino una citazione le riflessioni di un uomo di sinistra come Michele Serra, apparse il 15 settembre su La Repubblica. Eccone i passaggi fondamentali.
Atterrando quei due grattacieli, si è voluto riportare il linguaggio umano al suo primitivo, pauroso punto zero: obbligarci a riconoscere e usare due sole parole e solamente quelle, Dio e Satana, Bene e Male, Noi e Loro. Questo è lo scopo ultimo dei fanatici. E le folle di miserabili, abbruttiti dalle loro tragedie, che esultano sordidamente alla notizia della nostra catastrofe, della nostra morte, già vivono e muoiono dentro quella barbarica semplificazione. La dimestichezza con quei grattacieli, con quella folla multirazziale in fuga, con quegli scorci di Manhattan, è per noi abitanti dell’Occidente così totale, così spontanea da non aver bisogno di essere spiegata, e tanto meno giustificata. Ma ci sarà utile solo se servirà a rimettere al posto giusto tutte le nostre parole, oggi così scompaginate dal lutto, dalla paura e dall’imprescindibile necessità di fare giustizia… Le maledizioni che già si levano nel nostro campo bombardato contro l’Islam tutto intero sono sinistramente simili al veleno razzista di certi sceicchi e imam, così intrinsecamente tribali. Ed anche ammesso che, in certe strette della storia, sia legittimo e utile farsi tribù, non è forse proprio dell’Occidente la rappresentanza di quell’universalità dei diritti, senza di cui l’umanità ricadrebbe nella barbarie? L’America si straguadagnò quella titolarità, insieme agli europei che lottarono contro il nazismo, nella seconda guerra mondiale, e non gliene sarà mai reso abbastanza merito. Ma se l’è guadagnata, e l’Europa con lei sempre anche in Medio Oriente e nell’America Latina? Potremo pensare e dire queste cose, d’ora in poi, nel pieno dei nostri sentimenti di democratici e di occidentali, e nella totale solidarietà con un popolo così vigliaccamente colpito? Potremo dirle cioè senza essere sospettati di disfattismo e antiamericanismo, e anzi rivendicando il pieno interesse dell’Occidente a battersi ovunque, come non sempre è avvenuto, in difesa dei diritti umani e della libertà?
SE NON VOGLIAMO SMARRIRE LA NOSTRA UMANITÀ. Il filosofo ha innanzi tutto la responsabilità di conservare e trasmettere l’immenso patrimonio che la storia della filosofia ci ha tramandato fin dai presocratici, da oltre duemilacinquecento anni. Questo retaggio non deve essere considerato come una zavorra, un peso morto, ma come un tessuto vivente di quesiti e di dottrine. Questo primo compito della filosofia ha come scopo profondo quello di mantenere sempre sveglia la capacità di stupirsi. È nelle questioni che esulano dal discorso quotidiano che la filosofia ritrova nel suo immenso passato il gusto e il senso di ciò che c’è di serio e di fondamentale nella nostra vita (Paul Ricoeur).
8 novembre 2001.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Dopo il carnevale, la quaresima. Le elezioni sono il grande teatro della democrazia, una festa durante la quale è permesso, entro certi limiti, mascherarsi, recitare e declamare. Poi, quando cala il sipario, giunge, inesorabile, la quaresima del governare (Sergio Romano). Quando l’economia diventa una falsa scienza. Un’economia che inculchi l’adorazione del denaro, permettendo al forte di ammassare ricchezze a spese del debole, è una scienza falsa e triste. Sa di morte. La vera economia, al contrario, si batte per la giustizia sociale, promuove equamente il bene di tutti, compresi i più deboli, ed è indispensabile perché possa esserci una vita decente (Mahatma Ghandi). A coloro che cercano. Il Signore è con voi se voi siete con lui. Se lo cercate, si lascerà trovare (Libro delle Cronache 2). Sarà sempre presente. Chiamato o non chiamato Dio sarà sempre presente (Carl G. Jung, uno dei fondatori della psicanalisi, fece scrivere queste parole sulla porta della sua casa).
DI FRONTE AL DANARO LA LEZIONE DI SANT’AGOSTINO. Tra i doveri che gl’imponeva la sarcina episcopalis vi era anche l’amministrazione dei beni ecclesiastici, che Agostino non amò mai. Egli voleva che il suo animo fosse libero da ogni preoccupazione di cose temporali, per cui era disposto a rinunciare all’amministrazione dei possedimenti della Chiesa e a vivere dei contributi del popolo di Dio; ma i laici non accettarono mai questa proposta. Possidio nella Vita (24, 2-13) reca questa testimonianza: «Agostino non volle mai comprare case, poderi, ville; né mai si occupò di nuove costruzioni per evitare che vi si impigliasse il suo animo in quelle faccende. Tuttavia non proibiva che altri lo facesse, purché con moderazione». Per quanto riguarda i legati testamentari, il popolo si lamentava perché il suo vescovo aveva rifiutato lasciti a favore della Chiesa, ma Agostino chiarì nel Sermone 355, 4-5, il criterio a cui si atteneva in casi del genere: accettava i benefici soltanto se il testatore non aveva figli. Nel caso che ne avesse, Cristo doveva essere considerato come uno di essi e la Chiesa poteva ricevere in suo nome solo una parte dell’eredità. Agostino rifiutava qualsiasi legato da padri che avevano diseredato i figli, oppure se l’eredità avrebbe costituito un pericolo o un fastidio per la Chiesa: per questo motivo non accettò l’eredità di un certo Bonifacio, perché la Chiesa non diventasse proprietaria di navi. Agostino inoltre era pronto a restituire i beni a chi glieli aveva donati se questi, in un tempo successivo alla donazione, aveva avuto o adottato dei figli, agendo così non secondo il diritto del foro (iure fori), ma secondo quello del cielo (iure coeli). Avendo grande cura dei poveri, dei quali semper memor erat (Possidio 23, 1), per aiutarli attingeva dai possedimenti della Chiesa e dalle offerte dei fedeli. Egli non aveva risparmi, perché non riteneva degno di un vescovo mettere da parte denaro e allontanare da sé la mano del mendicante: non est enim episcopi servare aurum, et revocare a se mendicantis manum (Sermone 355, 5). Nei momenti di grave necessità non esitò a far spezzare e fondere i vasi sacri per soccorrere i bisognosi.
L’ANGOLO DELLA POESIA. Ti adoro devotamente, Dio che ti celi sotto queste apparenze. Dolce bimbo, sul tuo volto / una sacra immagine io posso rintracciare. / Dolce bimbo, una volta come te / il tuo creatore è giaciuto e ha pianto: ha pianto per me, per te, per tutti, / quando era un piccolo bambino. / Tu sempre vedi la sua immagine, / il volto celeste che ti sorride: / i sorrisi dei bambini sono i suoi sorrisi, / cielo e terra alla pace spingono. // Dolci sogni, formate un riparo / sopra la testa del mio bel bambino, / dolci sogni di dolci ruscelli / sotto lieti silenziosi raggi di luna (William Blake, Poesie, Roma 1976. Poeta e incisore inglese, Blake visse in estrema solitudine e povertà tra il 1757 e il 1831).
15 novembre 2001.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il cipiglio feroce. Le belle, più che le brutte, hanno talvolta il cipiglio feroce (Niccolò Tommaseo). La più alta felicità. La beatitudine è l’accesso a un punto di vista che unifica l’universo (Antoine de Saint-Exupéry). Accade solo tra persone intelligenti. Tra avversari intelligenti c’è una simpatia segreta, giacché tutti dobbiamo la nostra intelligenza e la nostra virtù alla virtù e all’intelligenza del nostro nemico (Nicolàs Gòmez Dàvila). Chi non ha conosciuto la povertà. Ero veramente assillato dal problema di unire il pranzo con la cena – problema secolare che ha afflitto e dovrebbe continuare ad affliggere molti intellettuali veri. La stessa povertà, quella che può essere vista soprattutto come incertezza nei mezzi di sostentamento, è un grande aiuto. Maturare il senso del proprio destino è possibile solo in una situazione di grande incertezza materiale (Franco Ferrarotti). Lui, padroni non ne cercava. Lui, padroni non ne cercava. Appena gli capitava di trovarne uno, subito si contraeva, aggressivo e guardingo, e lo controllava fino a scoprirgli una debolezza, una viltà, una menzogna (così Indro Montanelli descriveva un personaggio del racconto Giorno di festa, scritto a Tallin, in Estonia, nel 1938; ma in quello schizzo egli ritraeva se stesso. Montanelli, allora giovane ventisettenne, insegnava in quella sperduta città perché era stato espulso dall’albo dei giornalisti per indegnità politica. Aveva infatti rispedito al mittente la tessera del Partito Nazionale Fascista).
OGGI ALL’ITALIA È NECESSARIA UN’OPPOSIZIONE CHE CONTI. Stiamo correndo un gravissimo rischio. Il rischio è che, non riuscendo a imporre ai suoi (a tutti i suoi) una posizione netta sulla guerra, il centrosinistra si autoemargini definitivamente dal gioco politico. Insomma, il rischio è che il Paese si ritrovi per molti anni senza un’opposizione credibile. È una situazione che abbiamo conosciuto all’epoca della Guerra fredda. Anche allora erano le divisioni sulla politica internazionale a rendere «bloccato» il sistema politico. «Grazie di esistere» era ciò che i democristiani pensavano ogni giorno, senza dirlo, dei comunisti. Quando manca un’opposizione credibile i governi si rilassano e, consapevoli che nessuno potrà cacciarli via per molti anni a venire, cominciano a mal governare. Il governo Berlusconi è insediato da troppo poco tempo perché si possano fare seri bilanci. Però non sembra ingeneroso dire che, per ora, esso non brilla affatto. Ha fatto qualcosa di buono (fin qui, non molto), ha fatto errori, ha fatto anche cose sbagliate (come la gestione della faccenda delle rogatorie). I ministri e i sottosegretari vanno ciascuno per suo conto, alcuni portandosi bene e altri male. La gestione della maggioranza parlamentare lascia a desiderare: Soprattutto, il segno della svolta, annunciata in campagna elettorale, ancora non si vede. C’è il rischio che quando diventerà legittimo un bilancio, si scopra che, nonostante l’indubbia qualità di diversi ministri, l’azione del governo sia stata, nel complesso, deludente e mediocre. Così stando le cose, guai se il governo si convincerà che l’opposizione a causa delle sue difficoltà in materia di emergenza bellica, è ormai fuori gioco. L’Italia non si può permettere governi troppo sicuri di sé e dei propri successi elettorali futuri. Per questo, è necessario che l’opposizione «ritorni in sé», mettendo subito alla porta senza complimenti coloro che non sono disponibili per una posizione onestamente bipartisan sulla politica estera. Solo una condivisione totale delle scelte di politica estera in situazione di emergenza può dare all’opposizione l’autorità morale e la credibilità necessarie per opporsi con rigore alle scelte di politica interna del governo che essa ritenga dannose o sbagliate (Angelo Panebianco dal Corriere della Sera del 24 ottobre 2001).
L’ANGOLO DELLA POESIA. Gioia di bambino. «Non ho ancora un nome, / ho solo due giorni» / Come ti devo chiamare? / «Io sono felice, / Gioia è dunque il mio nome». / Dolce gioia tocchi a te! / Cara gioia! / Dolce gioia ti chiamo / e tu sorridi (William Blake, Poesie, Roma 1976).
22 novembre 2001.
LINEA RECTA BREVISSIMA. La cosa peggiore di don Abbondio. Don Abbondio non era un uomo malvagio, ma fiacco e timoroso. Non era certamente un pastore capace di rischiare la vita per difendere le sue pecore contro i lupi; ma era abbastanza istruito nella sua religione per spiegare come, dal momento che Dio ha creato i lupi, abbia riconosciuto ad essi anche il diritto di divorare di tanto in tanto qualche pecora (Ignazio Silone). Il talento teatrale del nostro Paese. L’Italia è fatta da sessanta milioni di attori e i peggiori non sono quelli che calcano le scene (Dal giornale Die Welt del 15 maggio 2001). A forza di tacere la verità agli altri e a noi stessi. Quando potremo dire tutta la verità, non la ricorderemo più (Leo Longanesi).
È BLASFEMO IL FANATISMO PSEUDO-RELIGIOSO: IL MARTIRE THOMAS MORE NON DESIDERÒ AFFATTO IL MARTIRIO. La conclusione a cui sono giunto nel mio lavoro Erasmo da Rotterdam – Ritratti di Thomas More mi pare possa essere riassunta in questi termini: Erasmo e More sono all’origine di quanto di meglio si sarebbe affermato nell’età moderna, soprattutto perché essi hanno conferito un vero e proprio primato alla coscienza personale. La tragica vicenda di More, d’altra parte, non può essere compresa se non si ricorda che la parola chiave delle lettere che egli scrisse nella prigionia è coscienza. Quel termine si legge sedici volte nella Lettera 200, quarantaquattro volte nella Lettera 206 e ricorre di continuo nella Lettera 213. More non pretende di giudicare la coscienza degli altri, neppure quella di coloro che lo condannano; ma per quanto riguarda se stesso, il suo intimo convincimento è espresso in questa frase indimenticabile: «Io non ho mai scaricato il peso della mia coscienza su qualcun altro, fosse anche l’uomo più santo che oggi conosca» (Ep. 206 Rogers).
È quindi con intima gioia che abbiamo visto Giovanni Paolo II celebrare in Thomas More il santo della coscienza per antonomasia. Nella Lettera apostolica per la proclamazione di san Tommaso Moro a patrono dei governanti e dei politici, pubblicata il 1° novembre del 2000, si legge testualmente: «Dalla vita e dal martirio di san Tommaso Moro scaturisce un messaggio che attraversa i secoli e parla agli uomini di tutti i tempi della dignità inalienabile della coscienza, nella quale risiede il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio, la cui voce risuona nella sua intimità».
Mi sia permesso chiudere queste mie note su Thomas More con una confidenza, come si fa tra amici. Secondo me vi è un apparente paradosso nella vicenda di questo santo amabilissimo, incarnazione e modello non di un qualsiasi umanesimo, più o meno cristianizzato, ma di un cristianesimo che volle essere, e fu davvero, totalmente e pienamente umano: in nessun momento, il martire Thomas More desiderò diventare martire. E di ciò egli ci ha dato una precisa motivazione religiosa in una lettera dal carcere: «Io non ho condotto una vita talmente esemplare da potermi senz’altro offrire alla morte. Forse Dio mi castigherebbe per una tale presunzione. Perciò non voglio essere io a farmi avanti; ma se sarà Dio stesso a chiamarmi, confido che, nella sua grande misericordia, non mancherà di darmi la grazia e la forza di cui avrò bisogno» (Ep. 207 Rogers). L’ex Cancelliere finì martire, ma ebbe l’umiltà, il buon gusto, l’intelligenza di non averlo voluto. Ed è anche per questo che la sua testimonianza ci tocca così da vicino, soprattutto in tempi in cui il fanatismo pseudoreligioso si trasforma in delitto contro l’umanità.
L’ANGOLO DELLA POESIA. No, non può essere mai. Posso vedere la pena di un altro / e non soffrire anch’io? / Posso vedere la sofferenza di un altro / e non recargli gentile sollievo? Posso vedere una lacrima che cade / e non sentire la mia parte di dolore? / Può un padre vedere suo figlio / che piange, e non riempirsi di dolore? No, non può mai essere, / non può essere mai. Come il piccolo uccello. Padre, come posso amarti / o amare di più qualcuno dei miei fratelli? / Ti amo come il piccolo uccello / che raccoglie briciole attorno all’uscio. (William Blake, Poesie, Roma 1976)
29 novembre 2001.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Infelici per colpa nostra. Nulla basta nulla a colui per il quale ciò che basta è poco. La libertà. Il frutto più grande del bastare a se stessi è la libertà. (Epicuro)
Quelli che chiamano bene il male. Guai a quanti chiamano bene il male e male il bene. Guai a quanti trasformano le tenebre in luce e la luce in tenebre (Libro di Isaia).
«…NON CHE TU SERVA A TE, MA A TUTTI». L’ARDENTE APPELLO DI SAVONAROLA. Nell’ampio panorama, tracciato da Franco Buzzi nel suo bel volume Teologia e cultura cristiana tra XV e XVI secolo (Genova 2000), un’attenzione particolare è opportunamente riservata a Nicolò Cusano, a Marsilio Ficino e a Girolamo Savonarola. Al frate domenicano viene finalmente restituita la dignità di riformatore cattolico, ma anche quella di profeta politico che Machiavelli intese contestargli, denigrando in assoluto il ruolo sociale del cristianesimo. Savonarola pose il problema delle diverse forme di governo con acuta sensibilità e rara concretezza, motivando il suo netto rifiuto della tirannia perché la morte della libertà cancella inevitabilmente la condizione prima che si richiede per costruire il bene comune. Ma anche laddove il tipo di governo dovrebbe escluderlo, il bene comune può essere in mille modi sacrificato da pretese personali, particolari interessi o privilegi. Per questo occorre somma vigilanza e conoscenza dei modi in cui si calpesta la giustizia e il bene di tutti. Nelle Prediche sopra Aggeo (Aggeo è uno dei profeti minori dell’Antico Testamento), ecco un passaggio del capitolo XIX che merita di essere conosciuto: «Io t’ho esortato al ben commune della tua città; dovete tutti essere amatori più del ben commune che del proprio… El commune non cerca che tu serva a te, ma a tutti… E però chi non ama questo ben commune non è vero cristiano… L’onor di Dio è che la vostra città viva in pace con Dio, con voi e col prossimo. Però bisogna che voi facciate una riforma che contenga questi effetti: che qui si viva in carità e ch’el bene commune d’ognuno sia amato da tutti».
I NUOVI CULTORI DEL MITO NIETZSCHE. Nella seconda metà degli anni ‘60 ebbe inizio l’edizione critica delle opere di Nietzsche, avviata dai filologi italiani Colli e Montinari presso l’editore De Gruyter di Berlino. A partire da allora si fece a gara nella cultura europea, e soprattutto in larghi settori della sinistra, a liberare il pensiero di Nietzsche da ogni rapporto con l’utilizzazione massiccia che di esso aveva fatto il nazionalsocialismo. Ma, grossolanità a parte, tipica del resto del mondo con cui qualsiasi ideologia si rapporta a un fenomeno culturale, è non solo lecito ma doveroso chiedersi se il nazismo non sarebbe divenuto ciò che fu senza taluni aspetti del pensiero niciano. Di queste cose, però l’ombrosa suscettibilità dei nuovi cultori del mito Nietzsche non vuol assolutamente sentir parlare. Si è così alimentato un atteggiamento di fervore acritico intorno a Nietzsche, per cui tutto ciò che in lui dovrebbe giustamente ripugnarci sarebbe da addebitare sempre e soltanto alle manipolazioni della sorella Elisabeth, come se Nietzsche non avesse pubblicato i suoi libri prima dell’ottenebramento mentale dell’ultimo decennio della sua vita.
In realtà tutte le volte che penso a Nietzsche, alla sua influenza straordinaria e straordinariamente ambigua, che non si limita alla filosofia ma penetra tutta quanta la vita spirituale e politica, non posso fare a meno di ricordare due sue autodefinizioni. La prima è nella Gaia scienza: «Io sono l’incontro del pazzo e del saggio». La seconda è in una lettera a Heinrich Köselitz, ribattezzato da Nietzsche col nome d’arte di Peter Gast: «Rifletta su come io, a partire dal 1876, sia stato per più riguardi, concernenti il corpo e l’anima, più un campo di battaglia che un uomo». Si dovrebbe, quindi, essere molto scrupolosi nel cogliere in un pensiero come quello di Nietzsche il succedersi, e più spesso l’intrecciarsi inestricabile, di posizioni non solo diverse, ma addirittura contraddittorie, sui temi che erano al centro del dibattito culturale nella seconda metà dell’Ottocento. Goethe, del resto, ci suggerisce un criterio di giudizio quanto mai calzante nel nostro caso, scrivendo nelle sue Massime: «Non si giunge mai tanto oltre come quando non si sa più dove si vada».
6 dicembre 2001.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il Potere che fa il Poeta. Un solo Potere fa il Poeta: l’Immaginazione, la Visione Divina. Ciò che Dio non è. Dio non è un diagramma matematico. Il grande codice dell’Arte. L’Antico e il Nuovo Testamento sono il più grande codice dell’Arte. La cisterna e la fontana. La cisterna trattiene, la fontana sgorga. Che cos’è la gioia, ogni gioia? Ogni gioia è un Amore. Verso dove. Io volgo il mio volto verso dove tutto il mio animo aspira. (William Blake)
La libertà dei giornalisti. La libertà dei giornalisti è la capacità di rimanere se stessi, senza suonare nella banda del padrone (Federico Orlando). Uccidere in nome di Allah. Che cosa fa chi uccide nel nome di Allah, credendo che la «verità» gli comandi di ammazzare i suoi simili perché «infedeli»? Chi attribuisce a Dio pensieri e comandi del genere è un idolatra fanatizzato, in cui la pressione sociale ossessiva, tipica di una società chiusa nella barbarie, eleva a potenza le sue pulsioni criminali (Levi Appulo).
LA RELIGIOSITÀ IN VERDI. Nel Seicento e nel Settecento era consuetudine che il melodramma finisse in letizia: il cosiddetto «lieto fine» accontentava tutti e sembrava particolarmente consono a una musica dolce ed elegante. Ma nell’Ottocento romantico passò di moda e i successori di Rossini preferirono chiudere le loro opere con scene altamente drammatiche: assassinio, pazzia, suicidio, disgrazia e disperazione. Diretto erede di costoro – che erano poi due italiani sopra tutti, Bellini e Donizetti – fu Giuseppe Verdi. Egli portò nella musica una innovazione fondamentale con accenti di passione e una forza di straordinaria immediatezza, e pian piano, seppe elaborare una significativa riforma anche in rapporto a quello che si usava chiamare «finale ultimo».
Molte opere di Verdi terminano anch’esse con la morte del protagonista o di qualche altro personaggio centrale, ma in un’aura di redenzione, di catarsi, di ritrovata umanità e religiosità. Fin dal 1933 Massimo Mila ha insistito sul disegno morale che anima le grandi opere verdiane: la persona che perde la propria dignità può riuscire a risalire la china, anche se poi non può sopravvivere, e lo dimostrano un buffone come Rigoletto e una cortigiana come Violetta. Né si dimentichi che la figlia di Rigoletto muore cantando «Lassù in cielo, vicino alla madre…/ in eterno per voi pregherò». Il discorso potrebbe continuare a lungo con I lombardi alla prima crociata («Te lodiamo, gran Dio di vittoria»), Giovanna d’Arco («S’apre il ciel…discende la Pia»), Simon Boccanegra («Gran Dio, li benedici, pietoso dall’Empiro»), Aida («O terra addio…a noi si schiude il ciel»). Tre altri casi meritano una menzione speciale, oltre quel capolavoro che è la Messa da requiem. Il primo è Stiffelio, in cui il sacerdote protagonista perdona la moglie fedifraga leggendo l’episodio della Maddalena. Il secondo è Don Carlos, opera della maturità verdiana, in cui una «Voce celeste» parla ai poveri condannati dell’Inquisizione e il defunto Carlo V interviene in modo soprannaturale a sottrarre il nipote alla vendetta. Il terzo è La forza del destino, di cui ci sono due versioni: nell’una don Alvaro si uccide, mentre nell’altra – quella definitiva – il personaggio viene rasserenato dal Padre Guardiano e partecipa con lui e con l’amata Leonora, morente, al sublime terzetto «Lieta possa io precederti / alla promessa terra».
13 dicembre 2001.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il mistero. Il mistero è meno inquietante del fatuo tentativo di eliminarlo attraverso spiegazioni stupide. La filosofia onesta non pretende di spiegare il mistero, ma cerca di circoscriverlo (Nicolàs Gòmez Dàvila).
«SE SIAMO RICCHI, PERCHÉ’ NON SIAMO FELICI?». Un importante studio di Mihalyi Csikszentmihalyi, apparso nel Bollettino di psicologia applicata (n. 232, pp. 3-11, anno 2000), reca un titolo estremamente significativo: «Se siamo ricchi, perché non siamo felici?». L’interrogativo costituisce, si può ben dire, un capitolo di filosofia morale, e molte cose vere e profonde sono state dette sull’argomento, ma qui la risposta è di ordine socioculturale. Ecco alcuni brani particolarmente significativi.
Gli abitanti dei più ricchi Paesi industrializzati d’Occidente vivono un periodo di prosperità senza precedenti, in condizioni che le vecchie generazioni avrebbero considerato un lusso e un privilegio e con una durata della vita quasi doppia di quella dei nonni. Eppure, malgrado tutti i miglioramenti nelle condizioni materiali di vita, non sembra proprio che la gente sia oggi molto più soddisfatta della propria esistenza… Le statistiche nazionali degli Stati Uniti sulla patologia sociale ci danno la prova indiretta della nostra infelicità: i dati, infatti, mostrano il raddoppio – o addirittura la triplicazione – dei tassi di criminalità, divorzi e malattie psicosomatiche a partire dalla metà del Novecento. Se il benessere materiale porta la felicità, perché né la soluzione capitalistica né quella socialista sembrano funzionare? Perché l’equipaggio dell’ammiraglia del capitalismo affluente è sempre più dipendente da droghe per dormire, per svegliarsi, mantenere la linea, sfuggire alla noia e alla depressione? Perché suicidi e solitudine angosciosa costituiscono un problema terribile per la Svezia, il Paese che ha applicato il meglio dei principi socialisti per garantire alla popolazione la sicurezza materiale? In realtà è dimostrato che il rapporto fra ricchezza e felicità è, nel migliore dei casi, assai tenue e ci sono varie ragioni che spiegano la scarsa correlazione tra l’una e l’altra. In primo luogo la crescente disparità nella distribuzione delle ricchezze fa sentire povero anche chi è relativamente benestante; questa deprivazione è relativa, ma è fortemente esacerbata da un deficit di carattere culturale, perché mancano quei valori alternativi che possano compensare la gerarchia a somma zero fondata esclusivamente sul denaro. Vi sono poi anche ragioni psicologiche: se le aspettative sono crescenti, pochi sono soddisfatti a lungo di quello che hanno raggiunto e, via via che si investe più energia psichica per arricchirsi, ne resta sempre meno per conseguire altre mete necessarie per aspirare ad una vita felice.
UNO SPECCHIO DELLA REALTÀ, NON UN FUOCO D’ARTIFICIO. Quando un giornale o una rete televisiva commissiona un sondaggio, l’obiettivo dichiarato è sempre lo stesso: disporre di un’informazione oggettiva a supporto dei temi trattati. Poi, però, la logica che prevale è ben altra: i risultati dell’inchiesta vengono utilizzati per enfatizzare la notizia, per lanciare presunti allarmi sociali, per creare mostri su cui convogliare paure collettive. E l’informazione oggettiva va spesso in soffitta. In alcuni casi è davvero avvilente assistere all’uso spregiudicato che viene fatto dei sondaggi, leggere titoli che non hanno niente a che vedere con l’esito reale della ricerca, sentire interpretazioni che trovano origine nella sola volontà del conduttore di creare il caso. Non si può utilizzare il sondaggio come un surrogato dell’inchiesta giornalistica. I sondaggi sono uno specchio della realtà, non possono essere sempre un fuoco d’artificio (Nando Pagnoncelli, Opinioni in percentuale – I sondaggi tra politica e informazione, Bari 2001).
L’ANGOLO DELLA POESIA. Notte. Il sole sta scendendo a ovest / risplende la stella della sera, / gli uccelli sono zitti nel loro nido / e io devo cercare il mio. / La luna, come un fiore / nell’alto pergolato del cielo, / con silenziosa gioia / siede e sorride alla notte (William Blake, Poesie, Roma 1976).
20 dicembre 2001.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Per essere ascoltati. Capita di dover tacere per essere ascoltati (Stanislav J. Lec). Una verità profonda. Tutto ciò che sale converge (Teilhard de Chardin). Segno di debolezza. Le persone deboli non possono essere sincere (François de La Rochefoucauld). L’elogio come autoelogio. Chi ti loda si incensa (Camillo Sbarbaro). Si smaschera da sé. L’incompetenza si manifesta con l’uso di troppe parole (Erza Pound). Il cambio delle stagioni. Essere interessati al cambio delle stagioni è una condizione mentale più felice dell’essere disperatamente innamorati della primavera (George Santayana). Merce rara gli uomini liberi. Non è la libertà che manca, mancano gli uomini liberi (Leo Longanesi).
NATALE, IL VERBO DI DIO SI FA UOMO. Come dire in breve che cosa ha significato e che cosa significa oggi per l’umanità la venuta al mondo di Gesù Cristo? Come non interrogarci su di lui e non chiedergli anche noi: «Ma tu chi sei?». Quando posso rubare un po’ di pagine all’editore non rinuncio mai a due appendici, che costano molta fatica ma sono di somma utilità: l’indice dei nomi e l’indice dei concetti. Ebbene, ecco l’indice dei concetti che alla voce «Gesù Cristo» si legge nel mio volumetto A Diogneto – Alle sorgenti dell’esistenza cristiana, pubblicato dalla Editrice La Scuola (Brescia 1997, IV ed.).
Il suo è annuncio di gioia e di libertà interiore – Critica il formalismo religioso in ogni suo aspetto – Non accetta che l’ossequio alla lettera di un comando giunga al punto di uccidere lo spirito da cui esso è stato originato – Rifiuta in blocco i tabù alimentari – Non condanna l’ascesi, ma la subordina all’amore – Non è un filosofo, né un capo politico – Nel Discorso della Montagna ci ha dato il manifesto della libertà cristiana – Non esige cose impossibili per disporre alla fede mediante la disperazione – È l’inaudito: il Principio, il Logos di Dio che si è fatto carne – Essendo il dono che è oltre ogni attesa, realizza il dolce scambio tra finito e Infinito – Non si può separare il messaggio di Gesù Cristo dalla sua persona – Per ogni uomo è il maestro interiore e l’uomo non conosce se stesso senza di lui.
L’ANGOLO DELLA POESIA. Le gemme dell’Animo Umano. Queste sono le gemme dell’Animo Umano, / i rubini e le perle di un occhio che soffre per amore, / l’infinito oro di un cuore tormentato, / il gemito del martire e il lamento dell’innamorato (William Blake, Poesie, Roma 1976).
27 dicembre 2001.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Indistruttibile burocrazia. Dicasterica peste arciplebea, / che ci rode, ci guasta, ci tormenta / e ci dà della polvere negli occhi, / grazie ai governi degli scarabocchi (Giuseppe Giusti). Gli presentano il progetto per lo snellimento della burocrazia. Ringrazia vivamente. Deplora l’assenza del modulo H. Conclude che passerà il progetto, per un sollecito esame all’ufficio competente, che sta creando (Ennio Flaiano). Quanto più l’inondazione si allarga, tanto più torbida e tanto meno profonda diventa l’acqua. La rivoluzione evapora e resta solo il limo di una nuova burocrazia. I ceppi dell’umanità tormentata sono fatti di carta bollata (Franz Kafka). Duemila anni fa / Timbri e Teutoni / invasero l’Italia. / Mario fermò i Teutoni / ma gli sfuggirono / i Timbri / che arrivarono / a Roma (Gino Patroni).
L’ORIZZONTE ENTRO CUI CI MUOVIAMO SI MUOVE CON NOI. La mobilità storica dell’esistenza umana è proprio costituita dal fatto che essa non è rigidamente legata a un punto di vista, e quindi non ha neanche un orizzonte davvero conchiuso. L’orizzonte è invece qualcosa entro cui noi ci muoviamo e che si muove con noi. Per chi si muove, gli orizzonti si spostano. Allo stesso modo, anche l’orizzonte del passato, di cui ogni vita umana vive e che è presente nella forma dei dati storici trasmessi, è sempre in movimento. Non è, quindi, la coscienza storica a mettere in moto l’orizzonte; in essa, semplicemente, questo movimento diventa consapevole (Georg Gadamer, Verità e metodo, Milano 2000).
L’ANGOLO DELLA POESIA. E tu cosa dirai? Vieni, fratello! / Andiamo dal nostro Dio. / E quando Gli saremo davanti / io dirò: / «Signore, io non odio, / io sono odiato. / Io non frusto nessuno, / vengo frustato. / Io non mi beffo della gente, / la mia gente viene beffeggiata». / E tu, fratello, cosa dirai? (Joseph Seaman Cotter, poeta afroamericano, nato ad Atlanta nel 1943, apostolo della non violenza).
La rubrica “Detti e contraddetti” è stata pubblicata sul Giornale di Brescia con cadenza settimanale dal 5 gennaio 1988 al 25 gennaio 2007.