4 luglio 2003.
Linea recta brevissima. Ciò che l’Impero non capisce. L’obbedienza riluttante delle province conquistate in genere costa più di quanto vale (Thomas Babington). Il fascino del colore. Il colore è un mezzo per esercitare sull’anima un’influenza diretta (Vasilij Kandinskij). Una smania molto pericolosa. Generalmente, negli Stati meno se ne sa, più s’ha la smania di comandare (Massimo D’Azeglio). Quando la moderazione è marchio di qualità. Moderazione è termine ambiguo se lo si lascia nella sua genericità; ma, se lo si esplicita nelle sue componenti essenziali, di rispetto delle persone, di ricerca del dialogo costruttivo, di realismo di progetti e programmi, moderazione dovrebbe essere il marchio di qualità di un nuovo costume politico (Francesco Paolo Casavola).
La chiave risolutiva del nostro destino. Se nel guazzabuglio del cuore umano non fermentassero le passioni, non ci sarebbe bisogno di una morale; il persistere, però, dell’irrazionalità può essere uno stimolo per l’uomo di buona volontà. La legge morale parla nell’interiorità della coscienza, ma essa non è una creazione umana, né implica la garanzia del suo attuarsi in un mondo in cui spesso prevale il contrario di quello che essa prescrive. Come dice Kant nella Fondazione della metafisica dei costumi l’uomo è membro, non legislatore nel Regno dei fini. L’uomo non ha il potere di creare la legge, o di garantirne il successo. Solo se il mondo e l’uomo derivano da un Principio razionale assoluto, da una «Causa della natura, diversa dalla natura», per esprimerci ancora con l’Autore della Critica della Ragion pratica, e se la vita umana ha un senso e un fine, che trascendano i fini particolari delle singole azioni, per sé presi, la morale ha un fondamento. La morale è la chiave risolutiva del nostro destino, ma anche la morale ha bisogno di Dio.
Le attitudini di segno opposto. Le qualità politiche sono diverse da quelle che determinano le scelte nelle altre occupazioni: agricole, industriali, commerciali, professionali, scolastiche, artistiche, di lavoro o impiego dipendente; ma in ogni branca la palma spetta a coloro che hanno meglio sviluppate le qualità proprie di quella branca. Tra coloro i quali posseggono le attitudini politiche ve n’è di quelli che hanno accentuate le doti moralmente neutre o negative come l’astuzia, la furberia, l’intrigo, la volontà di sopravanzare i concorrenti; e ve n’è che sono invece forniti di doti moralmente più alte: la devozione alla cosa pubblica, l’amore della patria, la giusta ambizione di lasciare ai figli un nome onorato, lo spirito di sacrificio, la capacità di comando. Questo brano è tratto dalle Prediche inutili, e precisamente dall’ultima di esse, con cui Luigi Einaudi tornò all’attività pubblicistica dopo i sette anni di Presidenza della Repubblica. Quegli scritti furono pubblicati nel 1959, ma l’ultima edizione risale all’ormai lontano 1974. Sarebbe un bene per tutti se, attraverso la ristampa delle Prediche inutili e de Lo scrittoio del Presidente, gli italiani tornassero ad ascoltare la parola dello statista liberale.
FEDE E POLITICA IN DE GASPERI. Otto giorni prima di chiudere la sua vita terrena, De Gasperi scrisse in una lettera all’onorevole Oscar Luigi Scalfaro uno di quei pensieri che possono essere considerati a giusto titolo un ritratto della sua anima e della sua vita, ma anche un lascito testamentario di altissimo valore. Ecco le sue parole: Quello che ci dobbiamo soprattutto trasmettere l’uno all’altro è il senso del servizio del prossimo come ce l’ha indicato il Signore, tradotto e attuato nelle forme più larghe della solidarietà umana, senza menar vanto dell’ispirazione profonda che ci muove e in modo che l’eloquenza dei fatti tradisca la sorgente del nostro umanitarismo e della nostra socialità. Precedentemente, in altra occasione, parlando ad un convegno di giovani all’Ateneo di studi sociali della Democrazia cristiana, De Gasperi espresse lo stesso intimo convincimento e delineò lo stile del politico cristiano in questi termini: Dirsi cristiani nel settore dell’attività politica non significa avere il diritto di menar vanto di privilegi in confronto di altri, ma implica il dovere di sentirsi vincolati in modo più particolare da un profondo senso di fraternità civica, di moralità e di giustizia verso i più deboli e i più poveri.
10 luglio 2003.
Linea recta brevissima. In questo consiste l’onore. Recita bene la tua parte, in questo consiste l’onore (Alexander Pope). Mio marito non ebbe niente a che fare col crollo della banca: / era solo cassiere. La colpa fu del presidente, Thomas Rhodes, / e del suo fatuo figliolo senza scrupoli. / Però mio marito in prigione fu spedito / e io restai sola coi figli, a nutrirli e vestirli e istruirli. / Lo feci e li avviai nel mondo tutti lustri e robusti, / e questo grazie alla saggezza di un poeta, Pope: / «Recita bene la tua parte, in questo consiste l’onore» (Edgar Lee Masters).
Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia a Te, o Dio. «Pregare e pensare al senso della vita» scriveva l’11 giugno 1916 nei suoi Notebooks 1914-1916 Ludwig Wittgenstein, rivendicando con quella lapidaria espressione la necessità della preghiera per ogni vita che intenda farsi e rimanere umana, senza escludersi dalla ricerca e dalla realizzazione del significato. Al di là dell’adeguatezza o meno dei contenuti in cui storicamente si è espressa la dimensione religiosa dell’uomo nel corso dei secoli, essa è in ogni tempo qualcosa di profondo e di alto. L’uomo prega perché pensa, ha il presentimento dell’Infinito di cui avverte la vicinanza e l’inesauribilità, il suo «essere nascosto». L’uomo prega perché ha lo stupore di esistere e non cesserà mai di chiedersi, finché non perderà la sua umanità, qual è il volto del Padre di tutti gli esseri, qual è la sua volontà, che cosa Egli ci autorizza a credere e a sperare, qual è il suo disegno sul mondo e su quel misterioso intreccio di male e bene, di sofferenza immeritate, di gioia e bellezza che caratterizza la nostra esistenza. E ancora e sempre, la coscienza della sua finitezza fa sì che l’uomo chieda al Signore della vita non solo la forza per fare la sua volontà, ma anche la luce che rischiari l’ultimo traguardo, dando un senso alla morte e alla prospettiva di un’esistenza oltre l’orizzonte terreno. La preghiera è necessaria all’uomo, di una necessità analoga a quella che per il corpo è la fame o la sete. Il Salmo 42 paragona il desiderio spirituale dell’uomo – che è reale e non meno tormentoso, anche quando è un’aspirazione inconscia – al bramire della cerva assetata: «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a Te, o Dio. L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: quando verrò e vedrò il volto di Dio?». E il Salmo 63: «O Dio, fin dall’aurora ti cerco, di Te ha sete la mia anima. A Te anela la mia carne come terra deserta, arida, senz’acqua».
Poesia del Novecento. Non sono che un poeta. Sia pace per le aurore che verranno… / pace per tutto il grano che deve nascere, / pace per ogni amore, / pace per tutti vivi, / pace per tutte le terre e per le acque. / E ora qui vi saluto, / torno alla mia casa, ai miei sogni, / ritorno nella Patagonia, / dove spruzza ghiaccio l’oceano. // Non sono che un poeta e vi amo tutti, / e vago per il mondo che amo: / nella mia patria i minatori / conoscono le carceri e i militari / danno ordini ai giudici. / Ma io amo anche le radici / del mio piccolo gelido paese. / Se dovessi morire mille volte, / là vorrei morire: / se dovessi mille volte nascere, / là vorrei nascere… // Io non voglio che il sangue / torni a inzuppare il pane… / Io qui non vengo a risolvere nulla. / Sono venuto solo per cantare / e per farti cantare con me (Pablo Neruda, Que despierte el leñador, trad. di Salvatore Quasimodo, in Poesie, Torino 1965).
17 luglio 2003.
Linea recta brevissima. Che cosa è l’uomo? Non è tanto la propria origine che egli insegue, quanto il proprio destino. Il modo con cui l’uomo è diventato ciò che è non spiega né la sua situazione immediata, né la sua destinazione ultima. Anche il fatto che l’umano derivi dal non umano è un problema umano. L’uomo è un essere specifico che vuol comprendere la sua unicità (Levi Appulo). L’approdo. Ora vediamo in maniera confusa, come in uno specchio, ma allora vedremo faccia a faccia (San Paolo). Noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo, però, che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo come egli è (San Giovanni).
Se la preghiera scompare… L’uomo entra in grave pericolo quando nella sua vita non vi sia più posto per la preghiera. Per pregare occorre infatti un movimento opposto a quello della dispersione nell’esteriorità, all’indifferenza dell’uomo sazio, alla banalità di un’esistenza omologata. Oggi più che mai l’uomo ha bisogno di pregare per raccogliere le sue energie, per rinnovarsi, per rientrare in se stesso e aprirsi a Dio, per dare sostegno e rettitudine al suo proposito di servire i fratelli. Occorre sostare silenziosamente davanti alla santità di Dio, così come in culture ed epoche diverse essa si lascia interpellare attraverso la preghiera. Ma questo fare silenzio dentro di noi e attorno a noi per parlare a Dio esige uno sforzo e, dunque, una decisione. La preghiera, infatti, non è soltanto un’espressione del nostro intimo, ma è anche un continuo superamento di noi stessi, di ciò che in noi è disordine, illusoria autosufficienza, pigrizia, colpa.
Il vecchio Papa, un uomo da ascoltare. «Hai visto? Non è più lui. Il Papa non è più lui». Mia madre, che ha un’inclinazione al giallo, alle macchinazioni, ai segreti non svelati ne è convinta. Inutile controbattere. È lui, mamma, è lui e non può essere che lui. Con quella ostinazione che gli fa superare i limiti della macchina umana, con quell’accanimento, quella severità, quelle parole pesanti come massi, quello sguardo tagliente, quella fatica immane, quella leggendaria sopportazione, quell’aria da leone, quella bella faccia da attore di mille Oscar, quella solidità che gli deriva dalle sue certezze, quella testardaggine più forte di mille acciacchi, quella voce che sa ancora pesare sulle parole importanti, quella voglia di sorridere quando c’è festa intorno a lui. Ed è lui che ancora una volta, la centesima, trascina con i denti il suo corpo in giro per il mondo. Mentre la sua anima lo precede, lo sorvola, lo sostiene. E la sua autorevolezza, la sua certezza attrae e respinge, al punto che ti augureresti di non incrociare i suoi occhi che sono un giudizio universale anticipato. È lui che pur stremato, non smette di ripetere che «la religione non è e non può essere un pretesto per la violenza» e che «i credenti di tutte le religioni, insieme agli uomini di buona volontà, bandendo ogni forma d’intolleranza e discriminazione, sono chiamati a costruire la pace». È lui il profeta che sa perché ha visto mille apocalissi, partendo dai regimi che si sono spartiti la sua terra, mille cilici che in altrettanti luoghi del mondo oltraggiano la dignità dell’uomo, mille piaghe di violenza che hanno segnato anche il suo corpo. In prima pagina ogni sabato su La Stampa si possono leggere osservazioni acute della nostra più celebre cantante, Mina. Ho qui riportato quelle del 7 giugno 2003.
Dolce sentire (briciole di poesia). Io non ho dove volger lo sguardo all’infuori di te (Sofocle, Aiace). Di te abbi cura, amore mio, anch’io / ne avrò di me, per amor tuo (William Shakespeare, Sonetto XXII). Guarda, ora sorride, / tende le braccia a salutare il padre, / e dentro i suoi spalanca gli occhi azzurri, / è quasi un frullo d’ali la sua gioia. / Potrebbero invidiarti queste gioie / i cherubini che non hanno figli (Lord Byron, Caino, Atto III). Che altro è gioia se non diffonder gioia (Lord Byron, ibid. Atto I). Il paradiso, possiamo noi crearne uno? / Qui o altrove, dove tu vorrai, / dove tu sei (Lord Byron, ibid. Atto III).
24 luglio 2003.
Linea recta brevissima. Appello al coraggio. Vivete da uomini forti / e forti siano i vostri petti nell’opporsi a cose avverse (Orazio). Ci son cose di cui non si deve diventare complici. Posso aver fede in te senz’esser empio? (Lord Byron). Il simbolo. Il simbolo è la rivelazione vivida e istantanea dell’imperscrutabile (Johann Wolfgang Goethe).
L’uomo, indigens Deo è nello stesso tempo capax Dei. Nella lunga esplorazione dei testi di preghiera dell’umanità mi hanno sempre procurato una crisi di rigetto quelli che mi sono apparsi affetti da masochismo, da ostilità verso l’uomo. Vizio questo che aduggia non poche pagine di autori che, pur essendo santi e mistici, hanno pagato un prezzo esorbitante a quei canoni di oratoria sacra e a una certa «teologia della tetraggine» che li spingevano a ritenere direttamente proporzionali il disprezzo della creatura e la celebrazione della maestà del Creatore. La preghiera autentica, invece, coniuga inseparabilmente, come ha ben visto Pascal, il senso della miseria dell’uomo e il senso della sua grandezza. Bisogna unire il messaggio del Salmo 50, il Salmo dell’autoaccusa e del pentimento, il Miserere, e quello del Salmo 8 («O Jahwh, nostro Signore, / che cosa è mai l’uomo perché te ne ricordi, / l’essere umano perché te ne curi? / Eppure l’hai fatto poco meno di un dio, / l’hai coronato di gloria e di magnificenza») in cui l’umanesimo cristiano si è sempre riconosciuto. Bisogna insomma stringere in unità le due espressioni con cui Agostino definisce dialetticamente la condizione umana: homo indigens Deo, e dunque strutturalmente bisognoso di lui; homo capax Dei, e dunque soggetto di un’incomparabile dignità che deve rendere preziosa ogni persona ai suoi stessi occhi. Più semplicemente l’Apocalisse (3, 20), nel giro di poche frasi e di una sola immagine, esprime nel modo più forte e toccante la discrezione di Dio dinanzi alla libertà dell’uomo e la libertà dell’uomo quale ragione profonda della sua grandezza: «Ecco – dice il Signore – io sto all’uscio e busso. Se uno ascolta la mia voce e apre l’uscio, io entrerò da lui».
Questa folla compattamente ipertelefonante… In giro per qualche ora in una città di notevole estensione e multietnicamente popolata, con traffico urbano dei più intricati, ho osservato un po’ la gente, passatempo che non dispiaceva neppure a Leonardo. Quasi tutti i camminanti incontrati, soli o in compagnia, lungo i marciapiedi e negli attraversamenti, avevano applicato all’orecchio il telefonino e procedevano con aria assorta, in un ascolto da momento religioso, oppure con la bocca sgangherata da risate, cupezze ed esclamazioni. Ho dato un’occhiata agli automobilisti. Tutti parevano amputati di almeno una mano: una impugnava lo sterzo e l’altra dov’era? La mano sinistra la si vedeva attaccata all’orecchio, con dentro qualcosa… Non occorre un lungo ragionamento per concludere che siamo di fronte – vista così, passeggiando, in un suo gesto ormai fisso, ineluttabile – ad una umanità avviata speditamente a diventare demente. Questa totalità di folla compattamente ipertelefonante, sospesa a una foresta di trilli, è sintomo preciso di demenza collettiva in crescendo. Un Alzheimer pandemico è in marcia. Alla lunga, si sa, il telefonino esplode nella testa (Guido Ceronetti su La Stampa del 22 maggio 2003).
Poesie del Novecento. Quanto più puoi. Farla non puoi, la vita / come vorresti? Almeno questo tenta / quanto più puoi: non la svilire troppo / nell’assiduo contatto della gente, / nell’assiduo gestire e nelle ciance. // Non la svilire a furia di esporla / alla dissennatezza quotidiana / di commerci e rapporti, / sin che divenga una straniera uggiosa. Voci. Voci ideali e care / di quelli che morirono, di quelli / che per noi sono persi… / Talora esse ci parlano nei sogni… / Col loro suono un attimo ritornano / come musica, a notte, che lontanando muore. (Costantino Kavafis, 53 poesie, Milano 1996. Kavafis nacque ad Alessandria d’Egitto nel 1863 da genitori greci, originari di Istambul. Morto nel 1933, Kavafis è uno dei maggiori rappresentanti della letteratura neoellenica e del decadentismo europeo).
31 luglio 2003.
Linea recta brevissima. Il filo e la stoffa. Il dolore è il filo con cui è tessuta la stoffa della gioia (Henri De Lubac). Nella passione secondo Luca due perle preziose. L’evangelista medico senza elidere la tensione delle ultime ore terrene del Cristo, introduce uno squarcio di luce folgorante. Non solo perché Gesù compie, proprio sulla croce, un ultimo atto d’amore attraverso la promessa rivolta al malfattore che gli sta accanto: «Oggi sarai con me in paradiso». Ma anche perché le sue ultime parole sono la citazione di un salmo ben diverso dal 22: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». È il salmo 31, un canto di fiducia: «Gesù, gridando a gran voce, disse: Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito. Detto questo, spirò» (Gianfranco Ravasi).
Preghiera e poesia, un rapporto singolarissimo. Mi ha sempre colpito il rapporto che hanno tra loro la poesia e la preghiera e credo che uno dei maggiori poeti inglesi, Gerard M. Hopkins, in una lettera del 22 dicembre 1887, abbia pienamente colto nel segno scrivendo: «Le migliori preghiere sono scritte dai poeti, anche se in altre composizioni essi mescolano con il buono una forte dose di insensatezza e qualche tratto di ribellione». Si capisce allora perché alle preghiere poetiche, alle «poesie oranti» – dagli inni siriaci a quelli latini del nostro Medioevo, dalle liriche di John Donne a quelle di Rainer Maria Rilke e di tanti altri poeti dell’Ottocento e del Novecento – si comincia a dedicare un’attenzione assai maggiore che nel passato. Di più: si dovrebbero articolare in distinti versetti anche le preghiere in prosa, perché se ne possa meglio evidenziare il ritmo, l’immanente poeticità. Né si deve tacere che le vette più alte della preghiera sono state raggiunte da autori – si pensi a David, ad Agostino, a Tommaso d’Aquino, ad alcuni mistici mussulmani, ma anche a Kierkegaard e a Newman – che erano anche poeti, e in grado eminente.
Poesie del Novecento. I miei sogni. I miei sogni sono lucciole / perle di un animo ardente. / Nelle tenebre calme della notte / lampeggiano in frammenti di luce. Come un raggio di sole. Che il mio amore, / come un raggio di sole, / ti pervada e ti doni / la libertà della luce. (Rabindranath Tagore, 58 poesie, Milano 1998. Tagore nacque a Calcutta nel 1861 e vi morì nel 1941. Nel 1913 ricevette il Nobel per la letteratura)
7 agosto 2003.
Linea recta brevissima. C’è miracolo e miracolo. Un uomo attraversò terre e mari per verificare di persona la fama straordinaria di un grande maestro. «Che miracolo ha operato il vostro maestro?», chiese a un discepolo. Egli rispose: «C’è miracolo e miracolo. Nel tuo paese è considerato un miracolo che Dio faccia la volontà di qualcuno. Da noi, invece, è considerato un miracolo che qualcuno faccia la volontà di Dio» (Detti dei Padri del deserto). Carnale e spirituale insieme. L’amore carnale è la materia di un sacramento. La divisione dell’amore in un amore cosiddetto carnale e in un altro spirituale è discutibile. Non ci dovrebbe mai essere un amore puramente carnale, mai un amore puramente spirituale. Ognuno di essi contiene sempre qualcosa d’altro. Noi non siamo puro spirito, né pura materia e forse gli angeli ci invidiano la perpetua fusione dei due elementi (Heinrich Böll).
La Oratio de hominis dignitate di Pico. Uno dei testi mirabili dell’umanesimo cristiano è l’Oratio de hominis dignitate di Giovanni Pico della Mirandola, al cui centro sta l’idea dell’uomo come il solo esistente che si fa attraverso le sue scelte tra possibilità diverse e, spesso, opposte. Per incontrare il più amabile dei nostri umanisti occorre leggere la monografia che Henri de Lubac gli ha consacrato, L’alba incompiuta del Rinascimento: Pico della Mirandola (Milano 1994). Rileggiamo insieme la celeberrima pagina di Pico sulla natura e il compito dell’uomo nel mondo. Giunto al termine della creazione, nacque nell’Artefice il desiderio di formare un essere che fosse in grado di conoscere le ragioni dell’opera sua e di amarla per la sua bellezza. Ma tra gli archetipi non ve n’era nessuno sul cui modello la nuova prole potesse venir creata, né vi era più nel tesoro alcunché che potesse venir dato al nuovo figlio, né vi era ancora qualche luogo disponibile in tutto l’orbe che potesse venir assegnato al contemplatore dell’universo. Tutto era già occupato, perché erano stati assegnati i loro posti sia agli esseri dell’ordine superiore, sia a quelli dell’ordine medio, sia a quelli dell’inferiore… Formò dunque l’uomo secondo un’immagine comune e, collocatolo nel bel mezzo del mondo, gli parlò su questo tono: «A te, Adamo, non assegnammo né un luogo determinato, né un aspetto particolare, né un tuo patrimonio esclusivo, affinché quel luogo, quell’aspetto, quel patrimonio che tu ti sceglierai, secondo il tuo desiderio e la tua volontà, tu possa conservarlo. La natura determinata degli altri esseri è retta dalle leggi da noi stabilite. Tu, non costretto invece da nessun limite, te lo porrai secondo la libera volontà che io ti conferisco»… Gli animali nascono portando con sé dal seno della madre ciò che devono avere; gli spiriti superiori, fin dall’inizio, o poco dopo, sono quello che rimarranno per tutta l’eternità. All’uomo, invece, il padre, quando nasce, conferisce tutti i semi e tutti i germi di ogni genere di vita. Quelli che egli coltiverà si svilupperanno e daranno frutti in lui.
Una suggestione di Lacan e la risposta di Baudelaire sul perché della preghiera. In uno dei suoi seminari Jacques Lacan, cercando di individuare la natura profonda della poesia, perveniva a queste conclusioni: «Si ha poesia ogni volta che uno scrittore c’introduce in un mondo diverso dal nostro, dandoci la presenza di un altro… La poesia è creazione di un soggetto che assume un nuovo ordine di relazione simbolica con il mondo. La poesia ci induce in una nuova dimensione dell’esperienza» (Le Séminaire III, Paris 1981, p. 91). Ebbene, si provi a sostituire il termine «poesia» con «preghiera» e ci si accorgerà che il testo acquista persino una nuova e più convincente validità. Tutto vero. Ma se dovessi scegliere risposte ancora più stringenti e profonde all’interrogativo sulla natura e sul perché della preghiera, è ancora ai poeti che dovrei ricorrere. Mi riferisco in particolare a due di essi, a Charles Baudelaire e a Boris Pasternak. «E noi siamo in preda a una medesima / trepidante dedizione al mistero», scrive l’autore del Dottor Zivago. E l’autore dei Fiori del male: «Veramente, Signore, la miglior prova / che possiamo dare della nostra dignità / è questo ardente singhiozzo che rimbalza, d’età in età, / per venire a infrangersi ai confini della tua eternità» (Les Phares da Les Fleurs du Mal).
14 agosto 2003.
Linea recta brevissima. I grandi e i loro ammiratori. Che certi uomini autenticamente grandi ci irritino è cosa che dobbiamo ai loro ammiratori. D’altra parte nessuno è del tutto innocente riguardo agli ammiratori che conquista. Perché parlo di Dio? Non parlo di Dio per convertire qualcuno, ma perché è l’unico tema di cui valga la pena parlare. In che senso un valore è relativo a un’epoca? Il fatto che ogni valore sia relativo a un’epoca non implica il relativismo dei valori. Il valore è relativo a un’epoca nel senso che essa lo scopre, non perché valga soltanto per essa. La meravigliosa risonanza. I grandi scrittori sono affratellati dalla maestosa risonanza dei loro testi. Accade troppo spesso, purtroppo. Il popolo non elegge chi lo cura, ma chi lo droga. La lucidità di coscienza. La lucidità di coscienza è privilegio di coloro che sono privi della stoltezza necessaria alle opinioni dominanti. (Nicolas Gòmez Dàvila)
Pontiggia. Quelle riscritture segno d’umiltà. Estate del 1995. Con mia grande sorpresa Giuseppe Pontiggia mi invita a casa sua per dirmi che dopo dodici anni è un po’ stanco, non se la sente più di tenere i suoi corsi di scrittura creativa e vorrebbe che lo sostituissi. Balbetto incredula e un po’ spaventata, ma lui mi rassicura. Da quel momento comincia una delle esperienze intellettuali e umane più importanti della mia professione. E da quel momento credo che l’unico modo per esprimergli la mia riconoscenza sia di invitarlo, quasi ogni anno, a tenere una lezione. Un anno ci fece un regalo che lasciò sbigottiti e ammirati tutti. Quella parte delle lezioni si chiamava, e continua a chiamarsi, «Nel laboratorio della scrittura», e lui ci fece entrare nella sua … falegnameria. Aveva portato con sé le fotocopie di un suo romanzo pubblicato alcuni anni prima, La grande sera, che aveva vinto il Premio Strega dopo un duello all’ultimo voto con Le nozze di Cadmo e armonia di Roberto Calasso. Chiunque altro, dopo tale riconoscimento, si sarebbe seduto sugli allori. Credo che a quest’ultima espressione Peppo riderebbe di gusto per la sua convenzionalità: a lezione spesso faceva liste di frasi fatte, per segnalarne, solo pronunciandole, la vuotezza di senso. Fatto sta che lui, dopo quella vittoria, si mise a rilavorare al romanzo e quella volta, con un coraggio che pochi scrittori possiedono, ci sottopose serenamente interventi, varianti, cancellature, aggiunte, rifacimenti. Gli studenti erano appiattiti sulle poltrone del teatro. Se riscriveva Pontiggia, potevano farlo anche loro. Anzi, dovevano. Semplicemente. Fu quello il modo per insegnargli che «scrivere è riscrivere», che la spontaneità è un effetto, un risultato, non un modo di lavorare, che è il controllo dell’espressione a fare la differenza fra una confessione «core in mano» e un testo ben costruito. Flaubertiano in questo, come nel censimento un esausto dei luoghi comuni. Succede la stessa cosa nella vita, avvertiva. E raccomandava: «Usate con parsimonia degli avverbi, sono parole composte, pesanti. Oppure scriveteli, se vi vengono, ma poi rileggete. Nove su dieci sono inutili. E, allora, cancellateli». Per gli aggettivi valeva la stessa indicazione. Pochi, calibrati, pertinenti precisi. La testimonianza di Laura Lepri, che riporto nei passaggi essenziali da Il Sole 24 Ore del 29 giugno 2003, mi sembra l’omaggio più significativo reso a Giuseppe Pontiggia all’indomani della sua dipartita.
L’angolo della poesia. A un compagno. Se dovrai scrivere alla mia casa / – Dio salvi mia madre e mio padre! – / la tua lettera sarà creduta / mia, e sarà benvenuta. / Così la morte entrerà / e il fratellino la festeggerà. / Non dire alla povera mamma / che io sia morto solo; / dille che il suo figliolo / più grande è morto con tanta / carne cristiana intorno. // Se dovrai scrivere alla mia casa / – Dio salvi mia madre e mio padre! – / non vorranno sapere / se sono morto da forte. / Vorranno sapere se la morte / sia scesa improvvisamente. / Dì loro che la mia fronte / è stata bruciata là dove / mi baciavano, e che fu lieve / il colpo, che mi parve fosse / il bacio di tutte le sere (Corrado Alvaro).
21 agosto 2003.
Linea recta brevissima. L’aforisma che mi piace. L’aforisma non è una forma d’intelligenza brillante da ammirare e basta, ma stimolo e premessa per la riflessione e la crescita etica del lettore (Giovanni Pacchiano). L’umano guazzabuglio. Tutto, in natura, ha un’essenza lirica, un destino tragico, un’esistenza comica (George Santayana, 1863-1952. Filosofo e scrittore statunitense di origine spagnola). Il triplice divieto. Se vuoi campare in questo mondo inquieto, / fin quando tutto non sarà che cenere, / attieniti a questo triplice divieto: / non temere, non attenderti nulla, non chiedere (Igor Garik, poeta moscovita).
L’americano Eliot si convertì all’Europa. Thomas Stearns Eliot nasce il 26 settembre 1888 a St. Louis, nel Missouri, negli Stati Uniti. Muore a Londra il 4 gennaio 1965 e l’urna con le sue ceneri è collocata nella St. Michael Church di East Coker, il villaggio dal quale nel 1669 il suo antenato Andrew Eliot era partito per l’America. Avviato ad una splendida carriera accademica alla Harvard University, il giovane studioso americano, venuto in Europa con una borsa di studio, ascolterà le conferenze di Henri Bergson al Collége de France, proseguirà le sue ricerche a Oxford e finirà col risiedere a Londra. Sarà lui, l’americano Eliot, il più europeo e il più classico dei poeti del Novecento. Chiudendo il ciclo aperto dal suo remoto antenato, egli è tornato dall’America all’Inghilterra, dal Nuovo Continente alle sorgenti e agli archetipi fondamentali dell’Occidente. La scelta avvenne senza clamorosi ripudi, ma fu pagata cara sul piano delle opportunità (non ci fu più per lui una carriera accademica) e delle difficili condizioni di sopravvivenza (avendogli il padre negato ogni aiuto finanziario). Tutta la sua opera poetica è tradotta in italiano da Bompiani e così pure buona parte dei suoi meravigliosi saggi Sulla poesia e sui poeti. Stare in compagnia di Eliot costituisce una delle esperienze indimenticabili perché Eliot ha quello che egli stesso definisce «il primo requisito della vita spirituale» e, dunque, anche dell’arte autentica: la sensibilità al bene e al male, la capacità straordinaria di rappresentare l’inferno degli «uomini vuoti» dove, sommandosi, si moltiplicano spaventosamente futilità, non senso e inaridimento. Ma dentro il deserto e la disperazione egli ci guida, novello Dante, a non estenuarci nel rifiuto e nel dubbio, ad aprirci all’invocazione, alla speranza.
Da Eliot ci vengono molte «lezioni». Da Eliot ci vengono molte «lezioni» e, in particolare, due di esse sono divenute per molti parte integrante della nostra formazione. La prima è l’energica, appassionata rivendicazione dell’unità della cultura europea; la seconda, il primato assoluto assegnato alla poesia di Dante. All’indomani del secondo conflitto mondiale, Eliot tiene tre conversazioni radiofoniche rivolte alla Germania perché ritrovasse la consapevolezza della comune eredità del nostro continente, dopo la tragedia hitleriana. Eliot ricorda le fondamenta germaniche della lingua inglese e delle etnie del Nord-Europa, l’immenso apporto di Atene e di Roma, la Bibbia dell’Antico e Nuovo Testamento. Il testo di quelle conferenze su L’unità culturale europea si può leggere nelle Opere di Eliot (Milano 1971). «L’unità della cultura – osserva Eliot – esige che vi sia una varietà di legami. Nessuna università, ad esempio, dovrebbe essere un’istituzione meramente nazionale, anche se ciascuna di esse è sostenuta dalla nazione. Le università d’Europa dovrebbero avere ideali comuni ed obblighi reciproci. Dovrebbero essere indipendenti dai governi dei paesi nei quali sono situate». Eliot conclude la terza conversazione con un appassionato appello agli uomini di lettere dell’Europa: «Noi abbiamo una particolare responsabilità… Possiamo avere idee politiche diverse, ma quel che importa è che riconosciamo le nostre relazioni e la mutua dipendenza. Se siamo gli uni privi degli altri, siamo tutti incapaci di produrre quelle opere eccellenti che contraddistinguono una civiltà superiore. Noi possiamo comunque salvare qualcosa di quei beni di cui siamo amministratori comuni: l’eredità della Grecia, di Roma e di Israele, l’eredità degli ultimi duemila anni di storia». Noi italiani dovremmo essere particolarmente grati a Eliot per aver fatto riscoprire la profondità e la bellezza della poesia di Dante. «La poesia di Dante rappresenta l’unica scuola universale di stile poetico valida per qualsiasi lingua… Il metodo allegorico di Dante semplifica lo stile, rendendo le immagini chiare e precise… La Divina Commedia è una gamma completa di altezze e di bassi delle emozioni umane. Il Purgatorio e il Paradiso si devono leggere come estensioni delle possibilità umane, di norma assai limitate».
28 agosto 2003.
Linea recta brevissima. Per meglio capire noi stessi. Che cosa mi interessa più di ogni altra cosa? Che cosa sogno, a che cosa aspiro? Per che cosa sono pronto a mettere in gioco la mia stessa vita? La risposta sincera a queste domande traccia, con sufficiente precisione l’identikit, di un essere umano (Levi Appulo). Scienza e saggezza. Il passaggio rapidissimo da un atteggiamento in complesso positivo e ottimista ad un altro nel suo insieme negativo e pessimista nei confronti della scienza viene almeno in parte giustificato dalle conseguenze disastrose prodotte recentemente da alcune applicazioni tecnologiche della scienza. Sorge allora la domanda: non è possibile evitare, con un uso più cauto delle tecniche prodotte dalla scienza, queste conseguenze negative a vantaggio di quelle utili? E questo compito non costituisce di per sé un obbligo morale? (Evandro Agazzi).
L’espressione humana condicio. L’espressione humana condicio, «condizione umana», si trova per la prima volta in Cicerone (Tusc. disp. 1, 15), ma entra nella cultura dell’Occidente, in cui avrà una straordinaria risonanza, solo con Seneca, che la usa con insistenza a indicare una sola cosa: l’ambivalenza costitutiva dell’uomo, nel cuore del quale abitano, porta a porta, opposte possibilità. L’uomo è, quindi, l’essere problematico per eccellenza: egli s’interroga su tutto e, quando posa lo sguardo su se stesso, scopre di essere «multiforme». Nemo suum agit, ceteri multiformes sumus: «nessuno si attiene a un solo ruolo, siamo tutti multiformi», cioè desiderosi di assumere sembianze diverse. Per questo cambiamo maschera di volta in volta e ce ne mettiamo una opposta a quella che ci siamo appena tolta (Ad Luc. 120, 21-22 passim). Ma come riconoscere il volto dietro la molteplicità delle maschere? Fin dall’opera prima, la consolazione A Marcia, Seneca ha scelto per la sua filosofia un punto di partenza difficile: benché avesse a sua disposizione un solido baluardo, il sistema stoico, da cui peraltro non vorrà mai prescindere del tutto, non si è messo al suo riparo per far tacere l’incertezza e il rischio che caratterizzano l’avventura dell’uomo nel cosmo. Egli ha avvertito, più di ogni altro pensatore dell’antichità, l’angoscia che immancabilmente sale dalle profondità dell’essere e le ha dato voce. L’uomo è una creatura che nasce debole, fragile, nuda, priva di difese naturali e bisognosa, più di qualsiasi altra, dell’aiuto altrui. Neppure l’istinto le viene in soccorso, non avendo nell’uomo la sicura determinazione che ha negli animali, dal momento che l’intelligenza sembra fatta apposta per scompigliarlo e renderlo malsicuro. Quocumque se movit, statim infirmitatis suae conscium: «in qualunque direzione si muova, l’uomo ha subito coscienza della propria debolezza» (Marc. 11, 4) e la sperimenta ad ogni passo perché non è cosa che possa deporre o consegnare ad altri, portandosi appresso i segni della sua fragilità: l’ignoranza, la malattia, la certezza irrefutabile della morte. Che cosa è, dunque l’uomo? «Un vaso che alla più piccola scossa, al più piccolo movimento va in frantumi. Non ci vuole una grande tempesta per distruggerti: al primo urto, ti sfascerai» (ibid. 11, 3). Nell’immensità sconfinata dello spazio, nella serie dei secoli passati e di quelli che verranno, l’uomo non è che un punctum (Nat. quaest. 6, 32, 10), un punto impercettibile, e la sua vita, breve come un sospiro, sprofonda in un abisso (abit vita in profundum, Brev. 10, 5). La finitezza dell’uomo, la sua contingenza radicale, l’improrogabilità della morte sono, dunque, acquisizioni fondamentali dell’itinerario filosofico di Seneca.
La madre. Quando la sera tornavano dai campi, / sette figli e otto col padre, / il suo sorriso li attendeva sull’uscio / per annunciare che il desco era pronto. / Ma quando in un unico sparo / caddero in sette dinanzi a quel muro, / la madre disse: / «Non vi rimprovero, o figli, / d’avermi dato tanto dolore. / L’avete fatto per un’idea, / perché mai più nel mondo altre madri / debbano soffrire la mia stessa pena. / Ma che faccio qui sulla soglia, / se più la sera non tornerete? / Il padre è forte e rincuora i nipoti: / “Dopo un raccolto ne viene un altro”, / ma io sono soltanto una mamma. / Figli cari, / vengo con voi». Questa epigrafe fu dettata per il busto di Genoeffa Cocconi, madre dei sette fratelli Cervi. Il busto è collocato nella sala del Consiglio comunale di Campegine.
4 settembre 2003.
Linea recta brevissima. I teleplagiati. Quasi tre milioni di elettori ammettono che la televisione condiziona pesantemente le loro scelte di voto. Una quota che può risultare determinante, vista la scarsa distanza in termini di consensi tra i due schieramenti che si fronteggiano in Italia (Renato Mannheimer). L’opinione pubblica costruita e istituzionalizzata. Oggi l’opinione pubblica costituisce un’entità costruita e istituzionalizzata dalla miscela, quasi incontrollabile, tra sondaggi e media, la cui importanza e rilevanza sono cresciute in modo enorme nell’ultimo scorcio di storia (Ilvo Diamanti).
La presenza del male nel mondo e la trasfigurazione della vita. L’uomo è un paradosso vivente in quanto è situato ontologicamente al punto di congiunzione della parola con l’inesprimibile, della speranza con la disperazione, dello scacco con l’affermazione vittoriosa, del finito con l’infinito, dell’eroismo magnanimo e della meschinità sordida, del sapere col non sapere, del volere con il disvolere, della razionalità con l’irrazionale che preme in noi e fuori di noi, della vita con la morte. La duplicità dell’uomo si manifesta ovunque, così che diventa inevitabile che ogni domanda sulla sua natura e sulla sua condotta si presenti in forma di dilemma: buono-malvagio, razionale-irrazionale, sociale-antisociale, e così via. Seneca ha avvertito fortemente la presenza del male nella vita dei singoli e nella società; tuttavia, è pur sempre all’uomo, e solo a lui, che è data la possibilità di «trasfigurare» la sua esistenza. Alfonso Traína ha fatto notare che non a caso il verbo transfigurari, destinato ad avere tanta fortuna, è un neologismo di Seneca (Lo stile ‘drammatico’ del filosofo Seneca, Bologna 19874, p. 61). L’uomo può diventare peggiore di qualsiasi belva (Ad Luc. 103, 2); ma è ben lui che ascende le vette più alte dell’eroismo morale e, ancor più, dell’amore disinteressato, rendendosi simile a Dio. Non siamo che particelle infinitesimali dell’universo; la natura, tuttavia, ci ha generato per essere spectatores tantis rerum spectaculis, «spettatori di spettacoli incommensurabili» (Otio 5, 3). La sua fatica sarebbe sprecata se opere tanto grandi, e splendenti di perfezione, facessero mostra di sé in un deserto (ibid. 5, 3). Dio ha voluto, insomma, che noi riconoscessimo la gloria della sua opera e ha immesso in noi un ardente bisogno di conoscenza, vera molla del progresso in ogni campo. Allo stesso modo, l’uomo è avidus veri e rifugge dalla verità; la sua passione per la verità su certe questioni non esclude il rifiuto ostinato di essa in altre. Egli non vuol essere ingannato, ma è spesso mentitore ed è addirittura «contumace» – termine caro a Seneca – nel non voler far luce soprattutto su se stesso. Noi copriamo i nostri vizi e i nostri peccati a noi stessi prima che agli altri, impegnandoci a trovare, di volta in volta, la maschera più idonea ad occultare quello che siamo dentro e di apparire così come la cattiva coscienza, le convenienze e gli interessi esigono. Certamente è impossibile non vedere che l’ansia di verità caratterizza le conquiste più alte del cammino umano nella storia; ma vi è in noi anche la capacità terribile, prima ancora che di tradire la verità, di non prenderla neppure in considerazione, mettendola metodicamente tra parentesi. «Nessuno può dirsi felice se è al di fuori della verità» (Vita 5, 2), ammonisce Seneca, né può essere altrimenti: prescindere dalla verità – almeno nella misura in cui è accessibile a noi e si traduce in luce per i nostri passi – equivale, infatti, per l’uomo al massimo di eteronomia, cioè di estraneità al suo io profondo. Si finisce allora per condurre un’esistenza che Heidegger, in Essere e tempo (1927), chiamerà «inautentica» e Mounier, nella sua Introduzione agli esistenzialismi (1947), «esistenza perduta».
In onore di Dio. Questo libro sia scritto in onore di Dio, se oggi queste parole non suonassero sciocche, se non fossero cioè malamente intese. Esse vogliono dire che il libro è stato scritto con buona volontà e nella misura in cui non è stato scritto con buona volontà e dunque per vanità o altro, il suo autore vorrebbe saperlo condannato. Egli non può purificarlo da queste scorie, più di quanto ne sia puro egli stesso. Con queste parole Ludwig Wittgenstein firmava nel 1930 il manoscritto delle Osservazioni filosofiche. Esse hanno una profonda nobiltà interiore e, in un certo senso, chiunque pubblichi qualcosa dovrebbe farle sue.
11 settembre 2003.
Linea recta brevissima. Non contano solo i risultati. L’esploratore, il navigatore è meno utile quando parla del luogo in cui è giunto che quando riferisce le incertezze del percorso che gli hanno permesso di giungervi (Keplero, 1571-1630). Coscienza del limite e senso del mistero. Ci sono molte cose nascoste più grandi delle note. Noi contempliamo solo poche delle opere di Dio… Potremmo dire molte cose, ma alla fine la conclusione è una sola: Egli è tutto (Libro di Siracide. L’autore visse nel secondo secolo a. C.). Vedere, però, accade in un lampo. Per aprire gli occhi ci può volere tutta la vita. Vedere, però, accade in un lampo (Proverbio orientale). Cor meum inquietum est. Essere senza inquietudine vuol dire essere in pericolo (John Henry Newman).
Oltre l’ambivalenza, l’unità del carattere. Seneca ha analizzato in pagine che hanno veramente il sapore della vita, e con uno stile drammatico di grande intensità, sia le situazioni, le scelte e le non-scelte che meglio attestano l’ambivalenza dell’uomo, sia le figure fenomenologiche che sono proprie di una vita alienata: l’attivismo inconsulto e l’inerte guardarsi vivere; l’omologazione che massifica e tende a ridurre gli io a uno zero; la perdita del significato a cui si arriva a forza di guardare le cose e i nostri simili solo con l’occhio di una ragione strumentale, attenta a usare gli esseri e non ad apprezzarne il valore; lo sbriciolamento del nostro tempo, la fuga da se stessi, la vertigine e la nausea del vuoto spirituale. Questi temi ritornano, con accenti diversi e nuovi sviluppi, specialmente in alcuni pensatori: ad esempio, nel maggiore dei Padri della Chiesa, il nordafricano Agostino (354-430); durante l’età cartesiana, in Blaise Pascal (1623-1662); negli scritti del Socrate danese, Søren Kierkegaard (1813-1855); e durante il XX secolo con l’esistenzialismo, l’indirizzo filosofico che ebbe vasta diffusione tra il primo e il secondo dopoguerra, all’incirca tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta. Seneca, però, è stato il primo in Occidente a darci su quegli argomenti – che riguardano veramente ogni uomo capace ancora di diventare problema a se stesso – una riflessione tematica, condotta sia attraverso felici colpi di sonda nelle profondità dell’animo umano, sia col far emergere precisi nuclei speculativi di grande rilevanza metafisica e morale. Ed è per questa ragione che Michel Spanneut definisce la filosofia di Seneca «uno stoicismo esistenziale» (Permanence du stoïcisme de Zénon à Malraux, Paris-Grenoble 19732, p. 74). A differenza di quanti prima di lui avevano ridotto l’uomo alle sue miserie o ne avevano esaltato le incomparabili doti, Seneca ha colto congiuntamente, talora nel giro di una stessa frase, sia la miseria sia la grandezza dell’uomo. L’uomo è un problema, i cui dati sono fra loro in rapporto di opposizione e tuttavia intrecciati inestricabilmente. Spetta certamente a lui muoversi fra i poli di un’antinomia reale e ad ogni passo misurarsi con le tensioni che ne conseguono; ma egli è impegnato anche a comporre energicamente quelle tensioni nell’unità del suo carattere e della sua personalità. In altri termini, l’ambivalenza è un dato del «problema uomo», da cui mai si deve prescindere, ma non ne è affatto la soluzione. All’opposto di quanto sosterranno gli esistenzialisti Karl Jaspers e Jean-Paul Sartre, per Seneca il compito dell’esistente non è mantenere i contrari in sé, rischiando di finire nell’inconcludenza o nella schizofrenia. La vita spirituale sorge, infatti, solo dallo sforzo sempre rinnovato di mantenere in piedi una personalità, che sappiamo continuamente minacciata di frammentarsi. E per far questo occorre, in primo luogo, restituire l’uomo alla sua interiorità, perché solo se riconciliato con se stesso e libero, potrà giovare agli altri. La filosofia comincia sempre con l’appello socratico: uomo, svegliati!
Poesia italiana dei nostri giorni. Ciascuno si sciolga. Ciascuno si sciolga / dal rigido abbraccio di diffidenza / e mi strappi dal petto / questo ingombro cuore. Ricordo sempre il limite. Ricordo sempre il limite / e oscuramente dentro lo creo, / per cercare / il costrutto che mi schiarisca, / un valore che mi vivifichi. / Lì, nel silenzio delle cose, / è il punto / che mi fa passare oltre. Questa mia vita allerta. Inoltrarmi nell’aria veloce / che questa mia vita allerta / addolcisca il retaggio scolpito, / sciolga i nodi infecondi. Segreto palpito. In quell’ansia / di isolamento, secca agonia, / ammutolita rassegnazione, / palpita segreta nell’esultanza, / stipata, la fervida certezza (Paola Davite, Scogli, Firenze 1995).
18 settembre 2003.
Linea recta brevissima. La lucidità di coscienza. La lucidità di coscienza è privilegio di coloro che sono privi della stoltezza necessaria alle convinzioni dominanti. Per sfidare Dio. Per sfidare Dio l’uomo gonfia il proprio vuoto. Intelligenza e malumore. I giudizi ingiusti dell’uomo intelligente sono in genere verità avvolte nel malumore. Ciò che merita rispetto. Non bisogna confondere ciò che in una cosa merita rispetto con la cosa in se stessa. (Nicolas Gòmez Dàvila)
In difesa della poesia data per morta alla maturità. Uno dei temi proposti il 18 giugno di quest’anno alla maturità riguardava il destino della poesia nell’epoca delle comunicazioni di massa. Il pensiero nascosto era che il tempo della poesia è ormai finito. «La poesia – dice uno scrittore – è ormai un genere letterario sempre più specialistico, che non interessa nessuno o quasi, al di fuori delle università e di una ristretta cerchia di specialisti». Omero, Virgilio e Leopardi sono dunque morti. La nostra è l’epoca di Eros Ramazzotti. Niente è più falso. I Meridiani, pubblicati da Mondadori, sono la collana di classici antichi e moderni più diffusa in Italia. Ora, nei Meridiani, le poesie di Ungaretti hanno venduto 78.657 copie, quelle di Montale 45.952 copie; e Borges 61.900 copie. Se passiamo ai libri più recenti, il volume dedicato a Emily Dickinson ha venduto 22.317 copie, Friedrich Hölderlin 5.810 copie, Andrea Zanzotto 8.327 copie, Paul Celan 8.257. Sono cifre altissime, o alte. In genere, i libri di poesia hanno un pubblico più vasto di quelli di narrativa classica. Dunque, non molto è cambiato dai tempi di Omero. Come trenta secoli fa, la poesia è ancora «la lingua materna del genere umano»: perché offre a chi legge passione, pensiero, incanto, quiete, consolazione, speranza, e almeno una traccia di quel Dio o di quegli dei di cui le religioni moderne sono completamente incapaci di parlare. Quanto agli italiani, leggono poesia come gli altri europei; anzi, probabilmente, di più (Pietro Citati ne La Repubblica del 20 giugno 2003).
Presenza di Dante nella poesia di Anna Achmatova. Nel saggio di Anatolij Najman su Anna Achmatova – incluso nel terzo volume della Storia della letteratura russa (Torino 1991) – si legge un interessante paragone tra la grande poetessa russa e Thomas Eliot. «Le fonti sono per i due poeti le stesse: Dante, Shakespeare, i greci e i latini, Baudelaire… Ma Eliot adopera apertamente la citazione pura, mentre l’Achmatova ignora quel genere di collages: rianima la citazione dopo aver avuto cura di trasformarla in modo da rendere compatibile il tessuto originale con il nuovo». L’utilizzazione e l’evoluzione di tale metodo sono particolarmente manifesti nei rapporti dell’Achmatova con Dante. In una poesia del 1922, ella cita i celebri versi del canto XVII del Paradiso: «Tu proverai sì come sa di sale / lo pane altrui, e come duro calle / lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale», trasformandoli piuttosto liberamente: «Ma compiango la sorte dell’esule, / prigioniero, malato. / Dura è la tua strada, pellegrino, / sa d’assenzio il pane altrui». Quarant’anni più tardi, in una poesia del ciclo La rosa di macchia fiorisce, l’esclamazione di Dante nel canto XXX del Purgatorio: «men che dramma / di sangue m’è rimasto che non tremi: / conosco i segni dell’antica fiamma» risuona in modo a stento riconoscibile: «Sono i miei versi che vuoi, / ma vivrai bene anche senza; / il loro amaro sapore ha impregnato / il mio sangue fino all’ultima goccia».
E allora, che cosa fare? La risposta di Karl Raimund Popper a questa inevitabile domanda è lucida e ha nello stesso tempo il pathos di un appello rivolto in primo luogo ai giovani: «Agisci per l’eliminazione dei mali concreti piuttosto che per inseguire dei beni astratti. Non credere di creare la felicità con mezzi politici. Tendi piuttosto a ridurre e ad eliminare le miserie concrete. Combatti l’ignoranza al pari della criminalità, ma fa tutto ciò con mezzi diretti. Individua il male più urgente della società in cui vivi e cerca pazientemente di convincere la gente che è possibile eliminarlo. Ma non cercare di dare attuazione a questi obiettivi per via indiretta, per un ideale remoto di società in tutto e per tutto perfetta. Non permettere che i sogni di una società perfetta ti distolgano dal servire gli uomini che soffrono qui ed ora».
25 settembre 2003.
Linea recta brevissima. Lui non avrà rivali. Chi s’innamora perdutamente di se stesso non avrà rivali (Benjamin Franklin). Amore e delusione. Non ci può essere profonda delusione dove non c’è un amore profondo (Martin Luther King). Le lunghe spiegazioni. Meno sappiamo, più sono lunghe le nostre spiegazioni (Ezra Pound). Possiamo esserne trafitti. La bellezza ci può trafiggere come un dolore (Thomas Mann). La cornice e ciò che vi mettiamo dentro. Non ci è permesso scegliere la cornice del nostro destino. Ma ciò che vi mettiamo dentro è nostro (Dag Hammarskjöld). Terribilmente difficile. Essere donna è terribilmente difficile perché consiste principalmente nel trattare con gli uomini (Joseph Conrad). Avere visioni, ideali. Un uomo incapace di avere visioni non realizzerà mai una grande speranza, né comincerà mai alcuna grande impresa (Thomas Woodrow Wilson).
Le questioni che sorgono dal problema del tempo. «Nulla può farsi senza il tempo»: nihil sine tempore potest fieri, scrive epigraficamente Seneca (Ad Luc. 65, 11). Il problema del tempo è, in realtà, uno dei cardini della riflessione metafisica, ed è presente sin dalle origini nella storia del pensiero, così come nella coscienza comune. Per Epicuro il tempo noi lo conosciamo solo come «l’accidente degli accidenti», una nozione che si accompagna ad altre nozioni di fenomeni accidentali, come i giorni e le notti e le ore, e al succedersi di piaceri e pene (A Erodoto 72-73); non così per Seneca che inscrive il tempo nell’essere, nel quod est (Ad Luc. 58, 11), e si interroga con stupore innanzi tutto sulla sua natura. «La sapienza, cosa nobile e di grande ampiezza, ha bisogno di uno spazio libero. Essa si occupa della realtà divina e umana, del passato e del futuro, del caduco e dell’eterno, del tempo. Pensa a quante questioni sorgono anche solo sull’ultimo problema. Il tempo è una realtà a sé stante? È pensabile che ci sia un essere prima e fuori del tempo? Esistendo qualcosa prima del mondo, esiste prima del mondo anche il tempo, o esso ha avuto inizio insieme con il mondo?» (ibid. 88, 33). Sono, a veder bene, le stesse domande che, poco più di tre secoli dopo, Agostino si porrà in quell’ardita meditazione sul tempo, introdotta dal paradosso: «Che cos’è, dunque, il tempo? Se nessuno m’interroga, lo so; se però volessi spiegarlo a chi mi interroga, non lo so» (Conf. 11, 14). Il tempo non si percepisce come una cosa, come un oggetto tra altri oggetti; ed è forse per questo che gli uomini, abitualmente, non lo pensano come reale e non gli riconoscono alcun valore. Proprio come fanno per la loro anima. È fin troppo facile, infatti, non accorgersi di una perdita di cui non si è consapevoli perché resta nascosta (Brev. 8, 4). In tal modo Seneca si porta con naturalezza sul suo proprio terreno, trasformando l’indagine sul tempo in una «concezione etica del tempo», secondo la felice espressione di Alberto Grilli (L’uomo e il tempo in Seneca, letture critiche, Milano 1976, p. 57). Il tempo diventa, pertanto, coefficiente determinante della felicità o dell’infelicità umana e l’orchestrazione speculativa dei vari aspetti del problema acquista una fortissima valenza esistenziale, sì che dire «tempo» per l’uomo è la stessa cosa che dire «vita», e non a caso Seneca spesso scambia un termine con l’altro.
Due passi indimenticabili del capolavoro di Bernanos. Il diario di un curato di campagna è uno di quei libri che bisogna rileggere, di tanto in tanto, perché rivelatori delle profondità dell’anima umana e del sentire cristiano. Ricordavo a memoria due passaggi di quel grande romanzo e li ho ritrovati entrambi nelle pagine conclusive. Il primo è: «Ho molto amato gli uomini; e sento bene che questa terra dei vivi mi era dolce. Non morrò senza lacrime». Il secondo: «Odiarsi è più facile di quanto si creda. La grazia consiste nel dimenticarsi. Ma se in noi fosse morto ogni orgoglio, la grazia delle grazie sarebbe di amare umilmente se stessi, allo stesso modo di qualunque altro membro sofferente di Gesù Cristo».
L’angolo della poesia. Gli occhi sulle punte delle … dita. Qui giace il corpo di Lois Spears / nata Lois Fluke, figlia di Willard Fluke, / moglie di Cyrus Spears, / madre di Myrtle e Virgil Spears, / bimbi dagli occhi chiari e dalle membra sane – / (Io nacqui cieca). / Fui la più felice delle donne / come moglie, come madre e massaia, / occupandomi dei miei cari, / e rendendo la mia casa / un luogo d’ordine e di ospitalità generosa: perché giravo per le stanze / e per il giardino / con un istinto infallibile come la vita, / quasi che avessi gli occhi sulle punte delle dita. / Gloria a Dio nei cieli (Edgar Lee Masters, Antologia di Spoon River, Torino 1943).
2 ottobre 2003.
Linea recta brevissima. L’evento unico, l’Incarnazione. Poi venne il momento prescelto, / un momento nel tempo e del tempo, / un momento non fuori del tempo, ma in ciò che noi chiamiamo storia; / un momento nel tempo, ma il tempo fu fatto per mezzo di quel momento: / perché senza significato non c’è tempo, / e quel momento del tempo dette il significato (Thomas Stearns Eliot).
Dinanzi alla tragedia della guerra. Due forti espressioni del Papa. La prima. «Oltre alla spada e alla fame, c’è una tragedia maggiore, quella del silenzio di Dio che non si rivela più e sembra essersi rinchiuso nel suo cielo, quasi disgustato dall’agire dell’umanità. Le domande a Lui rivolte si fanno tese… Se il popolo si converte e ritorna al Signore, anche Dio si mostrerà disponibile ad andargli incontro per abbracciarlo». Queste parole furono pronunciate da Giovanni Paolo II all’udienza generale dell’11 dicembre 2002, riferendosi a un testo del profeta Geremia (14, 19-21). Bruno Forte coglie un’analogia fra il grido del profeta e il grido del vecchio Papa che non perde occasione per dire no alla logica folle della guerra come via di soluzione dei conflitti. Il volumetto di Bruno Forte La guerra e il silenzio di Dio (Brescia 2003) è essenzialmente un commento teologico alle parole del Papa. La seconda. «È doveroso per i credenti, a qualunque religione appartengano, proclamare che mai potremo essere felici gli uni contro gli altri; mai il futuro dell’umanità potrà essere assicurato dal terrorismo e dalla logica della guerra. Noi cristiani, in particolare, siamo chiamati a essere come delle sentinelle della pace nei luoghi in cui viviamo e lavoriamo. Ci è chiesto, cioè, di vigilare, affinché le coscienze non cedano alla tentazione dell’egoismo, della menzogna e della violenza». Dal discorso pronunciato all’Angelus di domenica 23 febbraio 2003.
Il «principio speranza». 1. La speranza è l’attesa di un bene futuro, arduo ma possibile a conseguirsi (Tommaso d’Aquino). 2. La speranza è la passione per ciò che è possibile (Søren Kierkegaard). 3. L’ansietà, il timore dell’avvenire sono già delle malattie. La speranza, al contrario, è, prima di tutto, una distensione dell’io. La speranza afferma l’inefficacia ultima delle tecniche nella risoluzione del destino dell’uomo. Essa fa credere, dà tempo, offre spazio all’esperienza in corso. La speranza è il senso dell’avventura aperta e tratta generosamente la realtà, anche se questa sembra contrastare i propri desideri. La speranza nasce dalla profondità dell’uomo. Accettarla o rifiutarla è accettare o rifiutare di essere uomo (Emmanuel Mounier).
9 ottobre 2003
Linea recta brevissima. La facoltà di non tenerne conto. L’uomo possiede la capacità di distinguere fra bene e male e la facoltà di non tenerne conto (Alessandro Morandotti). Non basta affatto chiedersi a che serve. Penso che la domanda «a che serve?» applicata ai contenuti di uno studio o di una ricerca possa essere la spia di una mentalità utilitaristica, pragmatistica, consumistica. Le civiltà evolute lasciano invece spazio al conoscere in quanto valore in sé (Paolo Rossi).
Il dolore innocente. Mi sono nati due figli, al tempo che mi pare oggi incredibilmente lontano in cui non si sapeva in anticipo di che sesso era il nascituro né se questi presentava qualche difetto congenito. E a ogni parto non ho potuto fare a meno di trattenere il fiato, chiedendomi se sarebbe stato tutto a posto o se si sarebbe presentato qualche problema. La nascita di un figlio è un evento eccezionale e straordinariamente gioioso. Un po’ di preoccupazione però vi si accompagna sempre, soprattutto per uno come me che, avendo studiato genetica ed essendomi occupato dello sviluppo embrionale degli organismi, ero venuto a contatto a più riprese con la galassia dei disturbi congeniti, dal lieve difetto fisico alla malformazione più invalidante. Il dolore ha una voce e non varia, ma la nascita di un bambino imperfetto causa una sofferenza particolare e particolarmente atroce. Ci si sente impotenti. Testimoni e vittime a un tempo di una grande, incommensurabile ingiustizia. Eventi del genere accadono, anche se i problemi possono presentarsi in forme diverse e assumere dimensioni assai diverse. Oggi sappiamo come questo possa avvenire e in qualche caso anche perché è avvenuto. La scienza ha chiarito molti dei meccanismi che vi sono implicati, anche se non può rendere ragione del dolore e della disperazione. Considerando la complessità intrinseca di ogni essere vivente e la molteplicità dei meccanismi che concorrono a formarlo, ci si dovrebbe in verità stupire di quanto rari siano gli eventi negativi che conducono a un qualche tipo di malformazione. Ma si sa che alle cose che vanno bene nessuno fa caso e vengono anzi accolte come dovute. L’imperfezione o il fallimento fanno invece notizia, in questo caso una spesso tragica notizia. E non è di grande consolazione sapere che un determinato evento capita una volta ogni mille nascite o una volta ogni centomila. Per coloro che vi sono coinvolti quell’evento è l’evento. Con queste parole Edoardo Boncinelli introduce il volume Il dolore innocente. L’handicap, la natura e Dio di Vito Mancuso, Milano 2002. Vito Mancuso – che ha parlato nei giorni scorsi nel Salone Bevilacqua della Pace, in città, per la Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura – affronta il più arduo dei problemi e il suo percorso di riflessione non trascura alcuna pista, scava in profondità, esplora ogni possibile risposta. L’autore, dottore in Teologia sistematica, è anche un padre che ha visto l’handicap nella carne di un suo figlio.
Poesie dei nostri giorni. L’attesa di Dio. Quando gli spazi infiniti / si aprivano / e partorivano il tempo, / è incominciata la tua attesa. // Nella notte delle stelle / tu aspettavi / che si spegnesse / il fuoco primordiale / della terra, / e si raggruppassero i pianeti / per dare inizio alla danza / intorno al sole, / mentre si formavano gli oceani / e le prime maree cercavano, impazienti, / un orecchio che cogliesse / il loro fragore. // Tu aspettavi, / teso al canto delle acque, / allo scintillio delle onde / che nelle fresche mattine / della creazione promettevano, / col sorgere del sole, / la nascita, ancora lontana, / di occhi umani. // Troppo facile era questo nome, / il nome che tu tenevi in serbo, / minacciato dal suo contrario. / Eppure bisognava dirlo, bisognava proclamarlo ai quattro venti: / vita, vita è il nome, / anche se l’eco lontana / rispondeva: fine, morte. // Ma tu aspettavi, / finché un giorno, / dopo mille sprechi maldestri / e sentieri interrotti, / dopo mille vicende di vita e morte / e di nuova vita, / il primo bambino / ha risposto al sorriso / della prima madre. // Sarà pur stata una prima volta / anche per il sorriso umano, / ed era questa la volta / che tu aspettavi, / la risposta della creazione. / Al tuo sorriso creatore, / certezza che tutto era buono, / molto buono (Ursicin Gion Gieli Derungs in Servitium – Quaderni di ricerca spirituale, dicembre 2000, Sotto il Monte Giovanni XXIII).
16 ottobre 2003.
Linea recta brevissima. Gli arroganti pieni di sé non la pensano così. Colui che è saggio desidera stare sempre accanto a chi è migliore di lui. Non impedire la critica nei confronti del nostro operato. Sbagliate se credete d’impedire a qualcuno di rimproverarvi perché voi non agite rettamente. Invece di mettere a tacere gli altri, cercate piuttosto di diventare il più possibile onesti e saggi. (Platone) Scherzare, facendo sul serio. «Serio eludere». Era costume di Pitagora, Socrate e Platone scherzare facendo sul serio e giocare con grande applicazione ogni volta che toccavano con figure e sentenze i misteri divini (Marsilio Ficino nell’introduzione del suo commento al Parmenide di Platone).
L’angoscia dell’uomo di fronte alla «rapina del tempo». Si può indicare col termine greco chrònos un primo ambito di significati della parola «tempo»: è il tempo in generale, inteso come misura del durare di qualsiasi essere diveniente, e si sa che per noi la sola esperienza possibile è sempre quella di esseri che sono nel mutamento. Sotto tale aspetto il tempo appare come tempo astronomico, il quale assume il moto apparente del sole e la divisione del giorno in ore – il computo fu mutuato dai babilonesi – a misura di ogni altro moto. Questo tempo è detto anche matematico, perché la mente umana lo pensa spazialmente, e quindi non si stanca mai di dividerlo in parti sempre più piccole, ma uguali e omogenee tra loro, tali perciò da essere numerali. Il tempo cosmico adempie perfettamente le funzioni che gli son richieste e scorre senza posa, impersonale nella sua oggettività misurabile; e tuttavia i segni che lascia l’inarrestabile succedersi dei giorni sono ovunque e non li percepiamo, soprattutto se ci accade di rivedere dopo un lungo intervallo luoghi e persone. La vista del mutamento di ciò che è altro da noi ci induce allora a pensare, almeno per qualche istante, a come noi stessi siamo cambiati e a chiederci dove ci mena quella rincorsa affannosa a cui abbiamo ridotto a nostra esistenza: «Ogni giorno, ogni ora ti cambia, ma negli altri la rapina appare più facilmente; in te, invece, si cela, non è allo scoperto» (Ad Luc. 104, 12). Il tempo cosmico appare allora come lo scenario del tempo vissuto da colui che lo misura, «il numerante» di cui parlava Aristotele. È questa la dimensione più reale e individuale del tempo e fa tutt’uno con la coscienza che l’io ha di sé, con la sua stessa sostanza, con la sua vita. E ciò che sta a significare che la vita d’un uomo vale quanto vale il suo tempo. Nessuno prima di Seneca aveva colto questa verità e s’era atto – come solo lui seppe fare – testimone dell’angoscia umana di fronte al tempo, che «ci sospinge ed è sospinto velocemente, sì che siamo rapiti senza che ce ne accorgiamo» (ibid. 108, 24). Le metafore ricorrenti per esprimere la nostra ansia per la fugacità del tempo sono assai significative: il fiume, il punto e l’abisso. Il fiume non sta che nel suo passare e il suo passaggio che cos’altro è se non una fuga precipitosa? (ibid. 49, 2). Come non avvertire un senso di vertigine dinanzi alla «vastità abissale del tempo» (ibid. 99, 10)? Seneca lo esprime con una frase di rara efficacia: «Sono sospeso in un istante del tempo che fugge» (in puncto fugientis temporis pendeo, Nat. Quaest. 6, 32, 10).
Dalle lettere di sant’Agostino. La verità. La verità è il nutrimento dello spirito (Ep. 1, 3). Il desiderio degli amici assenti. Quando tu vai lontano, io ho desiderio di vederti e incontrarti. È questo un difetto? Ma, se ben ti conosco, in me non ti dispiace affatto. Io, per parte mia, desidero essere rimpianto nella misura in cui rimpiango un assente (Ep. 2, 1). E se l’anima muore? E se l’anima muore? Se non vi è l’intelligenza della verità e se l’intelligenza non è nell’anima, allora anche la verità muore. Ma non può morire una cosa in cui ha sede qualcosa d’immortale (Ep. 3, 4). Progrediamo poco a poco. In materia di verità progrediamo poco a poco, come avviene per l’età (Ep. 4, 1).
23 ottobre 2003.
Linea recta brevissima. Per le menti volgari. Il successo è il solo infallibile criterio di saggezza per le menti volgari (Edmund Burke). A che cosa si può passar sopra. L’arte di essere saggi è l’arte di capire a che cosa si può passar sopra (William James). Leggere, conversare, scrivere. La lettura rende l’uomo completo, la conversazione lo rende agile di spirito e la scrittura lo rende esatto (Francis Bacon). C’è solitudine e solitudine. Non è rompendo la solitudine, bensì approfondendola, che gli esseri diventano capaci di comunicare (Louis Lavelle). Un uomo solo è sempre in cattiva compagnia (Paul Valéry).
Il tempo sprecato e il tempo ritrovato. Due sono le forme di esistenza che sono alla base di ogni nostro atteggiamento: da una parte, c’è una vita alienata, e quindi un tempo sprecato; dall’altra, una vita di cui ci riappropriamo ad ogni istante e dunque un tempo ritrovato. I modi di alienare il proprio tempo e di «metter mano sul tempo» (Ad Luc. 1, 2) per farlo proprio poggiano sulla tripartizione di passato, presente e futuro. Il passato è sottratto al dominio della fortuna e può essere da noi rivisitato nei suoi momenti più significativi, anche se dolorosi. Abbiamo bisogno, infatti, di interrogarci sul nostro passato, per mettere a profitto del presente e del futuro la lezione dell’esperienza. All’insensato e al malvagio, però, il passato è molesto, perché ridesta in essi un senso di colpa messo accuratamente a tacere. Ma fingere che il proprio passato non esista è ancora un modo per fuggire da se stessi; del resto non c’è redenzione possibile senza pentimento, e dunque senza un giudizio sul male compiuto. Giova immensamente, invece, all’animo ricordare, e spesso, i benefici ricevuti. È la memoria, infatti, che fa riconoscenti: memoriam gratum facit (Ben. 3, 4, 2). Un individuo e una società che non abbiano coscienza della loro storia, sono senza radici e, dunque, in balia di impressioni del momento e di pulsioni istintive; né può esserci vera cultura senza conoscenza dell’eredità che ci è stata trasmessa. Bisogna, però, evitare sia l’assenza di memoria storica, sia la fuga all’indietro, che è tipica dei laudatores temporis acti, inguaribili nostalgici di un passato che non è mai esistito e che non si vuole effettivamente conoscere, ma in cui si cerca un riparo per le proprie illusioni.
Come possiamo rapportarci al futuro? Anche al futuro ci si può rapportare in maniera patologica, sacrificando ad esso la serenità da conquistare oggi e gli impegni concreti da adempiere giorno dopo giorno. È molto diffuso l’atteggiamento di chi vive fuori di sé perché totalmente preso dall’ossessione del futuro, ardentemente temuto o sperato. Seneca, però, tiene a distinguere dall’assillo di ciò che ancora non è, e che potrebbe anche non esserci mai, l’esercizio della capacità razionale di collegare fenomeni e avvenimenti in modo da prevederne, entro certi limiti, i possibili sviluppi e gli esiti. L’uomo, insomma, è pur sempre un essere capace di progettare e di lavorare alla costruzione del futuro per sé e per i suoi simili. È bene poi esercitarsi a prevedere – Seneca parla addirittura di esercizi di praemeditatio futurorum malorum – soprattutto le avversità più dolorose, ed in primo luogo la morte. Soffriremo di meno, o non soffriremo affatto, se esse non si abbattono a sorpresa su di noi (Ad Luc. 46, 33-35; 78, 21; 107, 3-4): «chi ha previsto i mali futuri sminuisce la loro forza nel presente» (Marc. 9, 1). Passato e futuro non si dissolvono, dunque, nel nulla del «non è più» e del «non è ancora entrato nell’esistenza»: essi esistono perché esiste colui che li pensa e perché il ricordo e l’attesa sono presenti alla coscienza di un io. Tutto riconduce, quindi, alla realtà vivente e pensante di quell’io che, essendo qui ed ora presente a se stesso, può ricordare ciò che è stato, quod fuit, e prevedere o preparare ciò che sarà, quid futurum est (Brev. 10, 2). Tuttavia è proprio riguardo al presente, più ancora che al passato e al futuro, che l’uomo non sa rapportarsi nel modo giusto.
L’angolo della poesia. La conchiglia marina. O conchiglia marina, figlia / della pietra e del mare biancheggiante, / tu meravigli la mente dei fanciulli (Alceo in Lirici greci, tradotti da Salvatore Quasimodo, Milano 1944).
30 ottobre 2003.
Linea recta brevissima. Educare i figli all’amicizia. Chi trascura di educare il proprio figlio all’amicizia, lo perderà non appena avrà finito di essere un bambino (Johann M. F. Rückert). Mentre si attende. Nell’attesa si contano i difetti di chi ci fa aspettare (detto francese). Lui è proprio così. Credeva di essere il più saggio esponente della nuova generazione politica. Era invece il meno maturo di quella vecchia (Dino Basili).
Il tempo preso a volo. Il più grave e diffuso atto di irresponsabilità nei confronti del presente è l’incredibile, sconsiderato scialo di esso: «il tempo si chiede come fosse niente, si dà come fosse niente» (Brev. 17, 5). Come l’uomo si lascia derubare del presente dagli altri e come egli stesso lo sprechi, Seneca lo ha descritto in pagine memorabili. Molti sono i modi in cui la stoltezza si manifesta, ma il denominatore comune è e rimane sempre lo stesso: la dissipazione della propria esistenza attraverso la perdita di quel tempo di cui dovremmo, invece, assicurarci il possesso. Ed è unica anche la via per trasformare il tempo in un bene tangibile e fecondo: solo la riscoperta dell’interiorità e la socratica «cura dell’anima» possono farci uscire da uno stato di alienazione e restituirci finalmente a noi stessi. Allora il tempo – passato, presente, futuro – non fa più paura: «è privilegio, infatti, di una mente serena e tranquilla poter spaziare in ogni parte della sua vita» (ibid. 10, 5). Il passato non è più da temere perché è stato vissuto bene, o è redento dal pentimento; e al futuro l’uomo saggio e buono può rivolgersi, come dirà Plutarco qualche decennio dopo, «con speranza lieta e luminosa, senza timore e senza diffidenza». E il presente? Il presente diventa quello che i greci designano col termine kairós. Seneca, a cui non piace usare parole di lingua greca, parla di tempus captatum (Ad Luc. 22, 5), afferrato a volo, al giusto momento: un tempo, quindi, su cui letteralmente «bisogna saltare addosso» (ibid.). Ci vuole, però, una coscienza desta e una volontà tesa per trasformare le circostanze in materia e strumento di iniziativa morale. Qui non si tratta solo di accettare con coraggio l’inevitabile, cosa che pure ha grande importanza, ma di lasciar spazio alla creazione di una vita più alta che prima del nostro agire non c’era.
Due riflessioni di Tocqueville. La causa decisiva che, alla lunga, fa perdere il potere. Quando mi capita di cercare in tempi diversi, in epoche diverse, presso popoli diversi, quale sia stata la causa decisiva che ha prodotto la rovina delle classi che governano, considero certo con attenzione tale avvenimento, tale uomo, tale causa accidentale o superficiale; ma siate persuasi che la causa reale, la causa decisiva che fa perdere agli uomini il potere, è che sono diventati indegni di averlo (Dal discorso parlamentare pronunciato il 27 gennaio 1848. Il testo è nel volume Scritti, note e discorsi politici 1839-1852, Torino 1995). Per affermare e credere le verità morali. Le verità matematiche, per essere dimostrate hanno bisogno soltanto di osservazioni e di fatti; ma per afferrare e credere le verità morali, ci vogliono dei costumi (Dal discorso tenuto il 3 aprile 1852 all’Accademia delle Scienze morali e politiche).
«Una Repubblica, se saprete mantenerla…». Alla domanda dei cittadini che avevano aspettato i Padri Fondatori fuori dall’Assemblea Costituente di Filadelfia: «Che cosa ci avete dato?», Benjamin Franklin rispose: «Una repubblica, se saprete mantenerla». Parafrasando la molto sobria e saggia risposta di Franklin, potremmo dire che la Resistenza e i Costituenti italiani ci hanno dato una democrazia, per l’appunto, «se sapremo mantenerla…». Oggi e domani, per mantenere una democrazia, sono necessari cittadini che esigano il pluralismo delle fonti d’informazione e che apprezzino nel pubblico e nel privato l’imparzialità o, quanto meno, la loro competizione nel rispetto dei valori costituzionali condivisi. Senza pluralità delle fonti d’informazione muore, a poco a poco, anche la libertà politica.
Poesia del Novecento. Assenza. Assenza, / più acuta presenza. / Vago pensier di te / vaghi ricordi / turbano l’ora calma / e il dolce sole. / Dolente il petto / ti porta, / come una pietra / leggera (Attilio Bertolucci, Sirio, Milano 1929).
6 novembre 2003.
Linea recta brevissima. Una buona conoscenza. Una buona conoscenza dei tanti aspetti relativi di una cosa è la strada maestra per arrivare a una conoscenza assoluta di quella stessa cosa, anzi la costituisce (Antonio Sparzani). Nel difficile lavoro del giornalista. Giustizia e libertà di stampa sono due utopie, che tuttavia non bisogna abbandonare e trascurare, ma cercare di difendere e possibilmente realizzare ancora nel nostro lavoro (Alberto Cavallari). Se vuoi farti un’idea di una società. Se vuoi farti un’idea di una società, vai a scoprire quelli che sono in prigione (John Dewey).
Ciò che suscitò in Bergson «grande stupore». È interessante ricordare quando e come il tempo divenne l’argomento tematico della filosofia bergsoniana. La riflessione semplicissima che suscitò «grande stupore» in Bergson, dando il primo avvio al «mutamento», fu la seguente: «Se tutti i movimenti dell’universo si producessero due o tre volte più rapidamente, non ci sarebbe nulla da modificare né nelle nostre formule, né nei numeri che noi vi facciamo entrare» (Essai sur les données immédiates de la conscience, in Oeuvres, Paris 1959, pp. 77-78). Al limite, se una rapidità infinita racchiudesse il successivo nell’istantaneo, nessuna formula scientifica sarebbe modificata; ma se ciò accadesse, il tempo sarebbe azzerato e così pure il divenire. Quell’ipotesi che balenò alla mente del giovane professore di liceo non era affatto una fantasticheria; essa era ed è l’esatta formulazione del «sogno mefistofelico» che ha tentato non pochi scienziati anche di primo piano, da Laplace ad Einstein. Parlando a nome dell’intera corporazione di cui faceva parte, Einstein è arrivato a scrivere: «Per noi che crediamo nella fisica la divisione tra passato, presente e futuro ha solo il valore di un’ostinata illusione» (Opere scelte, Torino 1988, p. 707). Ma se quella pretesa potesse mai verificarsi, o anche soltanto apparire plausibile, le conseguenze che ne deriverebbero nella concezione della realtà e nella vita morale sarebbero da incubo. Il problema del tempo, infatti, fa tutt’uno con quello della libertà e tale connessione nessuno l’ha colta ed espressa con la lucidità e l’intensità di Thomas Eliot nei Quattro quartetti: «Tempo presente e tempo passato / sono forse entrambi presenti / nel tempo futuro e il tempo futuro / è contenuto nel tempo passato. / Ma se tutto il tempo è eternamente presente, / tutto il tempo è irredimibile» (Milano 1995, p. 95).
Grande, attualissimo Alexis de Tocqueville. Uno dei pensatori politici più eminenti che abbia avuto l’Europa nel secolo XIX è stato Alexis de Tocqueville. La manifestazione clamorosa del suo pensiero politico, a cavallo degli anni Trenta e Quaranta del secolo, fu La democrazia in America. Con la sua straordinaria analisi Tocqueville sembra oltrepassare la fase presente di una società e delle sue trasformazioni politico sociali per afferrare l’intero ciclo di sviluppo successivo. Nessuno come lui aveva la capacità di proiettarsi in avanti a partire dalle inquietanti virtualità del presente. Per questo i suoi scritti non sembrano mai esaurirsi al momento storico esaminato e al tipo di società che lo caratterizza. Si può dire persino che la ricerca accanita degli anni Cinquanta, culminante nell’opera L’Ancien Régime e la Rivoluzione, mira a rintracciare, in una sorta di verifica a ritroso, i presupposti storici delle insidie che mettono in pericolo la democrazia, i germi di distruzione che essa reca nel suo seno. Non molti sanno, però, che Tocqueville partecipò per più di un decennio alla vita politica francese dispiegando senza tregua la sua attività come deputato e come giornalista, come esponente dell’opposizione e come uomo di governo. L’importanza di questa esperienza eccezionale ce l’ha documentata uno studioso attento e autorevole qual è Umberto Coldagelli, curatore del volume: A. de Tocqueville, Scritti, note e discorsi politici. 1839-1852, Torino 1995.
Poesie del nostro tempo. Esili finestre. Porto negli occhi / tre esili finestre / sorelle del silenzio / nel grembo di un’abside, / fessura dell’infinito. / Spiano nella notte / l’intenerirsi del cielo, / sognano / ad occhi chiusi / il ritorno del Signore (Angelo Casati).
13 novembre 2003.
Linea recta brevissima. No, non sono povere ragioni. Le ragioni dei poveri non sono povere ragioni (Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano). Se dormissero di più. Dei dittatori e di certi potenti si dice che non riposano mai; sarebbe meglio per tutti che dormissero un po’ di più (Gianfranco Ravasi). Lui lo aveva capito più di un secolo fa. Noi beviamo, mangiamo o respiriamo il 90% delle nostre malattie (Louis Pasteur, 1822-1895). Radiografia della nostra crisi. La maggiore e più incisiva esperienza della nostra vita è l’impotenza di fronte al segreto per cui gli elementi tradizionali del nostro mondo spirituale si sono dissolti e noi siamo caduti in un processo di disintegrazione. La tentazione più devastante è quella di accettare tale processo come una necessità storica (Hannah Arendt). È terribile. Essere soli con un’altra persona, è cosa terribile (Thomas Eliot). Parlarne a chi ci ama. I guai fanno parte della vita, e se non ne sapete parlare alla persona che vi ama non le date l’opportunità di amarvi abbastanza (Dinah Shore). Ciò che sappiamo. Che l’amore è tutto, è tutto ciò che sappiamo dell’amore (Emily Dickinson).
Il pericolo dei nuovi media, se l’informazione è un menu preconfezionato. Se, grazie a internet, ognuno si preconfezionasse un suo menu giornaliero delle fonti di informazioni a cui vuole attingere e delle notizie che vuole unicamente ricevere, a esclusione di qualsiasi notizia politica e, comunque, contraria alle sue preferenze, e continuasse a nutrirsi di quel solo menu, la sua dieta sarebbe povera e i rischi per la democrazia sarebbero gravissimi. Infatti, si verrebbero a costituire nicchie di percettori di informazioni preconfezionate, isolate e protette, autarchiche, che si rafforzerebbero non soltanto nelle loro opinioni ma anche nei loro pregiudizi. Un’informazione di questo tipo finirebbe per minare alla base quello che è, forse, il principale fondamento e la ricchezza della democrazia: le relazioni tra cittadini di opinioni diverse. Dialogo, scambio di opinioni, confronto di idee, apprendimento di conoscenze e, naturalmente, possibilità di cambiare posizioni: questa è la democrazia com’è stata storicamente intesa, come ha funzionato, si è affermata, si è diffusa. Se non esiste più la possibilità di comunicare e poi di persuadersi a vicenda in un dialogo pubblico, la democrazia deliberativa viene colpita al cuore. Questo è il concetto che Gianfranco Pasquino illustra nella sua introduzione al volume Republic.com. Cittadini informati o consumatori di informazioni? di Cass Sunstein, Bologna 2003.
Moniti, analisi, appelli di un geniale pensatore politico. Il denso volume dedicato alla politica attiva di Tocqueville offre squarci di riflessione e aperture d’orizzonte anche per il nostro tempo. Eccone qualche «assaggio» tratto dall’intervento di Tocqueville nel dibattito sul discorso della Corona del 1842. Senza buoni costumi pubblici, quale società? C’è proprio bisogno di tante parole per dimostrare che, sostituendo all’interesse generale l’interesse particolare, si deprava la società? E non è una verità conosciuta quanto il mondo che la morale privata e la morale pubblica sono necessarie tanto al mantenimento di coloro che governano quanto a chi è governato? È mai esistita, forse, nell’universo senza buoni costumi pubblici una grande società e, soprattutto, una grande società libera? (p.23). Potere senza limiti, abuso di potere. Sono convinto che ogni volta che si rimetterà nelle mani di un potere una potenza illimitata il cui abuso può essere contrario agli interessi del paese, ma il cui uso può momentaneamente essere utile a coloro che lo dirigono, accadrà sempre, qualsiasi cosa si faccia, che gli uomini di Stato si serviranno di questo potere illimitato per nuocere in qualche misura agli interessi permanenti del paese (p. 24). La demoralizzazione della politica. Un male profondo agita il paese, questo male viene attribuito, secondo me, a cause la maggior parte delle quali sono secondarie. La causa profonda del male, di cui tutto il resto non è che un sintomo, è la demoralizzazione politica e dunque è verso la demoralizzazione politica che debbono volgersi gli occhi di tutti gli amici di questo paese (p. 27).
20 novembre 2003.
Linea recta brevissima. Il problema è lì. Non c’è uomo che non ami la libertà, il giusto però la esige per tutti, l’ingiusto solo per sé (Karl Ludwig Börne). È sempre questione di testa. I grandi avvenimenti del mondo hanno luogo nel cervello (Oscar Wilde). Un cervello limitato contiene una quantità illimitata di idiozie (Stanislaw Lec). L’estremo piacere e il timore corrispondente. L’estremo piacere che proviamo nel parlare di noi stessi deve farci temere di non darne affatto a chi ci ascolta (La Rochefoucauld). Il rimproverare se stessi e la pretesa che l’accompagna. C’è una sorta di piacere nel rimproverare se stessi. Quando critichiamo noi stessi sentiamo che nessun altro ha più il diritto di criticarci (Oscar Wilde).
Sì, una patria ce l’ho: la lingua italiana. Non sono purista, non sono nazionalista, però mi piace quel che diceva Albert Camus, algerino: «Sì, una patria ce l’ho: la lingua francese». La lingua non è soltanto un mezzo di comunicazione (allora tanto vale che tutti impariamo l’inglese), ma un qualcosa che vive nella nostra interiorità, mentre all’esterno la collettività che l’ha adottata sente in essa, o dovrebbe sentire, un ‘prestigio’ e un ‘valore affettivo’. L’unità linguistica finalmente raggiunta in Italia è un qualcosa oggi di vivo e operante, e perciò occorre difenderla dall’esterno e dall’interno. Dall’esterno c’è la cultura angloamericana che la insidia, dall’interno le spinte alla chiusura, ai separatismi. Per ora l’italiano continua a reagire con molta elasticità e singolare capacità di assorbimento delle parole straniere, grazie alla forte tradizione culturale che ha alle spalle, che la salva e le dà quella tenuta nella morfologia e nella sintassi, che è poi la struttura portante di una lingua. Certo, se la tronchiamo quell’eredità, saremo meno forti nel difenderci. Ciò detto, non nascondo che l’eccesso di anglomania comincia a preoccuparmi. Stiamo davvero esagerando. L’inglese si fa ormai slogan, simbolo, insegna, giornali e televisioni a gara lo diffondono. La cosa strana è che i più anglomani sono proprio i politici e gli enti pubblici (Gian Luigi Beccaria, Tuttolibri. La Stampa del 12 luglio 2003).
Costumi privati e costumi pubblici. Non sono soltanto i costumi pubblici che si alterano da noi, ma sono anche i costumi privati che si depravano. E notate, non dico questo da un punto di vista moralistico, lo dico da politico; sapete qual è la causa generale efficiente, profonda che fa sì che i costumi privati si depravino? È che i costumi pubblici si rovinano. Proprio perché la morale non regna negli atti principali della vita, essa non discende più nei piccoli. Proprio perché l’interesse ha sostituito nella vita pubblica i sentimenti disinteressati, l’interesse fa la legge nella vita privata. Io credo che stia accadendo nei nostri costumi privati qualcosa che è di natura tale da inquietare, da allarmare i buoni cittadini (dal celebre discorso parlamentare pronunciato da Tocqueville alla Camera il 27 gennaio 1848).
L’angolo della poesia. Gesù. E Gesù rivedeva, oltre il Giordano, / campagne sotto il mietitor rimorte: / il suo giorno non molto era lontano. / E stettero le donne in sulle porte / delle case, dicendo: «Ave, Profeta!» / Egli pensava al giorno di sua morte. // Egli si assise all’ombra di una meta / di grano, e disse: «Se non è chi celi / sotterra il seme, non sarà chi mieta.» / Egli parlava di granai ne’ Cieli: / e voi fanciulli, intorno lui correste / con nelle teste brune aridi steli. // Egli stringeva al seno quelle teste / brune; e Cefa parlò: «Se costì siedi, / temo per l’inconsutile tua veste.» / Egli abbracciava i suoi piccoli eredi: / «Il figlio – Giuda bisbigliò veloce – / d’un ladro, o Rabbi, t’è costì tra’ piedi: // Barabba ha nome il padre suo, che in croce / morirà». Ma il Profeta, alzando gli occhi / «No», mormorò con l’ombra nella voce; e prese il bimbo sopra i suoi ginocchi.
Questi versi, in terzine dantesche, sono di Giovanni Pascoli e sono tratti dal volume Poesie varie. Luigi Pietrobono commenta: «Per la vita che darà in luogo di Barabba, del ladro a lui anteposto, Gesù sente d’essere il padre vero di quel fanciullo; e in un impeto di amore lo piglia sui ginocchi e lo accarezza. Rivivere con più intimità e profondità di questa lo spirito di Gesù, non credo possibile; e nemmeno tratteggiarne più semplicemente e brevemente la figura divina e animarla di più poesia. Solo per questo carme il Pascoli meriterebbe di esser chiamato il poeta di Gesù».
27 novembre 2003.
Linea recta brevissima. La buona libreria. La buona libreria è quella dove ogni volta si compra almeno un libro – e molto spesso non quello (o non solo quello) che si intendeva comprare quando si è entrati (Roberto Calasso). Dobbiamo lavorare. Dobbiamo lavorare se non per gusto, almeno per disperazione, poiché tutto sommato lavorare è meno noioso che divertirsi (Friederich Nietzsche). Vietato predire il futuro. Non chieda ad un economista di predire il futuro, perché sbaglierà di certo (Milton Friedman). Un semplice pseudonimo della vita stessa. Il tempo è la cosa più importante: esso è un semplice pseudonimo della vita stessa (Antonio Gramsci). Avanti, verso il terricidio. Il 90% dei grandi pesci è sparito dagli oceani e il 12% degli uccelli è in via di estinzione (la notizia è riportata su Internazionale del 26 giugno 2003, p. 52).
Il sacrificio dei sette fratelli. La cascina dei Cervi è a Praticello, fra Campegine e Gattatico, in provincia di Reggio Emilia. Il padre Alcide, la moglie Genoeffa Cocconi, i sette figli, il più anziano dei quali, Gelindo, ha 24 anni. Gli sposati sono quattro con dieci figli. In tutto ventidue persone. Entrati come fittavoli nel fondo, vi avevano trovato cinque vacche; nel 1940 nella stalla ce ne sono cinquanta. I Cervi sono contadini riscattati dalla predicazione socialista; nella piccola libreria della cascina ci sono opere di Dostoevskij, di Jack London, manuali di agricoltura, ma anche raccolte della rivista Relazioni internazionali e della Riforma sociale di Einaudi. I Cervi sono antifascisti, ma quando è caduto il regime il 25 luglio 1943 il vecchio Alcide ha raccomandato ai figli: «Ragazzi, niente vendette». E ha festeggiato l’evento con una gigantesca abbuffata di tagliatelle a cui era invitato tutto il paese. Dopo l’8 settembre i Cervi non prendono parte alla resistenza armata sulle montagne, anche perché quell’autunno le formazioni partigiane non erano ancora costituite, ma assistono con ogni mezzo i prigionieri di guerra fuggiti dai campi: ne passano ottanta nella loro cascina in tre mesi. Ci fu una spiata e una banda armata di fascisti viene appositamente da Reggio e circonda il cascinale dei Cervi. L’ufficiale che la comanda intima la resa. I Cervi si difendono, ma cedono quando gli assalitori danno fuoco al fienile: sanno, infatti, che, bruciando la casa, sarebbero morti anche i bambini e le donne. Uno dei sette fratelli, Aldo, dice: «Quello che è accaduto è opera mia e me ne assumo tutta la responsabilità. Al massimo una parte della colpa può prendersela Gelindo, ma gli altri cinque devono rimanere vivi». I Cervi sono rinchiusi nella Caserma dei Servi a Reggio. La sera del 27 dicembre il tribunale speciale, istituito ai primi del mese, giudica i Cervi senza farli comparire in giudizio e li condanna a morte con una sentenza non pronunciata da una camera di consiglio. Saranno ammazzati tutti in un campo. Il padre e i familiari sapranno della loro morte solo l’8 gennaio del 1944. La madre muore dopo un anno. Di crepacuore.
Nascono da un’altra fonte. La conoscenza di ciò che è non apre direttamente la porta alla conoscenza di ciò che dovrebbe essere. Si può avere la conoscenza più chiara e più completa di ciò che è, e tuttavia non riuscire a dedurre da questa quale dovrebbe essere la meta delle nostre aspirazioni umane. La conoscenza obiettiva ci fornisce strumenti potenti per la conquista di certe mete, ma il fine ultimo e il desiderio di raggiungerlo devono nascere da un’altra fonte (Albert Einstein, Pensieri degli anni difficili, Torino 1965, p. 109).
Il criterio di giudizio secondo Platone. In nessuna circostanza, in nessun modo, Dio è ingiusto e non vi è nulla di più simile a Dio dell’uomo che, a sua volta, si impegna a diventare il più giusto possibile. Da questo si giudica la vera abilità di un uomo, ovvero la sua nullità, e la sua mancanza di umanità autentica. La conoscenza di questo principio è vera sapienza e virtù, l’ignoranza di esso è invece stoltezza e malvagità evidente. Si possono avere, certamente, altre abilità e sapienze apparenti, ma queste nelle arti si chiamano basso mestiere e, nell’esercizio del potere politico, finiscono col manifestare tutta la loro volgare grossolanità (Teeteto, 176 b-d).
4 dicembre 2003.
Linea recta brevissima. A chi sa più spiace. Ché perdere tempo a chi sa più spiace (Dante). Con letizia e allegrezza. Poiché il tempo non è una persona che potremo raggiungere sulla strada quando se ne sarà andata, onoriamolo con letizia e allegrezza di spirito quando ci passa accanto (Johann Wolfgang Goethe). Espressione, ma anche maieutica. Cercando la parola, si trovano i pensieri (Joseph Joubert). Il bisogno di leggere. Il bisogno di leggere è prima di tutto il bisogno di stare con se stessi (Carlo Bo). L’avevo detto! Sull’esito di ogni avvenimento in corso si fanno sempre tante ipotesi che, comunque finisca, si troverà sempre qualcuno che dirà: «L’avevo detto, io!» (Lev Tolstoj). Il danaro e la miseria. Il danaro non dà la felicità… figuriamoci la miseria! (Woody Allen).
Giovanni XXIII si confida con Étienne Gilson. In Francia, nel secolo XX, due grandi nomi riassumono in sé l’immensa portata della rinascita tomista: Jacques Maritain, mente speculativa di prim’ordine, ed Étienne Gilson, eminente storico del pensiero medievale nonché filosofo per proprio conto. I due erano molto diversi, ma profondamente legati da reciproca stima e da un’autentica amicizia. Mi piace qui far conoscere un episodio che lo stesso Gilson raccontò ad Anton Pegis, collega dell’Institute of Mediaevals Studies di Toronto, in una lettera del 12 dicembre 1960. Essendo a Roma tra il 7 e l’11 dicembre per tenere tre conferenze all’Università Lateranense, Gilson il 9 dicembre ebbe un’udienza privata con Giovanni XXIII. Ecco il suo racconto. L’attuale papa (il terzo che ho incontrato) è diverso dagli altri due. Per trentacinque minuti ha continuato a parlare quasi come se avesse voluto dar ragione di ciò che stava facendo. Per esempio non può spiegare la sua decisione di convocare un concilio… Si era domandato: «Perché non convocare un concilio? Sarebbe una buona cosa da fare… Eppure non riesco assolutamente a capire come mi sia venuta quest’idea». «Forse», suggerii, «fu quello che il catechismo chiamerebbe un caso della speciale assistenza dello Spirito Santo al papa». Accondiscese che questa spiegazione era possibile. Proseguì col dire che la sua profonda sofferenza come papa era il non poter sollevare tanti poveri sacerdoti dal «martirio» del celibato. Nulla, disse, gli impediva di farlo, né nella Scrittura né nel dogma, soltanto il pensiero dello sforzo eroico della Chiesa di diventare sancta, casta. Sentiva di non avere il diritto di disfare quello che la Chiesa di sua libera volontà aveva fatto a costo di tanta sofferenza. Tutto questo lo disse spontaneamente. Non scaturiva da un discorso precedente. Era solo qualcosa che voleva che io sapessi: che come papa era il suo dolore più grande.
Amare ciò che è già stato, ma vivere per il nuovo. «Rispetto l’esistente, ma a dire il vero rispetto anche ciò che diviene, perché proprio questo divenire prima o poi sarà un dato della realtà. Dobbiamo amare tutto ciò che è vecchio finché lo merita, ma in fondo dobbiamo vivere per il nuovo. E non dobbiamo mai dimenticare il grande legame che unisce le cose». Queste parole sono pronunciate da un personaggio dell’ultimo romanzo di Theodor Fontane, Lo Stechlin, un capolavoro della letteratura europea che esce postumo nel 1899, al declinare del secolo, ma esprimono l’intimo convincimento dello scrittore. I romanzi di Fontane, un prussiano discendente da una famiglia di ugonotti francesi emigrati, sono ora splendidamente tradotti nella nostra lingua e raccolti in due volumi dei Meridiani Mondadori. Un particolare biografico assai interessante: il giornalista Theodor Fontane aveva 57 anni quando pubblicò la sua opera prima e i suoi capolavori li scrisse fra i 70 e gli 80.
11 dicembre 2003.
Linea recta brevissima. Bene prezioso l’amicizia. Tutti vogliono avere un amico, nessuno si occupa d’essere un amico (Alphonse Karr). In amicizia non si può andare lontano se non si è disposti a perdonarsi scambievolmente i piccoli difetti (Jean de La Bruyère). Amico è con chi puoi stare in silenzio (Camillo Sbarbaro). Di fronte a un’opera d’arte. Per osservare un’opera d’arte occorre aprire gli occhi. Ma per comprenderla bisogna chiuderli (Alessandro Morandotti). In arte è difficile dire qualcosa che sia altrettanto buona del non dire niente (Ludwig Wittgenstein).
Scientifiche o no, le domande ci saranno sempre. Sono due le teorie dell’universo che attualmente vengono accreditate come probabili: quella del «big bang» e quella della creazione continua. Molti si chiedono quale delle due teorie sia più conforme alla Scrittura e al concetto di creazione. A me pare, invece, che sull’argomento non ci si debba allontanare dalle riflessioni magistralmente formulate in tre lezioni del 1971 a Toronto da Étienne Gilson. Cito la conclusione della terza conferenza Da Malthus al crepuscolo dell’evoluzione. «Io non cerco nella Genesi le mie informazioni scientifiche e non è alla Scrittura che chiedo quale delle due teorie dovremmo preferire. A prima vista l’universo della Genesi sembra essere un universo violento: “Che la luce sia! E la luce fu” – davvero un big bang! Ma se Dio avesse detto: «Che sia fatta una nube di idrogeno», sarebbe forse più scientifico? Se ci accontentiamo di dire che all’inizio c’è stata una grande esplosione, la domanda successiva sarà: un’esplosione di che cosa? E poi, come mai era capitato lì tutto quel materiale esplosivo? La scienza non può dare risposte a domande non scientifiche ma, scientifiche o no, le domande ci sono sempre state e sempre ci saranno. La Scrittura s’innalza al di sopra della scienza e della filosofia. Con un’esplosione o con un mormorio il cielo e la terra passeranno, ma le parole del Signore non passeranno».
Una poesia trascritta da uno studente di Berkeley, in California. Étienne Gilson è lo storico e pensatore europeo che ha dato il più grande contributo all’avanzamento degli studi filosofici e teologici, nel corso del Novecento, collegando università e istituzioni culturali del Canada e degli Stati Uniti alla scoperta del pensiero medievale. Nel 1968 tenne anche due corsi sul tomismo autentico all’Università di Berkeley per gli studenti californiani. In quella sede l’agitazione studentesca era allora molto alta, ma Gilson decise di mantenere la promessa e gli studenti accorsero a sentirlo in gran numero, costringendolo a spostarsi in aule assai più capaci. Alla partenza gli fu consegnata una poesia che uno studente aveva lasciato nel suo ufficio, con la firma: «Lindee Reese, Axoloti, Merritt College, 1968, p. 31». La poesia era intitolata Il pesce volante e conteneva questi versi: «Oh essere un pesce volante che sbuca con la testa / al di sopra dei confini del suo mondo / e sapere che c’è qualcosa di più da sapere». Gilson ne inviò copia ad alcuni amici più cari, perché gli era piaciuta, aggiungendovi un sottotitolo: Il pesce volante, o il metafisico.
L’angolo della poesia. Il bambino negro non entrò nel girotondo. Il bambino negro non entrò nel girotondo / dei fanciulli bianchi. I fanciulli bianchi / giocavano tutti in un vivo girotondo / di canzoni festive, e allegre risate… // Il bambino negro non entrò nel girotondo. // E arrivò il vento accanto ai bambini / e ballò con loro e con loro cantò / le canzoni e le danze delle dolci brezze, / le canzoni e le danze dell’aspre tempeste… // E il bambino negro non entrò nel girotondo. // Uccelli, in stormo, volarono cantando / sulle testine belle dei bambini / e si posarono tutti intorno. Alla fine, / volarono i loro voli, cantando i loro inni… // E il bambino negro non entrò nel girotondo. // – Vieni qua, negretto, vieni a giocare – / disse uno dei bambini con la sua aria felice. / La mamma, premurosa, corse subito ai ripari; / il bambino bianco non volle più, non volle più… // E il bambino negro non entrò nel girotondo / dei fanciulli bianchi… (Geraldo Bessa-Victor, poeta negro dell’Angola).
18 dicembre 2003.
Linea recta brevissima. La domanda che ci si deve porre. Per ogni desiderio ci si deve porre questa domanda: che cosa accadrà se il desiderio sarà esaudito, e che cosa se non lo sarà? (Epicuro). I bambini e i vocaboli. I bambini devono diventare golosi di vocaboli come se fossero dolci (Erik Orsenna). Assolutamente inaccessibile a chi è rozzo. A distinguere i santi non è la bontà, che in qualche misura può essere presente anche nei peccatori, ma la bellezza spirituale, assolutamente inaccessibile all’uomo rozzo (Pavel Florenskij). Ci sono anche i vili, i gretti, gli egoisti. Non sono i cattivi che fanno la più grande quantità di male nel mondo. Anche le civiltà sono mortali. Noi altri, e la nostra civiltà, ora sappiamo di essere mortali. (Paul Valéry)
Natale, luce nuova per il mondo. O luce nuova per il mondo, o grazia in tutto il cielo! / Che fulgore fu quello, quando Cristo dal ventre di Maria / comparve in questo mondo. // Generosa pietà! Perché non ci opprimesse giogo servile, / perché non fossimo sottomessi al potere del peccato, / il Signore, l’Altissimo, / prese membra di schiavo. Ospitato nella sua pienezza in un corpo di bambino, / Dio riposò nell’angusta mangiatoia di una stalla. // Salve, genitrice santa, madre che partoristi il Re / signore del cielo e della terra per i secoli. / Egli, appena nato, prima risplendette ai pastori ignari. / E la schiera degli angeli cantò il prodigio. L’autore di questo inno natalizio è Celio Sedulio, poeta cristiano del secolo V. L’editrice Morcelliana di Brescia ha pubblicato, nella primavera del 2003 una magnifica raccolta, Inni preghiere cantici. Poesia latina cristiana dal IV al XIII secolo, a cura di Ugo Trombi. È uno splendido libro che ci propone composizioni oggi ormai introvabili, nel loro testo originario e in traduzione italiana. È un godimento per lo spirito sostare, un poco ogni giorno, in loro compagnia. Opere come queste aprono nuovi spazi alla comprensione dell’evento cristiano, coniugano felicemente schietta pietà e poesia autentica, ci immettono nella tenerezza della fede.
Come una grande nazione può trasformarsi in un popolo di servitori. Ove si lasci che le cose seguano il loro corso e i vizi delle istituzioni si sviluppino attraverso i vizi degli uomini [che ad esse presiedono], giungeremo a un grado di miseria morale di cui nessun popolo è ancora stato testimone, perché nessuno si è mai trovato in condizioni analoghe. Voi credete che il male sia giunto al suo ultimo stadio? Disilludetevi, esso è all’inizio. Finora i nostri costumi sono stati più validi delle nostre leggi e le nostre opinioni lottano ancora contro la pressione degli interessi particolari, ma la corruzione avanza anche se non ha ancora completamente trovato la sua teoria e il suo codice. Ma lasciamo che la società cammini per qualche tempo per quella via dove si è già incamminata e a poco a poco quello che oggi è un eccesso diventerà una regola: si instaurerà come regola di Stato che l’amministrazione deve i suoi favori e anche la sua giustizia solo a coloro che l’appoggiano. In tal modo la corruzione non soltanto non verrà più respinta, ma sarà accettata e subita. Che cosa aspettiamo dunque? Vogliamo, prima di uscire dal nostro letargo, che questa grande nazione sia trasformata in un popolo di servitori e che il commercio delle coscienze divenga condotta abituale del potere politico? (Traggo la citazione dall’articolo di Tocqueville, pubblicato a Parigi il 24 novembre 1844).