7 gennaio 2004
Linea recta brevissima. Attingere alla sorgente. Ma l’esistenza non è ancora stregata; in cento / luoghi è ancora sorgente. Un gioco di forze / pure che nessuno attinge se non prega e ammira (Rainer Maria Rilke). Ciò che la vita insegna. Ciò che la vita insegna è che si deve essere riconoscenti (Andrej Siniavskij). L’ostacolo e il valore. Quanto più penosa è la prova che ad un uomo tocca subire, tanto più essa rivela ciò che quell’uomo vale (Levi Appulo). La scienza più avvincente. Seguire i pensieri di un grande è la scienza più avvincente (Aleksandr Puskin).
Quello che può uno sguardo innocente. Agnes Heller è la pensatrice ungherese, vissuta in prevalenza negli Stati Uniti, nota per la sua proposta di «antropologia sociale» e per la lettura antieconomicista di Marx, tesa a valorizzare i bisogni radicali della persona umana e a riaprire la prospettiva morale. Nata nel 1929 a Budapest, la Heller è una singolare testimone del nostro tempo: ebrea, sopravvissuta alla barbarie nazista, scomoda per il regime del «socialismo reale» che l’accusò di «revisionismo», con la sua ricerca – portata avanti negli spazi aperti dell’accademia americana – ha fatto da controcanto alle varie stagioni del secondo Novecento in nome di un’esigenza etica, fortemente radicata nella convinzione del valore fondante dell’essere personale. La sua famiglia viveva nascosta in una casa non lontana dall’uscita del ghetto di Budapest, circondato da tutte le parti. Agnes era poco più che una bambina: le retate delle SS si susseguivano, e le ore che separavano lei e i suoi cari dalla tragedia sembravano contate. Fu allora che spiando dalla finestra, si accorse che dei due soldati tedeschi di guardia all’uscita del ghetto, uno si era allontanato. Il ragionamento che fece in quel momento fu semplice, fulmineo: se mi avvicino ora al soldato e lo guardo negli occhi, avrà pietà di una bambina, perché in assenza del controllo d’altri la sua umanità non avrà paura a manifestarsi. Fu questione di attimi: la cosa andò come Agnes aveva previsto. Il soldato, fissato negli occhi da una bambina spuntata dal silenzio del terrore, dopo un attimo di esitazione consentì a lei e ai suoi cari di uscire indisturbati dal ghetto, senza alcun segno di riconoscimento. Fu la loro salvezza. Da questa esperienza, la Heller trasse la convinzione che è alla base di tutta la sua opera: c’è un’umanità in tutti noi, una coscienza morale, e questa coscienza – posta in condizione di potersi esprimere liberamente – non resiste alla trascendenza dello sguardo d’altri, soprattutto dello sguardo innocente. È sulla base di questo residuo etico, incancellabile nonostante ogni odio e violenza, che si deve scommettere sempre sull’uomo, consentendo all’umano che è in noi di imporsi su ogni altra logica, e soprattutto su ogni calcolo di interesse immediato. Qualche anno fa, nell’ambito di un convegno promosso a Pisa, Bruno Forte chiese ad Agnes Heller come riuscì a scampare alla persecuzione razziale dei nazisti e delle milizie fasciste del suo Paese. Il teologo italiano trascrive la risposta della scienziata ungherese nel volumetto La guerra e il silenzio di Dio, pubblicato dalla Morcelliana di Brescia nella primavera del 2003. Il brano, nella sua estrema semplicità, ci fa rivivere un evento che sa di prodigio.
«La ninna-nanna de la guerra» di Trilussa. Ninna nanna, nanna ninna, / er pupetto vô la zinna (poppa): / dormi, dormi, cocco bello… // Ninna nanna, pija sonno / ché se dormi nun vedrai / tante infamie e tanti guai / che succedeno ner monno/ de li popoli civili… // Ninna nanna, tu nun senti / li sospiri e li lamenti / de la gente che se scanna / per un matto che comanna… // Ché quer covo d’assasini / che c’insaguina la terra / sa benone che la guerra / è un gran giro de quatrini / che prepara le risorse / pe li ladri de le Borse. // Fa la ninna, cocco bello, finché dura sto macello… (Da Tutte le poesie di Trilussa, Milano 1954, V edizione, pp. 501-502. Questa poesia reca la data Ottobre 1914).
15 gennaio 2004.
Linea recta brevissima. Vorrei meritare un’epigrafe del genere. Mi sono sempre sforzato di svegliare quelli che dormono e di impedire agli altri di addormentarsi (George Bernanos). Quando la cultura diventa disciplina e umanizzazione. Ci sono uomini per i quali la cultura non è un elemento dell’ambiente, qualcosa di connaturale, quasi una necessità dello status sociologico in cui ci si trova installati sin dalla nascita. Per costoro la cultura è conquista aspra, faticata e insieme fonte inesauribile di gioia; per alcuni essa diventa anche disciplina che umanizza e apertura all’orizzonte della fede (Levi Appulo). L’arte del potere. L’arte del potere è l’arte che serve a mascherare il potere (Enrico Baj nell’ultima sua intervista rilasciata il 15 aprile 2003, due mesi prima di morire, a Gérard Berréby).
La nostra giovinezza. Il 10 giugno 1940 Mussolini gettò l’Italia in una guerra che si illudeva di aver vinto prima ancora di battersi perché Parigi stava per arrendersi ai nazisti. Ricordo che quel giorno mia madre ascoltava alla radio il discorso del Duce e piangeva silenziosamente. Fu in quell’estate che noi studenti di quindici-sedici anni di un grosso borgo del Sud – Laterza, in provincia di Taranto – fummo in un certo senso costretti dagli eventi a porci ben presto le domande difficili a cui tuttavia era necessario dare una risposta. I nostri incontri pomeridiani si trasformarono così, a poco a poco, in momenti di confronto e autoformazione. Alcuni grandi libri divennero le nostre letture comuni: leggevamo con ardore l’Apologia di Socrate e il Fedone, le Confessioni e i Soliloqui di sant’Agostino, i Pensieri di Pascal. Confrontavamo i passi sottolineati da ciascuno ed era una festa dello spirito constatare la convergenza delle scelte operate, ma anche l’arricchimento che ci veniva dalla valorizzazione di ciò che ognuno aveva singolarmente colto e che era sfuggito agli altri. Questa sorta di «mutuo insegnamento» costituiva per noi qualcosa di prezioso e ci orientava sempre più a interrogarci sul significato della vita, sul futuro della Patria, sul nostro rapporto con Dio. La piccola lieta brigata continuò a riunirsi nei mesi estivi del 1941 e del ‘42 e a rendere più puntuali e approfondite le letture e le discussioni. Due libri, che circolavano liberamente, ebbero, però, una particolarissima importanza: La mia battaglia di Hitler, nell’edizione Bompiani, debitamente epurata per i lettori italiani, e un testo commentato della prima enciclica di Pio XII, la Summi pontificatus, in cui si condannava esplicitamente il nazionalismo imperialistico, il neopaganesimo razzista e l’oppressione totalitaria delle coscienze. Fu per noi occasione decisiva anche la possibilità di conoscere dichiarazioni e documenti integrali delle parti in conflitto grazie ai memorabili inserti che L’Osservatore Romano, allora diretto da Guido Gonella, pubblicava il giovedì e la domenica.
Le scelte a cui un po’ per volta pervenimmo. La lettura approfondita dell’opera in cui Hitler aveva formulato le sue aspirazioni e le sue idee, prima di giungere al potere, fece nascere in noi una convinzione gravida di conseguenze: legare il destino dell’Italia alla vittoria di Hitler avrebbe comportato inevitabilmente per la nostra Patria, in caso di vittoria, un futuro di totale asservimento all’ideologia razzista e alla sua folle volontà di dominio. Quel libro preannunciava in maniera impressionante la volontà di imprimere al terzo millennio il sigillo della croce uncinata, cancellando per sempre dall’Europa la croce di Cristo. Fu proprio la lucida consapevolezza della catastrofe che si sarebbe abbattuta sul mondo con il trionfo del neopaganesimo razzista a farci capire quanto fosse necessario all’umanità il Vangelo. La conclusione a cui un po’ per volta pervenimmo fu la seguente: il rifiuto assoluto della barbarie nazista esigeva, nello stesso tempo, l’obbligo morale e politico di dire no alla dottrina e alla politica del fascismo, ormai alleato del nazismo e ad esso subalterno.
Può tutto essere espresso scientificamente? La moglie del fisico Max Born chiese ad Einstein se riteneva che assolutamente tutto possa essere espresso scientificamente. «Sì – rispose – sarebbe possibile, ma non avrebbe senso. Sarebbe una descrizione ma senza significato, come se si dicesse di una sinfonia di Beethoven che è una variazione della pressione ondulatoria» (Ronald W. Clark, Einstein: The Life and Times, New Jork 1971, p. 192).
22 gennaio 2004.
Linea recta brevissima. La luce che splende nelle pupille. Da dove viene, da che paese, da che valle, da che contrada fuori di te e di me, la luce che splende nelle pupille? I nostri sensi crescono e s’espandono per avvertire fino in fondo l’esiguità dello spazio che c’è dato, la prigionia del tempo che ci è assegnato e desiderare così più ardentemente il sentiero che non ha fine (Giovanni Testori, 1923-1993).
Non arbitrarietà, ma delicato equilibrio. Far propria una libertà che non sia arbitrarietà, ma equivalga alla possibilità di essere se stessi: ed essere se stessi non significa abbandonarsi a brame di possesso e a desideri dispersivi, bensì darsi quel delicato equilibrio che nasce dalla consapevolezza che ad ogni istante ci si trova di fronte alla scelta fra crescita o declino, vita o morte (Eric Fromm, 1900-1980).
Nella storia della democrazia parlamentare non è mai accaduto. È significativo che in tutta la storia della democrazia parlamentare non ci sia stato in alcun paese un grande statista che fosse un uomo d’affari. Spesso uomini come Bonar Law in Inghilterra, Loucheur in Francia hanno coperto dei posti elevati, e magari altissimi, ma non si sa che ve ne siano stati i quali siano riusciti ad esercitare sui loro contemporanei l’influsso che esercitarono uomini della statura di Washington, Lincoln, Gladstone, Bismarck, o Cavour. La ragione, io direi, è semplicemente questa, che l’opinione pubblica non ha mai potuto ammettere la pretesa del capitalista di essere il fiduciario dell’interesse pubblico. Essa l’ha sempre considerato per quello che è, come uno specialista nel far danaro, e non ha mai effettivamente creduto che abbia senso di responsabilità fuor dell’ambito ristretto della sua classe. Egli non ha mai considerato la legge come un complesso di principii che stanno al di sopra del suo gretto interesse, ed ha sempre cercato, con mezzi leciti o illeciti, di farla interpretare ai suoi propri fini. Certo, per la sua strada il grande uomo d’affari ha dimostrato di essere tutto dedito al suo compito e coscienzioso, e non v’è ragione di dubitare della sua sincerità quando crede che il suo benessere privato combaci col bene pubblico. Quando, come in America, egli ha comprato giudici, governatori di stato, e magari i presidenti stessi, l’ha fatto convinto che il renderli pieghevoli strumenti ai suoi fini era per il popolo americano il meglio e si difese nell’unico modo che credeva adatto, perché credeva effettivamente nel suo diritto divino di comandare. Queste riflessioni di Harold Laski, sono tratte dal libro Democrazia in crisi, pubblicato in Inghilterra nel 1933 e tradotto nella nostra lingua due anni dopo nelle edizioni Laterza di Bari. Di famiglia ebraica, Laski fu illustre teorico e uomo politico britannico. Insegnò di scienze politiche nelle università statunitensi di Harvard e Yale fino al 1920, alla London School of Economics e all’università di Londra negli anni successivi. Esponente di rilievo politico-parlamentare nel partito laburista, influenzò in maniera notevole la formulazione del programma e l’attività legislativa del governo Attlee, formatosi nel 1945. Tra i suoi scritti tradotti in italiano, chi ha a cuore le sorti della democrazia e vuol aprire la politica all’ispirazione evangelica farà bene a cercare in biblioteca Fede ragione e civiltà. Quel libro, uscito durante la guerra, nel 1944, e tradotto da Einaudi nel 1947, è uno di quelli che ha illuminato la nostra giovinezza.
29 gennaio 2004.
Linea recta brevissima. Fatti per l’infinito. La grandezza dello spazio è simbolo di un’altra grandezza. La vetta di una montagna, che ci scopre l’orizzonte, ci parla di una liberazione e non è prodotta soltanto dalla vista di una maggiore estensione di terra. L’orizzonte che si allarga obbliga i muri della nostra prigione ad allargarsi anch’essi, e la nostra gioia è profonda. Fatti per l’infinito, la nostra anima si dilata quando il cielo e il mare si ingrandiscono sotto i nostri occhi (Ernest Hello, 1825-1885). Il bello, evidenza non dimostrabile. Il bello ci pone dinanzi a un’evidenza indimostrabile, che può essere giustificata solo contemplandola. Il suo mistero illumina dal di dentro ciò che a noi appare così come l’anima irradia misteriosamente in uno sguardo (Pavel Nikolaevič Evdokimov, 1901-1970).
Le «finestre» di Eduardo Galeano. Eduardo Galeano, nato a Montevideo nel 1940, nel 1973 lascia il suo Paese, in seguito al golpe militare, e vi rientra nel 1985. Dopo il successo della trilogia Memoria del fuoco, Galeano torna a stupire i lettori con un libro-sogno intessuto di leggende profane e religiose, parabole indigene, digressioni personali. Egli è lo scrittore che con la girandola dei suoi frammenti, ci fa cogliere il lato notturno della psiche latino-americana. Ed ecco qualche citazione da Parole in cammino (Milano 1998).
Finestra introduttiva. La prego, per favore, di non offendermi chiedendo se questa storia è davvero accaduta. Io gliela offro perché lei faccia in modo che avvenga davvero… Non ci vuole molto a scrivere quello che si vive. Il difficile è vivere ciò che si scrive. Finestra sulla parola. In lingua guaranì uno stesso termine significa «parola» e significa anche «anima». Gl’indigeni guaranì credono che coloro che mentono o abusano della parola tradiscano l’anima. Finestra sui muri. A Quito: «Quando avevamo ormai tutte le risposte, ci hanno cambiato le domande». A Lima: «Non vogliamo sopravvivere. Vogliamo vivere». Finestra sulle dittature invisibili. La libertà del mercato ti consente di accettare i prezzi che ti impongono. La libertà d’opinione ti consente di ascoltare quelli che esprimono opinioni a tuo nome. Finestra sull’uomo di successo. Non può guardare la luna / senza calcolarne la distanza. Non può guardare un quadro / senza calcolarne il prezzo. Non può guardare un uomo / senza calcolarne il vantaggio.
Psicologia del desiderio in Niccolò Machiavelli. Quanto è più propinquo l’uomo a uno suo desiderio più lo desidera, e non lo avendo, maggiore dolore sente (Clizia, atto I, scena seconda). La natura ha creato gli uomini in modo che possono desiderare ogni cosa e non possono conseguire ogni cosa; talché essendo sempre maggiore il desiderio che la potenza dello acquistare, ne risulta la mala contentezza di quello che si possiede, e la poca soddisfazione d’esso (Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio, XXXVII). Gli uomini sono più lenti a pigliare quello che possono avere che non sono a desiderare quello che non possono aggiugnere (Istorie fiorentine, II, XXXI).
Io non ho detto niente… Come questo è stato possibile! / Quando i nazisti sono venuti a cercare / i comunisti, / io non ho detto niente. / In effetti, io non ero comunista. // Quando hanno messo in prigione / i socialdemocratici, / io non ho detto niente. / In effetti, io non ero socialdemocratico. // Quando sono venuti a cercare / i cattolici, / io non ho detto niente. / In effetti, io non ero cattolico. // Quando sono venuti a cercare me, / non c’era più nessuno / per protestare. Queste parole, terribilmente ammonitrici, sono di Martin Niemöller. Verso la fine del 1933 Niemöller presiedette la lega di 2000 pastori evangelici che rifiutarono la nazificazione delle loro Chiese e proclamarono la loro decisione di proteggere gli ebrei perseguitati. Niemöller, arrestato nel 1937, fu internato per sette anni.
5 febbraio 2004.
Linea recta brevissima. La verità è una persona. Dal momento in cui abbiamo inteso Cristo affermare: «Io sono la Verità», noi cristiani sappiamo ciò che nessun altro aveva potuto insegnarci, sappiamo che la verità è una persona. Non è venuta ad aggiungere un’idea alle nostre idee né a sottrarci quelle che già avevamo. Essa non ci propone un sistema, ma un’amicizia (André Frossard). Amore e rispetto per la vita. Amore e rispetto per la vita in tutte le sue manifestazioni con la consapevolezza che non le cose e il potere, bensì la vita e tutto quanto riguarda la sua crescita hanno carattere sacro (Eric Fromm).
In un foglio, accuratamente ripiegato… La giornata si annunciava splendida. Un sole rosso sorgeva sull’aeroporto di Bruxelles-Zaventem. Il Boeing 747 della Sabena atterrò in orario. Mentre i passeggeri, con gli occhi ancora pieni di sonno, scendevano la scaletta per raggiungere le due navette, un controllore in tuta bianca fece il giro dell’apparecchio. Dal vano del carrello di atterraggio sinistro uscivano tre dita di una mano, aggrappate al bordo della paratia. Il controllore si avvicinò e nel carrello di atterraggio scoprì i corpi rannicchiati di due adolescenti, neri e fragili, con i tratti del viso irrigiditi dal terrore. Erano quelli di Fodé Touré Keita e Alacine Keita, due ragazzi di quindici e quattordici anni, provenienti dalla Guinea, che indossavano solo un paio di pantaloncini, sandali e camicia. Il vano principale del carrello di un Boeing 747 contiene sedici grosse ruote. Il compartimento, ampio e alto due metri, si può aprire solo dalla cabina di pilotaggio, ma quando l’aereo si trova sulla pista chiunque, purché riesca a eludere la sorveglianza del personale addetto alla manutenzione, può intrufolarvisi. Durante il volo, a velocità di crociera, un Boeing 747 raggiunge gli undicimila metri; a quell’altezza la temperatura esterna è di cinquanta gradi sotto zero. I due adolescenti erano probabilmente entrati nel vano del carrello durante lo scalo a Conakry. Nella tasca della camicia di Fodé, il controllore trovò un foglio, accuratamente ripiegato e coperto da una scrittura incerta: «Se vedete che noi sacrifichiamo e rischiamo la nostra vita, è perché soffriamo troppo in Africa e abbiamo bisogno di voi per lottare contro la povertà e mettere fine alla guerra in Africa. Ma vogliamo studiare e vi chiediamo di aiutarci per essere come voi, in Africa… Infine vi preghiamo di scusarci molto per aver osato scrivervi questa lettera, a voi, grandi personaggi a cui dobbiamo molto rispetto. E non dimenticate che è con voi che dobbiamo lamentarci della debolezza della nostra forza in Africa». La tragedia è avvenuta nel 1999. Il testo della lettera è stato pubblicato dall’Ufficio europeo delle Nazioni Unite in E/CN. 4/2000/52, Ginevra 2000. Io ne sono venuto a conoscenza leggendo la prima pagina del libro di Jean Ziegler, La privatizzazione del mondo, Milano 2003.
Quando si accende l’amore. Quando il cielo è spento dalle nuvole – scriveva Paul Claudel – la superficie del lago è piatta e metallica; quando brilla il sole, essa si trasforma in uno specchio mirabile delle tinte del cielo e della terra. Così, infatti, è della vita dell’uomo quando s’accende l’amore: il panorama è sempre lo stesso, il lavoro è sempre monotono o alienante, le città anonime e fredde, i giorni identici l’un l’altro; eppure l’amore tutto trasfigura e allora si ama tutto e tutto si vede con occhi diversi perché l’uomo sa che alla sera incontrerà la sua donna… L’amore che sboccia in una coppia s’irradia nell’umanità, ha un’eco che rende meno aspro il rumore del mondo, ha un influsso che rende meno malvagia l’umanità. L’amore vero, allora, sfida il tempo: è certamente la storia passata di un incontro, ma è anche una presenza sorprendentemente fresca, è anche l’attesa di un futuro sempre nuovo da assaporare. L’amore è, quindi, ricordo, presenza e speranza; è parola e silenzio (Gianfranco Ravasi, Cantico dei cantici, Cinisello Balsamo 1985).
12 febbraio 2004.
Linea recta brevissima. Non può amare Dio chi lo teme. L’uomo non può rispondere all’appello di Dio finché ha paura, perché chi ha verso di lui un timore servile non può amare il creatore del genere umano. A Dio rendiamo vero ossequio solo quando non lo temiamo più, quando abbiamo fiducia nel suo amore. Solo l’affetto e non il timore ci spinge alle buone opere (Gregorio Magno papa, 540-604). Il sole in una goccia d’acqua. Un artista ci presta i suoi occhi e ci fa vedere in un frammento il Tutto. Il Tutto è presente nel frammento come il sole che si riflette in una goccia di rugiada (Pavel Nikolaevič Evdokimov).
Una filosofia suscettibile della stessa precisione della scienza positiva. Nel 1915 Henri Bergson, tracciando per l’Esposizione universale di San Francisco un panorama de La philosophie française, alla fine si imbatte nel… bergsonismo. Il filosofo presenta il suo itinerario speculativo e il suo metodo in questi termini: «une entreprise pour porter la métaphysique sur le terrain de l’expérience et pour constituer, en faisant appel à la science et à la conscience, une philosophie capable de fournir non plus seulement des théories générales, mais aussi des explications concrètes de faits particuliers». Di qui la conseguenza: «La philosophie, ainsi entendue, est suceptible de la même précision que la science positive. Comme la science, elle pourra progresser sans cesse, en ajoutant les uns aux autres des résultats une fois acquis» (H. Bergsoi, Paris 1972, p. 1181). Una ricerca del genere esige uno spirito duttile, capace di trarre alimento dal contatto permanente con la vita, con la scienza, con il senso comune; solo allora la filosofia, sottomettendosi al controllo di tutti, non degenera in privilegio di casta e non si separa dall’umanità. Non si tratta per la filosofia di rinunciare alla ricerca del significato e all’ideale regolativo dell’unificazione del reale, ma che per compiti così ardui e necessari a un tempo essa non si affidi a procedimenti che consistono nel prendere l’una o l’altra idea in cui far entrare, con le buone o con le cattive, la totalità delle cose. Sono troppo facili, ma anche troppo fragili, le costruzioni sistematiche e i meccanismi dialettici; mancando del senso della misura e non sottoponendosi a un processo di continua verifica, gli uni e gli altri costituiscono piuttosto un pericolo che una via nella ricerca della verità. Invece di ridurre la realtà alla dimensione di una delle sue idee, il pensiero umano dovrà dilatarsi fino al punto di coincidere con una porzione sempre più vasta della realtà. In questo lavoro «le rôle de chaque philosophe est de prendre, sur l’ensemble des choses, une vue qui pourra être définitive sur certains points, mais qui sera nécessairement provisoire sur d’autres» (Mélanges, Paris 1972, p.1188).
Il solo vero custode di ogni altro diritto. Quali sono i presupposti per mantenere una repubblica? Il fattore essenziale è un sistema ben funzionante di libera espressione – «il solo vero custode di ogni altro diritto», per usare le parole di James Madison, presidente degli Stati Uniti dal 1809 al 1817. Un tale sistema dipende da uno spazio pubblico vario, nel quale una vasta gamma di voci abbia accesso a un pubblico vario, nonché a particolari istituzioni e pratiche contro le quali esse tentano di esprimere il loro disaccordo. Una repubblica dipende soprattutto dalle arene nelle quali possano incontrarsi e discutere con esperienze e prospettive diverse e con differenti opinioni su ciò che è buono e giusto. Le tecnologie emergenti non costituiscono affatto un nemico. Implicano molte più prospettive che rischi. Infatti offrono grandi opportunità nella misura in cui aiuteranno le persone comuni ad apprendere un infinito numero di cose, a ricercare instancabilmente opinioni differenti, ad aprirsi a una gamma di esperienze che non avrebbero mai selezionato a priori. Ma nella misura in cui aumentano la capacità di isolarsi da argomenti e opinioni che si preferirebbe evitare, le nuove tecnologie creano anche gravi problemi: che tali pericoli si materializzino dipenderà in ultima analisi dalle nostre aspirazioni ad avere una repubblica democratica e ad essere cittadini liberi (Cass Sunstein, Republic. Com, Bologna 2003, pp. 214-215).
19 febbraio 2004.
Linea recta brevissima. Un nuovo Vangelo? Ad ogni nuovo santo che nasce è un nuovo Vangelo che si scrive o più propriamente: il Vangelo muore e nasce tante volte, quante la Carità declina o rifiorisce. E quante volte si rileggono i Vangeli, tante volte Cristo con la sua parola si rifà vivo in mezzo a noi (Mario Pomilio nella pagina conclusiva del suo capolavoro Il quinto Evangelio). No, non arrivano fino al Cielo. Gli steccati fra le Chiese cristiane non arrivano fino al Cielo (Aleksandr Men’, grande maestro di spiritualità e di ecumenismo, ucciso misteriosamente il 9 settembre 1989). La preghiera del monaco Zosima. Fammi comprendere, Signore, che il paradiso è nascosto dentro ognuno di noi. Che ora, ecco, è qui nascosto anche dentro di me e che, se voglio, può cominciare realmente per me e durare per tutta la vita… Facci ricordare, Signore, che chi ama gli uomini ama anche la loro gioia, che senza gioia non si può vivere, che tutto ciò che è vero e bello è dono della tua misericordia infinita (Fëdor Dostoevskij).
Natale 1940, un’esperienza religiosa di Sartre. C’è un’opera di Jean-Paul Sartre che può dirsi una vera e propria eccezione nella sua multiforme attività di scrittore-filosofo. Fu pubblicata per la prima volta trent’anni dopo, nel 1970, ed è ora apparsa, in traduzione italiana, nelle edizioni Marinotti di Milano: Bariona, o il figlio del tuono. Il sottotitolo è «Racconto di Natale per cristiani e non credenti». I sacerdoti presenti nel campo di prigionia in Germania, a Treviri, pregarono Sartre di scrivere un testo per dare ai prigionieri, nei giorni delle festività natalizie, l’occasione di trascorrere momenti di serenità. Sartre accettò di buon grado e si mise alacremente al lavoro. In sei settimane Sartre scrive il testo, sceglie gli attori, li fa provare, fabbrica come meglio può scene e costumi. È presente a tutte le prove e la sera del 24 dicembre l’opera viene rappresentata. Uno dei prigionieri – toccato dalla recitazione di Sartre, che interpretava in maschera la parte di uno dei re magi, il nero Baldassarre – si converte. Dopo la recita Sartre partecipa attivamente ai canti di Natale. Ai primi di dicembre del 1940 Sartre ne aveva informato per lettera Simone de Beauvoir: «Ho scritto una scena di angelo che annuncia ai pastori la nascita di Cristo che ha lasciato tutti senza fiato… Qualcuno aveva le lacrime agli occhi». E ancora il 10 dicembre di quell’anno: «Ho fatto un mistero di Natale molto commovente, tanto che a uno degli attori recitando veniva da piangere». L’esperienza fu, dunque, breve e intensa, ma sino a che punto l’autore di Bariona e interprete di Baldassarre si sentì sfiorato dalla fede religiosa in quel Natale 1940? Quella esperienza, radicata in una circostanza eccezionale – la Natività era apparsa a Sartre «il soggetto capace di realizzare l’unione più larga tra cristiani e non credenti» in quel campo di prigionia – non lasciò traccia nell’esistenza di Sartre. Ma ci fu, e un fatto accaduto è accaduto una volta per sempre. Un istante mistico c’è stato anche per lui.
Qual è l’opera più bella del Novecento italiano? Dopo trent’anni è stato ristampato un’opera che scompagina gli stereotipi ingessati della critica letteraria e dell’insegnamento scolastico: Luoghi letterari. Paesaggi, opere e personaggi di Giampaolo Dossena (Milano 2003). Per Dossena il libro più bello che sia stato scritto in Italia nel secolo scorso, e che si appone come un sigillo alla tragedia italiana del 1943, è I ventitré giorni della città di Alba pubblicato da Beppe Fenoglio nel 1952. «Un capolavoro assoluto. Non è un racconto, una novella, una fiction: è un frammento di uno storico greco e in questo senso Alba è la più grande città della letteratura italiana del Novecento. Un capolavoro creato in un angolo della provincia italiana. La narrativa del Novecento si può chiudere con Fenoglio e la sua Alba. Lui se ne stava là, ma non era affatto provinciale. Poi il Paese è diventato tutto una soap opera».
26 febbraio 2004.
Linea recta brevissima. La potenza del denaro. Il denaro non è l’idea ma compera i padroni dell’idea (Emilio De Marchi). L’aberrazione: il denaro voluto per sé, come possesso. L’amore per il denaro come possesso – da distinguere dall’amore per il denaro come mezzo per ottenere le gioie e sperimentare la realtà della vita – sarà riconosciuto per ciò che è: un fatto morboso leggermente ripugnante, una di quelle propensioni per metà criminali, per metà patologiche di cui si affida la cura agli specialisti di malattie mentali (John M. Keynes).
Mussolini nel 1934 su potere politico e Chiesa. «Un combattimento contro la religione è un combattimento contro l’inafferrabile, contro l’intangibile; è una guerra aperta allo spirito ove questo è più profondo e più intimo; ed è ormai provato che durante una lotta siffatta le armi di cui può disporre lo Stato, anche le più affilate, sono impotenti ad affliggere ferite mortali alla Chiesa la quale – soprattutto per quello che riguarda la Chiesa cattolica – esce invariabilmente vittoriosa dai conflitti più accaniti… Quando infatti una Nazione scende in guerra, si trova in presenza di una realtà materiale che è suscettibile di essere attaccata, spezzata, mutilata e trasformata; ma quando invece l’avversario è una religione, è impossibile cogliere un bersaglio determinato e preciso. La semplice resistenza passiva dei sacerdoti e dei fedeli basta ad annullare i più violenti attacchi di uno Stato». Questo passo è tratto da un articolo che il capo del governo fascista pubblicò su Le Figaro il 18 dicembre 1934. In esso Mussolini faceva riferimento, con discreti accenni, alla situazione religiosa che si era venuta a creare in Germania con l’avvento del nazismo e il suo tentativo di porre la dottrina e la pastorale delle Chiese cristiane al servizio della Weltanschaung razzista.
Il 24 ottobre 1936 la svolta. Nel 1936 lo storico Mario Bendiscioli pubblicava con la Morcelliana di Brescia Germania religiosa nel Terzo Reich. Conflitti religiosi e culturali nella Germania razzista e nella premessa citava l’intervento di Mussolini su Le Figaro, a rafforzare il monito che «nella coscienza religiosa s’annidano forze risolute e decise che non conveniva sottovalutare». Nel giugno del 1936 allo storico italiano perveniva una lettera, firmata dal prefetto di Milano dott. Motta, con la quale gli si comunicava «il ringraziamento di Sua Eccellenza il capo del governo, Benito Mussolini». Nell’autunno di quello stesso anno però, Mussolini ritenne giunto il momento di stringere un legame politico e ideologico con la Germania nazista. Il 24 ottobre il governo italiano e quello tedesco sottoscrissero un accordo che poneva le basi per ciò che Mussolini – nel discorso tenuto a Milano pochi giorni dopo, il 1° novembre 1936 – chiamerà, con una parola nuova forgiata dal suo linguaggio immaginifico, «l’asse Roma-Berlino». Fu per l’Italia l’inizio della rovina. Nel 1937 l’Italia abbandona la politica di garanzia dell’indipendenza dell’Austria. Il 7 maggio 1938 l’alleanza tra fascismo e nazismo è sancita dalla visita ufficiale di Hitler in Italia e dalla marea di bandiere con la croce uncinata che sventolano nel nostro Paese. Il 3 agosto il governo fascista introduce la legislazione razziale contro gli ebrei. Migliaia di ebrei sono espulsi o fuggono all’estero, i loro beni sono sequestrati, i matrimoni misti sono impediti, insegnanti e studenti ebrei vengono espulsi dalle scuole. Un particolare sconcertante: Margherita Sarfatti, colei che per anni era stata la compagna di Mussolini e abitava con lui a villa Torlonia, era ebrea. Anche lei si sottrasse all’arresto e alla deportazione, fuggendo.
Poesia del Novecento. Non solo essere stati buoni. Una cosa ho imparata, una cosa per voi, / ora che muoio. / Come mai c’è qualcosa in voi che non riesce a venir fuori? / Che cosa sapete, / sapendo cose che nulla mutano? // Io vi dico: / pensate, per quando dovrete lasciare il mondo, / non solo a essere stati buoni, ma a lasciare / un mondo buono (Bertolt Brecht in Santa Giovanna dei Macelli).
4 marzo 2004.
Linea recta brevissima. La verità vale più del sistema. Chi ha la testa filosofica amerà sempre la verità al di sopra del suo sistema (Friederich Schiller). Non la disperazione romantica, ma l’innocente perseguitato. La disperazione romantica non mi tocca più. Non m’impietosisco più su Werther, ma sull’innocente perseguitato (François Mauriac).
La resistenza in carcere. Gli interrogatori sono la preoccupazione più grande dei detenuti. Intere giornate passano, si può dire, in attesa dell’interrogatorio, nell’aspettativa delle domande che verranno poste dagli inquirenti, nell’ansia di prepararsi a rispondere e a presentare le situazioni nel modo meno pericoloso per sé e per i compagni. Nel carcere, in questo posto dove ci si sente spinti fuori dal tempo, il pensiero dell’interrogatorio che verrà, che sta per venire, diventa ossessivo. Ma ognuno sa anche che tedeschi e fascisti usano interrogare, spesse volte, sotto tortura. Non bastano i soliti pugni e schiaffi, non basta esser stati tenuti – prima d’entrare nella stanza – molte ore in piedi, faccia al muro, nel corridoio col milite che controlla se la testa si abbassa a toccare la parete ed è subito pronto a colpire, e intanto si sentono le urla di quelli che sono dentro. Non bastano gli insulti, gli sputi, i tormenti psicologici con le minacce alle famiglie, alle persone care, ai compagni. Non bastano gli avvertimenti che, in ogni caso, parli l’interrogato o non parli, ci penseranno loro a far sapere che lui si è comportato male, che ha tradito tutti, che merita la punizione vendicativa dei suoi stessi compagni. No, non basta tutto questo. Ci sono, di frequente, le scudisciate fino allo svenimento, gli esercizi di flessione sulle ginocchia con le braccia tese a sostenere la macchina da scrivere, e guai se cade; ci sono le bruciature, le punture, le trazioni con la corda appesa al soffitto; c’è la prova dell’acqua che vien fatta forzatamente ingurgitare finché stomaco, esofago e bocca ne sono saturi e il respiro non passa più e il sangue ha riempito la testa forzata all’ingiù, e il bianco degli occhi è diventato rosso di fuoco. Perciò l’aspettativa dell’interrogatorio, il pensiero di quello che avverrà, diventa addirittura paralizzante quando vi si unisce il ricordo della tortura già subita e l’orrore per quella che verrà. L’orrore davanti alla tortura non è soltanto paura: quell’assistere agli atroci preparativi, poi l’essere denudati e legati, quel vedersi e sentirsi un mortificato oggetto di lacerazioni, un nulla nelle mani altrui, tutto questo determina un orrore che la mente non sa più giudicare, che sconvolge corpo e spirito sino a renderli in tutto dipendenti da esso. Si vorrebbe scivolare nell’incoscienza, si vorrebbe morire… Alla fine ci si ritrova come svuotati, privi di pensieri, con la coscienza baluginante in un mare di buio. E si vedono i torturatori ormai in preda alla pura bestialità, infierire e godere, veementi nella loro forza selvaggia, essi stessi attratti e trascinati nel gioco del sangue, inarrestabili. In questo stato, quando si torna alla cella del carcere – finalmente – dopo gli interrogatori, sembra quasi di tornare ad un luogo che dà protezione. E non importa se, forse soltanto qualche ora più tardi, la sera stessa o la notte, nuovamente si verrà chiamati ad un altro interrogatorio, ad un altro ancora. Intanto, però, c’è questa pausa che serve a riflettere e a capire che il morire – tanto desiderato – può essere anche un momento esaltante, ma che più importante e doveroso è resistere a tutte le tentazioni: di provar compassione di sé, oppure di lasciarsi vincere, di perdersi. Questa splendida pagina sulla resistenza in carcere l’ha scritta uno storico, ma essa ha in sé il fascino della testimonianza diretta, di chi è passato in prima persona e più volte per una prova così atroce. L’autore è Dario Morelli e la si può leggere nel volume che raccoglie i suoi Scritti 1968-1997 pubblicato a cura di Rolando Anni e Lorenza Giulietti, Istituto Storico della Resistenza Bresciana, oggi incorporato alla sede bresciana dell’Università Cattolica.
Bisogna avere buona coscienza. La brutalità, la violenza, la disumanità hanno un prestigio immenso, che gli adulti non osano confessare, ma che tutti subiscono. Le virtù opposte, per avere un prestigio equivalente, devono essere esercitate in maniera costante ed effettiva. Chiunque sia solo incapace di essere tanto brutale, violento, disumano quanto un altro, senza però praticare le virtù opposte, è al di sotto di quest’altro nella sua forza interiore e nel prestigio; e non resisterà alla fine davanti a lui (frammento di Simone Weil, pubblicato nel volume Sulla guerra. Scritti 1933-1943, Milano 1998).
11 marzo 2004.
Linea recta brevissima. Senza verità non si può vivere. La verità è la vita, mi ripetevo più volte al giorno. Senza verità non si può vivere. Senza verità non c’è esistenza umana (Pavel Florenskij). I libri. Da nessuno si ascolta il vero con maggiore sincerità e vantaggio e con meno rossore che dai libri. Essi sono da leggere con prudenza, ma anche con animo aperto a cogliere il vero e a valutare rettamente i giudizi e i consigli (Erasmo da Rotterdam).
Occorre l’etica per umanizzare la politica. La filosofia morale generalmente viene definita come la scienza di ciò che si deve fare e di ciò che si deve evitare. Meglio sarebbe, però, definirla come la scienza di ciò che l’uomo deve essere, perché l’agire morale non riguarda soltanto il fare, ma l’orientamento di tutte le nostre attività e le nostre facoltà. La morale ha un proprio statuto differente da quello delle scienze, perché il suo oggetto è la vita umana nella sua multiforme ricchezza e nell’ambivalenza dei suoi esiti. Vi è un sapere proprio della sfera pratica, che è distinto dal sapere tecnico-scientifico. Aristotele lo chiamava frònesis, ossia saggezza. Questa forma di razionalità nasce dall’esperienza vissuta, è sintesi di conoscenza dei fini e dei mezzi ed è attestata dalla coscienza che l’uomo ha di sé nel suo agire quotidiano. La filosofia morale affina la capacità critica e dialettica di confutare le opinioni moralmente inaccettabili e, nello stesso tempo, lavora incessantemente a trovare, all’interno di orientamenti e presupposti diversi, ciò che è universalmente giusto e condivisibile in una società in cui convivano diverse famiglie spirituali. Di qui l’importanza che la riflessione morale, al suo livello più alto, riveste anche per la politica: questa, infatti, per umanizzarsi ha un bisogno assoluto di aprirsi alla dimensione morale proprio per attuare il suo specifico valore, che è la ricerca e l’attuazione del bene comune. È certamente molto significativo che, nella seconda metà del Novecento, dopo gli orrori del totalitarismo e due guerre mondiali di inaudita crudeltà, pensatori di grande valore e di indirizzi diversi difendano la possibilità di proporre come fine della società politica l’insieme dei valori che risultano da quanto vi è di comune tra le diverse concezioni del mondo. Questo era l’intimo convincimento di Jacques Maritain, uno dei padri della «Dichiarazione dei diritti dell’uomo», approvata dall’ONU nel 1948. A tale posizione si accostarono poi, in vari modi e con motivazioni diverse, Hannah Arendt (Vita activa, 1958), Hans Georg Gadamer (Verità e metodo, 1960) e Hans Jonas (Il principio responsabilità, 1979); ma anche il liberale John Rawls (Una teoria della giustizia, 1970) e Liberalismo politico, 1993) e il socialdemocratico Jürgen Habermas (La rivoluzione in corso, 1983).
L’Annunciazione di Sartre. L’angelo annuncia a Maria di Nazareth che avrà un figlio e che questo figlio sarà Gesù, Nostro Signore. L’angelo è immenso con delle ali come due arcobaleni. È disceso come una inondazione nell’umile casa di Maria… Sta davanti a Maria e Maria lo guarda appena. Ella riflette. Egli non ha avuto bisogno di scatenare la sua voce come l’uragano. Egli non ha parlato; ella lo presentiva già nella sua carne. Ora l’angelo sta davanti a Maria e Maria è impenetrabile come una foresta di notte. E mille pensieri senza parola si destano in lei, pensieri pesanti di madri che accettano il dolore. E vedete, l’angelo ha l’aria interdetta davanti a questi pensieri troppo umani: gli dispiace esser angelo perché gli angeli non possono nascere né soffrire. E quel mattino di Annunciazione, davanti agli occhi sorpresi di un angelo, è la festa degli uomini perché è il tempo dell’uomo essere sacro. Guardate bene l’immagine, miei buoni signori, la storia incomincerà nove mesi più tardi, il 24 dicembre, nelle alte montagne della Giudea (Da Bariona o il figlio del tuono di Jean-Paul Sartre, Milano 2003, pp. 3-4 passim).
Poesia del Novecento. Assenza. Dovrò rialzare la vasta vita / che ancora adesso è il tuo specchio: / ogni mattina dovrò ricostruirla. / Da quando ti allontanasti, / quanti luoghi sono diventati vani / e senza senso… / Sere che furono nicchie della tua immagine, / musiche in cui sempre mi attendevi, / parole di quel tempo, / io dovrò frantumarle con le mie mani. / In quale profondità nasconderò la mia anima / perché non veda la tua assenza / che come sole terribile, senza occaso, / brilla definitiva e spietata? / La tua assenza mi ricorda / come la corda la gola, / il mare chi sprofonda (Jorge Luis Borges).
18 marzo 2004.
Linea recta brevissima. Le idee e gli errori. Non ci si può occupare di storia delle idee se da essa si esclude la storia degli errori (Ernst Gombrich). Se visti troppo da vicino. Un genio e una montagna, visti troppo da vicino, spaventano (Victor Hugo). La nostalgia e il desiderio. La nostalgia è anche un amplificatore del desiderio (Marcel Proust).
Invito alla lettura dell’Etica Nicomachea. Uno dei libri di filosofia più godibili che ci siano, perché di immediata comprensione e di straordinaria concretezza, è l’Etica Nicomachea che Aristotele scrisse per il figlio Nicomaco, che ne è pertanto il destinatario. Sorprende e commuove già l’idea che un’opera filosofica – e del «maestro di color che sanno», per dirla con Dante – sia una sorta di lunga lettera al figlio. Se i lettori di queste note prenderanno in mano quel capolavoro, noteranno che dei dieci libri (o, come noi diremmo oggi, «capitoli») che lo compongono ben due sono dedicati all’amicizia, l’VIII e il IX, e altri due, il VII e il X, affrontano il tema, ritenuto evidentemente di non secondaria importanza, del ruolo del piacere nella ricerca della felicità accessibile all’uomo. L’Etica Nicomachea fa un po’ l’effetto sconcertante, e tuttavia rinfrescante, dell’esclamazione del bambino nella novella di Andersen, il quale, di fronte al conformismo con cui la folla lodava il vestito nuovo dell’imperatore, ha avuto il coraggio di dire che l’imperatore era nudo. Questo è l’effetto che producono nei lettori, dopo ventitré secoli, osservazioni da cui balza la verità della condizione umana con immediata evidenza. Eccone alcune: «una rondine non fa primavera»; «è perfetto quel bene che deve essere scelto sempre per sé e mai in vista di qualcosa d’altro»; «le virtù noi le acquistiamo solo se ci esercitiamo a viverle ed è compiendo cose giuste che diventiamo giusti, e coraggiosi facendo cose coraggiose». Mi torna con insistenza alla mente un passo bellissimo sull’amicizia: Cosa necessarissima alla vita è l’amicizia, qualunque sia la condizione in cui questa viene vissuta, poiché nessuno sceglierebbe di vivere senza amici, anche se avesse tutti gli altri beni (Etica Nicomachea VIII, 1, 1255 a 4-6).
Sartre: «Come dipingerei Maria, se fossi pittore…». La Vergine è pallida e guarda il bambino. Ciò che bisognerebbe dipingere sul suo viso è uno stupore ansioso che non è apparso che una volta su un viso umano. Poiché il Cristo è il suo bambino, la carne della sua carne, e il frutto del suo ventre. L’ha portato nove mesi e gli darà il seno e il suo latte diventerà il sangue di Dio. E in certi momenti, la tentazione è così forte che dimentica che è Dio. Lo stringe tra le sue braccia e dice: piccolo mio! Ma in altri momenti, rimane interdetta e pensa: Dio è là, egli è Dio… Ma penso che ci sono anche altri momenti, rapidi e difficili, in cui sente nello stesso tempo che il Cristo è suo figlio, il suo piccolo, e che è Dio. Lo guarda e pensa: «Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. È fatta di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Mi rassomiglia. È Dio e mi assomiglia». E nessuna donna ha avuto dalla sorte il suo Dio per lei sola. Un Dio piccolo che si può prendere nelle braccia e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e che vive. Ed è in quei momenti che dipingerei Maria, se fossi pittore, e cercherei di rendere l’espressione di tenera audacia e di timidezza con cui protende il dito per toccare la dolce piccola pelle di questo bambino-Dio di cui sente sulle ginocchia il peso tiepido e che le sorride (Da Bariona o il figlio del tuono di Jean-Paul Sartre, Milano 2003, pp. 90, 92 passim).
25 marzo 2004.
Linea recta brevissima. Beati quelli che… Beati quelli il cui atteggiamento verso la realtà è dettato da immutabili ragioni interiori (Italo Calvino). Una prospettiva mondiale. Una cosa è certa: qualsiasi soluzione data ai nuovi problemi che non si collochi nella prospettiva della comunità mondiale è effimera e perniciosa. L’impossibilità di prefigurare le forme concrete della comunità mondiale non è ragione sufficiente per lasciarsi invadere dal dubbio. La lezione che ci viene dalla storia della specie è che, messa di fronte ai dilemmi estremi (e ormai il dilemma è tra vita e morte), essa è in grado di rivelare insospettate risorse creative. La novità è affidata alle viscere della necessità (Ernesto Balducci). L’uomo è un essere politico. È assurdo fare dell’uomo felice un solitario, perché l’uomo è un essere politico, portato cioè a vivere nella polis insieme agli altri uomini… Non c’è vita felice senza comunanza di affetti, discorsi, pensieri (Aristotele, Etica Eudemea VII, 12).
Unire all’umiltà la speranza. C’è una speranza che, essendo fondata sulla fede, non solo guarda in avanti, ma ci apre al futuro definitivo. Il cristiano pone tutto ciò che costituisce la sua esistenza su questa fede e ad essa affida l’esito finale della sua vita. Unita all’umiltà, la speranza rende più disinteressato l’impegno del cristiano in questa vita. L’umiltà, infatti, è quella povertà di spirito per la quale non sono i beni della terra che ci salvano, non sono essi la nostra meta, la nostra eredità. La nostra eredità è Dio; è lui il bene assoluto che assolutamente non possiamo perdere, che ci innalza fino a sé come suoi figli. L’umiltà è il tesoro nascosto che si manifesta prezioso soprattutto nell’orientare la nostra fede verso il regno ultimo, dove Dio sarà «tutto in tutti» (1 Cor. 15, 28). Essa, dunque, contribuisce a ravvivare la nostra speranza: «Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù» (Col. 3, 2). Ed è chiaro che per l’Apostolo delle Genti «le cose di lassù» non ci distolgono dalle cose di quaggiù, sicché il nostro impegno nel presente possa divenire più libero, non minore ma più sereno, meno ansioso perché meno legato al successo. Guardando lassù, e cioè in avanti, il cristiano vede più chiaramente i motivi e i criteri del suo comportamento e del suo operare nel mondo (Giulio Cittadini, Sull’umiltà. Spunti di meditazione, Brescia 2004).
Pensieri bergsoniani. Lucidità e semplicità. Non vi è idea filosofica, per quanto profonda o sottile essa sia, che non possa e non debba esprimersi nella lingua di tutti. Questo, ben inteso, quando si tratti delle idee filosofiche più alte. La tecnica del ragionamento, la terminologia scientifica e filosofica servono naturalmente per ricerche speciali o preliminari; ma si deve poter rinunciare ad esse a mano a mano che si sale più in alto, e tutto si illumina sulle vette (Quelque mots sur la philosophie française et sur l’esprit français, conferenza radiodiffusa da Radio-Paris, 1934. Il testo integrale si può leggere in Mélanges, Paris 1972, pp. 1513-1517). Quasi tutte sono cattive. Quasi tutte le parole in ismo sono cattive. Esse sono vaghe; sono furbe; seminano la divisione fra gli uomini. È vero, anch’io me ne sono servito e me ne servo ancora: sono così comode! Per questo io non chiedo che le si condanni a morte. Ma se scoppiasse una qualche epidemia… verbale e morissero tutte insieme di morte naturale, io per loro non verserei neppure una lacrima (ibid. p. 1515). Marciano insieme, a due a due. Il pensiero francese, nei suoi diversi periodi, si è generalmente incarnato in autori che vanno a due a due e, in ciascuna di queste coppie, uno dei due autori sembra attenersi all’intellettualità più pura, mentre l’altro sa dar voce all’emozione e all’intuizione. Così noi abbiamo avuto accanto a Cartesio, Pascal; accanto a Bossuet, Fénelon; a fianco di Voltaire, Rousseau; a fianco di Auguste Comte, Maine de Biran. Occorrerebbe, pertanto, tener conto anche del secondo personaggio dal momento che essi marciano a due a due (ibid. p.1516).
1 aprile 2004.
Linea recta brevissima. C’era da aspettarselo. Uno studio francese ha determinato che 2 su 5 vocaboli conosciuti da una persona di media cultura sono marchi di fabbrica e il 40% del suo vocabolario è costituito dai nomi dei prodotti commerciali (Dal quotidiano Avvenire del 7 settembre 2003).
«Ebbi il permesso di trascrivere il suo Requiem». In una stupenda giornata di dicembre del 1962 fui partecipe di un avvenimento che ritengo straordinariamente importante: mentre ero in visita da Anna Achmatova, in uno degli appartamenti di Mosca dove veniva ospitata, io – come molti altri a quei tempi – ebbi il permesso di trascrivere il suo Requiem. Quel ciclo di versi (o poema, se vogliamo: sul suo genere letterario esistono opinioni divergenti, ma non è questo il punto) fu scritto negli anni 1935-1940 mentre infuriava il «Grande terrore» staliniano. Per molti anni lo si poté ascoltare solo in una scelta cerchia di amici dell’autrice, che per la maggior parte imparavano a memoria i versi. Né la stessa Achmatova, né il suo numeroso pubblico affidò mai il Requiem alla carta. Ma dopo che, nel 1962, Novyj Mir ebbe pubblicato Una giornata di Ivan Denisovic, l’Achmatova pensò che forse era giunto il momento anche per Requiem. E in realtà era giunto, ma non nel senso che potesse essere pubblicato in Unione Sovietica, dove dopo il consueto temporaneo disgelo iniziarono presto nuovi geli. Era invece il momento che Requiem uscisse nel samizdat. Porgendomi una penna a sfera, Anna Andreevna disse: «Prima di lei con questa “matitina” ha copiato il Requiem a Solzenicyn». Ma oltre a me e Solzenicyn, a casa dell’Achmatova, con quella «matitina» o meno, Requiem era stato copiato da decine di persone. E naturalmente tutti, o quasi tutti, tornando a casa, si erano messi alla macchina da scrivere. Io stessa l’ho copiato, probabilmente, una ventina di volte, ogni volta in quattro copie. Diffondendo il Requiem tra amici e conoscenti, facevo sempre una semplice richiesta: «Ricopiatelo, e poi restituitemene una copia». E così ricominciava il giro. In questo modo, solo dalle mie mani uscirono e si diffusero centinaia di copie di Requiem, ma la sua tiratura complessiva nel samizdat raggiunse almeno qualche migliaio di copie (Natalya Gorbanevskaya su Il Sole 24 Ore – 7 dicembre 2003).
La multa dei ricchi. Se un disoccupato e un milionario commettono la stessa infrazione al codice stradale, devono anche pagare la stessa multa? È dai tempi della legge del taglione che si discute su proporzionalità della pena e principio di uguaglianza. Una corrente di pensiero, ultimamente assai diffusa in Italia, sostiene che non sia giusto far pagare il povero e il ricco allo stesso modo. Il ricco deve pagare di meno o non pagare affatto, poiché è evidente che il vigile che ha riscontrato l’infrazione è un invidioso taglieggiatore stalinista amico di Goebbels. In Finlandia, paese delle renne e delle utopie, hanno invece deciso di procedere in base al reddito. E Jussi Salonoja, erede di un’azienda di prosciutti pizzicato a guidare con troppa foga nel centro di Helsinki, s’è visto presentare un conto di 170.000 euro. Un’enormità per chiunque tranne che per lui, essendo poco più di un 1/365 di quel che il giovanotto aveva dichiarato al fisco l’anno prima. Ai finlandesi va almeno riconosciuto il pregio della sincerità. Modulando le sanzioni sul portafogli del reo, confermano che la multa non è più una contravvenzione, ma un prelievo obbligatorio per rimpinguare le casse pubbliche: perciò vi si può applicare la progressività che caratterizza le imposte sul patrimonio. Quanto alla probabilità di introdurre questa riforma in Italia, prevale un comprensibile scetticismo: nella patria delle dichiarazioni dei redditi creative, a pagare le multe più salate sarebbero sempre i soliti fessi a stipendio fisso (Massimo Gramellini da La Stampa del 14 febbraio 2004).
8 aprile 2004.
Linea recta brevissima. Dov’è l’anima? Come non si può collocare Dio in un luogo geografico, allo stesso modo non si può attribuire all’anima una sede definita. L’anima non è un organo, ma compenetra l’intera persona. L’intera persona è mossa dal soffio dell’anima e questa si esprime nei modi che le sono propri. Si può dire che ci sono punti in cui l’anima si concentra, ma che una geografia dell’anima non esiste. La percezione originaria. Nessuno può uccidere un altro uomo senza sapere che questo è male; nessuno può vedere un altro uomo in condizioni di estremo bisogno senza avvertire la necessità di fare tutto ciò che sta in lui. C’è nell’uomo, per così dire, un richiamo al bene, una percezione originaria di ciò che è bene e di ciò che è male. Noi la chiamiamo coscienza. (Joseph Ratzinger)
Prender coscienza della propria interiorità. A quarantatré anni, dodici dopo la conversione, sant’Agostino scrisse le Confessioni, per aprirsi al genere umano, al cospetto di Dio: apud te, haec narro, generi meo, generi humano. Nessun’altra sua opera ebbe maggior diffusione. Intorno ai settantaquattro anni, quando si volterà a giudicare le sue opere, parlerà delle Confessioni con tenerezza e in termini di netta predilezione: «esse mi commuovono ancora, quando le leggo, così come mi commuovevano quando le scrivevo» (Retract., II, 32). Le Confessioni non sono soltanto un capolavoro di autobiografia intellettuale: esse sono il manifesto della vita interiore. Per colui che ha potuto scrivere: «Sono entrato in ciò che ho di più mio» (intravi in intima mea, Conf., VII, 10), l’alienazione più profonda sta per l’uomo nel non conoscersi, nel non pensarsi. «Gli uomini guardano pieni di stupore alle vette delle montagne, al flusso ininterrotto delle maree, all’ampia distesa dei fiumi, agli oceani che li circondano e al movimento delle stelle; e tuttavia essi passano inosservati a loro stessi, non sono oggetti del loro stupore» (Conf., X, 8). L’esperienza dell’uomo diventa autentica nella misura in cui si fa interiore (ibid. X, 6). L’anima non riesce a trovare Dio se non mediante un ritorno su se stessa. Solo chi ha il coraggio di esplorare se stesso ritrova in sé la comunanza di sentimenti, aspirazioni, debolezze che lo unisce ai suoi simili, riscopre in sé «quel che l’uomo è – può – deve» e incontra Dio. Un uomo non può sperare di trovare Dio, se prima non ha trovato se stesso, poiché il Dio vivente è presente alla interiorità più profonda dell’uomo, più di quanto l’uomo possa esserlo a se stesso (interior intimo meo, ibid. III, 6). Che cosa fa sì che l’uomo si conosca indubitabilmente come capace di conoscere? Perché l’uomo è chiamato ad esercitare la sua signoria sul mondo, a usarne secondo i suoi bisogni? Perché è l’unico animale che fa storia? Quali sono le ragioni della sua libertà di scelta? Qual è la sorgente delle regole di verità e di bene, interiori e trascendenti, nella cui attuazione si celebra l’eminente dignità della persona umana? Interrogarsi in profondità sull’uomo significa aprirsi a Dio. «Il filosofo è con Dio perché ha coscienza della propria interiorità» (sapiens prorsus cum Deo est, nam et seipsum intelligit sapiens, De ordine, II, 2, 5). Immagine di Dio, l’uomo non può conoscere veramente se stesso senza conoscere qualcosa di Dio. L’uomo, il cui spirito si scopre in relazione costitutiva con Dio, acquista così una profondità nuova, insospettata dagli antichi. Noi siamo inscrutabili a noi stessi perché partecipiamo in qualche misura alla profondità di Dio: «il pensiero stesso non può essere compreso, neppure da se stesso, in quanto è un’immagine di Dio» (mens ipsa non potest comprehendi, nec a se ipsa, ubi est imago Dei, De symbolo, I, 2).
Il mistero pasquale in due poesie di Margherita Guidacci (1921-1992). Deposizione. (L’altare di Isenheim). Troppo grande è il silenzio: non lo rompe / neanche il tuo pianto, Maddalena. / Meglio velarsi interamente il volto / come la madre, od abbassarlo esangue / nella muta pietà, come il discepolo. / Cessata è la battaglia. / Nulla più turba la natura esausta. / La terra che tremò nell’ora nona / adesso giace immota come il breve rettangolo di pietra / preparato ad accogliere / chi sostenne per noi la valanga dell’ira / ed è ormai libero tra i morti. Gesù è risorto. Affranti dalle nostre vie di morte / a Te giungiamo, nostro Salvatore. / Tu che morendo hai distrutto la morte, / insegnaci la Tua resurrezione.
15 aprile 2004.
Linea recta brevissima. La tentazione più grande. La tentazione più grande che possa impadronirsi di una società è credere che agire rettamente sia inutile (Corrado Alvaro). Quello che conta. L’essenziale non è nel raccolto; l’essenziale è nella semina, nel rischio, nelle lacrime. La speranza è lì, non nel riso e nella pienezza (André Neher). Il carisma dell’inopportunità. A differenza della maschera, che puoi costruirti a tuo piacimento, la verità s’impone con la sua alterità rispetto ad ogni tuo calcolo. Per questo essa ha il carisma dell’inopportunità (Bruno Forte).
Critica della nuova filosofia della scienza. È sembrato che i progressi della scienza abbiano messo in pericolo i principi meglio stabiliti, quelli stessi che erano considerati fondamentali, ma non bisogna credere che la scienza non possa far altro che un lavoro di Penelope, innalzando solo costruzioni effimere che poi è subito obbligata a demolire da cima a fondo, con le sue stesse mani. Non si deve paragonare il cammino della scienza alle trasformazioni di una città in cui i vecchi edifici vengono impietosamente abbattuti per far posto alle nuove costruzioni, ma piuttosto all’evoluzione continua delle specie zoologiche che si sviluppano senza interruzioni e finiscono per diventare irriconoscibili agli sguardi della gente; in esse, però, un occhio esercitato ritrova sempre le tracce del lavoro precedente dei secoli passati. Allo stesso modo non è pensabile che le teorie sorpassate siano state sterili e vane. La scienza ha già vissuto abbastanza perché, interrogando la sua storia, si possa sapere se gli edifici che essa eleva resistono alla prova del tempo. A tutta prima ci sembra che un giorno le teorie scientifiche nascono, il giorno dopo sono alla moda, domani l’altro diventano classiche, il terzo giorno successivo sono viete e il quarto da dimenticare. Ma se una di esse ci ha fatto conoscere un rapporto vero, questo rapporto è definitivamente acquisito e lo troveremo, mascherato a nuovo, in altre teorie che verranno successivamente. Mentre nel gioco possono essere adottate convenzioni opposte perché l’uomo inventa le regole per divertirsi, la scienza è invece una regola di azione che, almeno generalmente, riesce, laddove la regola contraria non potrebbe riuscire. Se dunque la scienza ci permette di fare delle previsioni in modo più o meno perfetto, ciò vuol dire che essa non è senza valore come mezzo di conoscenza. I fatti sono fatti, e se essi risultano conformi a una predizione, non è per effetto della nostra libera attività. Lo scienziato non crea il fatto scientifico dal nulla, ma lo costruisce sulla base del fatto bruto, e dunque non opera a suo arbitrio: la derivazione del fatto scientifico dal fatto bruto costituisce l’oggettività del fatto scientifico. Tutto quello che lo scienziato crea è il linguaggio, potendo una stessa legge essere formulata in modi diversi, così come uno stesso testo può essere tradotto in lingue diverse. Queste limpide osservazioni di Henri Poincaré sono tratte dall’opera Il valore della scienza, che fu pubblicata in Francia un secolo fa, nel 1905. Esse conservano la perenne validità di ciò che è vero.
La celebre sequenza Victimae paschali laudes. Questo testo è attribuito a Vipone (990-1048), poeta, musicista, cappellano alla corte di due imperatori, Corrado II ed Enrico III. La sequenza pasquale che riportiamo è interessante anche per la sua struttura dialogica che ne fa l’antenata del dramma sacro. Victimae paschali laudes / immolent christiani. / Agnus redemit oves, / Christus innocens Patri / reconciliavit peccatores (Alla vittima della nuova Pasqua / un sacrificio di lodi offrano i cristiani. / L’Agnello ha riscattato il gregge, / Cristo innocente col Padre / ha riconciliato i peccatori). Mors et vita duello / conflixere mirando: / dux vitae, mortuus / regnat vivus (Morte e vita si sono affrontate / in un mirabile duello: / il Signore della vita, che era morto, / è vivo e regna vittorioso). Dic nobis, Maria, / quid vidisti in via? / Sepulcrum Christi viventis / et gloriam vidi resurgentis: / angelicos testes, sudarium et vestes. / Surrexit Christus spes mea, / praecedet nos in Galilaeam (Raccontaci, Maria, / che hai visto per via? / «Il sepolcro di Cristo vivente / e la gloria di Cristo risorto: / ho visto gli angeli che ne sono testimoni, / ho visto il sudario e le bende. / Cristo, mia speranza, è risorto, / e ci precederà in Galilea»).
22 aprile 2004.
Linea recta brevissima. Ambivalenza della musica. La musica può suggerire languore ed estenuazione, euforia e aggressività; ma nessun’arte riesce a comunicare come essa i sentimenti più profondi che sollevano l’uomo al di sopra di se stesso (Levi Appulo). Se tu accetti la tua parte di dolore. Se tu accetti la tua parte di dolore come il tuo pane quotidiano, allora sei al di là. E tutto ciò che è al di là della tua parte di sofferenza e al di là delle tue preoccupazioni, tutto ciò ti appartiene, il mondo e te stesso. Sì, il mondo e te stesso, poiché tu sei a te stesso un dono perpetuamente gratuito (Jean-Paul Sartre).
Lettera alla fidanzata con autoritratto. «Se la fortuna mi darà il tuo affetto, non sarà soltanto una grazia di Dio, ma anche un mezzo affinché io sia più forte e libero nel compiere il mio dovere. E il mio dovere è lavorare come servo di Dio a costruire la sua città, là dove finisce il regno del denaro… Per questo io non posso tradire la mia missione che è socialista e cristiana, anche se la pietra ch’io porterò alle fondamenta del Regno di Dio sarà una e ce ne vorranno mille e mille volte mille… Non ho timore di dirti che io amo i poveri, i veri poveri, i diseredati, quelli che soffrono, cui manca un letto o una coperta. Non li so aiutare direttamente che poco e male, perché non è il mio compito, ma la redenzione della miseria e la lotta contro l’egoismo è la mia vita. So che il cammino è lungo e difficile, ma Dio è buono e generoso e mi assiste fino a che io non tradisca la sua causa». Questo brano è tratto da una lettera, inedita fino a pochi anni fa, scritta da Adriano Olivetti alla sua fidanzata, che nel 1948 divenne sua moglie. Adriano Olivetti, figlio di padre ebreo e madre valdese, veramente nulla fece «per denaro» e non tradì la sua «missione socialista e cristiana». Anche il forte impulso allo sviluppo dell’azienda fu finalizzato ad un profitto che servisse al miglioramento della qualità della vita di chi vi lavorava e al perfezionamento innovativo di ciò che andava producendo.
Chi fu Adriano Olivetti? La sua vita è racchiusa nell’arco di tempo 11 aprile 1901 – 27 febbraio 1960. Era nato a Ivrea dove suo padre, ingegnere, aveva creato la «prima fabbrica nazionale di macchine da scrivere». Nel 1925 completò il suo itinerario formativo con un lungo viaggio negli Stati Uniti. Con Parri e Rosselli aiutò Filippo Turati a fuggire dall’Italia fascista, ma la sua strada non era la militanza politica. I suoi sogni erano tre: costruire attorno alla sua fabbrica un embrione di economia comunitaria, un’azienda realmente socializzata senza tuttavia statizzarla; farsi apostolo di un’urbanistica a misura d’uomo per dare un volto umano e moderno all’Italia; contribuire a un profondo rinnovamento culturale dell’Italia democratica, lavorando a unire ispirazione mistica e progresso tecnologico. Sarebbe certamente finito in un lager, essendo suo padre ebreo, se l’8 settembre 1943 un carabiniere che era stato a Ivrea non lo avesse fatto scappare. Io che nel 1945 avevo vent’anni ricordo con animo grato l’editore geniale che stampava la rivista Comunità libri come Timore e tremore di Kierkegaard, Spirito e libertà del russo Berdiaev, Rivoluzione personalista e comunitaria di Mounier, Cristianesimo e democrazia di Jacques Maritain e tante altre opere che possono illuminare ancora il tempo presente.
Poesia dei nostri giorni. La giornata è densa di emozioni. Tristezza più tristezza fa tristezza. / È vero il contrario, se di mattina, / nutro le cellule mentali con il miele / e una buona dose di vita spirituale. / Elisa apre il TG, e poi lo spegne: / il video rivela il lato buio della vita… // Ma la giornata è densa di emozioni. / Arriva una lettera inattesa dai cugini, / rifioriscono le aziende artigianali, / sbocciano le gemme ai ciclamini, / si prepara il restauro di un affresco / e questa sera si cena con gli amici (Inìsero Cremaschi, Poesie cortesi e scortesi, Brescia 2004).
29 aprile 2004.
Linea recta brevissima. Né giglio, né pece. Nessuno è solo nero come la pece, o bianco come un giglio. La Storia non è così semplice (Brigitte Hamann, studiosa austriaca di storia contemporanea). La poesia consiste… La poesia consiste in un senso di reverenza verso ciò che non si sa (Robert Musil). La stima è come il coraggio. La stima è come il coraggio di cui parlava don Abbondio: se uno non ce l’ha, non se la può dare (Antonio Tabucchi). L’eroismo più grande. L’eroismo più grande è quello degli umili. Sono loro a nobilitare ogni giorno l’amicizia, il coraggio, l’esercizio della misericordia (John Ronald Tolkien).
Che cosa posso conoscere? Che cosa debbo fare? Ogni tipo di conoscenza ha una corrispondente disciplina. Ad ogni disciplina il suo oggetto; ma qual è l’oggetto della filosofia? Potremmo ricordare le tre famose domande che Kant pone al termine della Critica della ragion pura: che cosa posso conoscere? che cosa debbo fare? che cosa mi è concesso sperare? La prima domanda investe il problema della conoscenza: entro quali limiti posso conoscere in modo rigoroso, universale e necessario? La riflessione su questi limiti è per la filosofia un discorso sulla condizione umana colta in un atteggiamento fondamentale, in quello dell’uomo che misura le sue possibilità di conoscere il vero. La seconda interrogazione si riferisce all’attività pratica, all’azione: che cosa debbo fare? In questa domanda il verbo usato da Kant ha un suo rilievo particolare: non müssen ma sollen, non ciò che costringe deterministicamente, ma il dovere liberamente voluto, che ha nella libertà il suo presupposto. Noi abbiamo i criteri su cui misurare, qualunque esse siano, le nostre azioni e per riconoscerne o meno l’intrinseca bontà: la possibilità di universalizzare il criterio a cui ci ispiriamo nei nostri atti, il rispetto dell’umanità che è in noi e negli altri.
La terza domanda: Che cosa sono autorizzato a sperare? La terza domanda si pone lungo l’ardua frontiera tra conoscenza e moralità, da un lato, e fede dall’altro. Il verbo usato da Kant è dürfen. Il presente di tale verbo Ich darf significa posso nel senso di mi è concesso, mi è permesso. Unito a hoffen, «sperare», «aprire un orizzonte», evidenzia un’altra nota d’intensa esistenzialità: la speranza è come un ponte lanciato oltre il confine del conoscere e la stessa vita morale. Lanciato verso dove? Verso la fede. Ma la domanda che cosa sono autorizzato a sperare? rimane autenticamente filosofica, emblematica della nostra condizione e rivelativa di qualcosa di più profondo.
Quando un ragazzino ha il potere di rivelare il genio. Il ragazzino si chiama József Joachim, è stato uno dei più grandi violinisti di tutti i tempi. Il direttore d’orchestra sarà un altro grande compositore, Felix Mendelssohn-Bartholdy. Il concerto è un concerto se non proprio dimenticato, senza dubbio poco valutato. Il Concerto per violino opera 61 di Ludwig van Beethoven. Un concerto scritto da Beethoven nel 1806 per un altro musicista prodigio, così bravo che alla sua epoca fu paragonato addirittura a Mozart: Franz Clement. Può la musica, la grande musica, anzi la più grande delle musiche, un Concerto di Beethoven bellissimo, affidarsi all’intuito, alla bravura, alla sensibilità, alle mani di un ragazzo di soli tredici anni? E perché questo non è permesso in nessun’altra forma di arte, nella poesia, nella scultura o nella pittura? Ci sono stati, invece, bambini compositori (Mozart primo fra tutti) e ci sono stati – ancora più numerosi – fanciulli musicisti, ragazzi capaci di eseguire musiche non soltanto difficili da suonare, tecnicamente, ma difficili anche da interpretare. Com’è possibile? Torniamo a quella sera di maggio, a quella vigilia londinese. L’interprete è colui che traghetta un genio e lo racconta a tutti quelli che ascoltano; ma in questo caso il concerto da eseguire è di uno dei più grandi compositori di ogni tempo e l’interprete è ancora un ragazzino. Quel concerto fu un successo. Noi sappiamo che andò così, ma la causa di questo non la sapremo mai. A narrare questo episodio è Roberto Cotroneo, giornalista e scrittore, nel libro Chiedimi chi erano i Beatles. Lettera a mio figlio sull’amore per la musica (Milano 2003).
6 maggio 2004.
Linea recta brevissima. Sono direttamente proporzionali. Man mano che s’innalza, il discorso si abbrevia. Vale molto di più. Non si devono confutare le opinioni degli altri, né si deve scrivere contro una opinione o una religione che sembra non buona, ma a favore della verità… Si deve scrivere solo a favore della verità e non contro gli altri. (Dionigi Areopagita)
Ungaretti: la poesia sintesi di mistero e misura. Il mistero c’è, è in noi. Basta non dimenticarcene. Il mistero c’è, e col mistero, di pari passo, la misura. Non la misura del mistero, cosa umanamente insensata, ma di qualche cosa che in un certo senso al mistero s’opponga, pure essendone per noi la manifestazione più alta: questo mondo terreno considerato come continua invenzione dell’uomo. Il punto d’appoggio sarà il mistero, e mistero è il soffio che circola in noi e ci anima; ma noi siamo portati a preoccuparci di quegli sviluppi che danno situazione magari a un albero in un paesaggio; di quella trama di rapporti che non tollera spostamenti se non subendo un cambiamento di carattere. Perciò per noi l’arte avrà sempre un fondamento di predestinazione e di naturalezza; ma insieme avrà un carattere razionale. Ho detto, e vorrei ripetere, che il mistero non può negarsi ed è in noi costante: ma vorrei dire che tutto quel potere d’evocazione della realtà, quel potere magico di restituire per sempre, muovendo la fantasia, un momento della realtà, l’arte l’ottiene principalmente per la sua intrinseca razionalità, anche se il dono degli artisti veri sarà quello di riuscire a dissimulare questa forza, come la grazia della vita nasconde lo scheletro. Limiti e proporzioni s’impongono, dunque, per noi. E non ci sono narcotici, stimolanti, paradisi artificiali che possano liberarcene. Un uomo può gettare un ponte, semplificare i mezzi di comunicazione, non abolire le distanze, tanto meno una distanza umanamente inconoscibile come quella tra l’effimero e l’eterno. La nostra civiltà è fatta in questo modo. E perciò, da noi, tanto è difficile la via dell’arte, e la grandezza, quando è raggiunta, tanto contiene malinconica serenità. Queste annotazioni – che mi sono sempre apparse intense e veraci – sono di Giuseppe Ungaretti, che le pubblicò sulla Ronda nel 1922 e le riprese, estendendone il significato, nel 1930 sulla Gazzetta del Popolo di Torino. Sono appunti che costituiscono altresì il filo conduttore per comprendere l’ampio saggio, Ragioni di una poesia, che il poeta scrisse a premessa del Meridiano Vita di un uomo. Tutte la poesie, edito a cura di Leone Piccioni. Mi sia consentita un’aggiunta: Ragioni di una poesia ha trovato il suo degno commento, fedele e penetrante in Ungaretti verticale di Emerico e Noemi Giachery, Roma 2000.
Gli ultimi pensieri di Marguerite Yourcenar e i nomi di Dio. Sono apparsi in Italia nel maggio 2003 – traduzione di Ginevra Bompiani e testo originale a fronte – I trentatré nomi di Dio di Marguerite Yourcenar, Roma 2003. È forse l’ultima composizione della grande scrittrice francese. Sono poesie brevissime, senza punteggiatura, a volte di una sola parola: sono i nomi che dava a Dio, tanti quanti sono gli anni di Cristo, e sono i modi in cui la Yourcenar ne percepiva l’ineffabile presenza. Eccone alcuni: 1. Mare al mattino. 2. Rumore della sorgente nelle rocce sulle pareti di pietra. 3. Vento di mare a notte, su un’isola. 9. La fiamma rossa nel focolare. 16. La mano che entra in contatto con le cose. 23. Il pane. 24. I fiori che spuntano dalla terra a primavera. 30. Sole nascente sopra un lago ancora mezzo ghiacciato. 32. Il silenzio fra due amici.
13 maggio 2004.
Linea recta brevissima. Senso paterno di san Paolo. Voi, padri, non inasprite i vostri figli. Non esasperate i vostri figli, affinché non si scoraggino (San Paolo). La regola di ogni cura. La cura ha una sola regola: che sia fatta in modo efficace e senza dolore (Galeno di Pergamo, 129-201 d.C.). Per ricordare chi ci ha lasciato. Metti al morto nella tomba le parole / che proferì per vivere (Paul Celan).
L’humor di Thomas More. Un illustre studioso d’Oltralpe ha scritto: «Se dite Thomas More, il francese medio risponderà humour, e, se egli si picca di pronunciare bene l’inglese, trasformerà in rima l’assonanza tra More e humour». Il gusto per la battuta arguta e la gioia liberatrice che si sprigiona dall’ironia resero celebre Thomas More non solo nella City e a corte, ma anche nella tradizione popolare. Erasmo da Rotterdam ravvisò il segreto dell’humour dell’amico inglese nella sintesi che caratterizza nel profondo la personalità di More, uomo singolare per la perspicacia dell’ingegno ma anche per l’incredibile delicatezza e affabilità della sua indole. Ecco in quali termini Erasmo ne parla nel 1519, nella celebre Lettera 999, indirizzata a Hulrich von Hutten: «In More il volto corrisponde al carattere perché manifesta sempre simpatia e amicizia, ma anche l’abitudine di prendere occasione da un nonnulla per ridersela. In altre parole, è più portato al buon umore e alla festevolezza che ad assumere atteggiamenti gravi e solenni, pur non concedendo assolutamente nulla a sciocchezze sconvenienti e volgari… Quando è in compagnia, la sua squisita gentilezza e la sua capacità di piacere agli altri sono tali da rasserenare chiunque, anche chi per temperamento sia incline alla malinconia, non essendovi situazione penosa di cui egli non riesca ad allontanare il disagio. Fin da ragazzo traeva un tale piacere da battute e motti di spirito che sembrava fatto apposta per quel tipo di divertimento, pur senza mai scadere nella buffoneria scurrile. Egli, infatti, detestava il sarcasmo…. Fin dall’adolescenza godeva quando un giudizio, anche se diretto contro di lui, era espresso in modo spiritoso: anche adesso ama molto gli scherzi e le battute, a patto che siano veramente salaci e scintillanti d’arguzia… Nelle vicende umane, anche quando si tratta di argomenti molto seri, More riesce a cogliere sempre qualcosa d’interessante e piacevole. Con i dotti e i saggi gusta le gioie dello spirito, con gl’ignoranti e gli scriteriati si diverte alle loro asinate. Non lo infastidiscono neppure i buffoni, avendo il dono di sapersi adattare agli umori degli altri con un’abilità fuori del comune. Con le donne in generale, e con la sua in particolare, usa lo stesso tono scherzoso e gioviale» (Erasmo da Rotterdam, Ritratti di Thomas More, Brescia 2000, pp. 66-70 passim).
Claudio Magris: la filosofia dell’arciprete di Revigliasco. In un passaggio di Microcosmi Claudio Magris esprime in modo mirabile la carica demitizzante e, per contrasto, l’umana misura di colui che si guarda bene dal prendere troppo sul serio le cose, le persone e anche se stesso. «La Filosofia per l’arciprete di Revigliasco – scrive Claudio Magris – sembra essere stata soprattutto humour, ironia, il senso della piccolezza di ogni cosa finita – e anche di se stessi – rispetto al grande sfondo dell’infinito contro il quale si colloca ogni esperienza umana. Questo sentimento permette di non prendersi troppo sul serio, e libera quindi dai veleni dell’insicurezza e della superbia, ma permette anche di non prendere troppo sul serio nessuna pretesa grandezza e libera dunque dalla paura. Dinanzi all’eterno, ogni cosa appare piccola ma, nella sua piccolezza, di pari dignità rispetto ad ogni altra, pure a quelle che ostentano una minacciosa potenza. L’ironia diviene amorosa e inflessibile difesa di ogni creatura, anche la più debole e nascosta, contro la vacua pompa del mondo che la vuole travolgere».
20 maggio 2004.
Linea recta brevissima. Il segreto di tante persone che hanno successo. Sono sempre stati in auge i mediocri, coloro che rubano le idee altrui e che cercano di farsi grandi. Sono stati sempre in auge perché hanno adattato e falsificato ciò che è veramente grande ai gusti e agli interessi meschini del loro tempo. Dedica per il figlio Mik. Vorrei che la quiete di Dio / ti avvolgesse, bimbo mio. (Pavel Florenskij)
«Primo incontro», un piccolo libro che fa riflettere. 1° giugno 1932. Un fanciullo, di nome Cesare Trebeschi, riceve la prima Comunione. Il papà, Andrea, in una lettera appositamente scritta per lui, prova a spiegargli il valore di ciò che sta per fare e che cosa significhi mettersi alla sequela di Cristo. Bisogna sempre affidare – e per tempo – il meglio di quanto abbiamo ricevuto a coloro che abbiamo chiamato all’esistenza. È il più alto dei nostri doveri e Andrea Trebeschi lo aveva compreso perfettamente. Giugno e luglio 2003, a poco più di settant’anni di distanza, Cesare Trebeschi, diventato a sua volta nonno, scrive anch’egli a due suoi nipoti in circostanze analoghe, nella forte consapevolezza di ciò che solo può ispirare nel profondo le scelte che contano e l’impegno a onorare il nome cristiano nel mutare dei tempi e delle situazioni. Le tre lettere – nate ad uso dei destinatari e non per far letteratura – meritavano, però, di essere offerte alla lettura di altri ed è stata cosa giusta forzare la mano a chi le custodiva: ora sono riunite in un volumetto, Il primo incontro (Brescia 2005). Meditarle è come assistere al passaggio di un testimone attraverso quattro generazioni.
«Sii cristiano, ma tutto, sincero, leale». Il testo chiave del volumetto rimane, tuttavia, il primo, quello affidato da Andrea Trebeschi al figlio Cesare il 1° giugno 1932. L’ho letto e riletto più volte con animo commosso e crescente ammirazione. Di quel documento di vita spirituale e di tenero, intenso amore di un padre per il proprio figlio, propongo agli amici lettori due brani consecutivi. Con un’avvertenza: il secondo brano non è affatto meno importante del primo. «Ama la giustizia, senza compromissioni, senza reticenze; non escluderla mai sotto una falsa e troppo comoda prudenza né sotto l’ombra di una indefinita pseudo carità. “La tua parola sia: sì sì, no no” (Mt 5,37). Caritatevole verso gli individui – chiunque essi siano – sii fedele sempre alla verità e il tuo spirito chiaro e solido non si lasci tentare mai da contorsioni dialettiche o da indebolimenti etici di fronte a inique transazioni o prepotenze. Se occorre, assumi sempre, dignitosamente, le tue responsabilità, anche se cagione di previsti dolori. Sii giusto nelle piccole cose come nelle grandi, in tutte le tue relazioni con il prossimo, alto o basso… Da padre a figlio, io sento il dovere di togliere ogni velo alla verità. Ti scongiuro: sii cristiano, ma tutto, sincero, leale. Non sei cristiano, non sei religioso, se non hai le pratiche del culto; senza le quali saresti un albero divelto dal terreno che ti nutre, un fiore senza mai la rugiada, un uomo senza il cibo. Che la tua pietà non sia una raccolta di preghiere e di riti non ispirati all’essenziale. Conoscerai persone che appaiono pie e devote, ma che nel vivere quotidiano mostrano anima e cuore meschini, gretti: guai a loro che danno una così mostruosa testimonianza della fede, ma guai pure a te se su di loro giudicherai della bontà e bellezza o meno della religione» (pag. 58-60). L’avvocato Andrea Trebeschi era nato a Brescia nel 1897. Uomo di fede profonda e antifascista, fu arrestato il 6 gennaio 1944. Deportato a Dachau e a Mauthausen, morì nel campo di Gusen il 24 gennaio 1945.
27 maggio 2004.
Linea recta brevissima. I libri. I libri non sono cose morte. Essi hanno in sé un potere virtuale almeno pari a quello delle anime di cui essi sono progenie (John Milton). Risuonare di silenzio nel segreto dell’anima. Una parola che tenda a risuonare di silenzio nel segreto dell’anima – non è parola che tenda a ricolmarsi di mistero? (Giuseppe Ungaretti)
Dal VI secolo una lezione di metodo e un appello alla tolleranza. Non credere, venerando Sosipatro, che sia una vittoria l’insolentire contro una religione o una opinione che non sembri buona. Infatti, quand’anche tu la confutassi a ragion veduta, non per questo le tue tesi risulterebbero provate. È possibile che tu e gli altri, in mezzo a tante falsità e apparenze, non vediate neppure voi la verità, che è una ma nascosta. L’oggetto che non è rosso non è per ciò stesso bianco, e la creatura che non è cavallo non è necessariamente uomo. Dammi retta, agisci in questo modo: astieniti dal parlare contro gli altri, ma difendi la verità in maniera che le cose dette da te siano completamente irrefutabili. Questo mirabile passo, su cui ho voluto richiamare l’attenzione degli amici lettori, costituisce la Lettera VI nel corpus degli scritti di Dionigi Areopagita. L’intero corpus è stato tradotto e pubblicato in un unico volume Tutte le opere (Milano 1981). Dionigi Areopagita è il vero fondatore in Occidente della teologia mistica e la sua identità rimane ancora oggi, dopo quindici secoli, misteriosa.
La grande musica, ultimo segno di umanità? Alcuni anni fa ho visto un film di Steven Spielberg, Schindler’s list. A un certo punto in quel film accade una cosa. C’è un rastrellamento nazista in un ghetto ebraico. Si vedono gli ufficiali delle SS entrare di notte nelle case, portare via vecchi, giovani, donne, bambini. Tra urla, disperazioni, ordini secchi e crudeli, colpi di mitragliatore per chi cerca di fuggire. Ma è in quel momento che in una stanza un ufficiale tedesco trova un pianoforte verticale. Mentre l’orrore corre per quelle case, quell’ufficiale nazista interrompe tutto, apre il pianoforte, e comincia a suonare magnificamente una bellissima musica. Mentre suona arrivano altri ufficiali e soldati, e si fermano ad ascoltare. Sono gli stessi che un minuto prima hanno ammazzato gli ebrei che cercavano inutilmente di nascondersi. Uno di questi criminali chiede a un ufficiale vicino: «Sta suonando Mozart?». E l’altro risponde: «No, questo è Bach». E lo fa con una meraviglia e una partecipazione commosse. Allora ti chiedi come sia possibile che un uomo, un assassino che pochi istanti prima non ha avuto nessuna pietà per delle povere persone inermi, possa poi suonare una musica meravigliosa, suscitando l’ammirazione dei suoi camerati. Come fu possibile questo? Fu possibile perché anche in quegli uomini, crudeli e criminali, c’era una parte profonda, inafferrabile, che gli permetteva ancora di apprezzare la grande musica. «No, questo è Bach». La fierezza con cui lo dice quell’ufficiale, che stava lasciando raffreddare la canna del suo mitra mentre ascoltava le note di quel pianoforte, era certamente l’unica foglia ancora verde di un albero ormai morto, senza linfa e senza speranza. L’ultimo frammento di emozione vera che quegli uomini potevano ancora riuscire a tenere con loro (Roberto Crotoneo, Chiedimi chi erano i Beatles. Lettera a mio figlio sull’amore per la musica, Milano 2004).
3 giugno 2004.
Linea recta brevissima. Se veramente ben fatto. Un aforisma ben fatto sta tutto in otto parole (Gesualdo Bufalino). Una certa età. Una certa età è sempre un’età incerta (Achille Campanile). Il provvisorio che non passa mai. In Italia nulla è stabile, fuorché il provvisorio (Giuseppe Prezzolini). Trovare e cercare. Dopo aver trovato, è allora che bisogna cercare (Mino Maccari). Mutamento epocale. «Mutamento epocale». Ce n’è ogni giorno (Giuseppe Pontiggia). I due eccessi. Troppa fiducia e totale mancanza di fiducia rovinano gli uomini allo stesso modo (Esiodo). Il valore del tempo. Rivendica finalmente te a te stesso e il tempo che finora ti veniva portato via, o ti sfuggiva, tienilo in serbo e custodiscilo gelosamente. Abbi cara ogni ora. Potrai dipendere meno dal domani, se diventerai padrone dell’oggi. (Seneca)
Europa, nostra patria più grande e nostro destino. Dal punto di vista geografico non siamo che «un promontorio dell’Asia», come diceva Paul Valéry. Dal punto di vista razziale siamo il risultato di un processo di commistione durato almeno quattro mila anni: dapprima tra le popolazioni indigene e gli indoeuropei; poi tra le popolazioni romanizzate e i germani; infine, tra il IX e l’XI secolo, entrano a far parte della comune civiltà a Est gli Slavi e gli Ungheresi, a Nord i Danesi, i Vichinghi, i Normanni. Non esiste dunque un Urvolk, una razza pura europea. Esiste, però, ed è fatto di immensa portata, un’Europa culturale, morale, politica con sue proprie radici e con sue proprie caratteristiche, ed è in quelle radici e in quelle specifiche caratteristiche che si identifica la realtà storica del nostro continente. La nostra, infatti, è una civiltà, le cui radici e i cui grandi influssi formatori sono gli stessi, in Italia come in Polonia e in Ungheria: sono la Grecia classica, Roma e il Cristianesimo. E finché in Europa ci saranno europei, eredi cioè e continuatori della più alta e multiforme civiltà che la storia conosca, sarà ancora e sempre lì, su quelle fondamenta, che il nostro continente ritroverà le ragioni della sua identità. La Grecia classica ha fondato in ogni campo, dalla poesia alla scienza, dalla filosofia alla storiografia, la nostra tradizione culturale e ha forgiato per sempre il tipo dell’uomo europeo. Grazie a Socrate la Grecia ha inaugurato la civiltà del dialogo e il metodo della discussione critica quale solo strumento di cui disponiamo per avvicinarci alla realtà. E tuttavia, malgrado il suo splendore, la paideia greca era confinata tra l’Egeo e l’Adriatico, tra Atene Antiochia e Alessandria. Ci volle Roma per allargare la superiore paideia greca a tutto l’Occidente barbarico, dando così al nostro continente la sua unità culturale. Fu questa la missione più alta di Roma, unitamente alla creazione del diritto, alla cui certezza non v’è alternativa se non quella dell’arbitrio e della disumanità, dentro gli Stati e fra gli Stati. Senza Atene e senza Roma, dunque, niente Europa; e tuttavia l’Europa non sarebbe ugualmente senza il Cristianesimo e senza la Chiesa Cattolica, suo tramite storico e centro propulsore della sua unità; ed è stato ed è tuttora il Cristianesimo a dare all’Europa la sua unità morale e religiosa.
Poesia del Novecento. Sarà eterna la nostra gioia. Poiché tu sei eterno ed io sono / eterna, come ci volle Dio, / anche se un giorno agli altri diverremo invisibili / sarà eterna la nostra gioia. / La incontreranno ad ogni nuova generazione / coloro che vanno teneramente vagando / a due a due nei giardini di primavera / e sostano abbracciati sulla riva del mare / e amandosi ci ameranno senza saperlo / dentro la bianca pioggia dei petali di aprile / o nei barbagli di una scia lontana / orma dei nostri passi silenziosi (Margherita Guidacci).
10 giugno 2004.
Linea recta brevissima. Le tre cose che forse contano di più. La dedizione generosa a un compito disinteressato; la gentilezza come stile di vita e forma delicata di rispetto per ogni persona; più difficile, ma non meno preziosa, la grazia nella sofferenza (Levi Appulo). Così l’ignoto poeta anglico. Ho meditato a lungo e sono pronto / alla morte di questo fragile corpo. / Il pensiero si affina e approfondisce / nelle angosciose ore della notte (Dal componimento Elena, scritto in dialetto anglico nel IX secolo). Ciò che la vita insegna. Ciò che la vita insegna è che si deve essere riconoscenti (Andrej Siniavskij).
Qual è il «genio» dell’Europa? L’interrogativo è non solo inevitabile, ma decisivo perché noi ci attendiamo molto dalla nostra memoria storica e dal nostro modo di porci dinanzi ad essa. Dalla nostra capacità di riscoprire e di ri-assumere il nostro patrimonio comune hanno origine e traggono alimento, infatti, la spinta decisiva e l’orientamento ai valori che devono guidarci nella costruzione della nuova Europa. E la ragione è molto semplice: essere o divenire europei non è tanto un dato originario, o un luogo di nascita, ma una forma mentis e una visione della vita, e dunque una scelta, una vocazione, un compito che si può accettare o tradire; è riconoscersi in certi valori ed è rifiutare, di conseguenza, i disvalori e i contro-valori che li negano. L’esistenza dell’Europa culturale, morale e politica è attestata da un sistema di vita e di educazione che ha creato nel corso dei secoli una somiglianza di consuetudini sociali e forme di vita per cui, come notò nel secolo scorso François Guizot, «nessun europeo potrebbe essere completamente esule in alcuna parte d’Europa» e una cert’aria di famiglia si avverte tanto a Brescia, a Firenze, a Vienna, a Budapest come a Cracovia, a Francoforte o a Praga, a Londra, a Barcellona, a Copenaghen e Oslo come a Parigi. Dal reciproco intreccio dei grandi influssi formatori – Grecia classica, Roma e il Cristianesimo – è sbocciata la civiltà europea; tuttavia occorre stringere da presso la ragione per cui l’Europa è divenuta una individualità storica, una tradizione, una forma di civiltà che può fare appello a tutta una serie di nomi, di fatti, di pensieri che le hanno dato nei secoli un’impronta diversa rispetto alle tradizioni, memorie e speranze dei cinesi, degl’indiani, degli africani o degli arabi. Ebbene, dal 490 a. C., data d’inizio dell’impari lotta delle città-stato greche contro l’Impero Persiano che voleva assoggettarle, al meraviglioso autunno del 1989, che ha visto la liberazione dei popoli dell’Europa Centrale dal giogo comunista, la risposta a quella domanda è sorprendentemente la stessa: il genio dell’Europa, la sua forza, il suo dinamismo sta nell’aver coniugato l’identico e il diverso, l’unità e la pluralità come nessun’altra civiltà. La nostra è una civiltà varia e anche tempestosa, in cui l’esistenza stessa di una molteplicità dialettica di nazioni, di forze sociali, di orientamenti culturali e di famiglie spirituali in perenne confronto tra loro è talmente organica da non permettere mai ad uno solo di quei principi di assoggettare del tutto l’intero continente e nemmeno un intero Paese.
L’abuso del termine eroe ne fa perdere il valore. Secondo me bisognerebbe smetterla con l’abuso della parola «eroe». Eroe non è il poliziotto che muore in servizio, eroe non è il soldato che muore in guerra, eroe non è il pompiere che muore in un incendio: sono persone che hanno scelto una professione conoscendo i rischi che ne conseguono. Eroe, semmai, è colui che spontaneamente si getta in mare vedendo una persona che sta affogando. E forse ancora di più chi impegna la propria vita direttamente, come fanno alcuni medici in Africa, per la soddisfazione di vedere un sorriso sul volto di un bambino. (Paci Walter, un vigile del fuoco, in servizio da vent’anni, che non si sentirà mai un eroe – Il Venerdì di Repubblica, 30 aprile 2004).
17 giugno 2004.
Linea recta brevissima. Perché la parola risorga e il sogno non si perda. Emergeremo dal canto / come dal suolo emerge il giovane granoturco / e nudi, interi recupereremo / la trasparenza del tempo iniziale. / Puri ritorneremo ad abitare la poesia e la chiarità / perché la parola risorga e il sogno non si perda (Conceição Lima. La Lima è giornalista e poetessa di São Tomé e Prìncipe).
La civiltà europea come scambio di doni. La civiltà europea ha questo di proprio, che sente come suoi figli veri quelli che non solo ricevono, ma danno; quelli, cioè, che non solo attingono dall’eredità comune, ma contribuiscono a loro volta, ad incrementarla con nuovi acquisti di alto pensiero morale, di cognizioni scientifiche e di creazione poetica. Nella storia europea, volta a volta un popolo è stato l’antesignano, ha portato la fiaccola della civiltà: ma tutti quelli che sentivano veramente come Europa sono stati almeno in un punto e in un momento antesignani e hanno dato agli altri. Francesi e Italiani, Tedeschi e Inglesi, Spagnoli e Svizzeri e Olandesi e Polacchi e Scandinavi, tutti hanno aggiunto qualcosa di proprio al gran bene comune: quasi una famiglia i cui membri debbono contribuire, sia pure in diverse proporzioni, ad accrescere il possesso comune. Bisogna che ogni popolo, per aver riconosciuta veramente la sua appartenenza alla società degli spiriti, possa vantare qualche nome, di pensatore, scienziato, artista, poeta, che sia nome familiare a tutti gli Europei colti, qualche nome, la cui ignoranza non sia ammessa, e le cui opere siano, come si suol dire, in circolazione. Un paese vi darà Dante e Michelangelo, Tiziano e Leonardo, Galileo e Vico, Palestrina e Verdi; un altro, Corneille, Pascal e Montesquieu, Manet e Debussy; un altro Shakespeare e Bacone, Newton e Locke, Adamo Smith e Shelley; un altro Goethe e Kant, Dürer e Bach, Mozart e Beethoven; un altro Cervantes e Velasquez, oppure Rembrandt e Spinoza. Altri paesi daranno anch’essi alla civiltà comune l’apporto dei loro Copernico e Chopin e Milosz, o Ibsen. Tutti, entrando a far parte della famiglia dei popoli europei, qualcosa han dato e ognuno ha arricchito immensamente tutti gli altri.
La rondine nella stanza. Questa composizione mi pare particolarmente idonea ad accostarci a Giovanni Cristini, amico fraterno e poeta autentico. Lo spunto è dato da un piccolo evento di vita quotidiana. È il crepuscolo. Una rondine in volo entra nella stanza, sbatte spaventata contro le pareti, cade dietro un armadio. Il figlio del poeta segue eccitato quel volo; il padre raccoglie la rondine, la porta nel piccolo giardino e la posa sul ramo di un oleandro. Di lì la rondine spiccherà il volo, come farà un giorno il figlio, lasciando la mano del padre. Gridasti, ché la rondine al crepuscolo / entrata nella stanza / sbatteva l’ala agli angoli, impaurita. / E ridevano gli occhi, si agitava / in te gioia e sgomento, / proteso al volo incerto della rondine / come l’ala irrequieta della vita. // La rondine calò, priva d’appigli, / come una foglia oscillando sull’ali / a perpendicolo / dietro l’armadio scuro. / Tu, fatto silenzioso in quel silenzio / pieno d’intesa, / ti chinasti esitando, l’occhio intento. / E per te la raccolsi, trepidante, arresa / nelle mie mani, piccola piuma viva. // La portammo così / (mi saltellavi attorno cinguettando) / nel piccolo giardino; e fu, sul ramo / dell’oleandro stellato, / la rondinella come un fiore scuro / stupito della docile altalena. // Nell’ombra chiara della prima sera / le ortensie dalle tonde bocce azzurrine / si stringevano al muro. Tu caparbio / sfuggivi alla mia mano, / correvi sotto l’oleandro in fiore. / Guardavi in su. Sentivo / nella mia mano vuota / un tepore di piume, indovinavo / nella penombra l’incerto tuo volo (Giovanni Cristini da Weekend in terra straniera in Tutte le poesie, Novara 2003).
24 giugno 2004.
Linea recta brevissima. Si finirebbe con l’avere le ali. Credo che, se si guardasse sempre il cielo, si finirebbe con l’avere le ali (Gustave Flaubert). Se fossimo meno frastornati, lo percepiremmo chiaramente. Noi siamo più legati all’invisibile che al visibile (Novalis). Tutte le cose coprono qualche mistero. Tutte le cose coprono qualche mistero; tutte le cose sono veli che coprono Dio. I cristiani lo devono riconoscere in tutto. Le afflizioni temporali coprono i beni eterni a cui conducono. Le gioie temporali coprono i mali eterni che causano (Blaise Pascal).
Il risultato della storia d’Europa e il suo valore. L’Europa è, aristotelicamente, pollacos, cioè multisignificante e multiforme; non è aplos, non è parmenidea, cioè monistica e uniforme. La libertà nasce dalla impossibilità per una sola forza di soffocare le altre e l’Europa è il continente in cui tale impossibilità accompagna tutta la sua storia, da Serse a Hitler e Stalin. La libertà è così diventata, nello stesso tempo, il risultato della storia d’Europa e il valore, dal cui riconoscimento pratico trae origine e regola la varietà dei principi e delle istituzioni che caratterizzano la nostra civiltà. Non che l’assoggettamento del tutto a un solo potere, a un solo principio, a una sola razza, a una sola ideologia non sia stato tentato, e più volte; ma è sempre provvidenzialmente fallito, e il tentativo più colossale, quello operato nel secolo scorso dalla barbarie totalitaria, comunista e nazista, è sprofondato nella sconfitta e nell’ignominia. L’Europa, però, ha potuto resistere alle violente negazioni della sua civiltà generate dal suo interno, e farsi portatrice di libertà nel mondo, perché il messaggio religioso che l’ha fecondata, il Vangelo, porta dentro di sé inequivocabilmente il principio stesso della pluralità delle sfere della vita. Per questo noi non cesseremo mai di ringraziare gli evangelisti che hanno raccolto dalla bocca di Cristo e ci hanno trasmesso le grandi parole: «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (Mt 22, 21). Parole con cui Cristo condanna senza appello l’integralismo, la cui logica perversa comanda la cancellazione delle differenze e la distinzione tra fede e politica, Chiesa e Stato, religione e partito. Su questo punto essenziale del messaggio di Cristo, entrato per nostra fortuna nel DNA della storia d’Europa, bisogna riflettere in profondità perché in esso è la modalità specifica più efficace per porre su nuovi binari il processo di liberazione dei popoli negli altri continenti. È un’eredità cristiana, che ha validità universale.
Poesia brasiliana del nostro tempo. Oggi voglio ballare. Oggi voglio ballare / senza paura di lasciarmi andare / nel rito nel ritmo nella melodia / che è albero foglia vento sabbia, / volo di aironi leopardi passeri. / La danza è questo / non contorsioni / per scongiurare il tempo della noia, / non prigione / in discoteche di acciaio: / è amorevole ascolto dei miti / di un tempo che nasce in me / nelle valli dell’anima (Heleno de Oliveira, 1942-1995). Fede. Una volta, dalla finestra, ho visto un uomo / che stava per morire / mangiare banana schiacciata… Inaspettato ha chiesto: / «Come sarà la resurrezione della carne?» / Gli ho risposto: / «Tutto è come qui, ma senza le malvagità». / «Che mistero profondo!» egli disse / e parlò d’altro (Adélia Prado, poetessa brasiliana vivente. È nata nel 1936 ).