6 gennaio 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Libertà e verità. Fare del bene quando si può, amare la libertà sopra ogni cosa, non rinnegare mai la verità. Verità e bellezza. La verità esiste per il saggio. La bellezza per un cuore sensibile; entrambe si appartengono. Adesso e non dopo. C’è molto da fare sulla terra, fallo presto! (Ludwig van Beethoven)
LA FIGURA DEL MENTITORE ORGANICO. «Accanto alla falsificazione e alla menzogna consapevole esiste ancora quello che potrebbe chiamarsi il mentire organico. Qui la falsificazione non avviene nella coscienza, cioè nel modo di formarsi delle rappresentazioni e nel modo di sentire i valori». Così Max Scheler delinea la figura del mentitore organico in un passaggio essenziale del saggio Il risentimento nella edificazione delle morali, pubblicato nel 1912 e rielaborato nelle successive edizioni del 1915 e del 1919 (Milano 1975). La menzogna organica si installa da padrona in uomini che sono patologicamente asserviti ai propri interessi e alle proprie inclinazioni al punto di modificare in modo sostanziale, nella direzione voluta, la percezione stessa della realtà. Accade esattamente a molti campioni della menzogna quello che è stato più volte riscontrato nel caso, tutt’altro che infrequente, dell’omicida che, a forza di professarsi innocente, finisce col credere veramente di esserlo e ricostruisce, con sorprendente dovizia di particolari, una realtà solo immaginata, riuscendo a renderla credibile anche agli altri. In tale direzione tendenziosa i valori sono totalmente capovolti ed è solo sulla base di questa falsificazione che poggia il giudizio del mentitore organico, per il quale tutto deve sempre concordare con le proprie illusioni e con la propria volontà di dominio.
ANCHE PER ERNST BLOCH, EBREO E MARXISTA, RISPLENDE LA STELLA DI BETLEMME. Primo brano. La grandezza del Natale è tale da spostare lo stupore dall’infinità del cosmo, su cui l’aveva fissato la filosofia greca, verso un «nonnulla» come potrebbe essere «un bambino avvolto in fasce che giace in una mangiatoia» (Lc. 2, 12). Qui non c’è orrore, immagine o sentimento che schiaccia e isoli gli esseri fra loro… Al nostro stupore è dato un Messia che non appare nella folgore, ma è caldo e prossimo perché nostro ospite. Quando nacque Gesù, metempsicosi di Dio stesso, davanti alla grazia di quella luce che brilla anche nelle tenebre, gli uomini poterono di nuovo sentirsi sicuri del sovraterreno, dell’amore di Dio… Secondo brano. La qualità della nascita di Cristo è troppo «umana» per poterla confondere con le invenzioni fantastiche delle saghe. Si prega un bimbo nato in una stalla. Uno sguardo verso l’alto non poteva venir ridiretto più vicino, più in basso, in modo a noi più familiare. E poi la stalla è vera, una così umiliante origine del fondatore non viene inventata. La stalla, il figlio del falegname, il profeta esaltato dalla gente di poco conto, e alla fine il patibolo, questo è materiale storico, non quello d’oro che la saga ama. Si è cercato di dissolvere Gesù in mera leggenda, ma non si riesce a dissolvere in leggenda il Gesù storico. Le citazioni qui riportate sono tratte la prima da Spirito dell’utopia (Firenze 1992, p. 246) e la seconda da Il principio speranza (Milano 1992, vol. III, p. 1451 s).
13 gennaio 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Lo aveva notato anche Platone. Le cose belle sono anche difficili. Non ammantare un vizio col nome di una virtù. Bisogna stare attenti a non ammantare un vizio con il nome di una virtù, a non chiamare, cioè, serietà la durezza, severità l’irritabilità, zelo l’invidia, frugalità l’avarizia, amichevolezza la piaggeria, cordialità la scurrilità. (Erasmo da Rotterdam) Coscienza lucida e pressione sociale. La lucidità di coscienza è privilegio di coloro che sono privi della stoltezza necessaria alle convinzioni dominanti. Sufficienza professorale. Ci sono individui che trattano l’universo con sufficienza professorale. (Nicolas Gòmez Dàvila)
DUE OSSERVAZIONI DI EDUARDO GALEANO E LA LEZIONE DELLE ANATRE IN VOLO. 1. I cinque maggiori fabbricanti e commercianti d’armi sono: gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, l’Inghilterra e la Francia. Ebbene quei cinque stati siedono con diritto di veto al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Mi chiedo: che i garanti della pace mondiale siano allo stesso tempo i più importanti fornitori d’armi del pianeta non è un insulto al buon senso? 2. Siamo costretti ad ammettere che, a poco a poco, il mondo sta diventando sempre meno giusto. Per fare un esempio, la differenza fra il salario della donna e quello dell’uomo non è più tanto abissale come una volta. Ma alla velocità con cui vanno le cose, la parità salariale fra uomini e donne avrà luogo fra 475 anni! Non esiste alcuna donna, a mia conoscenza, in grado di vivere così a lungo. 3. Ecco come si comportano in volo le anatre di uno stesso stormo. La prima anatra si lancia e apre la strada alla seconda, che indica il percorso alla terza, e la spinta della terza fa spiccare il volo alla quarta, che trascina la quinta, che fa coraggio alla sesta… Quando l’anatra esploratrice si stanca, raggiunge la coda dello stormo e lascia il posto a un’altra. Tutte a turno prenderanno la testa e la coda del gruppo. Una così mirabile tecnologia del volo collettivo può attuarsi a una sola condizione: nessun’anatra si considera una superanatra se vola davanti, né una sottospecie di anatra se si trova in coda. Le anatre, almeno loro, non hanno smarrito il buon senso (Elogio del buon senso, in Le Monde diplomatique, settembre 2004).
POESIA DEL NOVECENTO. Piaceri. Il primo sguardo dalla finestra il mattino / il vecchio libro ritrovato / volti entusiasti / neve, il mutare delle stagioni / il giornale / il cane / la dialettica / fare la doccia, nuotare / musica antica / musica moderna / scarpe comode / capire / scrivere, piantare / viaggiare / cantare / essere gentili (Bertold Brecht in Poesie 1947–1956).
20 gennaio 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Cerca sempre quello che è giusto per se stesso. Non ci sia nessuno che per agire bene abbia bisogno di essere stimolato dalla speranza della ricompensa. Adempi il tuo dovere senza curarti del successo o dell’insuccesso che accompagna la tua azione. Questo distacco ricondurrà la tua attenzione a ciò che vale per lo spirito. Ragiona sempre così: è il segreto della vita. L’amore e il rimpianto. Chi vuol raccogliere lacrime alla sua morte deve seminare amore. Il male supremo. Lo sento bene, lo riconosco chiaramente: la vita non è il bene supremo, ma tra i mali supremo è la colpa. (Ludwig van Beethoven)
IL PROBLEMA: IL MUTATO RAPPORTO DELLA LIBERTÀ CON IL BENE E CON IL MALE. Nella sua opera più nota, che reca il titolo Dopo la virtù. Saggio di teoria morale (Milano 1988), Alasdair MacIntyre sottolinea come uno degli aspetti che distinguono l’universo morale della società odierna rispetto alla società classica antica riguarda il diverso rapporto della libertà con il bene e con il male. Mentre nella società classica bene e male venivano considerati come i criteri originari che disegnavano la scala di valutazione del nostro agire e che in un certo senso lo giudicavano, nella società odierna tali criteri vengono gradualmente trasformati in oggetti di una possibile scelta. Si può decidere di agire in termini di bene e di male, oppure scegliere parametri diversi da quello morale: ad esempio il parametro estetico del gusto o quello economico dell’utile. Per lo più non si cerca l’armonizzazione tra valori diversi, ma si celebra il politeismo dei valori e dei disvalori, senza alcun criterio di riferimento oggettivo. MacIntyre si chiede – e noi con lui – se però i principi che definiscono la vita morale sono frutto di mere opzioni, alternative tra loro e razionalmente indicibili, dove la morale può attingere la sua forza normativa?
LA PIETAS CRISTIANA SI APPRENDE DIRETTAMENTE DALLE PAROLE DI CRISTO. «Io dissento totalmente da coloro che non vorrebbero che il popolo leggesse le Sacre Scritture tradotte in volgare, come se Cristo avesse insegnato cose così astruse da poter essere capite solo da un gruppetto di teologi, come se la massima sicurezza della religione cristiana consistesse nell’essere ignorata. Può darsi che sia opportuno tenere nascosti i segreti dei re: ma Cristo vuole che i suoi siano divulgati il più possibile. Vorrei che qualsiasi donnetta leggesse il Vangelo, leggesse le lettere di Paolo. E magari questi scritti fossero tradotti nelle lingue di tutti i popoli, in modo da essere letti e capiti non solo dagli scoti e dagli iberni, ma anche dai turchi e dai saraceni!… Mi piacerebbe che il contadino ne cantasse dei passi mentre guida l’aratro, e il tessitore mentre guida la spola, e che il viandante ingannasse la noia del viaggio con le storie della Scrittura. Tutte le conversazioni di tutti i cristiani dovrebbero basarsi su di essa. Noi siamo, infatti, quali sono i nostri discorsi quotidiani».
Nel 1516 Erasmo da Rotterdam dava alle stampe, a Basilea, l’edizione del Nuovo Testamento greco, con una traduzione latina a fronte e note di commento. Altre quattro edizioni, largamente rivedute e ampliate, furono stampate dall’officina di Froben nell’arco della vita di Erasmo, nel 1519, 1522, 1527 e 1535. L’opera era preceduta da tre brevi scritti – Paraclesis o esortazione allo studio della filosofia cristiana, Methodus, Apologia – particolarmente significativi per intendere l’impresa neotestamentaria di Erasmo. L’edizione erasmiana del Nuovo Testamento divenne il testo base di tutte le successive traduzioni nelle lingue nazionali. Essa ebbe, quindi, una risonanza di una vastità incalcolabile. E tuttavia Erasmo nella Paraclesis difende con forza la necessità per il popolo di leggere la parola di Cristo in ognuna delle lingue parlate.
27 gennaio 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. I beni più grandi. Pace e libertà sono i beni più grandi (Ludwig van Beethoven). Quando non si è più soli. Quando si fa l’orecchio al silenzio, non si è più soli (Giuseppe Tonna). L’esortazione di Paolo. Non rendere ad alcuno male per male… Non fate le vostre vendette… Non essere vinto dal male, ma vinci il male con il bene (San Paolo).
IL SENSO PROFONDO DELLA STORIA. Il genio di Agostino esplora le profondità dell’anima umana e, nello stesso tempo, è sempre meravigliosamente capace di inquadrare la realtà più esistenziale in una prospettiva che abbraccia la vita di tutta l’umanità. Si capisce allora perché l’autore delle Confessioni ci abbia dato un’opera grande e ardua, il De civitate Dei sul problema della storia. Il senso profondo del cammino umano sta per Agostino nell’intreccio di bene e male, di valori e disvalori che la caratterizzano in ogni momento, nel bene che in esso si compie e nella lotta che in esso si combatte. La storia ha un significato universale proprio perché l’agire umano rinvia sempre ad un duplice atteggiamento spirituale, che si ritrova nei tempi e nei luoghi più diversi. Non vi sono che due momenti reali nel mondo umano: quello che va verso l’alto e verso la verità, e quello che va verso il basso e verso la cupidigia. La «città dei figli della terra» è quella società i cui membri, legati come sono dall’amore esclusivo e preponderante delle cose della terra, considerano questo mondo la loro unica dimora, il loro unico scopo. Essa è la città in cui l’uomo, dimentico di Dio, diventa idolatra di se stesso e dei suoi poteri, chiudendosi nell’ebbrezza dei suoi compiti terreni ai quali conferisce un valore assoluto. La «città di Dio», invece, è la comunità invisibile, che si estende di là da ogni confine di tempo e di luogo, di tutti coloro che cercano il bene e lottano per attuarlo nella situazione storica in cui sono chiamati a vivere.
I RAPPORTI TRA LE DUE CITTÀ. Non basta, però, distinguere le due città e metterle a confronto; occorre anche precisare i loro mutui rapporti come ci sono dati nell’esperienza storica. «Le due città in questo mondo sono intricate tra loro e confuse» (I, 35). Questa nozione di mescolanza inestricabile – permixtio, come per i gambi di vimini di un paniere, commixtio, come in un’emulsione chimica – si richiama esplicitamente alla parabola evangelica della zizzania e del buon grano (Mt. 13, 24-30 e 36- 43). Chi comprende una tale dottrina e la fa propria non potrà mai più giudicare manicheisticamente «di qui tutti buoni, di lì tutti malvagi», secondo i parametri tipici di ogni integralismo. Il limite che separa queste due città è praticamente indiscernibile ai nostri occhi e passa attraverso l’intimo del nostro cuore. Il sembiante interiore di ognuno, la sua vera bellezza o bruttezza, il suo grado di responsabilità morale non sono conosciuti appieno che da Dio. I fini su cui le due città si fondono sono qualitativamente eterogenei e incommensurabili tra loro; ma l’appartenenza reale dei singoli all’una o all’altra città non è in potere dell’uomo discernerla. La storia ci mostra paurosi egoismi collettivi che si combattono fra loro; più spesso sono alle prese i buoni e i cattivi. E i buoni possono combattersi fra loro? Non lo potrebbero fare, risponde Agostino, se tutti fossero perfetti, ma questa condizione è ben lontana dall’avverarsi nella realtà. Ecco perché anch’essi si combattono, ciascuno attaccando, in nome del bene a cui tende, il male che vede o crede di vedere nell’altro.
POESIA DEL NOVECENTO. Quello che in te era altura. Quello che in te era altura / lo hanno spianato / e la tua valle / l’hanno interrata. / Sopra di te passa / una strada comoda (Bertold Brecht in Poesie 1933–1938).
3 febbraio 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Preghiera e conoscenza. Occorre preparare essenzialmente due armi: la preghiera e la conoscenza. Una preghiera pura porta i nostri sentimenti in cielo; la conoscenza munisce l’intelletto di sane opinioni. La preghiera va benissimo in quanto ci fa dialogare con Dio, ma la conoscenza non è meno necessaria. Questo distorto genere di sapienza. Cos’è questo distorto genere di sapienza? Come si fa ad essere sagaci e brillanti in cose frivole e insignificanti ed essere ignoranti quasi come una bestia in quelle che sole riguardano la nostra salvezza? Paolo ci vuole sapienti, ma nel bene, e ingenui nel male. (Erasmo da Rotterdam)
AUSCHWITZ, LA DIMENSIONE DEL GENOCIDIO. Elie Wiesel, il futuro Nobel per la letteratura, fu deportato giovanissimo ad Auschwitz e, negli ultimi mesi, trasferito a Buchenwald. Ebbene è toccato a lui commemorare il 24 gennaio 2005, davanti all’assemblea generale delle Nazioni Unite, il sessantesimo della liberazione di Auschwitz. Ed è la prima volta che ciò accade. Qui vogliamo solo ricordare la dimensione del genocidio e le tappe attraverso le quali fu attuato. Il genocidio degli ebrei in Europa negli anni della seconda guerra mondiale, fra il 1939 e il 1945, supera ogni altro che si sia verificato nella storia e fa di Auschwitz qualcosa di unico e senza analogo. Il calcolo più cauto delle vittime, confermato dalle stesse fonti naziste, è il seguente: furono eliminati nei campi di sterminio 4 milioni di ebrei e altri 2 furono fucilati in Polonia e in territorio sovietico, o perirono di fame e di malattie nei ghetti dell’Europa Orientale. La «pulizia etnica» hitleriana cancellò due terzi della popolazione ebraica europea, cioè un terzo di quella mondiale. Né si deve dimenticare che al conto occorre aggiungere 5 milioni di non ebrei. L’opera più rigorosamente documentata sull’argomento è La distruzione degli ebrei d’Europa di Raul Hilberg, pubblicata nel 1985 a Londra e a New York e dieci anni dopo in traduzione italiana.
LE DUE TAPPE. Hitler in Mein Kampf, scritto in carcere nel 1924, aveva espresso a chiare lettere gli obiettivi finali a cui tendeva il razzismo nazionalsocialista, pur tacendo sui mezzi che avrebbe usato per raggiungerli. Se per andare al potere era necessario, dal punto di vista tattico, puntare ogni carta sulla paura del bolscevismo e sulla lotta al bolscevismo, una volta padrone del potere Hitler addita nella lotta all’ebraismo l’obiettivo strategico supremo del partito e dello Stato. È evidente che una politica antiebraica, così concepita, doveva comportare necessariamente una soluzione radicale. Essa, infatti, non aveva che due vie da percorrere: la persecuzione attraverso apposite leggi antiebraiche, che rendessero obbligatoria l’espropriazione di beni e di diritti degli ebrei tedeschi e, ove fosse possibile, la loro espulsione; e, dall’altra parte, l’annientamento. Fra il 1933 e il 1939 ci fu la persecuzione, crudele e senza scampo, degli ebrei in Germania, in Austria e in Cecoslovacchia; nel corso della seconda guerra mondiale, e più precisamente tra il giugno 1941 e la primavera del 1945, si passò all’annientamento nei lager dislocati nell’Europa orientale. Si cominciò col rendere operante il principio: Voi non avete il diritto di vivere tra noi e si passò poi ad attuare la più diabolica delle conseguenze che da quel principio derivava: Voi non avete il diritto di vivere.
10 febbraio 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Gli opportunisti. Gli opportunisti, inevitabile schiuma di tutti i mari, sono sempre pronti a dare la caccia ai vantaggi che possono derivare da un qualsiasi mutamento. Attenti agli slogans. Le parole che fanno colpo per la loro incisività sono anche le più rischiose. (Adalbert G. Hamman) Se lo ricordino specialmente gl’insegnanti e i genitori. Se fai una domanda sciocca, riceverai una risposta sciocca (Elizabeth Ferrars). La differenza. Nei miti pagani il fine del sacrificio è ristabilire la pace, immolando un capro espiatorio. La vittima è sempre considerata colpevole. Con l’avvento del cristianesimo la vittima si rivela invece innocente e i sacrifici cruenti spariscono. A mio avviso questa fu la più grande rivoluzione culturale dell’umanità (René Girard).
ALCUNI ASPETTI DELLA «DOPPIA MORALE». La doppia morale è un’espressione che risale a Ernst Troeltsch, ma ciò che quell’espressione indica è abbastanza noto ed è anzi moneta corrente tra coloro per i quali la politica e la morale sono parallele e eterogenee. Secondo i sostenitori di questa tesi, la morale con i suoi valori e i suoi obblighi va bene nella vita e nelle relazioni private, mentre la politica è retta da altre leggi. In realtà l’esperienza attesta che tra politica e morale i rapporti sono molteplici e complessi anche per coloro che teorizzano la contrapposizione dell’una all’altra. Può accadere, ad esempio, che lo spietato assertore di un’ideologia e, persino, l’esecutore materiale di orrendi crimini compiuti in nome di un’ideologia, possano apparire esemplari nella professione e negli affetti familiari, ma solo a prezzo di un’insanabile frattura o per attaccamento a un residuo di consuetudini cui non si vuole o non si sa rinunciare. Ha comunque una pseudocoscienza morale chi voglia per principio limitare la morale alla sfera privata: la morale ‘sociale’ non è, infatti, un’aggiunta o un’applicazione della morale ‘generale’, originariamente concepita come individuale. La morale, in quanto tale, è infatti sempre inscindibilmente personale e sociale e l’una e l’altra dimensione in essa sono allo stesso titolo primarie. Accade anche, e forse più spesso, che il buon politico non sia incensurabile nella vita privata. Allora l’esigenza morale, scarsamente operante nella sfera privata, trova un compenso e un riscatto nell’attività pubblica ispirata veramente alla ricerca e all’attuazione concreta del bene comune. È questa la situazione problematizzata da Ortega y Gasset in Mirabeau o il Politico. Nell’uno e nell’altro ci troviamo di fronte ad anomalie e a incoerenze, di cui è sempre feconda la realtà umana. Resta però vero – dal punto di vista logico, ma anche in rapporto all’esperienza comune e alla conoscenza biografica degli uomini politici – che, di solito, vi è circolarità tra il disordine che dalla vita privata esorbita in quella politica e viceversa, così come vi è un fecondo riflusso tra la vita morale delle persone e il livello della morale politica.
POESIA DEL NOVECENTO. Quello che voglio dir loro. Mi chiedevo: perché parlare con loro? Comprano il sapere per venderlo. / Vogliono sentire dove c’è sapere a buon mercato / da vendere a caro prezzo. Perché / dovrebbero voler sapere ciò che / parla contro la compra e la vendita? // Vogliono vincere, / contro la vittoria non vogliono saper nulla. / Non vogliono essere oppressi, / vogliono opprimere. / Non vogliono il progresso, / vogliono il vantaggio. // Sono obbedienti a chiunque / prometta loro il comando. / Che devo dir loro, pensavo. Questo / voglio dir loro (Bertold Brecht in Poesie 1941–1947).
17 febbraio 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Se vuoi essere professore. La cattedra non è né per i profeti né per i demagoghi (Max Weber). Non sono affatto soluzioni. Ho capito che proprio le soluzioni «radicali» non sono affatto soluzioni, ma soltanto ciechi irrigidimenti, semplificazioni arbitrarie… La vita e la convivenza tra gli uomini e tra i popoli non possono essere realizzate senza pazienza e indulgenza, senza scepsi e rassegnazione (Karl Löwith, ebreo, nel 1943 lasciò la sua patria e poté farvi ritorno solo nel 1951).
IL MORALISMO ASTRATTO E LA POLITICA. La ‘doppia morale’ genera le sue confusioni, ma sono ben più insidiosi i guasti che produce il moralismo astratto. Esso assorbe, svaluta fortemente, sopprime o banalizza uno dei due termini delle relazione, la politica appunto. Se la politica porta in sé l’esigenza etica – la cui regola è, come aveva detto Aristotele, «non l’utilità particolare, ma il bene di tutti» (Politica, 1279 a 25-32; b 35-36) – ciò non significa che la si possa giudicare con gli astratti e generici schemi del moralismo. La morale non è il moralismo e il moralismo non è criterio valutativo valido neppure per ciò che attiene alla vita privata di un individuo. Per giudicare un’azione bisogna tener conto infatti dei suoi caratteri intrinseci e non della semplice apparenza, delle circostanze di tempo e di luogo e soprattutto dell’intenzione di colui che agisce, del fine realmente perseguito; ebbene, per giudicare avvenimenti storici e fatti politici si richiede in chi giudica una mente ancora più esperta, una più sicura e completa informazione, un acuto senso delle sfumature e della complessità che caratterizza la dimensione sociale della vita. Il moralismo è, invece, il rovescio di un idealismo esasperato che contrae artificiosamente il politico nell’etico, senza mediazione alcuna. Le sue conclusioni sono pertanto sproporzionate e pericolose, partendo dal presupposto secondo cui la morale deve far valere i suoi imperativi attraverso lo Stato in termini di diritto positivo. Lo Stato non può, infatti, ridurre entro i confini di disposizioni giuridiche tutte le manifestazioni della vita morale. Tommaso d’Aquino adduceva questa ragione: non si può comandare a tutti e pretendere da tutti lo stesso grado di perfezione morale. Le leggi del diritto positivo devono corrispondere alle condizioni effettive degli uomini per i quali sono fatte e la legge umana si commisura a una moltitudine costituita in maggioranza da uomini tutt’altro che perfetti; essa, pertanto, non può proibire ogni specie di vizi, da cui i virtuosi si astengono per un orientamento retto della loro volontà. Il consiglio dell’Aquinate è assai perspicace: multa sunt permittenda hominibus non perfectis virtute, quae non sunt toleranda in hominibus virtuosis (S. Th., Ia IIae, q. 114, a. 2).
AGOSTINO SUL RAPPORTO TRA DIRITTO POSITIVO E LEGGE MORALE. Nel De libero arbitrio (I, 5) Agostino mentre sottolinea la doverosa, progressiva connessione tra diritto positivo e legge morale, ne coglie la differenza. «Evodio: Mi sembra che la legge temporale permetta giustamente alcune cose che la legge morale punisce. Ciò perché quella prende in considerazione solo ciò che è necessario e sufficiente a conciliare la pace sociale degli uomini. Agostino: Approvo e lodo questa tua distinzione riguardante la legge positiva che, pur essendo imperfetta, confida di sublimarsi in un ordine etico superiore. La legge temporale, quella per mezzo della quale si reggono gli Stati, rettamente concede e lascia impunite molte cose che la divina provvidenza punisce. E ciò è giusto».
POESIA DEL NOVECENTO. Non mi serve una lapide. Non mi serve una lapide, ma / se a voi ne serve una per me / vorrei che sopra stesse scritto: / «Ha fatto delle proposte. Noi / le abbiamo accolte» (Bertold Brecht in Poesie 1947–1956).
24 febbraio 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Ciò che merita rispetto. Non bisogna confondere nelle nostre valutazioni ciò che in una cosa merita rispetto con la cosa in se stessa. Le armi del demonio. Il demonio ci vince quando permette che lo sconfiggiamo con le sue armi. Se è il gusto a regolare il valore… Laddove si riconosca una gerarchia di valori oggettivi, il capriccio non è pericoloso. Qualsiasi cosa può affascinarci legittimamente se non ne alteriamo il rango. Quando invece supponiamo che sia il gusto a regolare il valore, la più lieve disattenzione scatena catastrofi. Le stupidaggini sono temibili quando si autoproclamano atti di ragione. (Nicolas Gomez Dàvila)
LE DOTTRINE SOCIALI CRISTIANE E IL MONDO MODERNO. Nelle pagine conclusive de L’etica protestante e lo spirito del capitalismo Max Weber scrive: «Solo come un mantello sottile, che ognuno potrebbe buttar via, secondo la concezione di Baxter, la preoccupazione per i beni esteriori doveva avvolgere le spalle degli ‘eletti’. Ma il destino fece del mantello una gabbia di acciaio e mentre l’ascesi imprendeva a trasformare il mondo e ad operare nel mondo, i beni esteriori di questo mondo acquistarono una forza sempre più grande nella storia» (Firenze 1965, p. 304). A queste celebri osservazioni weberiane si ricollega Ernst Troeltsch: «Quel che il protestantesimo ascetico subordinò al pensiero religioso come mezzo per l’instaurazione della signoria del Cristo, gli ha preso la mano, e ha gettato via da sé le limitazioni e le direttive religiose, anzi in generale tutte quelle che si collegano al pensiero e alla metafisica» (Le dottrine sociali delle Chiese e dei gruppi Cristiani, Firenze 1969, vol. II, p. 708). Tuttavia il riconoscimento dell’estrema difficoltà di elaborare una nuova filosofia sociale cristiana nella situazione presente, in cui sempre di più tendono a separarsi l’elemento religioso e quello economico e socio-politico, non comporta per Troeltsch la rinuncia a porre a fondamento dell’agire sociale l’eticità cristiana col suo specifico orientamento escatologico: «Il pensiero del futuro regno di Dio, che non è altro se non il pensiero della finale realizzazione dell’assoluto, comunque lo si possa pensare, non toglie già valore, come ritengono avversari di corta vista, al mondo e alla vita del mondo, ma rinvigorisce le forze e attraverso tutti gli stati di transizione rende forte l’anima nella sua certezza di un ultimo assoluto senso e fine futuro del lavoro umano» (ibid. II, p. 700).
IL PERDONO NON È L’OBLIO PERVERSO. Il perdono non verte sugli avvenimenti in se stessi, la cui memoria deve essere accuratamente protetta, bensì sulla colpa. L’attore principale degli avvenimenti che feriscono la memoria può chiedere perdono, ma solo la coscienza della vittima è abilitata a concederlo. Quando, però, una sorta di amnesia istituzionale invita a fare come se l’evento criminale stesso non avesse avuto luogo, spetta allora allo storico contrastare con il proprio lavoro – reso singolarmente difficile dall’instaurazione dell’oblio pubblico – il tentativo di cancellare i fatti stessi (Paul Ricoeur in Ricordare, dimenticare, perdonare. L’enigma del passato, Bologna 2004).
POESIA DEL NOVECENTO. La lezione del giardiniere. Il mio giardino mi ha insegnato – / questo piccolo regno di aiuole e bordure – / che perfino la nobile rosa di Mileto / deve essere potata dei rami esuberanti / se vuol fiorire. Deve anche rassegnarsi / a che verza e porro e verdura di ogni specie / di più umile estrazione, ma piuttosto utili / abbiano lì vicino la loro parte d’acqua. / Intristirebbe il giardino se si pensasse / alla rosa regale soltanto (Bertold Brecht in Poesie e canzoni dalle opere teatrali).
3 marzo 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il fondamentalismo religioso. Un pericolo non meno grave del nichilismo è il fondamentalismo religioso, i cui seguaci, sparsi ormai in tutto il mondo e in rapido aumento, al grido di «Dio lo vuole», commettono i più efferati delitti. Pace e futuro della democrazia. L’avvenire della pace è strettamente connesso con l’avvenire della democrazia, ma il futuro della democrazia può essere saldamente garantito solo attraverso la democratizzazione del sistema internazionale. (Norberto Bobbio) Grazie! La gratitudine è come la carità: non bisogna dimenticare nessuno (Daniel Pennac). Quando muore qualcuno. Quando muore qualcuno sentiamo sempre un po’ di vergogna, perché c’è sempre qualcosa che dobbiamo farci perdonare (Franco Loi).
QUANDO MORÌ AGOSTINO. Nel 378, quando Agostino aveva ventiquattro anni ed insegnava retorica a Cartagine i Visigoti rompevano ad Adrianopoli il confine danubiano dell’impero romano. Nel 406 veniva travolto anche il confine renano e i barbari dilagarono in Europa, in tutte le direzioni. Nel 410 – Agostino era vescovo di Ippona da dodici anni – Roma fu orrendamente saccheggiata da Alarico, il re dei Visigoti. Stretti dall’angoscia molti pensarono che fosse la fine del mondo. Agostino ne fu turbato nell’intimo e s’interrogò per anni sul senso della storia, consegnando all’opera grande e ardua del De civitate Dei il frutto della sua alta meditazione. Nella notte in cui spirò, a settantasei anni, tra il 28 e il 29 agosto del 430, la sua Ippona era assediata dai Vandali e poche settimane dopo si sarebbe arresa. I Vandali, però, non profanarono la tomba di Agostino e lasciarono intatta la sua biblioteca, in cui erano custodite quelle opere che, entrando a far parte del patrimonio culturale e religioso della Chiesa cattolica, ispireranno per tanta parte quel processo grandioso che uno storico inglese, Christopher Dawson, ha designato col titolo del suo libro più bello, La nascita dell’Europa. È stato detto e ripetuto volentieri: quale simbolo della fine di un mondo è la morte del vescovo di Ippona! Ma è la storia non la leggenda ad accertare con la realtà degli avvenimenti il loro vero significato. Anche sul letto di morte, Agostino era nello stato d’animo fissato mirabilmente in un passo del De civitate Dei (IV, 7): «Non è il caso di disperare del nostro tempo)». Sappiamo da Possidio, il primo biografo di Agostino, suo amico e collega, «vissuto in dolce familiarità con lui per quasi quarant’anni» (Vita Augustini 31, 11), quali fossero le ultime preoccupazioni di quell’anima. È all’avvenire della cultura, è a preservare il suo personale contributo ad essa che Agostino pensa. Non fece testamento perché, radicalmente povero per amore di Dio, non aveva di che farlo. Egli, però, raccomandava sempre a Possidio e agli altri amici di conservare diligentemente per i posteri la biblioteca della Chiesa con tutti i suoi codici: Ecclesiae bibliothecam, omnesque codices diligenter posteris custodiendos sempre iubebat (Possidio, ibid. 31, 6). E il biografo continua: «Lasciò infatti alla Chiesa una biblioteca contenente libri e prediche dai quali si può conoscere quanta sia stata, per dono di Dio, la sua grandezza e nei quali fedeli lo trovano sempre vivo» (ibid. 31, 8).
POESIA DI AUTORE ANONIMO. Semina il grano della speranza. Semina, semina: / l’importante è seminare / – poco, molto, tutto – / il grano della speranza. / Semina il tuo sorriso / perché splenda intorno a te. / Semina le tue energie / per affrontare / le battaglie della vita. / Semina il tuo coraggio / per risolvere quello altrui. Questa poesia è riportata a chiusura del racconto che un’emigrante ucraina, Yevheniya Baranova, fa della sua vicenda personale nel volume Il bagaglio invisibile, Brescia, 2004, p. 53.
10 marzo 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il successo dà alla testa. La folla a furia di applaudirti ti ha stordito (frammento di una tragedia di Euripide). Autoinganno o illusione? Chi si sorprende di aver detto o fatto una sciocchezza è sempre convinto che questa debba essere l’ultima. Lungi dal dedurre che ne farà moltissime altre, egli conclude che quella gl’impedirà di commetterne delle nuove (Blaise Pascal). Il culmine dell’eloquenza. Il culmine dell’eloquenza consiste nel creare quello spazio di silenzio e quel moto dell’anima che si apre a Dio (Adalbert G. Hamman). Una mirabile costante. Nel regno dello spirito le possibilità più belle si trovano sempre più dove esistono i rischi maggiori (Padre Paul Couturier).
«IL SOLO POSSESSO CHE NESSUNO PUÒ RUBARE ALL’UOMO». Due versi scritti proprio sul finire del secolo IV a. C. valgono a caratterizzare, in breve e in modo preciso, il significato della paideia nella vita dei greci. Quando stava per finire la loro indipendenza nazionale, quando i greci ebbero perduto tutto quello che appartiene a questo mondo – Stato, libertà, esistenza civica – uno dei loro ultimi grandi poeti, Menandro, seppe cogliere in poche parole il senso più alto dell’eredità classica: «Il solo possesso che nessuno può rubare all’uomo è la paideia», vale a dire la sua cultura spirituale. E la stessa fiducia risuona anche in un altro verso: «La paideia è un porto per ogni mortale». Va tuttavia ricordato che neppure la fine della Grecia come entità politica, fragile e prodigiosa a un tempo, impedì il successivo affermarsi della cultura dell’Ellade nel mondo. Nella storia universale la paideia greca ebbe parte decisiva e celebrò i suoi più grandi trionfi lungo due linee maestre: la penetrazione spirituale nell’impero romano e il processo plurisecolare per cui il retaggio più alto della civiltà classica divenne una componente dell’organismo culturale che il cristianesimo andava edificando.
OGNI NUOVA GENERAZIONE HA BISOGNO D’INCONTRARE PASCAL. Può sembrare che su Blaise Pascal, e sulle sue opere sulle quali è fondata la sua fama, tutto quello che c’era da dire sia stato detto. I particolari della sua vita sono conosciuti tanto quanto ci aspettiamo di conoscerli, le sue scoperte matematiche e fisiche sono state illustrate assai spesso, il suo sentimento religioso e le sue opinioni teologiche sono state ripetutamente discusse, e lo stile della sua prosa è stato studiato dai critici francesi. Ma Pascal è tra quegli scrittori che saranno, e che devono essere, studiati nuovamente da ogni generazione. Non è lui che cambia, siamo noi che cambiamo. Non è la nostra conoscenza di lui che si accresce, bensì è il nostro mondo e il nostro atteggiamento verso di esso che muta. La storia delle opinioni umane intorno a Pascal e agli uomini della sua natura è parte della storia dell’umanità. Ciò basta a mostrare la sua permanente importanza. Così Thomas S. Eliot inizia l’Introduzione alle Pensées di Blaise Pascal. Il testo integrale fa da postfazione al volume: Pascal, Pensieri e altri scritti, a cura di Gennaro Auletta, Milano 2001.
L’ULTIMA NOSTRA METAMORFOSI, QUELLA DEL CIGNO. Questa pena di attraversare grevi, / quasi in catene, l’ancora Inattuato, / somiglia al passo inceppato del cigno. / Ed il morire, questo venir meno / del terreno su cui posa ogni giorno il piede, / somiglia al suo ansioso discendere: / nelle acque che con dolcezza l’accolgono / e che, come felici e ormai trascorse, / sotto di lui onda a onda si ritraggono, / mentre sicuro e infinitamente quieto, / di sé signore e sempre più regale / e sereno, si compiace di incedere (Rainer Maria Rilke, Il cigno, in Poesie 1907-1926, Torino 2000).
17 marzo 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. La maggior parte del cristianesimo. La maggior parte del cristianesimo consiste nel volere con tutto il cuore essere cristiano. Non prendersela, non tenerne conto. Essere derisi dagli insensati è quasi una lode. Non è per gli indolenti e i fannulloni. Il regno dei cieli non è fatto per chi sbadiglia. Di fronte al fratello che subisce ingiustizia. Vedi che un fratello subisce delle ingiustizie e il tuo animo non si commuove. Perché la tua anima non sente niente? Perché è morta. Perché in essa non c’è la sua vita, cioè Dio. Perché dove c’è Dio c’è carità. Dio infatti è carità. La regola. Prefiggiti come regola di avere Cristo come unico scopo di tutta la tua vita al quale unicamente indirizzare i tuoi interessi, i tuoi sforzi, il tuo riposo e le tue attività. Tieni per certo che Cristo non è una parola vuota, ma nient’altro che carità, semplicità, pazienza, purezza, in breve, tutto quello che egli ha insegnato. (Erasmo da Rotterdam)
L’UOMO VERAMENTE ECCEZIONALE È QUELLO VERAMENTE NORMALE. Persona, singolo, ecco una sinonimia ben insediata nel linguaggio. Per definizione la persona è in realtà ciò che non si ripete, anche se l’aspetto e i gesti delle persone alla superficie si copiano vicendevolmente. Ma la ricerca dell’originalità appare sempre come un prodotto secondario della vita personale, per non dire un sottoprodotto. Coloro che raggiungono le vette dell’esistenza raggiungono una sorta di semplicità superiore, i motivi più modesti dell’umanità comune. Bisogna dunque guardarsi dal ritenere che il culmine della vita personale sia l’eccezione che, sola, raggiungerebbe la vetta inaccessibile. No, il personalismo non è un’etica per «i grandi uomini», un nuovo tipo di aristocrazia da cui uscirebbero i capi alteri e solitari del resto dell’umanità. Questa è la posizione di Nietzsche. La persona si realizza perseguendo fini e valori assoluti, ma essa è chiamata a vivere l’eccezionale nel quotidiano. Kierkegaard lo ha visto bene quando ha scritto: «L’uomo veramente eccezionale è quello veramente normale».
RENDERE ONORE ALLA RESISTENZA TEDESCA. Qualcuno ha detto che «la Resistenza tedesca fu una causa privata». La frase a effetto è diventata un luogo comune. Si dimentica che il martirologio degli oppositori tedeschi al nazismo è molto lungo e ad esso bisogna aggiungere le persecuzioni patite dai parenti dei condannati. Pochi ricordano che il campo di Dachau, posto sotto il comando delle SS, fu aperto già nel 1933. Il comandante di quel campo, Theodor Eicke, era autorizzato da Himmler a infliggere la pena di morte all’interno del lager. Quel criminale divenne il vero pioniere del nuovo terrore. Conosco e amo profondamente non poche figure dei resistenti tedeschi: dal prevosto del duomo cattolico di Berlino Bernhard Lichtenberg al gesuita tedesco Friedrich Muckermann, da Bonhoeffer ai giovani della Rosa Bianca, da Karl Friedrich Goerdeler a Helmut James von Moltke, a tanti altri. Tutti costoro ebbero la piena coscienza che il loro sacrificio avesse un valore purificatorio per il popolo tedesco. «Io prego il mondo di accogliere il nostro destino di martiri come espiazione per i nostri connazionali», scrisse nobilmente Goerdeler nella lettera di addio alla moglie, prima di essere giustiziato. Von Moltke, dal canto suo, vide con chiarezza che la Resistenza al nazismo doveva elaborare un alto progetto per il futuro dell’Europa e perché nel mondo nella politica estera prevalesse l’ispirazione dell’umanesimo cristiano. Per quanto riguarda la Germania «il problema vero – scriveva Moltke – è assai meno un problema di confini, di organizzazioni ipertrofiche e di pianificazioni grandiose, quanto piuttosto di capacità di rispondere alla questione: come restaurare l’immagine dell’uomo nel cuore dei tedeschi dopo una così immane follia».
24 marzo 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. La nemesi. A padri avari, figli prodighi. La ricchezza non lascia in pace. Più hai, più temi. L’inappagabile cupidigia. La coppa non basta mai ai ricchi, vogliono bere il fiume. Il superfluo. Possedere il superfluo significa possedere il bene altrui. Non dare il di più è un furto. Essere e avere. Occorre raggiungere l’assoluta libertà dell’essere attraverso l’assoluta libertà dell’avere. Per non pensar male degli altri. Non pensar male di tuo fratello. Sforzati umilmente di essere ciò che tu vorresti che egli sia e non pretenderai più che egli sia ciò che tu non sei. (Agostino)
LA STRUTTURA DRAMMATICA DELL’AZIONE. «Noi non solamente non conosciamo mai situazioni ideali ma, per lo più, non scegliamo nemmeno le situazioni di partenza che sollecitano la nostra azione: esse anzi ci provocano quando meno ce lo aspettiamo e in modo diverso da come prevedevano i nostri schemi: occorre rispondere subito, tentando e provando, proprio quando la nostra indolenza si preparava ad abdicare. Si parla continuamente di impegnarsi come se ciò dipendesse da noi: ma noi siamo già impegnati, imbarcati nell’avventura, pre-occupati: perciò l’astensione è un’illusione e chi non ‘fa politica’ fa passivamente la politica del potere costituito. Comunque, se è un consenso all’espediente, alla impurità (‘sporcarsi le mani’) e al limite, l’impegno non può tuttavia consacrare l’abdicazione della persona a dei valori che la persona serve. La sua forza creatrice nasce infatti dalla tensione feconda che esso suscita l’imperfezione della causa e la sua fedeltà assoluta ai valori che sono in gioco. La coscienza inquieta, e talvolta lacerata, che noi acquistiamo delle impurità della nostra causa ci tiene lontani dal fanatismo, in uno stato di vigile attenzione critica. Il rischio che noi accettiamo nell’oscurità parziale della nostra scelta ci pone in uno stato di insicurezza e di ardimento che è il clima delle grandi azioni. Una volta stabilita questa struttura drammatica dell’azione non è più possibile confondere impegno e irreggimentazione. Noi apprendiamo che il campo del bene e quello del male raramente si contrappongono come bianco e nero. Noi non temiamo più di conoscere e di combattere apertamente le deficienze della nostra parte, conosciamo la relatività di ogni azione, il continuo pericolo dell’accecamento collettivo, la minaccia costituita dalle organizzazioni e dai dogmatismi».
IL PERSONALISMO DI MOUNIER. Questa pagina è di Emmanuel Mounier, di cui il primo aprile 2005 ricorre il centenario della nascita. L’opera dalla quale è tratta è Il Personalismo, maturo punto di arrivo di un’alta, appassionata riflessione filosofica. Quel libro – piccolo di mole ma ricco di suggestioni, intenso e profondo come pochi altri – apparve nel 1949, pochi mesi prima della morte di Mounier e ha quindi assunto il significato di testamento spirituale, di congedo del suo Autore dal dibattito culturale e politico e religioso degli ultimi vent’anni di cui era stato protagonista con la rivista Esprit. Sono molto lieto di comunicare ai lettori che nell’ottobre 2004 è stata pubblicata dall’editrice AVE la dodicesima edizione del libro capolavoro di Mounier, a cura di Giorgio Campanini e Massimo Pesenti. Sono molte le ragioni per le quali Il Personalismo può transitare dal XX al XXI secolo non solo come documento della storia delle idee del Novecento, ma anche come strumento di liberazione dagl’idoli e guida spirituale nella difficile stagione che stiamo vivendo.
31 marzo 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Fede e miracolo. La fede è tanto più forte quando non ricerca il miracolo. Sono preziosi gli amici. Niente vale il volto di un amico, il suono della sua voce, la sua calda amicizia. La volontà di Dio e la tua. Fai anzitutto la volontà di Dio ed egli farà la tua. Azione e contemplazione. Nessuno deve essere tanto desideroso di quiete da non pensare al bene del prossimo e tanto dedito all’azione di dimenticare la contemplazione. Nell’azione non dobbiamo attaccarci alle cariche e alle dignità di quaggiù, perché tutto è vanità sotto il sole. Bisogna pensare a far servire il potere all’ordine e all’utilità pubblica. (Agostino)
IN COMPAGNIA DELLE OPERETTE MORALI DI PLUTARCO. C’è uno scrittore greco – nato a Cheronea, in Beozia, nel 41 d. C. e morto nel 127 – che molti spiriti, nel corso dei secoli, hanno scelto come guida, o più semplicemente come compagno di viaggio. È Plutarco, l’autore delle celebri Vite parallele, di cui ce ne sono pervenute 50, ma anche delle Operette morali, che attestano l’ampiezza degli interessi culturali di chi le ha scritte. Nelle Vite parallele la scrittura del Cheronese, attentissima a farci cogliere l’indole e la personalità dei protagonisti, è tutta pervasa da un pathos che dà alla narrazione il carattere della poesia e del dramma; nelle Operette morali l’etica dell’età ellenistica è sapientemente rivisitata con spirito platonico e i suoi temi diventano argomenti di conversazione, sereno invito al risveglio dell’io migliore che sonnecchia in ogni uomo. A veder bene esse sono capaci di suggerire al lettore la visione di ciò che vi fu di autentico nell’animo di un personaggio e nella scelta di una condotta di vita. Furono grandi estimatori di Plutarco nell’antichità Marc’Aurelio, Traiano e Adriano. Vasta fu la sua fama nel Medioevo ed è curioso leggere la preghiera in cui il metropolita di Costantinopoli, Euchaeta, chiede a Cristo di salvare tra i pagani Platone e Plutarco, i più vicini a Lui nei loro pensieri e nelle loro aspirazioni. Nel Rinascimento si moltiplicarono le edizioni del testo greco delle opere di Plutarco e le traduzioni nelle lingue nazionali. Tre grandi iniziatori dell’età moderna – Shakespeare, Montaigne e Bacone – conobbero bene Plutarco. Nel Settecento Rousseau si nutre dei suoi scritti e il nostro Vittorio Alfieri, in un passo delle sua autobiografia, ebbe a scrivere: «Il libro dei libri per me, che in quell’inverno [siamo nel 1769 e il poeta ha vent’anni] mi fece veramente trascorrere dell’ore di rapimento beate, fu Plutarco, le vite dei veri grandi». Ma anche nell’Ottocento Plutarco fu letto con ammirazione da Schiller e Beethoven, da Foscolo, Leopardi e Gioberti, da Ralph Emerson. Quando si è giovani si leggono di preferenza le Vite, poi il primo posto lo si dà alle Operette morali.
I CHIACCHIERONI. 1. I chiacchieroni non ascoltano nessuno: sono sempre loro a parlare. Il non saper tacere comporta questo primo male: il non saper ascoltare. Ed è, come io penso, una sordità scelta spontaneamente… 2. Aristotele a un chiacchierone che, dopo molti discorsi, gli chiedeva: «Ti ho forse disturbato con le mie chiacchiere?», rispose: «No, per Zeus, non ti davo neppure ascolto» (Plutarco, Consigli agli inquieti. Sulla loquacità, Milano 2003, pp. 283, 287).
7 aprile 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. La patria, il paese dei figli. La patria non è il paese dei padri, bensì il paese dei figli. Ciò che più importa. Ai miei occhi chi trasforma la cattedra in profezia non si è reso conto del fatto che dentro l’aula, durante la lezione, nessun’altra virtù ha valore al di fuori della semplice onestà intellettuale. Adempiremo alla richiesta di ogni giorno. Anelare e attendere non basta e noi faremo altrimenti. Ci metteremo al nostro lavoro e adempiremo alla «richiesta di ogni giorno» [citazione tratta da Goethe] – come uomini e nella nostra attività professionale. Ma ciò è semplice quando ognuno abbia trovato e obbedisca al demone che tiene i fili della sua vita. (Max Weber nel discorso sulla rinascita della Germania del 2 gennaio 1919)
L’EREDITÀ INSITA IN OGNI PAROLA. Se chiediamo a qualcuno «a che cosa serve la lingua», la risposta ovvia sarà: «serve a comunicare con gli altri, a dialogare». La risposta è giusta, ma parziale. La lingua, infatti, serve all’uomo anche per parlare a sa stesso, in quel particolare monologo interiore per il quale Agostino coniò una parola nuova, che diede il titolo ad una delle sue primissime opere: Soliloquium. Noi per pensare dobbiamo apprendere a parlare con noi stessi e il pensiero non può esistere, formularsi, esprimersi senza l’aiuto del linguaggio al punto che si identifica con esso. I greci lo avevano capito perfettamente designando con un solo termine, logos, il pensiero e la parola. Con la lingua noi diamo un nome all’universo meraviglioso e inesauribile dell’esperienza interiore, a tutto ciò di cui riusciamo a recuperare la storia e di cui afferriamo il significato. Ed è ancora il linguaggio che instaura una realtà immaginaria, anima le cose inerti, riconduce alla presenza della memoria ciò che sembrava scomparso. Un grande linguista del Novecento, Émile Benveniste, ha osservato che «non esiste potere più alto del linguaggio e, a ben pensarci, tutti i poteri dell’uomo derivano da quello». La conoscenza della parola è estremamente sollecitante, a partire da quelle più comuni e quotidiane, perché conoscerne la storia significa ripercorrere un itinerario di cui noi stessi siamo i viandanti. In un discorso tenuto nel 1958 uno dei più grandi scrittori tedeschi, Heinrich Böll, diceva: «Chi scrive o pronuncia la parola ‘pane’ non sa cosa ha fatto: si sono combattute guerre per questa parola, essa porta in sé un’eredità formidabile e chi la scrive dovrebbe conoscerla e sapere di che metamorfosi sia capace. Se noi, consapevoli dell’eredità insita in ogni parola, esaminassimo i nostri vocabolari, studiassimo questo catalogo della nostra ricchezza, scopriremmo che dietro ogni parola si nasconde un mondo, e chi si serve delle parole dovrebbe sapere che mette in moto dei mondi, che libera forze polivalenti».
RIFLESSIONI DI EDUARDO GALEANO. Ricordare. Dal latino re–cordis, ripassare dalle parti del cuore. Smemoramento. La paura di sapere condanna all’ignoranza. La paura di fare riduce all’impotenza. La dittatura trasforma tutti in sordomuti. Oggi la democrazia, con la sua paura di ricordare, ci attacca il contagio dell’amnesia. Ma non c’è bisogno di Sigmund Freud per sapere che non esiste tappeto sotto il quale si possa nascondere la spazzatura della memoria. Tempo di camaleonti. Nessuno ha dato tanti insegnamenti all’umanità quanto i camaleonti. La cultura del travestimento è sempre più in auge. Si parla come artisti della simulazione. Doppio linguaggio, dunque, partita doppia, doppia morale. La cultura del terrore. Il dominio visibile ti proibisce apertamente di dire, di fare, di essere. Quello invisibile, invece, ti convince che la servitù è il tuo destino e che l’impotenza è nella tua natura (Il libro degli abbracci, Milano 2000).
14 aprile 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Seminare e mietere. Coloro che seminano vento, mieteranno tempesta (Libro di Osea). Mirabile evidenza. Non fare a nessuno ciò che non piace a te (Libro di Tobia). Il sorriso dell’intelligenza. Lo stolto alza la voce mentre ride; ma l’uomo saggio sorride appena, in silenzio (Libro di Siracide). Speranza e tormento. Speranza mette in fuga il mio tormento (William Blake). Per far esistere certe zone del cuore. L’uomo ha delle zone del cuore che non esistono ancora e dove il dolore entra per farle esistere (Léon Bloy). C’è qualcosa che ci rende uguali. Un calzare da senatore non libera dalla podagra, né una corona dal mal di testa (Plutarco).
UN SOLDATO TEDESCO, EROE SENZA NOME. Durante la seconda guerra mondiale, in Serbia, alcuni partigiani tesero un agguato in cui rimase ucciso un soldato tedesco. La legge emanata dall’occupazione nazista era chiara: per un tedesco ucciso, avrebbero dovuto morire cento serbi. Il rastrellamento non diede però il risultato sperato; occorreva trovare altri uomini. Il comandante pensò di far ricorso al vicino liceo, da cui vennero prelevati alcune decine di studenti. Fu allestito il plotone di esecuzione. A questo punto, pochi istanti prima di ricevere l’ordine di far fuoco, un soldato uscì dai ranghi e disse apertamente che si rifiutava di sparare considerando quell’atto un crimine, non un’azione militare. Gli fu detto che se non avesse obbedito avrebbe fatto la stessa fine degli ostaggi. Egli persistette nel suo rifiuto e poco dopo venne fucilato insieme ai ragazzi serbi. Dopo tanti anni, il ricordo di lui è ancora vivo tra la gente di quei luoghi. Saša, che una sera durante la guerra di Bosnia mi raccontò questo fatto, aggiunse: «Quel soldato tedesco di cui nessuno ricorda più il nome, uno con l’uniforme nazista, è tra i più grandi eroi dell’umanità. Avrebbe potuto far finta di sparare, o mirare alto, nessuno se ne sarebbe accorto. Non l’ha fatto. Ha scelto di morire. E non è morto per salvare qualcuno, perché sapeva benissimo che col suo gesto non avrebbe ottenuto nulla. Ecco chi è per me il vero eroe». È vero, quel soldato tedesco è uno dei più grandi eroi dell’umanità (e io ti ringrazio di avermene parlato, caro Saša, oggi che la tua anima si trova insieme a quella del tuo eroe). Il soldato tedesco non è morto invano però; qualcosa con la sua morte ha salvato l’onore, la verità, l’idea, il bene. Con la sua morte ha salvato non un uomo concreto, ma l’idea di uomo, la sua purezza, la sua nobiltà. La sua morte ha salvato ciò che di più alto vi è in noi. La sua morte, in questo senso, ci fa vivere. Vivifica in noi l’idea di uomo. Il fatto è riportato nel libro di Vito Mancuso Per amore. Rifondazione della fede (Milano 2005, pp. 161–162). Non si può venire a conoscere episodi del genere – e chissà quanti altri ce ne furono nel corso dell’ultimo conflitto mondiale – senz’avvertire nel profondo un sentimento di gratitudine sconfinata e di commossa venerazione per quegli eroi autentici che onorano tanto nobilmente Dio e l’umanità.
ANTOLOGIA DI SPOON RIVER. Ho avvelenato le mie buone azioni. Tu lodi la mia abnegazione, Spoon River, / perché ho cresciuto Irene e Mary, / orfane della mia sorella più grande! / E biasimi Irene e Mary / per il loro disprezzo nei miei confronti. / Ma non lodare la mia abnegazione, / e non biasimare il loro disprezzo: / io le ho cresciute, mi sono curata di loro, è vero, / ma ho avvelenato le mie buone azioni / rinfacciandogli sempre che m’erano di peso (Edgar Lee Masters, La grande poesia, Milano 2004).
21 aprile 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Quando è la libertà che opprime. Tra il debole e il forte, è la libertà che opprime e la legge che libera (Jean-Jacques Rousseau). No, non può esistere. Non può esistere un mondo nel mondo, un’enclave di felicità in un mondo di dolore. Non è possibile tollerare un’economia mondiale che relega un quinto dell’umanità alla non-esistenza. Non c’è dunque niente da fare? Non bisogna mai pensarlo, Karim. Nessuna vittima della fame è una vittima «inevitabile». Per noi uomini di fede, vivaci e capaci d’intendere e di volere, la fatalità della carestia e della morte non esiste. In primo luogo, ciò che è veramente necessario è cercare di capire. (Jean Ziegler)
IL METODO DEL PARALLELO. Il metodo del parallelo è stato proposto più volte, e con grande utilità, per alcune celebri coppie: Platone-Aristotele, Plotino-Agostino, Cartesio-Pascal, Locke-Leibniz, Kant-Rosmini, Hegel-Kierkegaard e così via. La luce diretta che ci viene dall’esame di un singolo pensatore, o di un sistema, è fondamentale, ma è bene che essa sia potenziata e meglio definita nei suoi limiti dalla luce riflessa che si rinviano l’un l’altro due geni, una volta che siano posti di fronte. Il fascino del parallelo consiste in un dialogo serrato tra due pensatori che si fronteggiano per stabilire ciò che è proprio di ciascuno di essi, ma anche i rispettivi punti di forza e anche di debolezza. La ricerca della verità attraverso il metodo del confronto criticamente approfondito ci obbliga anche – e in questi tempi non è cosa da poco – a distinguere in ogni filosofo «ciò che è vivo e ciò che è morto». Com’è noto, un’opera di Benedetto Croce, pubblicata nel 1907, s’intitolava appunto Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel. Uno di quelli che più felicemente hanno riproposto tale metodo nel secolo scorso per le coppie Pascal-Leibniz, Renan-Newman, Claudel-Heidegger è stato Jean Giutton, che ha poi riunito quegli scritti nel volume Profili paralleli (Bologna 1965).
QUELLA FERMEZZA INTERIORE CHE PERMETTE DI RESISTERE AL NAUFRAGIO DI TUTTE LE SPERANZE. La politica consiste in un lento e tenace superamento di dure difficoltà da compiersi con passione e discernimento al tempo stesso. È certo del tutto esatto, e confermato da ogni esperienza storica, che non si realizzerebbe ciò che è possibile se nel mondo non si aspirasse sempre all’impossibile. Ma colui che può farlo deve essere un capo e non solo questo, ma anche – in un senso assai poco enfatico della parola – un eroe. Pure coloro che non sono né l’uno né l’altro devono altresì armarsi di quella fermezza interiore che permette di resistere al naufragio di tutte le speranze, già adesso, altrimenti non saranno in grado di realizzare anche solo ciò che oggi è possibile. Soltanto chi è sicuro di non cedere anche se il mondo, considerato dal suo punto di vista, è troppo stupido o volgare per ciò che egli vuole offrirgli, soltanto chi è sicuro di poter dire di fronte a tutto questo: «Non importa, andiamo avanti», soltanto quest’uomo ha la «vocazione» per la politica. Con queste parole si conclude la conferenza tenuta da Max Weber il 28 gennaio 1919 sul tema La politica come professione, che gli era stato proposto dall’associazione Liberi studenti di Monaco. Il grande sociologo, che vedeva con lucidità l’importanza della politica nella vita dei popoli, detestava coloro che fanno politica da «specialisti senz’anima» e da «puri uomini di potere». Essi impersonano ai suoi occhi le qualità peggiori di una cattiva politica: l’assenza di un compito, l’irresponsabilità, la vanità, l’intima debolezza che si nasconde dietro gesti boriosi ma del tutto vuoti.
28 aprile 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. La gloria del forte. A Ginevra, sul muro che si trova di fronte all’edificio dell’Alto commissariato per i diritti umani, una targa riporta un verso di Alphonse de Lamartine: «La felicità del debole è la gloria del forte» (Jean Ziegler). Il metodo migliore. Se ascolto dimentico. Se vedo ricordo. Sa faccio capisco (Antico proverbio cinese). Vorrei dire soprattutto ai giovani… Vorrei dire soprattutto ai giovani: non abbiate prevenzioni rispetto alla Costituzione del ‘48, solo perché opera di una generazione ormai trascorsa. Cercate di conoscerla, di comprendere in profondità i suoi principi fondanti, e quindi farvela amica e compagna di strada (Giuseppe Dossetti nel discorso in difesa della Costituzione Repubblicana, pronunciato all’Università di Parma il 26 aprile 1995).
CHE COSA VUOL DIRE «RISURREZIONE DEI CORPI»? Nel quindicesimo capitolo della Prima Lettera ai Corinzi san Paolo presenta la più ricca trattazione neotestamentaria della risurrezione, dapprima parlando della risurrezione di Gesù, poi della risurrezione che riguarda gli uomini. È interessante notare che Paolo presenta la risurrezione di Cristo non come qualcosa di unico e di inaudito, ma come un caso particolare della più generale risurrezione che attende gli uomini: «Se non esiste risurrezione dei morti, neanche Cristo è risorto» (I Corinzi 15, 16), concetto ribadito allo stesso modo anche nei versetti 29 e 32. Poi Paolo prende in considerazione la domanda: «Come risuscitano i morti? Con quale corpo verranno?» (I Corinzi 15, 35). E la sua risposta non potrebbe iniziare in modo più diretto: «Stolto!» (I Corinzi 15, 36). Con chi ce l’ha Paolo, a chi si rivolge il suo insulto? Lo rivolge a tutti coloro che, duemila anni fa come oggi, pensano non secondo lo spirito ma secondo la carne, a coloro che, quando sentono parlare di risurrezione dei corpi, non comprendono che entra in gioco un’altra dimensione dell’essere, che supera definitivamente la dimensione materiale della semplice carne terrestre. È in questa fondamentale prospettiva di contrapposizione tra carne e spirito che Paolo parla della condizione dei risorti come dotati di un «corpo spirituale», contrapposto al «corpo animale». È mai possibile concepire un corpo spirituale? Perché Paolo lo fa? Lo fa perché è costretto a dire qualcosa per la quale non ci sono parole: un corpo che non avrà nulla più a che fare con la sarx, con la carne. È possibile pensare qualcosa del genere? Che cosa vuol dire? La risurrezione della carne annunciata dal cristianesimo è da intendersi non come risuscitamento della dimensione materiale del corpo animale, ma come mantenimento nello spirito della dimensione personale. L’Io non svanirà. La nostra identità non sarà annullata nel divino impersonale, e questo per il fondamentale motivo che il divino per il cristianesimo è eminentemente personale (Dal libro di Vito Mancuso, Per amore. Rifondazione della fede, Milano 2005).
ANTOLOGIA DI SPOON RIVER. Dare un senso alla vita. Bramavo sempre di dare un senso alla vita, / ma paventavo i rischi. / Ora so che bisogna alzare le vele / e farsi portare dai venti della sorte / dovunque spingano la nave. // Dare un senso alla vita può sfociare in follia, / ma una vita senza senso è la tortura / dell’inquietudine e del vago desiderio, / è una nave che desidera il mare ardentemente / ma ha paura (Edgar Masters, La grande poesia, Milano 2004).
5 maggio 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Una preziosa testimonianza. Quando quattro anni fa, nel 1976, ho visto il cardinale Wojtyla, prima che fosse eletto papa, gli ho domandato: «Padre, che cos’è più importante per la chiesa polacca?». Credevo che mi rispondesse il seminario, le chiese, le parrocchie; no, egli mi disse subito: «Sono i diritti dell’uomo, come in America Latina» e quel giorno ho sentito che il cristianesimo poteva diventare portatore di speranza umana. Questa è la testimonianza di Jean Marie Domenach, il primo successore di Emmanuel Mounier nella direzione di Esprit. Domenach parlò a Brescia il 20 ottobre 1980 e il testo della sua conferenza si può trovare nel sito www.ccdc.it.
NEL TRIGESIMO DELLA MORTE DI GIOVANNI PAOLO II. Il 16 ottobre 1978 Karol Wojtyla iniziò il suo pontificato nel prorompente vigore delle sue forze; lo ha concluso come icona del «servo di Jahvé», dell’uomo che conosce il soffrire, il 2 aprile 2005. Tra le due date il drammatico spartiacque del 13 maggio 1981, il giorno in cui venne colpito in piazza San Pietro da un terrorista turco i cui mandanti restano ancora nell’ombra. Giovanni Paolo II è stato il primo papa slavo della storia. La «nuova evangelizzazione», di cui egli fu l’instancabile apostolo, mirava a far riscoprire nel mondo d’oggi, al maggior numero possibile di persone, quel Vangelo su cui edificare un’autentica civiltà dell’amore. Egli era intimamente convinto che la mirabile universalità del messaggio cristiano esigesse una visione planetaria dei problemi della famiglia umana ed una coscienza profonda del compito comune e del comune destino. Con Wojtyla il papato si è reso visibilmente presente nel mondo come con nessuno dei predecessori, in un’opera di così vasta portata, in un’impresa tanto magnanima e difficile, non potevano mancare ostacoli di ogni genere e tenaci resistenze, come in certi paesi dell’America latina, anche da parte dell’episcopato locale. Né sono mancati espliciti scacchi e rifiuti, com’era prevedibile. Mi limito a ricordarne uno solo: la piena riconciliazione tra la Chiesa ortodossa e la Chiesa cattolica – forse il sogno che più stava a cuore al papa slavo – non si è realizzata durante il suo pontificato.
CON CORAGGIO, AL SERVIZIO DELLA PACE. Questo papa ha avuto il merito di fronteggiare l’assedio congiunto prima dell’ateismo comunista e poi dell’ateismo consumista. In assoluta continuità con i papi del Novecento che l’avevano preceduto, egli ha trasformato la religione in una forza al servizio della pace e della giustizia sociale. L’incontro di preghiera per la pace, che si tenne ad Assisi il 27 ottobre 1986, tra i rappresentanti delle grandi religioni mondiali, è un evento simbolo del suo pontificato. Egli ha avuto l’incomparabile merito di opporsi con forza alla guerra preventiva contro l’Iraq, scatenata unilateralmente dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna nel 2003, ed è stata soprattutto quella scelta coraggiosa e coerente, che ebbe un’eco vastissima nel mondo, che ha permesso di non trasformare quel conflitto nella catastrofe a cui ci avrebbe portato il cosiddetto «scontro di civiltà», irresponsabilmente teorizzato dagli integralisti al di là e al di qua dell’Oceano Atlantico.
HA APERTO NUOVE VIE. Sono stati tanti i gesti profetici con cui il papa slavo è riuscito ad aprire vie nuove. Tali furono la visita alla Grande Sinagoga di Roma nel 1986, il riconoscimento congiunto dello Stato d’Israele e dell’Autorità Palestinese nel 1993, il silenzioso pellegrinaggio penitente al Muro del Pianto, a Gerusalemme, nel 2000. L’enciclica Ut unum sint del 1995 rilancia le ragioni e le speranze dell’ecumenismo ponendo per la prima volta all’ordine del giorno il problema di individuare nuove modalità di esercizio del potere pontificio. Tuttavia, ai miei occhi, il contributo più alto dato da Giovanni Paolo II sta nell’aver portato a compimento nel marzo del 2000, durante il Giubileo, il processo di «purificazione della memoria» con il riconoscimento aperto degli errori e delle colpe commesse dalla Chiesa nel corso dei secoli. Un atto di onestà intellettuale e di riparazione, ma anche uno shock provvidenziale.
12 maggio 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il persecutore più insidioso. Il persecutore più insidioso non ci flagella la schiena, ma ci accarezza la pancia. Egli ci spinge verso la schiavitù con la lusinga, invitandoci nel palazzo e rendendoci onore. Non ci taglia la testa con la spada, ma ci uccide con il danaro e il potere (Ilario di Poiters). Nella storia del mondo conta più Aristotele o Alessandro? Uomo «storico» per eccellenza, capace di uno sguardo profondo e aperto a ciò che rende degna la vita fu e rimane Aristotele, non certo il figlio di Filippo, Alessandro il Macedone (Levi Appulo). Il vero filosofo. Il vero filosofo è colui che ama Dio (Agostino).
PIO IX E LA QUESTIONE ITALIANA. Il 3 settembre 2000, in piazza San Pietro, furono canonizzati contemporaneamente due papi molto diversi: Pio IX e Giovanni XXIII. Si parlò allora della incompatibilità dell’accoppiata, ma i tempi in cui operarono i due pontefici erano radicalmente diversi, così come lo erano le loro personalità e il loro modo di concepire la missione della Chiesa nel mondo. Il lungo pontificato di Pio IX, che va dal 1846 al 1878, è per così dire dominato dalla questione romana, giacché l’unità politica e statuale dell’Italia non poteva realizzarsi senza la fine dello Stato pontificio. Giovanni XXIII, invece, si muove in un orizzonte che non è più quello del risorgimento e neppure del fascismo, all’indomani di due guerre mondiali, che avevano cambiato la vita del mondo. La mia generazione ha vissuto intensamente la stagione giovannea della Chiesa cattolica e si è filialmente riconosciuta nell’insegnamento e nel metodo di papa Roncalli. Occorre, però, avere l’onestà di riconoscere che, nei momenti decisivi che segnarono una lacerazione profonda fra il pontefice romano e il risorgimento italiano, le scelte di Pio IX obbedirono a un preciso dettato della sua coscienza religiosa.
DUE DATE CRUCIALI: IL 29 APRILE 1848 E IL 20 SETTEMBRE 1870. La lacerazione fra risorgimento e papato cominciò nel modo più clamoroso il 29 aprile 1848. In quel giorno Pio IX, con una sua allocuzione, si dissociò pubblicamente dalla prima guerra d’indipendenza contro l’Austria e quella sua decisione apparve tradimento ai patrioti di ogni parte d’Italia. La motivazione addotta da Pio IX era di una tragica serietà: un papa, un padre universale e guida di tutti i cattolici, non può muovere guerra a un popolo cattolico com’era quello austriaco. Quella dichiarazione era tardiva, ma giusta. Si può anche aggiungere che, praeter intentionem, con essa era lo stesso papa a prendere atto della impossibile coesistenza in una stessa persona, la sua, del potere temporale e del potere spirituale. Sulla data-simbolo del 20 settembre 1870 da Pio IX al generale Kanzler, comandante delle truppe pontificie: «In quanto poi alla durata della difesa sono in dovere di ordinare che questa debba unicamente consistere in una protesta atta a constatare la violenza, nulla più: cioè di aprire trattativa per la resa appena aperta la breccia. In un momento in cui l’Europa intera deplora le vittime numerosissime, conseguenza di una guerra tra due grandi Nazioni [cioè Prussia e Francia], non si dica mai che il Vicario di Gesù Cristo, quantunque ingiustamente assalito, abbia ad acconsentire ad un grande spargimento di sangue».
DIO SOFFIA IN TE COME IL VENTO. Non devi attendere che Dio venga a te / e dica: – Eccomi. / Un Dio che professi la sua forza non ha senso. / Devi sapere che Dio soffia in te come il vento / sin dagli inizi, / e se il cuore ti brucia e non si svela, / dentro c’è lui, operante (Rainer Maria Rilke).
19 maggio 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. I libri. Quando penso a tutti i libri che mi restano da leggere, ho la certezza di essere ancora felice (Jules Renard). La poesia e la vita. Ammiriamo la poesia perché sa parlare proprio come la vita; ma siamo doppiamente commossi dalla vita che parla, senza saperlo, proprio come la poesia (Thomas Mann). L’umorismo umanizza, non deride. L’umorismo sgorga dal cuore più che dal cervello e non è fatto di disprezzo. La sua essenza è amore. La sua soluzione non è nella risata, ma nel quieto sorriso che viene da maggiori profondità (Thomas Carlyle). L’amore e l’intelligenza. L’amore, sia esso amore per Dio, amore per una creatura umana, amore per l’arte, non ha che da guadagnare dallo sforzo dell’intelligenza nel cercare le ragioni delle sue più elevate emozioni, e formularle (Leo Spitzer).
LA DISTINZIONE ARISTOTELICA DI CONTRARIO E CONTRADDITTORIO. Vi sono anime della stessa natura, pensatori che trattano gli stessi problemi, anche se in modi diversi e prospettando soluzioni diverse; ma vi sono anche spiriti e sistemi radicalmente opposti. La storia del pensiero non è la storia della verità, ma dell’umana ricerca della verità e pertanto s’impone il confronto critico tra i protagonisti della più appassionante avventura che ci sia. Gioverà molto a chiunque voglia percorrere i sentieri della ricerca filosofica la geniale distinzione di Aristotele tra «simili-contrari» e «contraddittori». I primi, a veder bene, sono tra loro diversi ma complementari e, dunque, possono essere ambedue veri nello stesso tempo, riguardando due aspetti della stessa realtà, di uno stesso problema. Le opposizioni tra i «simili-contrari» sono le più feconde, dando luogo a integrazioni e approfondimenti che arricchiscono il pensiero umano. Esse mettono in forte risalto la solidarietà dei veri, che si sorreggono a vicenda proprio perché si completano. Agli antipodi delle opposizioni tra i «simili-contrari» ci sono le «opposizioni contraddittorie», che danno alla nostra esistenza e alla storia del pensiero una dimensione drammatica. Il desiderio è che, ad una riflessione più attenta, anche le opposizioni contraddittorie si risolvano in opposizioni tra simili-contrari e che l’eterna Scuola di Atene sia, come Raffaello la pensò e la raffigurò, una scuola di geni riconciliati. Ma la storia e l’esperienza non autorizzano illusioni del genere. In certi casi la scelta si impone con un atto che impegna tutto l’uomo.
ANTOLOGIA DI SPOON RIVER. Il genio è saggezza e gioventù. Da giovane, le mie ali erano forti e instancabili, / ma non conoscevo le montagne. / Da vecchio conoscevo le montagne, / ma le mie ali stanche non potevano tener dietro / alla visione. / Il genio è saggezza e gioventù (Edgar Lee Masters, La grande poesia, Milano 2004).
26 maggio 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Ognuno ha bisogno di avere la sua isola. Isola è luogo dove ci si isola: un punto separato dal resto del mondo, non perché lo sia in realtà, ma perché nel mio stato d’animo posso separarmene (Giuseppe Ungaretti). La terza età. C’è chi considera la terza età un’ardua stagione in cui è anche possibile esprimere il proprio messaggio più alto. Un illuminato procedere verso l’ultima stazione del nostro pellegrinaggio terreno dovrebbe forse comportare una sorta di iniziazione al mistero, di preparazione interiore al transito (Emerico Giachery).
SOCRATE, IL «CASO SERIO» CHE HA CAMBIATO LA STORIA. Socrate è uno degli ultimi «cittadini», nel senso che dette a questa parola l’antica Grecia della polis, ma, in pari tempo, è l’incarnazione, nel grado più alto, di una nuova forma di vita. Questi due aspetti furono in lui unificati senza compromessi. Col primo egli si richiama a un grande passato, col secondo è volto all’avvenire. Perciò la sua apparizione unica, nel tempo e nella qualità, nella storia dell’anima greca. La sua idea educativa risulta dalle scambievoli attrazioni e reazioni di queste due componenti. Il problema che doveva cercar soluzione attraverso i secoli successivi, il problema di «coscienza e potere», emerge qui, per la prima volta, nella nostra civiltà. Giacché esso non è affatto, come mostra il caso di Socrate, un problema specialmente cristiano, ma torna a presentarsi, in condizioni analoghe, anche nello svolgimento dell’uomo naturale e della sua civiltà spirituale. In questo caso esso non ha l’aspetto di conflitto di due società consce di una propria forza, ma di una tensione fra l’apparenza del singolo uomo alla società terrena e il legame immediato che egli sente con Dio. Questo Dio, al cui servizio Socrate indirizzò la sua opera di educatore, era diverso dagli «dei» ai quali credeva la città, e se l’accusa contro Socrate puntò prima di tutto su questo elemento, bisogna ammettere che la mira era scelta bene. Ma una volta che la scienza del Bene, della natura e della potenza di esso, si fu impadronita con forza soverchiante dell’anima sua, essa divenne per lui una via nuova alla scoperta del Divino. Werner Jaeger ha scritto giustamente, nel capitolo consacrato a Socrate in Paideia, che «chi vive come lui e muore come lui ha in Dio il suo fondamento». La sua parola, che a Dio si deve dare ascolto più che agli uomini, è veramente una nuova religione, come lo è la sua fede nel valore supremo dell’anima. Nasce in Socrate, dalla fiducia in questo Dio, una forma nuova di quello spirito eroico che impronta di sé, fin dal principio, l’idea greca di areté. E perciò Platone può, nell’Apologia, rappresentare il maestro come l’incarnazione della magnanimità e fortezza supreme, e, nel Fedone, celebrare la morte di lui come atto eroico di superamento della vita.
POESIA DEL NOVECENTO. Battendo a macchina. Mia mano, fatti piuma: / fatti vela; e leggera / muovendoti sulla tastiera, / sii cauta. E bada, prima / di fermare la rima, / che stai scrivendo d’una / che fu vive e fu vera. // Tu sai che la mia preghiera / è schietta, e che l’errore / è pronto a stornare il cuore. / Sii arguta e attenta: pia. / Sii magra e sii poesia / se vuoi essere vita. / E se non vuoi tradita / la sua semplice gloria, / sii fine e popolare / come fu lei – sii ardita / e trepida, tutta storia / gentile, senza ambizione. // Allora, sul Voltone, / ventilata in un maggio / di barche, se paziente / chissà che, con la gente, / non prenda aire e coraggio / anche tu, al suo passaggio (Giorgio Caproni).
2 giugno 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Laici e credenti, il dialogo necessario. Chi ha la coscienza del male, chi è consapevole che la disperazione è sempre in agguato, che anche il più ricco patrimonio di fede e di forza d’animo potrebbe un giorno esaurirsi, deve interrogarsi continuamente sulle tragedie del mondo. Per questo, laici e credenti, insieme, devono continuare a incontrarsi sul sentiero della speranza, forti delle loro idee e delle loro certezze. La domanda giusta è un’altra. Senza la fede in ciò che va fatto perché il mondo sia meno ingiusto, non saremmo sopravvissuti a tante catastrofi. L’interrogativo che molti rabbini si sono posti: «Come possiamo credere in Dio dopo Auschwitz?», è profondamente sbagliato. La domanda giusta era ed è un’altra per chi crede in Dio: «Come posso non credere in Dio, dopo Auschwitz? Che altro mi resta se non la fede in Dio?». (Arrigo Levi)
CHI POTREBBE GUIDARE UNA COMUNITÀ? FRANCESCO D’ASSISI NE TRACCIA L’IDENTIKIT. Deve essere un uomo di vita quanto mai austera, di grande discrezione e lodevole fama. Un uomo che non conosca simpatie particolari perché, mentre predilige una parte, non generi scandalo in tutta la comunità. Deve essere una persona che non presenti alcun angolo oscuro di turpe favoritismo e che abbia per i piccoli e i semplici la stessa premura che ha per i maggiori e i dotti. Anche ammettendo che emerga per cultura, tuttavia ancor più nella sua condotta sia il ritratto della virtuosa semplicità e coltivi la virtù. Consoli gli afflitti, essendo l’ultimo rifugio per i tribolati, perché non avvenga che, non trovando presso di lui rimedi salutari, gli infermi si sentano sopraffatti dal morbo della disperazione. Vorrei anche che avesse come collaboratori persone fornite di onestà e che presentino, come lui, esempio di ogni virtù: forti contro le difficoltà e tanto convenientemente affabili da accogliere con affabilità quanti ricorrono a loro (Da Vita Seconda di Tommaso da Celano, cap. CXXXIX).
DIGNITÀ DELL’ARTE. Io scrivo per quelli che non possono leggermi. Non sanno leggere, o non hanno modo di leggere, quelli che da secoli fanno la coda, là in basso, davanti alla storia. Quando sono scorato, mi fa bene il ricordo di una lezione di dignità dell’arte che mi fu data anni fa, in un teatro di Assisi. C’ero andato con Helena, a vedere uno spettacolo di mimi, e non trovammo nessun altro. Noi due eravamo gli unici spettatori. Quando si spensero le luci, si unirono a noi la maschera e la ragazza del botteghino. Eppure gli attori, più numerosi del loro pubblico, quella sera lavorarono come se stessero godendosi il trionfo di una prima davanti alla sala stracolma. Recitando, si diedero anima e corpo, dimenticarono se stessi. Fu una cosa straordinaria. I nostri applausi rimbombarono nella platea deserta. Applaudimmo fino a spellarci le mani (Eduardo Galeano, Il libro degli abbracci, Milano 2000).
POESIA DEL NOVECENTO. Lontananza da mia madre. Tu anche mi appari agli ultimi sogni / e il giorno per te s’inizia / con altro cielo. / Sul treno delle vacanze / cerco il tuo viso / e le nostre stature / il nostro respiro giovane / oltre i larici. / Mi ridico / per ritrovare la tua voce di allora / certi nomi di luoghi / che pronunciavi indicandoli al di qua della valle. / Amarti è questo, e piangere. / Altro non so. La pena / è certa / è il rimorso (Luciano Erba, Poesie 1951–2001, Mondadori, 2001).
9 giugno 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. I generi letterari. Tutti i generi letterari sono ammissibili, tranne quello noioso (Voltaire). Ci sono due razze di sciocchi. Ci sono due razze di sciocchi: quelli che non dubitano di niente e quelli che dubitano di tutto (Charles Joseph de Ligne). Chi disputa col proprio dovere. Chi disputa col proprio dovere è sul punto di violarlo (Joseph de Maistre, 1° dicembre 1784).
EVANGELICI E CATTOLICI SI RISCOPRIRONO FRATELLI NEI LAGER NAZISTI. Sessant’anni fa finì la guerra e cessarono di funzionare i lager nazisti, nei quali erano stati accomunati i cattolici e gli evangelici che avevano resistito al neopaganesimo razzista di Hitler e del suo regime. Quei testimoni eroici costituirono un vero problema di coscienza per le loro Chiese e le obbligarono a guardare con altri occhi i rapporti tra Stato e Chiesa, tra Chiesa e società, tra coscienza individuale e autorità costituita. Su due punti, in particolare, la loro resistenza profetica slargò e approfondì la comprensione dell’essenza stessa del cristianesimo. Il primo punto è il seguente: cattolici ed evangelici, sotto la sferza di Satana, si riscoprirono finalmente fratelli, ponendo così le premesse per la nascita del movimento ecumenico. E l’ecumenismo sarebbe stato nei decenni successivi una delle grandi direttrici del XX secolo, segno e causa insieme del rinnovamento delle Chiese cristiane. Di lì nacque il fermo proposito di impegnare le rispettive confessioni a rendere pura da odi e pregiudizi la memoria del passato, a valorizzare i reciproci tesori, a ricercare l’unità tra i cristiani. L’altro insegnamento, che ci viene dalla lotto dei cristiani contro la barbarie nazista, fu uno nuova visione di ciò che si debba intendere per difesa della fede e della Chiesa a cui si appartiene. Con grande lucidità uno degli eroi dell’impari lotta, il gesuita tedesco Friedrich Muckermann, scrisse: «Vi erano e vi sono ancora dei cristiani che parlano di persecuzione religiosa soltanto quando si assaltano i conventi e si uccidono i sacerdoti. Per i non credenti un tale modo di giudicare appare egoistico, quasi che ci si preoccupi unicamente di specifici interessi ecclesiastici. Per noi il cristianesimo è la religione dell’umanità, l’anima di una cultura universale. Davanti ai nostri occhi la Chiesa è offesa ogni qual volta si disonora l’umanità in un uomo e chi colpisce il volto di un uomo colpisce nello stesso tempo il volto di Cristo, primogenito fra tanti fratelli. Lottare per la Chiesa significa per noi lottare per l’umanità». Sarebbe giusto leggere di Muckermann il breve, mirabile racconto della sua lunga lotta contro il nazismo, La via tedesca, tradotto in italiano dalla Morcelliana di Brescia nel 1947. È un’opera che dovrebbe far parte di quella che io chiamo la «Biblioteca dello spirito europeo». Un’idea da realizzare, perché l’Europa possa prender coscienza, in profondità, di un comune destino e di un compito comune.
IL BIMBO RESTÒ MUTO DI BELLEZZA. Diego non conosceva il mare. Suo padre, Santiago Kovadloff, lo condusse a scoprirlo. Se ne andarono a sud. Il mare stava al di là delle alte dune, in attesa. Quando padre e figlio, dopo un lungo cammino, raggiunsero finalmente quei cumuli di sabbia, il mare esplose davanti ai loro occhi. E fu tanta l’immensità del mare, e tanto il suo fulgore, che il bimbo restò muto di bellezza. E quando alla fine riuscì a parlare, tremando, balbettando, chiese a suo padre: Aiutami a guardare! (Eduardo Galeano, Il libro degli abbracci, Milano 2000, p. 3).
16 giugno 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Un sovrappiù di felicità. Entrare nel pensiero di un altro, accedere al suo universo interiore è un grande sovrappiù di felicità (Wilhelm Dilthey). L’unica nobiltà. Io so che il dolore è l’unica nobiltà che non può essere mai intaccata dalla terra e dagl’inferi (Charles Baudelaire). Prima o poi. Chi dice la verità, prima o poi viene scoperto (Oscar Wilde). Il sogno della storia. Nessun tentativo di giustificare l’assetto sociale esistente ha mai impedito agli uomini di essere ossessionati dall’utopia antichissima, dal miraggio di una società che non sia più divisa in classi e che non per questo cessi di essere ordinata (Georges Duby).
PERCHÉ PREDILIGERE IL SAGGIO. La parola stessa saggio rinvia immediatamente a una delle sue espressioni più alte e originarie, gli Essais di Montaigne. Su questo tipo di scrittura Giacomo Debenedetti ha scritto una pagina illuminante nei raffinati Quaderni di Montaigne: «La parola saggistica qualifica un genere letterario, che si è precisato soprattutto in virtù degli esempi inglesi del Settecento, e comprende ciò che, in Italia, gli scrittori del Rinascimento chiamavano, nella sua varietà di contenuto e di umori, discorso, dissertazione, capitolo magari in versi, cicalata. Vi annette un impegno intellettuale, mentale, riferisce esperienze e insieme le giudica, è un breve trattato, ma vi è aggiunto sempre un movimento più o meno estroso, un prestigio, o addirittura, splendore letterario, un discorrere sul filo pericoloso e affascinante tra lirismo e lucidità, tra oggettività scientifica e fantasia, tra linguaggio prosastico, specializzato per l’argomento in questione, e trasfigurazione della materia e del ragionamento in immagini».
TRE RIFLESSIONI DI GEORGE STEINER. La gratitudine di fronte a quel che la nostra cultura ci dona. Noi siamo coloro che godono di fronte a quel che la nostra cultura ci dona, e l’insegnamento dovrebbe avere come scopo la trasmissione di questa gioia. La prima frase del primo libro che ho letto da bambino era di Dostoevskij: «Ogni grande critica è un debito amoroso». La tragedia, una riflessione senza attenuanti sul destino dell’uomo. Di fatto la tragedia, da Sofocle fino a Partage de midi di Claudel o a certi passaggi di Beckett, segna i vertici della letteratura europea. Il Re Lear, la Divina Commedia di Dante, romanzi come quelli di Dostoevskij – un autore che appartiene a pieno titolo alla storia della tragedia – mostrano la vulnerabilità di fondo dell’uomo… La tragedia è una riflessione senza attenuanti sul destino dell’uomo, sulla sua condizione. È molto indicativo il fatto che, dai tempi di Aristotele fino alla modernità, noi disponiamo di tante belle teorie della tragedia. I nostri tre linguaggi. L’uomo dispone di tre linguaggi: la lingua parlata e scritta, la matematica, che è una lingua planetaria, come l’algebra universale sognata da Leibniz, e la musica. Forse innumerevoli culture hanno avuto una letteratura soltanto orale, ma per converso non esiste sulla terra una sola comunità umana priva di musica. La musica sembra dunque caratterizzare l’uomo, ed è per questo che Lévi-Strauss dice: «Invenzione della melodia, mistero supremo delle scienze umane».Questi pensieri di George Steiner, una delle figure in primo piano della cultura internazionale, si leggono in un’intervista rilasciata alla rivista fondata da Emmanuel Mounier, Esprit, e ripresa in Vita e Pensiero, 2004, n. 3.
VOCI FEMMINILI DALL’EST EUROPEO. Tageti. Era il vento che gira nell’alto / che mi ha sussurrato qualcosa / oppure mi hanno acceso l’angoscia / i fiori che tengo nella mano. // Oh tageti, cari fiori / della mia patria, / perché il cuore batte come matto / quando vi vedo nel paese straniero? // Il profumo conosciuto dall’infanzia / risveglia i sentimenti, / accarezzo i fiori con le labbra: / – Ti amo, mia terra, cara! (Mariya Sakulyak nella rivista Città e Dintorni, Brescia, aprile 2005, p. 116).
23 giugno 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Con timore e tremore. Sta scritto che noi dobbiamo «lavorare alla nostra salvezza con timore e tremore», perché non si tratta di un affare fatto o concluso, ma di una cosa sempre precaria. L’importante della vita. Ecco l’importante della vita: aver visto una volta qualcosa, aver sentito una cosa tanto grande, tanto magnifica che ogni altra sia un nulla al suo confronto e anche se si dimenticasse tutto il resto, quella non la si dimenticherebbe mai più. La primavera e l’autunno. Se io preferisco tanto l’autunno alla primavera, è perché in autunno si guarda il cielo – in primavera la terra. (Søren Kierkegaard)
LA GERMANIA GUARDA IN FACCIA IL SUO PASSATO. Nella rivista Triangolo rosso dell’aprile 2005 leggo il testo integrale del discorso tenuto dal cancelliere Schroeder ad Auschwitz per il 60° anniversario della liberazione del campo di concentramento nazista. Riporto tre passaggi di quel documento che ha un alto significato morale e politico.
A noi tedeschi si addice il silenzio davanti al massimo crimine compiuto contro l’umanità. Di fronte alla totale immoralità dell’assassinio di milioni di esseri umani, il linguaggio politico appare del tutto inadeguato. Vorremmo riuscire a comprendere questa realtà inconcepibile, che travalica ogni capacità di immaginazione umana. E inutilmente cerchiamo le risposte ultime. Una cosa è certa, comunque: dopo Auschwitz nessuno può dubitare che il male esista, né che si sia manifestato nel genocidio concepito e organizzato dal nazionalsocialismo. Ma il male dell’ideologia nazista non è nato dal nulla, è stato voluto e attuato dagli uomini… La grande maggioranza dei cittadini che vivono nella Germania di oggi non ha colpe per l’Olocausto. Ma ogni tedesco è portatore di una particolare responsabilità. Il ricordo della guerra e del genocidio perpetrato dal nazionalsocialismo è divenuto parte della nostra Costituzione. E anche se per molti ciò non è facile da sopportare, questo ricordo è inseparabile dalla nostra identità nazionale. Rammentare l’epoca del nazionalsocialismo e i suoi crimini è per noi un impegno morale… C’è una cosa che sappiamo: non potrebbe esistere per noi né libertà, né dignità umana, né giustizia se dimenticassimo quello che è potuto accadere quando i poteri dello Stato hanno calpestato la libertà, la giustizia e la dignità umana. La Germania guarda in faccia il suo passato. A partire dalla Shoah, dal terrore nazionalsocialista è nata e cresciuta in noi una certezza che si riassume nelle parole: «Mai più». Questa certezza noi la vogliamo custodire. Noi tutti tedeschi ma anche europei e l’intera comunità degli Stati, dobbiamo imparare sempre di nuovo a convivere con umanità, nel rispetto e nella pace.
DUE GIUDIZI SUL GRANDE AFRICANO. Nelle pagine conclusive della sua monumentale Storia di Roma, Theodor Mommsen scriveva: Agostino è il più moderno degli antichi, perché ha risentito di meno delle limitazioni proprie della sua epoca. Certo non in tutto si può e si deve essere con Agostino, perché anche il genio è un faro e non un termine, non blocca il cammino dell’umanità ma lo illumina; ma chi potrebbe fare a meno dell’apporto filosofico, teologico, psicologico, mistico del grande Africano? Adolf von Harnack, a sua volta, aveva felicemente osservato: Nelle pagine di Agostino ciò che si offre a noi, nel suo stile inimitabile, è lui stesso, è una persona vivente; e tuttavia il lettore capisce che l’umanità di Agostino è di gran lunga superiore ai suoi stessi scritti. Anche sulle vette più pure della speculazione – si pensi alle indagini sul problema del male, sulla memoria e sul tempo, all’arditezza critica e all’inventiva di tante pagine delle Confessioni, del De Trinitate o del De civitate Dei – il lettore attento riconosce, infatti, in Agostino il genio che abita nel cuore dell’umano.
30 giugno 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Oggetto di ammirazione. Un asino trova sempre uno più asino di lui che l’ammira (Nicolas Boileau, 1636-1711). A lui non si può perdonare. Si perdona facilmente a chi ci ha fatto un torto, ma non si perdona – e tanto meno quanto più si è superbi – a colui al quale si è fatto un torto (La Rochefoucauld). L’indicativo. La mia vita è purtroppo fatta al congiuntivo: fa’, o mio Dio, che io impari a coniugare l’indicativo (Søren Kierkegaard).
QUESTA BELLA PAGINA SUI GIOVANI L’HA SCRITTA ARISTOTELE. Il decimo volume delle opere di Aristotele comprende gli scritti su la Retorica e la Poetica. Nel libro secondo della Retorica, nel capitolo 12, Aristotele tratta delle disposizioni d’animo e delle passioni dei giovani. Quel testo è forse la pagina più bella che l’antichità classica ci abbia lasciato sulla psicologia di quell’età della vita. Scrive il filosofo di Stagira: I giovani sono inclini ai desideri e portati a fare ciò che desiderano. Sono mutevoli e presto sazi nei loro desideri e, come desiderano intensamente, così cessano rapidamente di desiderare. Sono impetuosi, facili all’ira e a seguire l’impulso. Sono succubi dell’impetuosità; per la loro ambizione, non sopportano la mancanza di riguardo e s’adirano se ritengono di aver subito un’ingiustizia. Desiderano fortemente il successo: la giovinezza infatti desidera la superiorità e la vittoria è una superiorità… Non sono di cattivo carattere, ma di buon carattere, perché non hanno ancor visto molte malvagità; e sono facili a convincersi perché non sono stati ancora ingannati molte volte. Sono soprattutto facili a sperare: infatti, come gli uomini brilli, i giovani sono riscaldati dalla natura anche per il fatto che non hanno ancor subito molti insuccessi. Vivono la maggior parte del tempo nella speranza: infatti la speranza è relativa all’avvenire, così come il ricordo è relativo al passato. Per i giovani l’avvenire è lungo e il passato è breve; infatti all’inizio del mattino non v’è nulla della giornata che si possa ricordare, mentre si può sperare tutto. Essi sono facili a lasciarsi ingannare, perché sperano facilmente. Sono più coraggiosi, poiché sono impetuosi e facili a sperare e di queste due qualità la prima impedisce loro di aver paura, la seconda li rende fiduciosi. E sono magnanimi, poiché non sono ancora stati umiliati dalla vita, anzi sono inesperti delle ineluttabilità, e il ritenersi degni di grandi cose è magnanimità: e ciò è proprio di chi è facile a sperare. Inoltre preferiscono compiere belle azioni piuttosto che azioni utili; poiché essi vivono più secondo il loro carattere che non secondo il calcolo. Il calcolo riguarda l’interesse, mentre invece la virtù riguarda il bello. I giovani sonno amanti degli amici e dei compagni più che nelle altre età, poiché godono della vita in comune e non giudicano ancor nulla secondo il loro interesse e neppure, quindi, i loro amici... I giovani sono inclini alla pietà, poiché immaginano tutti onesti e migliori di quanto siano; e commisurano i vicini col metro della loro innocenza, per cui immaginano che le loro sofferenze siano immeritate. Sono amanti del riso, dell’allegria scherzosa, della giocondità.
CHE COS’È L’EUROPA? Che cos’è l’Europa? Non è un complesso puramente geografico, né soltanto un gruppo di popoli, ma un’entelechia vivente, una forma spirituale operante. Si è sviluppata in una storia, che passa per quattromila anni e a cui non si può finora paragonare nessun’altra in ricchezza di personalità e di forze, in audacia d’azioni, in ricchezza di opere prodotte, nella pienezza di significato immessa in ogni ordine di vita. La civiltà europea agisce nelle lingue – e quali lingue! – dal discorso luminoso dei greci e dal discorso dei romani, col suo dominio sovrano della forma, fino agli idiomi carichi di storia dei moderni popoli europei. Determina il modo di pensare, il criterio di giudizio, il modo di sentire e di vivere (Romano Guardini, Europa. Compito e destino, Brescia 2004, pp. 57, 58).