14 luglio 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il diritto altrui. La giustizia è la custode del diritto altrui (Tommaso d’Aquino). I nostri compiti e l’orizzonte in cui essi si situano. I nostri compiti sono limitati, ma l’estensione dell’amore è infinita (Jacques Bénigne Bossuet). Il coraggio di cominciare. Non c’è opera lunga all’infuori di quella che non si ha il coraggio di cominciare (Charles Baudelaire). Eroismo e viltà. Abbiamo due tre volte nella vita l’occasione di essere eroi e quasi tutti i giorni di non essere vili (René Bazin).
È IL PUNTO PIÙ ALTO DI ARRIVO DELLA NOSTRA STORIA. Nella Costituzione repubblicana c’è dentro tutta la nostra storia: tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre glorie, sono tutti sfociati qui, in questi articoli. E, a saper intendere, dietro questi articoli si sentono delle voci lontane. Quando io leggo nell’art. 2 che La Repubblica… richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale; o quando leggo nell’art. 11: L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli…, ma questo è Mazzini, questa è la voce di Mazzini! O quando io leggo nell’art. 8: Tutte le confessioni religiose sono libere davanti alla legge, ma questo è Cavour! O quando io leggo nell’art. 5: La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali… ma questo è Cattaneo! E quando leggo all’art. 27: Non è ammessa la pena di morte, se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra…, ma questo è Beccaria! Grandi voci lontane, grandi nomi lontani, ma ci sono anche umili nomi, voci recenti. Quanto sangue e quanto dolore per arrivare a questa Costituzione! Dietro ad ogni articolo, voi giovani dovete vedere giovani come voi caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta. I cittadini inglesi, giustamente fieri della loro Magna Charta, vanno in pellegrinaggio a Runnymede dove, nel 1215, fu concluso tra Giovanni d’Inghilterra e i suoi baroni quel primo patto che servì da fondamento a tutte le loro libertà. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate sulle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei lager dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero, perché lì è nata la nostra Costituzione. Queste parole furono pronunciate in un incontro con i giovani a Milano, nel 1955, da Piero Calamandrei, uno dei padri più autorevoli della Costituzione Repubblicana. Il testo di quella nobile ed alta «improvvisazione» è stato di recente opportunamente riproposto nella rivista Critica minore (nn. 10 e 11, Brescia 2005, pp. 6–8), diretta da Arnaldo Guarnieri.
ED IO RISPONDO «NO!». Per giudicare un grand’uomo occorre forse appellarsi a principi diversi da quelli validi per noi tutti? Si è detto spesso «sì», ed io rispondo: «no!», poiché la caratteristica della grandezza di un uomo è di essere strumento eletto nelle mani di Dio. Ma appena l’uomo si vanta di essere autore di quel che fa, appena pretende di essere in grado di scrutare il futuro e di giustificare i mezzi con il fine, subito la sua grandezza viene meno. La giustizia, i doveri sono uguali per tutti, e la loro violazione da parte dei grandi uomini non è più scusabile di quella degli Stati, benché ci si immagini che la politica possa permettersi l’ingiustizia. È vero che l’ingiustizia ha avuto talvolta delle conseguenze felici, ma noi dobbiamo allora esserne grati, non a quest’uomo o a quello Stato, ma alla Provvidenza [che sa trarre il bene anche dal male] (Søren Kierkegaard, Diario, vol. 2°, Brescia 1980. L’annotazione porta la data del 23 dicembre 1834).
21 luglio 2005
LINEA RECTA BREVISSIMA. Fiaccole da accendere. I giovani non sono vasi da riempire, ma fiaccole da accendere (Marco Fabio Quintiliano). Chi è buon padre. È davvero buon padre chi conosce suo figlio (William Shakespeare). Educare all’amicizia. Chi trascura di educare il proprio figlio all’amicizia, lo perderà non appena avrà finito di essere un bambino (Friedrich Rückert, poeta tedesco, 1788-1866). Non vi sono figli illegittimi. Dopo tutto non vi sono figli illegittimi, ma solo genitori illegittimi (Anthony Burgess, scrittore inglese, 1917-1993).
NEL CAPITOLO 49 DELLE MEMORIE DI BERLIOZ. Le due sinfonie, la Fantastica e Aroldo in Italia, sono tra le composizioni più alte di Hector Berlioz. L’autore volle dirigere il 16 dicembre 1838, malgrado il pessimo stato di salute, il concerto delle due sinfonie. Ad esso assistette Paganini. Nel capitolo 49 delle sue Memorie Berlioz scrive: «Il concerto era appena terminato: io ero esausto, grondante di sudore e ancora tutto tremante, quando, all’uscita dell’orchestra, mi si avvicinò Paganini, seguito dal figlio Achille, gesticolando vivacemente. In seguito alla sua malattia alla laringe, della quale poi è morto, aveva allora completamente perso la voce, e, quando non vi fosse intorno a lui un perfetto silenzio, solo suo figlio poteva intendere, o meglio indovinare le sue parole. Fece un cenno al bambino che, salito su una sedia, avvicinò l’orecchio alle labbra del padre e l’ascoltò con attenzione. Poi Achille scese giù e si girò verso di me dicendo: “Mio padre mi ordina, Signore, di assicurarvi che in tutta la sua vita non ha mai provato una simile impressione in un concerto. La vostra musica l’ha sconvolto e se non si stesse trattenendo sarebbe ora in ginocchio per ringraziarvi…”. Paganini allora mi prese per il braccio e, rantolando con quel che di voce gli restava dei sì!, sì! mi portò di forza sul palcoscenico, dove si trovavano ancora parecchi dei miei orchestrali, si mise in ginocchio e mi baciò la mano».
LA COMMOVENTE MAGNANIMITÀ DI NICCOLÒ PAGANINI. All’uscita dal teatro, Berlioz, ancora tutto accaldato, fu investito dal vento gelido che soffiava e si ammalò. Ed ecco, a questo punto, il suo racconto: «L’indomani ero solo nella mia stanza quando vidi entrare il piccolo Achille. “Mio padre sarà ben dispiaciuto di sapere che voi siete ancora ammalato e, se non lo fosse egli stesso, sarebbe venuto a trovarvi. Ecco una lettera per voi, che mi ha incaricato di consegnarvi”. Nel momento in cui facevo l’atto di aprirla, il bambino mi fermò: “Non serve risposta, mio padre mi ha detto che voi la leggerete quando sarete solo”. E uscì in tutta fretta». Berlioz supponeva si trattasse di una lettera di congratulazioni e di complimenti. L’aprì e la lesse. Paganini lo pregava di voler accettare in segno di omaggio ventimila franchi. Berlioz ne aveva assoluto bisogno. Il suo commento, nello stesso capitolo delle Memorie, fu: «Paganini mi aveva donato quel denaro per scrivere della musica e io ne scrissi in abbondanza».
ANTOLOGIA DI SPOON RIVER. Gli occhi sulla punta delle dita. Qui giace il corpo di Lois Spears, / moglie di Cyrus Spears, / madre di Myrtle e Virgil Spears, / bimbi dagli occhi limpidi e il corpo sano. / Io nacqui cieca. / Fui però la più felice delle donne / come moglie, madre e donna di casa, / curando i miei cari / e facendo della casa / un luogo d’armonia e di ospitalità generosa. / Passavo per le stanze / e il giardino / con un istinto infallibile quanto la vista, / come avessi gli occhi sulla punta delle dita. / Gloria a Dio nell’alto dei cieli (Edgar Lee Masters, La grande poesia, Milano 2004).
4 agosto 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Se un’idea è commisurata a un’altra. Se tu hai una mela e io ho una mela, e ce le scambiamo, allora tu e io abbiamo sempre una mela per uno. Ma se tu hai un’idea e io ho un’idea, e ce le scambiamo, allora abbiamo entrambi due idee (George Bernard Shaw). Loro non sanno. Gli animali e gli uomini politici non sanno di essere mortali (Eugène Ionesco). Uguaglianza di opportunità. La democrazia non garantisce uguaglianza di condizioni, ma uguaglianza di opportunità (Irving Kristol).
PROFESSIONE DI FEDE NELLA SCRITTURA. Paco Ignacio Taibo II, uno degli scrittori contemporanei dell’America Latina, quest’ultima riserva di passioni in un pianeta decaffeinato e light, in un solo libro, Te li do io i tropici (Milano 2000), ci dà la sua professione di fede nella scrittura.
Scriviamo con la sensazione scostante che nulla di quanto stiamo imprimendo sulla carta avrà mai il potere di cambiare la storia, nemmeno quella di un destino individuale, eppure, allo stesso tempo, con la netta impressione che nell’intricata giungla cittadina di antenne televisive qualcuno ci stia ascoltando e tutto quanto un giorno potrà cambiare. Scriviamo tronfi della passione logorata, ma non per questo meno ardente, di chi sa di dominare il linguaggio in un paese dominato dalle mode, dagli incubi dell’ultimo dittatore, dall’analfabetismo dell’efficienza… Scriviamo spinti dalla vocazione per la volontà, la leggenda, l’utopia, l’umorismo, la satira. Scriviamo perché crediamo nel potere della parola, nella sua suadente capacità trasformatrice; sappiamo che la letteratura è la più efficace arma di distruzione di neuroni avariati, simile a una grande navicella aliena in orbita nei nostri cervelli; sappiamo che nessuno può rimanere la stessa persona dopo aver letto il Diario di Anna Frank e che un uomo di quarant’anni non può essere razzista se da adolescente è stato un fanatico di Sandokan e di Salgari; sappiamo che laddove Lenin falliva, Robin Hood era sempre invincibile.
IL LAVORO E IL CAPITALE. «Il lavoro precede il capitale e non dipende da esso. Il capitale è semplicemente il frutto del lavoro, e non potrebbe mai esistere se non fosse prima esistito il lavoro. Il lavoro è superiore al capitale, e merita più rispetto. Il capitale ha i suoi diritti, che meritano protezione come ogni altro diritto. Né si vuol negare che ci sia, e probabilmente sempre ci sarà, una relazione fra capitale e lavoro, generatrice di vantaggi reciproci. L’errore è nell’assumere che l’intera forza lavoro della comunità esista all’interno di questa relazione». Questo è un passo del discorso che Abraham Lincoln pronunciò al Congresso del 3 dicembre 1861 per annunciare l’intenzione di emettere moneta di Stato, libera da interessi da pagare ai banchieri.
POESIA DEL NOVECENTO. E questo non è libero arbitrio? Quante volte Ernest Hyde ed io / abbiamo discusso del libero arbitrio! / La mia metafora preferita era la vacca di Prickett / che pascolava legata, e circolava / quanto glielo concedeva la fune. / Un giorno che così discutevamo, guardando la mucca / che tirava la fune per allargare lo spazio / che era ormai nudo d’erba, / il piolo saltò e, testa bassa, / quella ci corse addosso. / «E questo non è libero arbitrio?» disse Ernest fuggendo di corsa. / Io caddi sotto una cornata. Libero arbitrio e fuga di una mucca: la disparità dei motivi, gli accostamenti singolari non stupiscono quando la raccolta delle narrazioni si consideri nella svariata gamma di personalità che affollano l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters (Torino 1943).
11 agosto 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Un arbitro è come un altare. Archita disse che un arbitro è come un altare: ad entrambi, infatti, si rifugia chi ha subito ingiustizia. L’esercizio. L’esercitarsi è sempre un accrescere. La luce dell’intelligenza. La divinità ha acceso una luce nell’anima, l’intelligenza. (Aristotele)
PUÒ ESSERCI UNA SECOLARIZZAZIONE NON DISTRUTTIVA? L’Accademia Cattolica in Baviera organizzò a Monaco il 19 gennaio 2004 su questo tema un incontro di singolare importanza tra il filosofo Jürgen Habermas e il cardinale Joseph Ratzinger, due tra le personalità più significative della cultura non solo tedesca. Di quel dialogo sono stati pubblicati i testi in lingua italiana nella rivista Humanitas 2/2004 e poi nell’agile volume Etica, religione e Stato liberale, apparso nell’aprile 2005 nell’edizione Morcelliana di Brescia. Nel suo intervento Habermas sostiene che il linguaggio religioso ha la capacità di custodire ed esprimere delle «ragioni» che lo Stato secolarizzato ignora o non è in grado di cogliere nel loro effettivo valore. Insomma il rapporto tra religione e società secolare non può essere definito e limitato unilateralmente dai laicisti o dai credenti. Anche la ragione secolare deve rimanere «sempre disponibile ad imparare e a tenersi osmoticamente aperta, senza per questo sacrificare la propria autonomia» al messaggio religioso. Per il filosofo tedesco il confine tra ragioni religiose e ragioni secolari è, infatti, «un compito cooperativo, in cui entrambe le parti sono chiamate ad accogliere anche la prospettiva della parte avversa». Ciò è di decisiva importanza per la costruzione di una convivenza più umana. È questo il compito di una società postsecolare, in cui finalmente si osi tentare «una secolarizzazione non distruttiva».
OLTRE LA TENTAZIONE SECOLARISTA E LA TENTAZIONE INTEGRALISTA. Per Habermas l’atteggiamento della filosofia e del mondo laico nei confronti delle tradizioni religiose dev’essere non solo di rispetto, ma anche di «disposizione ad imparare». Le Chiese e le componenti religiose della società devono, a loro volta, fare i conti con il rispetto del pluralismo delle fedi religiose, ma anche con le premesse e le pratiche di uno Stato di diritto. Rinunciando al dogmatismo e alla coercizione delle coscienze, esse «possono custodire qualcosa che altrove è andato perduto». Il patrimonio di aspirazioni umanissime e di concetti, di cui le tradizioni religiose sono portatrici, meritano un ascolto e una riflessione incessanti. La filosofia lo ha compreso, almeno nei suoi pensatori più significativi, e questa è una delle ragioni che l’ha resa grande. Nel suo intervento il cardinal Ratzinger pone l’accento sui fondamenti morali prepolitici dello Stato liberaldemocratico e ravvisa anch’egli nel dialogo la sola via per trasformare il confronto tra laicità e ispirazione religiosa in una vera e propria «correlazione polifonica». Insomma tra la tentazione secolarista che bolla ogni forma di cultura religiosa come pregiudizio e irrazionalità, e la tentazione integralista che vuole imporre d’autorità un’unica fede religiosa, questi due interventi indicano un sentiero radicalmente diverso.
18 agosto 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Le leggi non scritte. È proprio dell’uomo onesto il ricorrere e l’attenersi alle leggi non scritte. «Le leggi non scritte – sono parole che si leggono nell’Antigone di Sofocle – non vi sono da ora o da ieri, ma da sempre e per esse io non dovevo temere alcun uomo». L’avere molti e buoni amici. L’avere molti e buoni amici non è cosa da poco se l’amico è per definizione colui che cerca di fare per un altro quello che ritiene buono per sé. È segno di piccineria e di bassezza. È segno di piccineria e di bassezza attribuirsi qualità altrui, vantarsi di ogni cosa e promettere tutto a tutti, rinfacciare a chi ci ha fatto molto bene un beneficio che gli si è reso, non aiutare finanziariamente chi è nel bisogno quando si può e aiutare meno di quanto si può. (Aristotele)
L’AMMIRAZIONE E LA SPERANZA. La sofferenza e il male, rispettati nel loro scandaloso mistero, attestano nella nostra vita l’impossibilità di cambiare perfettamente in gioia la tristezza del finito, dell’informe e della contingenza. Probabilmente è necessario capire che il nostro consenso alla vita non passa soltanto dall’ammirazione della natura meravigliosa, ma dalla speranza che attende un’altra cosa. L’ammirazione, canto del giorno, va alla meraviglia visibile del creato; essa ci attesta che il mondo è buono ed è la patria possibile della libertà. La speranza ci dice che il mondo non è la patria definitiva della libertà, per cui io spero di essere liberato dal terribile e, alla fine dei tempi, di gioire d’un nuovo corpo e di una nuova natura in sintonia con la libertà. La speranza, che vuole convertire ogni ostilità in una tensione fraterna, non è rinunciataria, ma si situa nella prova e nell’impegno.
In questa pagina di Paul Ricoeur, tratta da Il volontario e l’involontario, il filosofo francese suggerisce una via che sta oltre la rassegnazione stoica di fronte al destino e oltre l’estatica immedesimazione orfica con la Totalità. La prima cancella la sofferenza del singolo, la seconda non s’interroga nemmeno su di essa. La misura umana del consentire alla vita è possibile solo nella prospettiva di un cammino di speranza.
POESIA EUROPEA DEL NOVECENTO. Come Antigone, mia moglie Helene. Esci dalla penombra e cammina / davanti a noi un poco, / gentile, con passo leggero / della donna risoluta a tutto, terribile / per i terribili. // Distolta a forza, io so / come temevi la morte, ma / ancora più ti faceva orrore / la vita indegna. // E non fosti indulgente / in nulla verso i potenti, e non scendesti / a patti con gli intriganti, e non / dimenticasti mai l’ingiuria e sui loro / misfatti non crebbe mai l’erba. / Salut.
Bertold Brecht scrisse questa poesia per la moglie Helene Weigel, che recitava nella parte di Antigone. Fa parte del secondo volume Poesie (1934-1956), pubblicato da Einaudi, Torino 2005. Il volume completa quello dedicato alle Poesie (1913-1933), uscito nel 1999 presso la stessa casa editrice.
25 agosto 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Dal sangue del nostro cuore. In generale l’arte nasce dal desiderio dell’individuo di rivelarsi all’altro. Io non credo in un’arte che non nasce da una forza, spinta dal desiderio di un essere di aprire il suo cuore. Ogni forma d’arte, di letteratura, di musica, deve nascere dal sangue del nostro cuore. Sono consapevole che la mia pittura è un tentativo per comprendere il mio rapporto con l’esistenza, ma spero di riuscire per il suo tramite ad aiutare gli altri a vederci più chiaro (Edvard Munch). Il lavoro più arduo. Pensare è il lavoro più arduo che ci sia, ed è probabilmente questo il motivo per cui così pochi ci si dedicano (Henry Ford). La pace e la guerra. La pace non è soltanto migliore della guerra, ma è anche infinitamente più ardua (George Bernard Shaw).
DUE SECOLI FA NASCEVA ALEXIS DE TOCQUEVILLE. Era nato in Francia il 29 luglio 1805. Egli è il pensatore politico europeo più profondo e meno ideologizzato dell’Ottocento. La sua opera, vasta e multiforme, va visitata perché la tensione duale che intimamente la pervade pone al centro della riflessione il problema che sovrasta ogni altro: anche noi, infatti, come lui avvertiamo il dissidio fra l’assunzione dell’uguaglianza come meta del cammino umano da un lato e, dall’altro lato, l’incessante prodursi di teorie e pratiche politiche negatrici della libertà. La vera questione per Tocqueville e per le nostre società è la stessa: costruire una democrazia che non abdichi al suo presupposto fondamentale, la libertà, ma non si arrenda al dominio dell’ingiustizia e non metta a tacere l’ideale regolativo del suo stesso esistere, l’uguaglianza dei punti di partenza nella gara della vita. L’arbitrio della demagogia irresponsabile deve essere combattuto e vinto così come il dispotismo perverso di maggioranze che si pongono al di sopra delle leggi. Tocqueville non è affatto un nume tutelare del liberalismo conservatore, terrorizzato dalla democrazia, come spesso è presentato, ma un classico sempre attuale della liberal-democrazia nel senso più nobile della parola.
IL GIUDIZIO DI CARL SCHIMITT. «Da molto tempo Tocqueville è per me lo storico più grande del secolo XIX… Egli è uno dei rari storici che non sono caduti nell’istrionismo del loro secolo. È meraviglioso come il suo sguardo penetri la superficie delle rivoluzioni e delle restaurazioni per scorgere il nucleo fatale dell’evoluzione che si va attuando dietro i contraddittori schieramenti e le opposte parole d’ordine, un’evoluzione che si avvale di tutti i partiti, di destra e di sinistra, per spingere innanzi le cose verso una sempre più estesa centralizzazione e democratizzazione. Tocqueville non ha lo zelo dello smascheratore sociologico o psicologico, non ha la vanità degli scettici, ma nemmeno ambizioni metafisiche. Non si asside come il grande Hegel o il saggio Ranke nei panni del buon Dio nel palco reale del teatro del mondo. Egli è un moralista nel solco della tradizione francese, come Montesquieu, e al tempo stesso un pittore nel senso della concezione francese di peinture. Il suo sguardo è mite e chiaro e sempre un poco triste» (da Ex Captivitate Salus, Milano 1987).
UNA POESIA DI KAREN BLIXEN. Incontro. Ah, quando sei lontano e nessuno / più nomina il tuo nome. / Quando ovunque mi rechi sento / cupo e gelido un vuoto. // Comincio a credere che tu sia solo un sogno / nato dalle brame della tua mente, / e a questo sogno ho dato vita e nome / e in ultimo il tuo aspetto. // Ma quando poi ti vedo e posso / sentire ancora le tue forti parole / e posarti ancora il capo sulla spalla, / ascoltare ancora il suono della tua voce, // allora so che il resto è solo notte, / malvagi sogni che presto scorderò. / So che tu mi porti nella luce / e che in te dimorano la vita e il giorno.
1 settembre 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Che cos’è la pietà? È un dolore causato da un male distruttivo capitato a una persona che non se lo merita e che ci si può attendere di soffrire noi stessi o uno dei nostri. L’indignazione. Alla pietà si contrappone soprattutto l’indignazione, lo sdegno. Infatti al provar dolore per le disgrazie immeritate si contrappone in certo modo il provar dolore per le fortune sfacciatamente immeritate. Ed entrambe queste passioni sono proprie di un carattere onesto. (Aristotele)
L’idea e il canto. Poeta è colui in cui l’idea non ha ucciso il canto (Adolfo Casais Monteiro, poeta portoghese, 1908-1972).
L’IPOCRISIA, UN PECCATO CHE NON È IN ELENCO. «Nel Catechismo della Chiesa cattolica – Compendio, alla lettera “I” dell’indice analitico, il lettore trova Idolatria, Indissolubilità, Inseminazione artificiale, Indulgenze e Intercessione, ma Ipocrisia non c’è. Si dirà che la lacuna è scusabile, dopo tutto l’Ipocrisia non rientra nei sette vizi capitali… Ma non è neppure una virtù o un atteggiamento commendevole e nel Vangelo Gesù usa parole dure contro chi la pratica: Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all’esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni di ipocrisia e di iniquità (Matteo, 23, 27-28). E san Paolo nella Lettera ai Romani raccomanda: L’amore sia senza ipocrisia… Tra i tanti peccati che riempiono la vita di noi tutti, credenti e non, l’Ipocrisia è forse il più frequente. Non parliamo della cosiddetta “dissimulazione onesta”, che consiste nell’affettare cordialità o amicizia verso persone che detestiamo, ma della doppiezza di chi finge buone qualità per ingannare il prossimo e ottenere favori» (Riccardo Chiaberge, Il Sole 24 Ore, 3 luglio 2005).
INTERNET, DI VOLTA IN VOLTA BIBLIOTECA DI ALESSANDRIA E CLOACA MASSIMA… «Internet è, di volta in volta, la Biblioteca di Alessandria o la Cloaca Massima. Il fatto che queste due realtà convivano sullo stesso schermo mescolandosi tra loro è, con tutta evidenza, qualcosa di vertiginoso. Questa massa di “informazioni” è sul punto di sostituire la scuola. Ma il punto è che, com’è noto, su Internet non esiste alcun tipo di selezione. La scuola, invece, svolgeva una funzione di filtro. Anzi, era essa stessa il risultato di un concatenarsi di generazioni e di istanze. Anche se poteva essere contestato, questo filtro era, se non altro, coerente. Oggi come oggi siamo sempre più minacciati dall’incoerenza. Sono perfettamente cosciente del fatto che i “miei” classici (i testi biblici, greco-latini ed europei) sono ormai sopraffatti da una produzione culturale proveniente da tutte le parti del mondo, senza contare la tradizione islamica, cinese, giapponese, africana, troppo a lungo trascurate dalla cultura europea. So che dobbiamo senz’altro ampliare le nostre possibilità d’incontro, ma vorrei anche rassicurare le persone che come me, per loro personale esperienza, non intendono rinunciare alla tradizione classica. Se anche le nostre conoscenze fossero destinate a rivelarsi sempre più parziali dal punto di vista quantitativo, conserverebbero sempre valore sul piano qualitativo. Dal momento che questa è, com’è giusto, la mia esperienza, vista oltre tutto nella prospettiva del mio presente, essa può essere ancora approfondita, facendomi progredire in un sapere vissuto. Ogni esperienza, per quanto parziale, è legittima nel momento in cui viene approfondita. Il fatto che io riconosca l’esperienza altrui non implica necessariamente che debba rinunciare alla mia. Al contrario, è proprio la mia esperienza a permettermi di comprendere quella degli altri». Queste stimolanti riflessioni, che ci toccano così da vicino, sono di Jean Starobinski, uno dei maggiori critici letterari contemporanei. Nato a Ginevra nel 1920, di professione psichiatra, Starobinski è autore di importanti studi su Corneille, Montaigne, Rousseau, Diderot, Stendhal e Flaubert.
8 settembre 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il nucleo della filosofia. Il nucleo della filosofia non è il discorso, ma la vita, l’azione. È imparare a vivere una vita umana. Il filosofo non è specificamente un professore o uno scrittore, ma un uomo che ha fatto una certa scelta di vita, che ha adottato uno stile di vita… La filosofia non è un lusso (Pierre Hadot). Elogio della satira. La satira è l’esame di coscienza dell’intera società, è una reazione del principio del bene contro il principio del male; è, talora, la sola repressione che si possa opporre al vizio vittorioso. È il sale che impedisce la corruzione (Carlo Cattaneo).
L’USO POLITICO DELLA RELIGIONE. «Una mondanizzazione e politicizzazione della Chiesa a scapito della sua natura più profonda…». Questo era il pericolo che minacciava la Chiesa agli inizi degli anni Settanta. Si trattava allora di una sorta di integralismo di sinistra i cui militanti si autodefinivano «cristiani per il socialismo». Ebbene, se si cambia l’oggetto e la collocazione politica, è assolutamente il medesimo rischio che corre il cattolicesimo oggi. Nella recensione del corposo libro di Daniela Saresella, Dal Concilio alla contestazione. Riviste cattoliche negli anni del cambiamento (1958-1968) (Brescia 2005), Emma Fattorini ha scritto epigraficamente: «Memori dei cristiani per il socialismo, non vorremmo ritrovarci al loro posto dei cristiani per il bushismo». Non si poteva essere più chiari e sagaci sulla pericolosa deriva che minaccia oggi la Chiesa cattolica.
L’ESATTA FORMULAZIONE DEL PROBLEMA. Nella rubrica Lettere al Corriere del 31 luglio 2005 un acuto lettore formulava in questi termini il suo quesito: «Come spiegare il fatto che molti politici italiani, cattolici o laici, abbiano deciso di sposare il teorema dello scontro di civiltà e che certi laici ultimamente si stiano dimostrando i più radicali assertori delle radici cristiane dell’Europa?». Nella sua risposta Sergio Romano svolge importanti considerazioni. Nella impossibilità di esaminarle dettagliatamente, mi limito qui a riportare la parte centrale: «Alcuni uomini politici hanno scoperto che la “spiritualità”, in questo momento, è una merce politicamente redditizia. Se ne sono accorti nel momento in cui hanno constatato che la rielezione di George W. Bush, nonostante la disastrosa guerra irachena, è stata assicurata da un partito trasversale composto da milioni di evangelici. Non basta. Osservando attentamente la Casa Bianca, hanno scoperto che Bush, un uomo sinceramente devoto, è circondato da neo–conservatori molto laici, agnostici e comunque indifferenti ai problemi dell’anima, ma convinti che la religione, in politica, sia diventata una carta vincente. Se funziona in America, si sono detti i nuovi paladini delle nostre radici cristiane, perché non dovrebbe funzionare in Europa? Anche in questo caso il fenomeno non è nuovo. Molti uomini politici, in passato, sono arrivati alla conclusione che la religione è un efficace instrumentum regni. Credo che molti cattolici siano preoccupati e infastiditi da questa tendenza. Auspicano un ritorno alla fede, ma non vorrebbero che la Chiesa diventasse l’ancella della politica».
CHI MERITA DI ESSERE RICONOSCIUTO COME NOSTRO MAESTRO. «Se dovessi ricostruire la figura di un modello lo farei a partire dalle diverse persone nelle quali ho visto incarnate le virtù che considero più importanti. Per quanto riguarda la fermezza morale, comunque, nei miei ricordi del tempo di guerra [il conflitto mondiale 1939–45] trovano posto due teologi svizzeri che di sicuro non erano accomunati dalla visione dottrinale ed ecclesiale, ma il cui coraggio è stato sempre esemplare: Karl Barth e l’abate Charles Journet» (Jean Starobinski in Avvenire–Agorà, 8 febbraio 2001).
15 settembre 2005
LINEA RECTA BREVISSIMA. L’amicizia. Di tutte le cose che la saggezza ci offre per la felicità della vita, la più grande è di gran lunga l’amicizia. È più piacevole e bello fare il bene anziché riceverlo (Epicuro). L’esistenza non è ancora stregata. Ma l’esistenza non è ancora stregata: in certi luoghi è ancora sorgente. Un gioco di forze pure che nessuno attinge se non prega e ammira (Rainer Maria Kilke). Nascono da uno stato di mancanza. Quasi tutte le cose creative nascono da uno stato di mancanza (Andrea De Carlo). Più cose da ammirare che da disprezzare. Vi sono negli uomini più cose da ammirare che da disprezzare (Albert Camus). Non è adatto a vivere. Se un uomo non ha scoperto nulla per cui vorrebbe morire, non è adatto a vivere (Martin Luther King). Amici, nemici. È più facile perdonare un nemico che un amico (William Blake). Gli amici si dicono sinceri, i nemici lo sono (Arthur Schopenauer).
ESSERE FRA GLI UOMINI UN UOMO. Umberto Saba era figlio di un’ebrea, ma non si potrebbe definire senza riserve né ebreo né cristiano. Tuttavia – come ha scritto Alessandro Cinquegrani in Humanitas, 2005, n. 3 – «egli era un poeta con un grande senso religioso» e in lui «il senso religioso superava tutto». Il 30 gennaio 1957, sette mesi prima della sua morte, Saba scrisse a Nora Baldi una lettera che si può leggere come il suo testamento spirituale. In essa il poeta triestino confida all’amica che il suo modello, l’esempio che avrebbe voluto seguire sarebbe stato senz’altro Gesù, l’uomo che ha amato tutti gli uomini e più di tutti i reietti. Egli avrebbe voluto vivere e agire «nella direzione di Gesù» e in una delle Lettere a un amico vescovo – pubblicate postume nel 1980 da La Locusta di Vicenza – scriveva a Giovanni Fallani: «Io amo Gesù come l’uomo che più si è avvicinato al divino…».
DUE TESTI POETICI DI UMBERTO SABA. Qui degli umili sento in compagnia / il mio pensiero farsi / più puro dove più turpe è la via (da Trieste e una donna). Fu nelle vie di questo / Borgo che nuova cosa / m’avvenne. // Fu come un vano / sospiro / il desiderio improvviso d’uscire / di me stesso, di vivere la vita / di tutti, / d’essere come tutti / gli uomini di tutti / i giorni. // La fede avere / di tutti, dire / parole, fare / cose che poi ciascuno intende, e sono, / come il vino e il pane, / come i bimbi e le donne, / valori / di tutti. Ma un cantuccio, / ahimè, lasciavo al desiderio, azzurro / spiraglio, / per contemplarmi da quello, godere / l’alta gioia ottenuta / di non esser più io, / d’esser questo soltanto: fra gli uomini / un uomo (da Cuor morituro).
NON SGUARNIRE IL POSTO DI VEDETTA. «Nel XX secolo gli intellettuali hanno rivestito un ruolo pubblico (e non sempre in modo brillante), ma da alcuni decenni il grande problema è quello della trasformazione della stessa “vita pubblica”. La tribuna parlamentare di una volta è stata ormai soppiantata dall’immagine televisiva. Oggi la persuasione verbale è anche una persuasione visiva. Ciò significa che è possibile mostrare la verità, ma anche ingannare attraverso le immagini. L’affermarsi di nuove forme di potere comporta sempre una moltiplicazione dei rischi. Ma questo non vuol dire che, per quanto possano fare difetto gli intellettuali responsabili, il posto di vedetta debba per forza rimanere sguarnito» (Jean Starobinski in Avvenire–Agorà, 8 febbraio 2001).
22 settembre 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Ricchezza e potere. Chi vede nella ricchezza la misura del valore delle altre cose, crede che tutto possa essere comprato con essa. Ritiene, inoltre, che il denaro lo renda degno di comandare. Evitare le ambiguità. È importante evitare nel discorso le ambiguità, a meno che esse non siano volute deliberatamente: cosa che fanno quelli che, non avendo nulla da dire, fanno finta di dire qualcosa. Com’è noto, anche gli oracoli sono espressi in modo volutamente ambiguo: s’indovina di più, infatti, parlando in generale e dicendo che una cosa avverrà piuttosto che quando avverrà. (Aristotele)
SENZA L’UNIONE EUROPEA L’ITALIA NON HA FUTURO. «Il “no” francese al trattato che istituisce la Costituzione europea è stato uno choc fortissimo, le cui onde d’urto continueranno presumibilmente a svilupparsi a lungo, imponendo ripensamenti approfonditi del processo di integrazione. Il cortocircuito europeo, favorito anche dalle polemiche contro l’Europa “dei tecnocrati in nome delle identità nazionali, territoriali e locali, non dovrebbe far dimenticare alcuni aspetti centrali, che è opportuno richiamare brevemente. La costruzione europea è stata innanzitutto uno strumento essenziale per trasformare l’Europa in un’area di pace, ancor prima che di sviluppo economico e di benessere sociale. Oggi sembra che le guerre che hanno insanguinato il XX secolo siano lontane: ma questa distanza, che consegna i conflitti mondiali alla storia, è stata determinata anche, se non soprattutto, dalla lungimiranza con cui dopo la guerra del 1939-45 si è proceduto all’edificazione di un territorio economico e tendenzialmente politico dotato di istituzioni capaci di relegare la guerra fra le realtà impossibili. Ancora. Sotto il profilo economico era piuttosto evidente che il processo di integrazione, culminato nell’adozione della moneta unica, rappresentava uno sforzo inedito per consentire al blocco di Eurolandia di svolgere un ruolo attivo nel processo di globalizzazione. Mentre a sua volta l’allargamento che ha portato a 25 i Paesi membri aggiungeva alla dimensione economica e commerciale una valenza politica e culturale, in cui si riassumeva la possibilità di sanare la ferita imposta dai decenni della divisione dell’Europa in blocchi geopolitici contrapposti». Queste riflessioni si leggono nella nota introduttiva della rivista Il Mulino, n.3, 2005. L’idea propagandistica che le difficoltà dell’economia italiana si risolverebbero con la defezione dalle regole europee, se disgraziatamente avesse successo, avrebbe esiti disastrosi per il nostro Paese. L’Italia non può, infatti, inseguire il miraggio di essere una nave corsara nel mare dell’economia mondiale e credere di prevalere sui partner europei attraverso forme di concorrenza sleale nei loro confronti.
L’APPRODO DEFINITIVO DI CRISTINA CAMPO: LA POESIA COME PREGHIERA. Primo testo. «Il cammino della poesia è uno e non reversibile… Essa non è altra cosa della reverenza per il significato teologico del limite: il precetto di operare a somiglianza di Dio. Dal Sinai al cespuglio ardente, dal Tabor a un pezzetto di pane» (Gli Imperdonabili, Milano 1987, p. 5). Secondo testo. «Io non ho, davvero, che la poesia come preghiera – ma posso offrirla? E quando mai la sentirò così vera da poterla deporre a quell’altare, di cui non vedo e forse non vedrò mai che i gradini, come un cesto di pigne verdi, una conchiglia, un grappolo? Di giorno in giorno mi persuado sempre più che non ho altro rosario, altra spada, altro cilicio che questo […]. Io sto nel buio, ma vorrei fare qualche cosa che agli altri sembrasse nato alla luce» (Lettere a Mita, Milano 1999, [24 luglio 1958]).
29 settembre 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il nostro alto livello. Bisognerebbe essere orgogliosi del dolore: ogni dolore ci rammenta il nostro alto livello (Novalis). È una metafora. Una vera fotografia di paesaggio è una metafora (Sandro Santioli, fotografo). Bellezza dei propri sogni. Il futuro appartiene solo a coloro che credono alla bellezza dei propri sogni (Eleanor Roosevelt). La dignità di un bambino. Cogli la dignità in un bambino, non sentirti superiore a lui, perché non lo sei (Robert Henri). Lottare per un’idea, ma avere un’idea di sé. Ogni volta in cui, crescendo, avrai voglia di cambiare le cose sbagliate in giuste, ricordati che la prima rivoluzione da fare è quella dentro se stessi, la prima e la più importante. Lottare per un’idea senza avere un’idea di sé è una delle cose più pericolose che si possono fare (Susanna Tamaro). L’uomo e il mare. Uomo libero, sempre ti sarà diletto il mare, tua anima, specchio dove guardi la tua anima scorrere infinita come le onde. Non meno amaro abisso è il tuo cuore (Charles Baudelaire).
BANCHIERI CATTOLICI COME TOVINI E BAZOLI. Dalla faccenda Fazio c’è una lezione da trarre anche per il mondo cattolico. Ne parlo da cattolico e con molta cautela perché non esistono su questo punto evidenze chiare e indiscutibili. Molti cattolici e uomini di Chiesa, anche eminenti, ritengono che quando gli uomini del denaro sono personalmente onesti e ne danno o fanno dare tanto per scopi di beneficenza o religiosi, sono meritevoli di ogni rispetto. È difficile far loro capire che questo non va bene quando, come nel caso dei banchieri, gli uomini del denaro gestiscono denaro altrui. È per questo equivoco di fondo che i cattolici raramente riescono ad esprimere banchieri seri. Dopo il tonfo di Fazio mi sembra che gli unici banchieri cattolici seri della storia italiana rimangono Tovini (il fondatore del Banco Ambrosiano) e Bazoli (il fondatore del Nuovo Banco Ambrosiano). Ad indirizzarmi su quest’ultima riflessioni è stata proprio la lettera di un caro amico, sacerdote romano, professore d’università, molto addentro nei meccanismi della Chiesa, e intellettuale di alto livello. Scrivendomi una difesa accorata e totale di Fazio e rimproverandomi per i miei articoli critici, me lo descrive come una vittima dei massoni da un lato e della stampa, «quasi tutta di sinistra», dall’altro. Come sarebbe utile che i cattolici si liberassero di queste sciocchezze e facessero propri, invece, i principi della buona finanza. Il Paese ha un gran bisogno di cattolici adulti anche in finanza. «Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo e ragionavo come un bambino. Quando sono diventato uomo, ho smesso tutte quelle cose che sono proprie dei bambini» (S. Paolo, 1 Cor. 13, 11).
DUE ANNOTAZIONI PERSONALI. Con queste riflessioni si conclude un intervento di Marco Vitale apparso su Corriere-economia di lunedì 12 settembre 2005. Mi permetto aggiungere qualche annotazione personale. Alcuni anni fa, conversando con Giovanni Bazoli, gli chiesi come gli era stato possibile ridare al Banco Ambrosiano l’onore e la credibilità che gli erano stati tolti. La risposta fu la seguente: «Ho sempre voluto che la legge fosse rispettata». Nei confronti di Marco Vitale io ho un debito di gratitudine: grazie a lui due anni fa potei organizzare a Brescia un incontro–testimonianza su Adriano Olivetti geniale imprenditore e grande cristiano. Olivetti nel dopoguerra con le sue Edizioni Comunità fu anche uno degli artefici del rinnovamento culturale del nostro Paese.
6 ottobre 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Per onore. A chi stima l’onore assai, succede ogni cosa, perché non cura fatiche, non pericoli, non danari. Io l’ho provato in me medesimo, però lo posso dire e scrivere: sono morte e vane le azioni degli uomini che non hanno questo stimolo ardente (Francesco Guicciardini). Per cambiare il mondo. Abbiamo bisogno di uomini che sappiano sognare cose inedite (John Fitzgerald Kennedy). Solo quelli che sono così folli da pensare di cambiare il mondo, lo cambiano davvero (Albert Einstein). Sii il cambiamento che vuoi vedere avvenire nel mondo (Gandhi).
UN RISVOLTO DI COPERTINA SUI GENERIS. Ho acquistato il volume Storia del Portogallo, pubblicato nel 2004 a Lisbona e in traduzione italiana nelle edizioni Bruno Mondadori. L’autore, Josè Hermano Saraiva, presenta se stesso e delinea, in un certo senso, lo spirito che anima la sua opera attraverso un insolito, originale risvolto di copertina del libro. Eccone il testo: Vicino a un palazzo, un bambino trovò alcune pagine di un libro. Il bambino, che voleva tanto andare a scuola, ma non poteva – era troppo povero – domandò ai suoi amichetti, che invece ci andavano: «Come si legge?». «Vedi? Questa è una ‘b’, e questa una ‘a’: ‘b’ e ‘a’ si legge ‘ba’». Così, collegando una lettera all’altra, il bambino iniziò a leggere e imparò quelle pagine a memoria. Un giorno, piangendo, andò dal maestro e gli disse: «Io ho un libro, ma devo essere molto stupido, perché lo so a memoria ma non capisco niente di quello che dice!». E cominciò a recitare le parole del libro che aveva imparato. Il maestro, perplesso, rispose: «Non capisco, fammelo vedere!». Il libro che il bambino aveva trovato non era in portoghese, ma in latino. Quel bambino – che sarebbe diventato vicepresidente dell’Academia das Ciências portoghese – era il padre di José Hermano Saraiva.
AUTORITRATTO DI ALEXIS DE TOCQUEVILLE. «Sono venuto al mondo alla fine di una lunga Rivoluzione che, dopo aver distrutto l’antico Stato, non aveva creato nulla di durevole. L’aristocrazia era già morta quando cominciai a vivere e la democrazia non esisteva ancora; il mio istinto non poteva dunque spingermi ciecamente né verso l’una né verso l’altra. Abitavo un paese che nell’arco di quarant’anni aveva tentato di tutto senza arrestarsi definitivamente a niente, dunque, non ero affatto facile in fatto di illusioni politiche. Facendo io stesso parte dell’antica aristocrazia della mia patria non avevo alcun rancore né gelosia naturale contro di essa ed essendo questa aristocrazia distrutta, non le portavo più alcun amore naturale, poiché non ci si lega fortemente che a ciò che vive. Le ero assai vicino per poterla conoscere bene, lontano abbastanza per giudicarla spassionatamente. Direi altrettanto per l’elemento democratico. Nessun ricordo di famiglia, nessun interesse personale mi forniva una propensione naturale e necessaria verso la democrazia. Ma non ne avevo, per parte mia, ricevuto alcuna offesa; non avevo alcun motivo particolare di amarla né di odiarla, indipendentemente da ciò che mi consigliasse la ragione. Ero così ben in equilibrio tra il passato e l’avvenire da non sentirmi naturalmente e istintivamente attratto né verso l’uno né verso l’altro, e non ho affatto avuto bisogno di grandi sforzi per gettare uno sguardo tranquillo dalle due parti». Nel 1838 ebbe inizio la traduzione in inglese dell’opera fondamentale di Tocqueville, La democrazia in America. Il testo che qui viene riportato è la lettera che Tocqueville inviò al suo traduttore inglese per chiarirgli il preciso intento del suo libro, inquadrandolo nella sua esperienza di vita.
13 ottobre 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. È tutto. Il pensiero non è che una luce nel mezzo della notte. Ma questa luce è tutto (Henri Poincaré). Qualche piccola follia. Siamo tutti costretti, per rendere la realtà sopportabile, a mantenere in noi qualche piccola follia (Marcel Proust). Un senso e un’emozione. Molti ritengono che un dipinto sia finito quando il maggior numero possibile di dettagli è stato completato. Una singola linea può essere un’opera d’arte. Un quadro deve essere realizzato con un senso di scopo ed emozione (Edvard Munch).
«PERCHÉ NESSUNO CI HA CHIAMATI…». DOV’È IL VERO DISCRIMINE TRA GLI UOMINI? Nel bel volume Giustizia e uguaglianza. Modelli biblici, pubblicato quest’anno dalla Morcelliana, Giovanni Bazoli ha riunito due saggi aventi per oggetto un passo biblico, l’uno tratto dall’Antico Testamento (Genesi 18, 20-33) e l’altro dal Nuovo (Matteo 20, 1-16). Il primo saggio, che ha per titolo «I dieci giusti e la salvezza della Città», esplora le ragioni dell’appassionato intercedere di Abramo presso il Signore perché la punizione di Sodoma colpirebbe inevitabilmente i giusti insieme ai malvagi. Il secondo saggio riguarda la parabola evangelica degli operai chiamati all’ultima ora, che però il padrone della vigna retribuisce come quelli della prima ora. Questa sconcertante parabola ci autorizza forse a pensare che la giustizia divina prescinde dalla proporzionalità tra prestazioni e compenso? Bazoli, con una prospettiva inedita, cerca all’interno della parabola la chiave per la sua spiegazione e la trova precisamente in quel passaggio del racconto in cui si dice che il padrone della vigna si rivolge agli ultimi operai, per chiamarli al lavoro: «Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?». Ed essi rispondono: «Quia nemo nos conduxit», perché nessuno ci ha chiamati. Con questa parabola il Signore ha dunque voluto sottolineare l’esistenza di una disparità di risorse, di occasioni, ammonendoci che occorre tener conto delle disuguaglianze iniziali, delle ragioni di una diversa «resa» degli uomini. Nell’attribuzione della mercede, cioè della felicità eterna, gli pseudo-valori di questo mondo saranno ribaltati e allora il giudizio di Dio apparirà non soltanto sommamente buono, ma anche infinitamente giusto. In lui, infatti, bontà e giustizia coincidono. In tal modo la parabola del Vangelo, che forse più sfida il senso comune, si rivela essere una delle più consolanti.
IL «SOGNO» CHE DOVREBBE ACCOMUNARE GLI UOMINI. Mi piace concludere questa nota con una nobile considerazione del nostro illustre amico, che condivido pienamente. Eccola: «Ogni uomo degno di questo nome – scrive Bazoli – sente imperiosa l’esigenza che siano riparate le ingiustizie, i torti, le sventure, le disuguaglianze che su questa terra affliggono le creature. Esigenza che non ha mai trovato una risposta più appagante della pagina evangelica in cui sono proclamate le Beatitudini… Mi azzardo a pensare che il vero discrimine tra gli uomini sia segnato dal loro atteggiamento di fronte a questo “sogno” e che nel giudizio finale la separazione non sarà tra coloro che noi chiamiamo credenti o non credenti, ma tra gli uomini che aderiscono con la mente e con il cuore alla tavola delle Beatitudini e quelli che, indifferenti alle ingiustizie del mondo, sono capaci di ridere sulle lacrime umane perché appagati dalla loro propria vita. Tra i primi, anche quelli che dichiarano di non credere in Dio implicitamente credono o almeno sperano in lui, essendo evidente che l’unica possibilità che si avveri il mondo delle Beatitudini è che Dio esista».
20 ottobre 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il solo potere di cui disponiamo. Tu non hai alcun potere sui tuoi amici, fuorché quello dei lasciare ad essi le loro gioie e di accrescere la loro felicità, godendone insieme con essi (Johann Wolfgang Goethe). I segreti meglio custoditi. Non ci sono segreti custoditi meglio di quelli che tutti conoscono (George Bernard Shaw). L’attesa. Ho il suono dei tuoi passi dentro al cuore (Tagore). La porta lasciata aperta. La felicità spesso si insinua in una porta che non sapevate di aver lasciato aperta (John Barrymore). In un’ora di gioco. Si può scoprire di più su una persona in un’ora di gioco che in un anno di conversazione (Platone). Il coraggio e la paura. Il coraggio non è assenza di paura, ma piuttosto la considerazione che ci sia qualcos’altro di più importante della paura (Ambrose Redmoon).
IL PRESIDENTE EINAUDI E L’ARTICOLO 3 COMMA 2 DELLA COSTITUZIONE. L’ispirazione profonda e unitaria della nostra Costituzione appare evidente nell’articolo 3 comma 2: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Quando si discusse all’Assemblea Costituente quella norma, vi era in ogni settore politico la consapevolezza della sua novità, ma anche delle sue radici storiche perché in essa, come ebbe a dire il 6 marzo 1947 Lelio Basso, «si incontrano i più antichi motivi della civiltà cristiana». Oltre la democrazia formale, sempre necessaria e mai sufficiente, con l’articolo 3 comma 2 il principio di eguaglianza sostanziale diventa «il punto di partenza di una rivoluzione, o di una evoluzione, che si mette in cammino» – come osservò Calamandrei ne L’avvenire dei diritti di libertà (Introduzione a Francesco Ruffini, Diritti di Libertà, Firenze 1946, pp. XLI-XLII) – dovendo il legislatore fare leggi che rendano effettiva l’eguaglianza. Il 12 maggio 1948, in occasione del giuramento quale primo Presidente della Repubblica, Luigi Einaudi indicò in poche frasi di mirabile semplicità le vie per dare al Paese un futuro autenticamente democratico. Queste le sue parole: «La Costituzione che l’Italia si è ora data afferma due principi solenni: conservare della struttura sociale presente tutto ciò e soltanto ciò che è garanzia della libertà della persona umana contro l’onnipotenza dello Stato e la prepotenza privata; e garantire a tutti, qualunque siano i casi fortuiti della nascita, la maggiore uguaglianza possibile nei punti di partenza».
VIVO E ATTUALE IL RAMMARICO DEL GRANDE NEWMAN. Nel suo diario Newman lamenta che per i cattolici inglesi una cosa sola importasse – fare proseliti – e ogni cattolico era giudicato su tale criterio: «Io sono diverso… Le mie mete, la mia teoria dell’azione, i miei talenti sono orientati diversamente, in un senso che non viene compreso. Per me le conversioni non erano l’opera essenziale, ma l’edificazione nel senso forte della parola. Preoccuparsi di migliorare lo stato del corpo cattolico, rivederne con cura le basi di discussione e le situazioni in rapporto alla filosofia e alle tendenze del nostro tempo; tentare di dare idee più giuste, allargare e affinare il loro spirito, in una parola educarli. Questo ai loro occhi è peggio di una tentazione mentale, è una pazzia, è un insulto perché implica che a loro manca qualche cosa di tangibile».
3 novembre 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Un paese ci vuole. Così questo paese, dove sono nato, ho creduto per molto tempo che fosse tutto il mondo. Adesso che il mondo l’ho visto davvero e so che è fatto di tanti piccoli paesi, non so se da ragazzo mi sbagliavo poi di molto. I veri acciacchi dell’età. I veri acciacchi dell’età sono i rimorsi. (Cesare Pavese)
Quando si può manifestare la vera bontà. La vera bontà dell’uomo si può manifestare in tutta purezza e libertà solo nei confronti di chi non rappresenta alcuna forza… Amore significa rinunciare alla forza (Milan Kundera).
LA PRIMA FORMA DELL’AMORE. «La morale evangelica – scrive Alexis Carrel nelle sue meditazioni postume – non è compresa. Nemmeno i pastori della Chiesa osano predicarla nella sua integrità. Così quando predicano la necessità dell’amore al prossimo e dell’amore di Dio, dimenticano sempre che il dovere di ciascuno è non solo quello di amare gli altri, ma soprattutto di rendere se stessi degni di essere amati dagli altri… Un individuo ineducato, grossolano, brutale, anche divorato dall’amore del prossimo, viola la legge evangelica perché rende impossibile agli altri la legge dell’amore».
Questa acute ed illuminanti osservazioni ci aiutano a capire la sterilità e l’implicita contro–testimonianza di un certo modo di rapportarci agli altri. Vi sono persone capaci di autentici prodigi di dedizione e di sacrificio, ma non di una condotta di vita animata dalla gentilezza d’animo e dall’ospitalità del cuore, senza di cui noi non rispettiamo la dignità di coloro a cui pure vorremmo giovare.
È ANCORA IL NOSTRO MONDO, È NOSTRA EREDITÀ, È UN BENE NOSTRO. «La civiltà, che è nostra, ha visto la luce presso i greci. Sarebbe forse anche potuta nascere altrove, o altrimenti, lo sappiamo: tuttavia essa è nata là, presso i greci. Quel mondo è, perciò, tuttora e sempre, il nostro. Checché si pensi e si dica, non si può ignorare che Platone e Aristotele sono, per la sostanza del loro pensiero, così vicini a noi come Cartesio o Kant; che l’anelito religioso di Eschilo e l’ansia rinnovatrice del mondo di Virgilio, sono anche anelito ed ansia nostra; che la coscienza storica di Tucidide e di Tacito è un elemento costitutivo della nostra coscienza storica; che l’ideale di bellezza di Fidia e di Prassitele si è trasfuso in noi e lo sentiamo nostro… Quel mondo, pur nelle differenze di forma che i millenni inevitabilmente hanno provocate, pur tenendo conto dell’arricchimento e dell’approfondimento della vita spirituale operatisi specialmente attraverso il Cristianesimo, è ancora il nostro mondo: perché è nostra eredità, è un bene nostro, che legittimamente ci perviene, attraverso lunga ed ininterrotta serie di generazioni. Come tale, noi lo potremmo anche rifiutare (e v’è chi lo rifiuta): ma non per ciò esso è meno nostro». Una lucida, appassionata rivendicazione dell’eredità del mondo greco e latino, anche per coloro che rifiutano quella civiltà, rimane uno dei punti fermi di ogni dibattito sulle radici e le ragioni del nostro mondo. L’autore del brano riportato è Italo Lana, l’eminente maestro di lettere classiche, che ha affrontato questi temi con straordinaria intelligenza storica e umanità. Il testo integrale della prolusione universitaria di Italo Lana, Noi e l’antico, fu pubblicato nella Rivista di Filosofia (Gennaio 1954, n. 1, pp. 36-47).
17 novembre 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. La stanza. Tutta la storia dell’umanità può essere scritta sulle pareti bianche di una stanza (Jorge Luis Borges). Lui e lei. Non possiamo possedere l’uno il passato dell’altra. La questione è se avremo un futuro insieme (Jostein Gaarder). Amare la luce. Bisogna conservare in sé una freschezza, una sorgente di gioia, amare la luce che si sottrae all’ingiustizia e con questa luce conquistata tornare a lottare (Albert Camus).
GIOVANNI CRISTINI, POETA E CRISTIANO. Il 12 novembre 1995, dieci anni fa, Giovanni Cristini ci lasciò. Era nato a Brescia nel 1925 e aveva iniziato la sua attività letteraria a La Scuola Editrice come direttore della rivista per studenti Carta, penna e calamaio. A Milano fu direttore editoriale della Mursia. La sua produzione poetica ebbe inizio nel 1950 e si arrestò con I chiodi e i dadi nel 1961. Passarono oltre vent’anni perché nel 1985 Giovanni interrompesse il lungo silenzio e ci donasse le sue cose migliori, e sono tante, nell’ultimo decennio di vita. Questa mai nota vuol essere un invito a leggere Giovanni Cristiani. Egli è poeta autentico ed è uno dei maggiori poeti cristiani del Novecento. Abbiamo gli strumenti per farlo. Essi sono due: il volume, curato dalla moglie Annamaria, Tutte le poesie con i testi inediti (Novara 2003) e quel capolavoro-testamento spirituale che è Lettera ai figli (Cinisello Balsamo, 1996). La nota bibliografica che accompagna Tutte le poesie attesta quanta eco ha suscitato anche tra gli addetti ai lavori l’opera del nostro Giovanni; ad essa, però, bisogna aggiungere l’ultimo, appassionato studio Poesia e grazia. Giovanni Cristini, il dono del dialogo di Domenico Rizzoli. Fa parte del fascicolo speciale di Humanitas (n. 3, 2005) su «Poesia e religione in Italia».
PICCOLA ANTOLOGIA POETICA. Dall’opera di Giovanni Cristino scelgo quattro testi particolarmente intensi e ispirati. La parola. Come attraverso le foglie degli alberi il vento / attraverso il silenzio la parola. / Tu ne risvegli il suono / e non sai donde venga e dove va. / Ma per un attimo nel suo esile soffio / si svela il mistero del mondo. // Furtivo come un ladro Nicodemo / ritrova il grembo materno. / Dalla notte rinasce a luce nuova. Cultura è bellezza. Cultura è bellezza / che crea coscienza e dolore. / Cultura è verità / che non si apprende sui libri / ma che risplende nel cuore. / La verità che è amore. // Cultura è carità / per le sorti dell’uomo. / Dolore che alimenta / la vacillante fiamma / su cui soffia la morte. // E non la spegne. Inno alla Chiesa. Madre dei santi e dei poveri / peccatori, come me, come tutti sulla terra, / immagine imperfetta, avvilita e straziata / della più grande utopia / (tanto grande che genera stupore, / odio, irrisione, ironia), / io non so che ci sia di là della caverna / in cui viviamo / e sul cui fondo si agitano ombre / bellissime e rissose, / ma so che nella tua fede / han chiuso gli occhi in pace / i padri dei miei padri, / poveri cristi con le braccia in croce. // So che l’orgoglio / della mente e del cuore / non dà luce e speranza, né pietà. / Per questo a te ogni giorno / sgomento faccio ritorno / prodigo ai partiti e mai rimasto / e per i figli prego perché all’ombra / della tua casa possano sostare / liberamente andare e ritornare / chiedere asilo e sbattere la porta, / in questa grande, libera avventura, / tu che sei roccia da cui rompe l’acqua / e albero del pane / porta della speranza / finestra spalancata sul mistero. Non avremo mai. Non avremo mai lottato abbastanza / in questo angoscioso / crepuscolo degli dei e degli uomini / amati sino al limite / dell’impazienza e dell’ira. / Non avremo mai lottato abbastanza / contro il nulla e la morte / nella speranza dell’alba. Le poesie La parola e Cultura è la bellezza sono tratte dalla raccolta Weekend in terra straniera (Milano 1986). L’inno alla Chiesa e Non avremo mai fanno parte del volume Poesie 1978-1995 (Milano 1997).
24 novembre 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Prima entusiasti poi criminali. Chi pensa che i regimi comunisti dell’Europa Centrale siano esclusivamente opera di criminali, si lascia sfuggire una verità fondamentale: i regimi criminali non furono creati da criminali ma da entusiasti, convinti di avere scoperto l’unica strada per il paradiso. Essi difesero quella strada con coraggio… In seguito, fu chiaro che il paradiso non esisteva e che gli entusiasti erano diventati degli assassini (Milan Kundera). Siamo forse pochi, ma preziosi. I «laici» che non vogliono essere considerati «laicisti» costituiscono ormai una popolazione piuttosto ridotta, anche se sempre molto preziosa (Filippo Gentiloni).
IL PIÙ GRANDE PERICOLO PER IL PRETE. Se il prete parla troppo, questo gli riesce fatale. Parlare di meno non vuol dire rinnegare la propria natura di maestro, ma sublimarla. Il silenzio è pudore, senso profondo di responsabilità. Non può pronunciare, ad esempio, la parola povertà chi condivide tutte quelle consolazioni del ricco che sono inconciliabili con le consolazioni di Cristo. Bernanos osservava che la facilità di parola e di improvvisazione costituisce il più grande pericolo per il prete. Da lui, infatti, si esige chiarezza che non sia superficialità, profondità che non sia verbalismo, attualità che non sia abbandono delle fonti, fedeltà a Cristo che non sia partigianeria tra gli uomini. A chi annuncia la parola di Dio è richiesto soprattutto quel senso dell’essenziale e del reale che preserva il sacerdote dal divenire «il preposto alle cose vaghe». Questa splendida pagina sulla predicazione cristiana è del padre oratoriano Giulio Bevilacqua, una tra le figure più alte della Chiesa italiana che nel secolo scorso prepararono la via al rinnovamento del Concilio Vaticano II.
L’ANGOLO DELLA POESIA. Ti auguro tempo. Non ti auguro un dono qualsiasi. / Ti auguro soltanto quello che i più non hanno. / Ti auguro tempo per divertirti e per ridere. / Ti auguro tempo per il tuo fare e il tuo pensare, / non solo per te stesso, ma anche per donarlo agli altri. // Ti auguro tempo non per affrettarti a correre, / ma tempo per essere contento. / Ti auguro tempo non soltanto per trascorrerlo. / Ti auguro tempo perché te ne resti, / tempo per stupirti e tempo per fidarti / e non soltanto per guardarlo sull’orologio. // Ti auguro tempo per toccare le stelle / e tempo per crescere, per maturare. / Ti auguro tempo per sperare nuovamente e per amare. // Ti auguro tempo per trovare te stesso, / per vivere ogni tuo giorno ogni tua ora come un dono. / Ti auguro tempo anche per perdonare (poesia indiana).
1 dicembre 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Se la luce in te diventa tenebra. Quando il cristiano degrada, è l’uomo che degrada; come, sovente, quando l’uomo si perde è il cristiano che lo perde. «Se la luce che è in te diventa tenebra che cosa saranno le tenebre?». Perché tanta superstizione? La diffusione della superstizione nel mondo moderno non è solo frutto dell’irrazionalismo dilagante, ma punto necessario di arrivo per forme religiose dalle quali si è bandita ogni vocazione alle altezze ed ogni sforzo. Il peggio è che – come osservava Bergson – «più una religione statica è grossolana e più tiene nella vita materiale di un popolo». (Giulio Bevilacqua)
NOI E L’ANTICO. LE RADICI E LE RAGIONI DEL NOSTRO MONDO. Italo Lana fu grande maestro anche perché avvertì sempre l’esigenza di render conto, in primo luogo agli allievi dei suoi corsi, delle finalità del suo insegnamento, delle scelte metodologiche, delle idee che guidavano la sua azione educativa. Su questo punto i suoi interventi scritti sono numerosi, perspicui, appassionati. Ma il primo testo in cui Italo Lana inquadrava razionalmente i problemi con cui devono misurarsi gli insegnanti di discipline classiche risale alla prolusione universitaria Noi e l’antico, che egli tenne a Cagliari il 9 febbraio 1953 e che fu pubblicata sulla Rivista di Filosofia (gennaio 1954, n. 1, pp. 36-47).
Nella prolusione suona forte e solenne la rivendicazione del nesso tra la storia letteraria e la più ampia realtà storica, alla quale il fatto artistico originariamente e per sempre appartiene e che lo illumina e ne è, a sua volta, illuminato. Se il filologo pensa di fermarsi a mostrare la «certezza» di fatti e materiali, lo storico e il critico della letteratura hanno il compito di cercare che cosa gli uni e gli altri abbiano significato e significhino per l’umanità: allora, quando si produssero, ed ora, quando li studiamo. Occorre certamente ricollocare i fatti nella realtà in cui maturarono e dunque nei loro rapporti storici, nel clima spirituale, civile e morale dei tempi, così come nello sviluppo della vita e della personalità degli autori. Augusto Rostagni raccomandava: «Più che alle affinità, alle somiglianze, ai contatti dell’antico con noi, si conviene badare alle differenze, cercando di distinguere i limiti che esso incontrava e che noi abbiamo superato». Tutto ciò servì ad aprire gli spiriti a una visione dinamica della cultura e della storia e ad abbandonare un certo falso e scolastico classicismo, secondo cui non si può entrare in colloquio con gli antichi se non svestendo i panni quotidiani e indossando la toga e il pallio. Italo Lana, però, aggiunge una precisazione di grande rilievo: «Noi crediamo che non tanto le differenze di quel mondo rispetto al nostro si debbano cercare, bensì, in quel mondo, le radici e le ragioni del nostro mondo». È, infatti, innegabile che il nostro mondo, la nostra civiltà affondano le radici in quel mondo che diciamo antico.
L’ANGOLO DELLA POESIA. Non la gloria di per sé, ma ciò che la giustifica. Se meritassi in me stessa la fama / ogni altro applauso sarebbe / superfluo, come incenso / senza necessità. // Se non la meritassi, anche se fosse / altissimo per gli altri il nome mio, / sarebbe un pregio spregevole, / un futile diadema (Emily Dickinson, Poesie, a cura di Margherita Guidacci, Milano 2004, XV edizione)
8 dicembre 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Chi è giovane. Non sono abbastanza giovane per conoscere ogni cosa (Oscar Wilde). Più efficace il silenzio. Nella vita, come nell’arte, è difficile dire qualche cosa che sia altrettanto efficace del silenzio (Ludwig Wittgenstein). La pace. La pace è un bene così grande che non sene può desiderare uno maggiore (Agostino).
ANTIGONE, TESTIMONE DELLA COSCIENZA. Eschilo narra l’antefatto dell’Antigone nella tragedia che la precede, I sette contro Tebe. Due fratelli, Eteocle e Polinice, si alternano a Tebe nell’esercizio annuale della suprema magistratura. Eteocle a un certo punto viene meno al patto e costringe all’esilio il fratello, che di lì a poco muove in armi contro la sua patria. Per porre fine all’interminabile guerra i due fratelli e i loro più valorosi guerrieri, sette contro sette, si affrontano in duello. Vincono i tebani, ma i due fratelli si danno reciprocamente la morte. Eteocle è proclamato eroe della patria, mentre Polinice è il traditore il cui cadavere deve per legge rimanere insepolto. E la violazione di quel divieto è punita con la morte. Antigone, sorella dei due sventurati, unisce nella sua pietà entrambi i fratelli e dà sepoltura alle spoglie di Polinice. Perché Antigone trasgredisce le norme della polis, sapendo di poter pagare con la vita la decisione presa? Ecco la sua risposta al re Creonte: «Non Zeus mi ha imposto questi ordini; né Dike [dea della giustizia] fissò per gli uomini tali leggi. Non potevo pensare che i tuoi decreti fossero a tal punto potenti da dare, a te che sei mortale, il diritto di trasgredire le leggi non scritte, ma inviolabili, degli dèi. Non da oggi, non da ieri, ma da sempre esse sono vive e nessuno sa da dove e da quando siano apparse. Io non potevo, a causa dell’arroganza di un uomo, pagare per una colpa nei confronti degli dèi. Sapevo bene di essere mortale e di dover morire, anche senza i tuoi editti. Ma dico che è un guadagno se morirò prima del tempo. Chiunque vive, come me, in mezzo a molti mali, non ottiene forse un guadagno morendo? Perciò per me incontrare il destino è certamente un dolore da poco, ma se avessi lasciato senza sepoltura il corpo del figlio nato da mia madre, per questo avrei vero e grande dolore. Per la morte invece non provo sofferenza alcuna. E se ora ti sembra che mi comporti da pazza, forse lo è chi mi accusa di essere tale». Secondo Jacques Maritain Antigone incarna l’idea del diritto naturale, ossia la coscienza che «vi è per virtù stessa della natura umana, un ordine o una disposizione che la ragione umana può scoprire e secondo la quale la volontà umana deve agire». I grandi filosofi dell’antichità sapevano che la legge naturale deriva da Dio ed è scritta nelle tavole di carne del nostro cuore dalla stessa saggezza creatrice. «È per questo che l’idea della legge naturale o non scritta era legata presso di loro a un sentimento di pietà naturale, a quel profondo rispetto sacro, di cui Antigone ha dato un’espressione indimenticabile». Per Paul Valadier l’Antigone di Sofocle è un caso esemplare, uno dei vertici della coscienza morale e religiosa dell’umanità: «Antigone non agisce per ostinazione, come le viene rimproverato: mentre disobbedisce agli ordini del re, la sua coscienza obbedisce in realtà a leggi non scritte, a leggi eterne, che nessuno ha mai letto in un codice e che tuttavia sono inderogabili. Quando, alcuni secoli più tardi, proclamano davanti al Sinedrio che “è meglio obbedire a Dio che agli uomini” (Atti degli Apostoli 5, 29), Pietro e Giovanni rinnoveranno la protesta morale dell’Antigone davanti all’arbitrio e si richiameranno ad una fedeltà che obbliga senza riserve».
IN PRINCIPIO STA L’EROINA DI ESCHILO. In questi giorni è stato pubblicato dall’Editrice Ave di Roma il libro di Anselmo Palini I testimoni della coscienza. L’Autore ce ne fa incontrare una mezza dozzina: Socrate, Massimiliano (un obiettore di coscienza nella Roma antica), Thomas More, Pavel Florenskij, Franz Jägerstätter (il contadino austriaco che rifiutò di partecipare ai crimini della guerra razzista di Hitler), la Rosa Bianca. Ed è con felice intuizione che sia «il caso Antigone» a far da prologo alle vicende di quegli splendidi protagonisti.
15 dicembre 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. La riforma da operare. La riforma da operare nell’insegnamento ufficiale è di far passare in secondo piano la casistica delle virtù morali e in primo piano la predicazione del regno e l’appello alla vita pura, bella, generosa (Jean Leclercq). Inquietum est cor nostrum. O ammirabile, desiderabile inquietudine del cuore umano sii per sempre senza tranquillità e senza riposo (Francesco di Sales).
L’AGIRE POLITICO NON C’ENTRA CON L’AZIONE SALVIFICA. Il Nuovo Testamento non mitizza lo Stato, le sue istituzioni, i suoi rappresentanti, né assolutizza mai la sfera politica. Non nutre illusione alcuna nei loro confronti. L’azione politica – statuale o no – non è trasfigurata e associata all’azione salvifica. Mai nel Nuovo Testamento si pone l’annuncio religioso a supporto di una ideologia politica, come facevano al tempo di Gesù i «rivoluzionari messianici» (Barabba era uno di loro e, a quanto pare, anche Giuda il traditore). I cristiani debbono portare il loro ethos, il loro senso di responsabilità e di servizio anche nei rapporti politico-sociali e nelle strutture statali, per umanizzare sempre di più gli uni e le altre; ma essi non configurano affatto lo Stato come una specie di riflesso terreno della Gerusalemme celeste e della sua gloria. Desideri del genere potevano ancora essere presenti nell’Antico Testamento, ma sono screditati per sempre nel Nuovo Testamento, che sconfessa ogni esercizio clericale del potere. Non ci può essere, insomma, a partire dal Vangelo, identità o confusione tra nazione e religione, regalità e sacerdozio, potere temporale e potere spirituale, politica e costruzione del regno di Dio. Cosa del tutto diversa è porre il problema, e il Nuovo Testamento lo fa apertamente, della mutua, funzionale, necessaria indipendenza e convivenza tra Chiesa e potere politico. Ma perché una tale possibilità pratica, estranea alla mentalità onnicomprensiva dello Stato nell’antichità classica, potesse sorgere, occorreva che lo Stato riconoscesse – cosa non facile e interamente nuova, rivoluzionaria! – accanto alla sua un’altra basiléia, la sovranità di Dio. È il senso del racconto della «moneta del tributo» riportato dai sinottici (Mc. 12, 13-17; Mt. 22, 15-22; Lc. 20, 20-26) e della distinzione di piani e di poteri mirabilmente enunciata da Gesù nella massima evangelica: Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio (Mt. 22, 21-22). Con queste parole Gesù affermava che il diritto dello Stato non è né esclusivo, né assoluto. È qui la radice prima di ogni liberazione, anche politica, dell’uomo e dello Stato medesimo in quanto esso è ricondotto alla sua finalità propria ed è così preservato dall’imbarbarimento. La sovranità di Dio non fa concorrenza a quella terrena, tanto diverso è il piano su cui si trova; e tuttavia quella novità del Vangelo è apportatrice di luce e libertà, anche nell’ambito civile e politico Gesù ha in tal modo restituito finalmente lo Stato alla sua corretta laicità e alle finalità sue proprie, preservandolo dalla degenerazione; nello stesso tempo ha indicato una delle condizioni permanenti e fondamentali perché la Chiesa possa adempiere la lex salutis animarum in cui consiste la sua sola ragion d’essere. Ebbene, è a partire da quelle parole di Cristo che è cominciata una nuova storia in cui per principio lo Stato non deve invadere ciò che attiene all’interiorità, alle convinzioni, alla fede dei credenti e alla missione religiosa della Chiesa; e, d’altra parte, la Chiesa è chiamata a non cedere alla più insidiosa temptatio sedutionis, quella di esercitare in nome di Dio un potere per il quale essa non è stata costituita.
UNA POESIA DI KAREN BLIXEN. Incontro. Ah, quando sei lontano e nessuno / più nomina il tuo nome. / Quando ovunque mi rechi sento / cupo e gelido un vuoto. // Comincio a credere che tu sia solo un sogno / nato dalle brame della tua mente, / e a questo sogno ho dato vita e nome / e in ultimo il tuo aspetto. // Ma quando poi ti vedo e posso / sentire ancora le tue forti parole / e posarti ancora il capo sulla spalla, / ascoltare ancora il suono della tua voce, // allora so che il resto è solo notte, /malvagi sogni che presto scorderò. / So che tu mi porti nella luce / e che in te dimorano la vita e il giorno.
22 dicembre 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. La cura radicale. Il cristianesimo è una cura radicale davanti alla quale ci si schermisce in tutti i modi… Manca la forza per questo salto disperato. Il Cristo viene a noi in povertà per non angustiarci con la sua magnificenza, ma nello stesso tempo viene in magnificenza come Colui nel cui nome tutto deve piegarsi in cielo e in terra. È soltanto quando Egli sarà per te: via, verità, vita che sarà per te tutto (Søren Kierkegaard). Il destino del cristianesimo. Il destino del cristianesimo dipende non soltanto da ciò che dirà e da ciò che farà il mondo moderno, ma innanzi tutto da ciò che farà e che dirà lo stesso cristianesimo raccogliendosi nelle proprie profondità, nella sua propria pienezza creatrice (Nikolaj Berdjaev).
«IN LUI ERA LA LUCE CHE ILLUMINA OGNI UOMO» (Gv. 1, 9). «Se dovessi morire questa sera e mi si domandasse ciò che mi commuove di più in questo mondo, direi che è il passaggio di Dio nel cuore degli uomini. Tutto si perde nell’amore, e benché sia vero che noi saremo giudicati sull’amore, è ugualmente vero che noi saremo giudicati dall’amore». Ho riletto tante volte queste parole dello scrittore Julien Green in uno dei volumi del suo Journal e in esse mi riconosco pienamente. Natale è per eccellenza il far memoria di quel passaggio, della venuta in questo mondo di Colui in cui abita la pienezza della divinità. Grazie al Natale la mia ragione e il mio cuore incontrano Dio sempre di nuovo, per la via più semplice, quella insegnataci dal Vangelo: io vado a Dio perché Dio è venuto a me, si è donato a ogni uomo nella persona di Gesù Cristo. Non c’è nulla, né ci potrà mai essere nulla di più bello, grande, magnifico di questo dono. Un dono sperato, atteso ed insieme infinitamente superiore ad ogni nostro desiderio. Con il Natale l’umanità è sollevata nella speranza. «Colui che accende / d’esser buono il gran tormento, / il Bimbo venuto a rapire / quel che c’è di materno / nel cuore di pietra dell’uomo» – sono versi di Clemente Rebora – apre a tutti una via che nessuno potrà più chiudere. Di qui nasce quel sentimento di gioia che si respira in questa festa più che in ogni altra. In Gesù si manifesta il Dio nascosto. Gesù rende possibile la nostra fede e ci fa entrare in dialogo con il Padre. Credere significa essere stupiti e cambiati dall’amore di Dio che si manifesta attraverso l’umanità di Cristo.
LA NOTTE DI NATALE. «Fernando Silva dirige l’ospedale pediatrico di Managua. Una vigilia di Natale rimase a lavorare fino a tardi. Si sentivano già gli scoppi dei razzi, e i lampi dei fuochi d’artificio illuminavano il cielo, quando Fernando si decise ad andarsene a casa, dove lo aspettavano per la festa. Mentre stava facendo un ultimo giro attraverso le corsie per vedere se tutto era in ordine, sentì d’un tratto un lieve rumore di passi alle spalle. Passettini di bambagia. Nella penombra, lo riconobbe, era un bambino che non aveva nessuno. Fernando riconobbe quel viso già segnato dalla morte e gli occhi che chiedevano scusa… Fernando gli andò vicino e il bimbo lo sfiorò con la mano: “Diglielo…” sussurrò. “Di’ a qualcuno che io sono qui”». Questo brano è di Eduardo Galeano ed è tratto da Il libro degli abbracci (Milano 2005, p. 58).
INNO DI NATALE. Vieni alla luce dolce Bambino, / questo è il giorno del tuo natale (Emerge, dulcis Pusio, / hic ille natalis dies)… Dal seno verginale di tua madre, / con te, Gesù, nasce / un’umanità nuova, una fulgida luce… Il tuo vagito segnò sulla terra / l’inizio di una primavera che, in ogni angolo, / fa sbocciare aiuole fitte di fiori… Dolce Bambino, santa è la culla / della tua mangiatoia, / e tu sei il nostro re per sempre… L’autore, Aurelio Prudenzio Clemente, visse fra il 348 e il 405. Di origine spagnola, fu prima avvocato e poi influente uomo politico alla corte dell’imperatore Teodosio, suo protettore. A 57 anni si ritirò dall’attività pubblica, dedicandosi alla vita religiosa e alla poesia. Il testo integrale dell’Inno di Natale (vv. 1-80) si può leggere nel libro Inni preghiere cantici. Poesia latina cristiana dal IV al XIII secolo (Brescia 2003).
29 dicembre 2005.
LINEA RECTA BREVISSIMA. Il cristiano si deve intravedere, non si deve vedere. Per molto tempo la grande preoccupazione del cristiano era quella di manifestarsi e di conquistare: voi siete cristiani, questo si deve vedere. Oggi noi sentiamo che è più vero dire: voi siete cristiani, questo si deve intravedere non vedere. Ego sum Deus absconditus. Essere cristiani è scomparire sotto una certa trasparenza più che sforzarsi a troppa evidenza – è prestarsi a lasciar agire in sé un Essere, più che agire in Suo nome e al Suo posto. (Emmanuel Mounier) Conciliare due attitudini contrarie. Vi sono sempre almeno due attitudini contrarie da seguire: si tratta di essere dolci senza essere vili, staccati ma non indifferenti, forti ma non brutali, appassionati ma senza amor proprio (Levi Appulo).
LA «POLITICA» DI SAN FRANCESCO. Francesco d’Assisi è uno dei più geniali e fedeli imitatori di Cristo. Apostolo della pace interiore, egli fu anche appassionato persuasore di pace tra uomini che – a cominciare dalla sua città – erano ferocemente divisi da odi, rivalità, interessi. Ma come egli adempì la sua missione? Jacques Paul nelle considerazioni conclusive della voce «Pace» nel Dizionario francescano di spiritualità (Padova 1983) ha colto perfettamente, con estrema limpidezza, lo «stile» del grande Santo quando ha scritto: «A Francesco non incombe l’obbligo di negoziare degli accordi, di equilibrare le concessioni, di ricevere dei giuramenti. A lui spetta il compito di creare le condizioni spirituali che permettano a ciascuno di optare da solo in favore della pace e della concordia. Il Vangelo, alimentando questa visione spirituale, consente anche di far fronte agli avvenimenti» (col. 1196). Questo passo è illuminante nella sua brevità. A me pare che si muova nella stessa direzione anche il filosofo ebreo Martin Buber nella lettera del 31 maggio 1923 a Ernst Simon: «Ciò che lei chiama politica religiosa non è più politica… Non esiste una politica religiosa, tutt’al più ci sono politici religiosi. Questi sono coloro che sono consapevoli della vasta problematica relativa alla distanza fra il regno di Dio e quello dell’uomo… Il profeta, che parla dell’essenza della politica, non è un politico, né può diventarlo… Se un profeta si comportasse in questo modo, avrebbe rinnegato e perduto la sua profezia. La politica religiosa è pensabile solo come superamento della politica stessa» (M. Buber, La modernità della Parola. Lettere scelte 1918–1938, Firenze 2000, p. 127).
«NELL’EGUAGLIANZA DEL DIRITTO COMUNE». Faust dice con profonda verità: «Bisogna rinunciare a dominare per adorare»; il clericalismo, alla sua radice, è rinuncia ad adorare per dominare, spinta – attraverso vari gradi – sino al sacrilegio di fare dell’Assoluto e dell’Eterno dei semplici mezzi di conquista e di potere. Vi è però un’evidenza che s’impone a tutti: il clericalismo, nella sua forma più detestabile (il più spesso esso è frutto di confusioni di piani e di incoerenza di mezzi, più che di una deliberata perversione del fine), è una tra le mille maschere di quella sete di potenza, di quella libido dominandi insorgente proprio dal ripudio del Cristianesimo, e perciò solo anime profondamente religiose possono difendersene, perché la loro fede le mette nelle migliori condizioni per misurarne la capacità di degradazione. «Dio – scrive stupendamente P. Giulio Bevilacqua in Equivoci. Mondo moderno e Cristo (Brescia 1953) – per salvarci ha rinunciato al privilegio abbracciando il diritto comune, divenendo cioè simile in tutto a noi, ad eccezione del peccato, ed il Cristo ci ha additato così, nell’eguaglianza del diritto comune, il mezzo principe di redenzione. Su questa strada il clero incontrerà nuovamente il suo popolo, il tempio la sua libera respirazione, la società il senso smarrito del sacro. Società cristiana sarà allora la società nella quale lo spirito del Vangelo sarà pienamente libero di circolare come lievito di elevazione».