5 gennaio 2006.
Linea recta brevissima. Visione umanistica e non razziale della cultura. Chiamiamo Greci coloro che hanno in comune con noi la cultura, piuttosto che coloro che hanno lo stesso sangue. Il valore della parola. Una parola veridica, conforme alla legge e giusta, è l’immagine di un’anima buona e leale. La parola adeguata è il più sicuro segno del pensiero giusto. (Isocrate) Una bella dedica. Timoteo, il grande stratega che era stato alunno e amico carissimo di Isocrate, inaugurò ad Eleusi una statua del maestro con questa nobile dedica: «Per onorare non solo la sua grande intelligenza, ma anche l’incanto della sua amicizia» (Plutarco, Isocrate).
Quarant’anni fa un grande evento dello Spirito. L’8 dicembre 1965 si chiudeva solennemente il concilio Vaticano II, «la grazia più grande fatta da Dio alla Chiesa del XX secolo – secondo le parole di Giovanni Paolo II – l’evento ecclesiale più significativo e determinante». Così in quel giorno, in piazza San Pietro, Paolo VI apriva i sette Messaggi conciliari al mondo, annunciatori di pace e di saluto per le moltitudini in attesa. Ecco le sue parole nobili e intense: Venerabili Fratelli, l’ora della partenza e della dispersione è suonata. Fra qualche istante, voi lascerete l’assemblea conciliare per andare incontro all’umanità, per portarle la buona novella del Vangelo di Cristo e del rinnovamento della sua Chiesa, per il quale abbiamo lavorato insieme durante quattro anni. Momento unico questo; momento di un significato e di una ricchezza incomparabili! In questo raduno universale, in questo punto privilegiato del tempo e dello spazio, convergono nello stesso tempo il passato, il presente e l’avvenire. Il passato: infatti è riunita qui la Chiesa di Cristo, con la sua tradizione, la sua storia, i suoi concili, i suoi dottori, i suoi santi… Il presente: infatti noi ci lasciamo per andare verso il mondo di oggi, con le sue miserie, i suoi dolori, i suoi peccati, ma anche con le sue prodigiose conquiste, i suoi valori, le sue virtù… L’avvenire, infine, è là, nell’appello imperioso dei popoli a una maggiore giustizia, nella loro volontà di pace, nella loro sete cosciente o incosciente di una vita più alta: quella precisamente che Cristo può e vuole dar loro.
Manodopera. Mohammed Ashraf non va a scuola. Da quando esce il sole fino a che spunta la luna, lui taglia, ritaglia, perfora, mette insieme e cuce palloni da calcio, che escono rotolando dal Paese pachistano di Umar Kot verso gli stadi del mondo. Mohammed ha otto anni. Fa questo dall’età di cinque. Se sapesse leggere, e leggere in inglese, potrebbe capire l’iscrizione che lui appiccica su ognuna delle sue opere: «Questo pallone non è stato fabbricato da bambini» (Eduardo Galeano, Le labbra del tempo, Milano 2004, pag. 58).
«Piccoli annunci» di una grande poetessa. Chiunque sappia dove sia finita / la compassione (l’immaginazione del cuore) / si faccia avanti! Si faccia avanti! Lo canti a voce spiegata / e danzi come un folle / gioendo sotto l’esile betulla, / sempre pronta al pianto. Insegno il silenzio / in tutte le lingue / mediante l’osservazione / del cielo stellato, / o d’un fiocco di neve. Ripristino l’amore. / Attenzione! Offerta speciale! / Siete distesi sull’erba / immersi nel sole / mentre il vento danza / (quello che in giugno / guidava il ballo dei vostri capelli). / Scrivere: a Sogno. Si cerca persona qualificata / per piangere / i vecchi che muoiono negli ospizi. Si prega / di candidarsi senza certificati / e offerte scritte. / I documenti saranno stracciati / senza darne ricevuta (Wislawa Szymborska, Appello allo yeti, Milano 2005).
12 gennaio 2005.
Linea recta brevissima. L’avvento di Dio è sempre possibile. Un’istituzione, che si rifiuta di considerare l’avvento di Dio sempre possibile nelle anime, dimentica il valore dell’attesa, non comprende la dinamica del provvisorio e si condanna all’indurimento. Colui che non aspetta più niente non ha da dire più niente, diventa statico e si priva di ogni potere di comunicare la Parola vivente di Dio. Questa riflessione è tratta dal libro La dinamica del provvisorio di Roger Schultz di Taizé, la comunità francese anima del movimento ecumenico. Il 17 agosto 2005 Roger Schultz fu ucciso mentre pregava insieme a una folla di giovani da una povera malata di mente.
L’importanza che ha Israele nel dialogo ecumenico. Il 1933 sarà ricordato per sempre nella storia dell’umanità per la ragione incisa a lettere di bronzo nella sala della Shoah, cioè dell’Olocausto, al Museo della Diaspora a Tel-Aviv: «L’anno millenovecentotrentatre dell’era cristiana, Adolf Hitler salì al potere in Germania. Nella sua epoca, i tedeschi e i loro complici sterminarono sei milioni di ebrei, tra i quali un milione e mezzo di bambini ebrei; chiuse nei ghetti, le vittime lottarono disperatamente per la loro vita, mentre il mondo rimaneva in silenzio». La Shoah è un elemento rivelatore. Con essa sono messe in luce realtà dinanzi alle quali non è permesso chiudere gli occhi, sì che ogni silenzio sulla Shoah è sempre un cattivo silenzio. È dunque di lì che bisogna partire per cogliere l’importanza decisiva che dopo la Shoah ha Israele nel dialogo ecumenico, ma anche per l’autocomprensione dell’identità cristiana delle Chiese. È Israele, infatti, che costituisce l’origine e il fondamento delle Chiese cristiane, ognuna delle quali deve far suo il monito di Paolo. «Sappi che non sei tu che porti la radice, ma è la radice che porta te» (Lettera ai Romani 11, 18). Da questo punto di vista, quali che fossero le sviste e le valutazioni discutibili contenute nei suoi scritti sulla situazione del 1864 degli ebrei in Polonia e in Russia, resta pienamente valida l’intuizione centrale di Vladimir Solov’ëv: «La questione ebraica è anzitutto una questione cristiana». Ed è con profonda soddisfazione che il prologo alla Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani è diventata da alcuni anni una giornata dedicata al dialogo con Israele e a suscitare una nuova amicizia tra ebrei e cristiani. Michel Remaud nel suo libro Cristiani di fronte a Israele (Brescia 1985), ha ricordato con forza che «il Cristianesimo non è una religione autoctona». Non è, infatti, pensabile il Nuovo Testamento senza l’Antico, o un sant’Agostino che si rivolga a Dio senza la poesia orante dei Salmi. Il Cristianesimo implica un doppio riferimento da cui non può liberarsi senza snaturarsi: alla Scrittura, alla quale il Nuovo Testamento rimanda di continuo, e al popolo di Israele, con cui il cristiano proveniente dal paganesimo si trova messo in comunione dalla fede in Cristo. Questa meditazione si compie in Gesù, ma Gesù nella sua persona e nella sua missione non è dissociabile dal suo popolo. E l’esperienza mostra che, pur senza aderire alla fede in Cristo, Israele rimane per noi in larga misura l’interprete della Parola. Gesù non può essere degiudaizzato per essere tirato dalla parte di un Cristianesimo che pretenda di bastare a se stesso, rifiutando l’Antico Testamento. Rifiutando l’Antico Testamento, si mutila infatti il Vangelo. E disinteressandosi di Israele, ci si stacca dalle proprie radici perché la comunione con Israele è inscritta nell’identità cristiana stessa.
L’angolo della poesia. Non esiste un vascello veloce come un libro. Non esiste un vascello veloce come un libro / per portarci in terre lontane / né corrieri come una pagina / di poesia che s’impenna / questa traversata / può farla anche il povero / senza oppressione di pedaggio / tanto è frugale / il carro dell’anima (Emily Dickinson in Le stanze dell’alabastro).
19 gennaio 2006.
Linea recta brevissima. Una riflessione tutt’altro che irriverente sul Natale. Il Natale mi fa pensare a quelle anfore romane che ogni tanto i pescatori con le loro reti tirano fuori dal mare. Sono tutte ricoperte di conchiglie e di incrostazioni marine che le rendono irriconoscibili. Per ritrovarne la forma, bisogna togliere tutte le incrostazioni. Così il Natale. Per ritrovarne il significato autentico, bisognerebbe liberarlo da tutte le incrostazioni consumistiche, festaiole, abitudinarie, cerimoniose eccetera eccetera. Poi si vedrebbe (Alberto Moravia). Se il lievito non è più fermento. Aderire alle istituzioni ecclesiali, essere solidali con esse significa diventare veramente capaci di essere il lievito nella pasta. Quando il lievito è un vero fermento, solleva la pasta e fa scoppiare la crosta che si forma sempre sulle istituzioni invecchiate (Roger Schultz di Taizé).
La memoria corta del nostro calcio. Non sopporto più il martellamento montato intorno a qualunque mediocre sfida calcistica che, per le esigenze del nuovo football, ostaggio del business, deve essere presentata e pompata dai media come l’evento del secolo. Tutto è falso e intriso di ipocrisia e dà l’impressione che lo sport in generale e il calcio in particolare non appartengano più al pubblico, ma a una conventicola, a una lobby, che usa a suo piacimento gli spettatori, i tifosi, gli ultrà. E l’informazione ha certamente un ruolo fondamentale di propaganda in quest’affare e per questo, come il giornalismo economico o politico, elude, fa finta di non vedere, dimentica, ignora, anche in modo plateale. L’ultimo episodio di questo tipo di comportamento riguarda l’assoluzione in appello, al Tribunale di Torino, del medico sociale della Juventus Riccardo Agricola, condannato in primo grado a quasi due anni di carcere, e dell’amministratore delegato della stessa società Antonio Giraudo, che erano accusati, l’uno di aver deciso e l’altro di aver autorizzato un abuso di farmaci nei riguardi dei tesserati della società più blasonata d’Italia, negli anni d’oro della prima Juve di Lippi. E questo per aumentare artificialmente il potenziale psicofisico dei giocatori, allontanare la soglia del dolore e forzare i limiti della loro resistenza. Insomma, per truccare le regole del gioco. Il giorno dopo questa sentenza l’impressione, leggendo la maggior parte dei giornali, era che l’indagine, durata quasi sette anni, del giudice Guariniello, fosse stata un accanimento giudiziario, reso possibile da una perizia super partes dell’ematologo prof. D’Onofrio, che aveva sostenuto l’evidente somministrazione agli atleti, da parte del dottor Agricola, anche dell’Epo che tante vittime ha causato negli ultimi anni nello sport moderno (Gianni Minà su Il Manifesto del 18 dicembre 2005).
Versi di Emily Dickinson. Un messaggio ogni giorno. Tutto quello ch’io so / è un messaggio ogni giorno dall’immortalità. / Tutto quello ch’io vedo / è il presente e il domani, / forse l’eternità. / Ed il solo che incontro / è Dio. Io canto per riempire l’attesa. Io canto per riempire l’attesa. / Finché risuoni vicino il suo passo, / e insieme camminiamo verso il giorno, / l’uno all’altro narrando di come cantammo / per scacciare la tenebra. Il paradiso dipende da noi. Il paradiso dipende da noi. / Chiunque voglia / vive nell’Eden, nonostante Adamo / e la cacciata (da Poesie, traduzione di Margherita Guidacci, Milano 2004).
26 gennaio 2006.
Linea recta brevissima. La più grande lezione della mia vita. Dalla osservazione della irriducibilità delle credenze ultime ho tratto la più grande lezione della mia vita. Ho imparato a rispettare le idee altrui, ad arrestarmi davanti al segreto di ogni coscienza, a capire prima di discutere, a discutere prima di condannare (Norberto Bobbio). La partenza e l’arrivo. Mettiti in cammino anche se l’ora non ti piace. Quando arriverai l’ora ti sarà comunque gradita (Proverbio tuareg). Il desiderio di vivere. Il desiderio di vivere rinasce in noi ogni volta che prendiamo di nuovo coscienza della bellezza e della felicità (Marcel Proust).
In forma di preghiera. [Per la ventitreesima domenica dopo la Trinità]. C’è una preghiera di Alberto Magno, il maestro di Tommaso d’Aquino, poco conosciuta ma di straordinaria sagacia. In essa sono individuati comportamenti, pericoli e trappole di stampo prettamente clericale da cui il cristiano deve guardarsi perché snaturano l’essenza stessa del messaggio di Gesù e della fede in Dio. Eccone il testo: «Signore Gesù Cristo, insegnaci a capire, a scoprire le trappole di quanti vogliono sedurci nel tuo nome. Insegnaci a non approvarli per compiacerli, a seguire in tutto la ragione, a schivare le occasioni di falsa pietà e le manifestazioni di pietà troppo spinta, a non dire niente che faccia torto ad altri o che noi non si creda giusto. Concedici di distinguere ciò che rientra nell’ordine della natura e ciò che la grazia ispira, affinché in virtù della nostra intelligenza, la quale ci guida con prudenza nella vita spirituale non meno che in quella temporale, diamo a Dio quel che è di Dio e a Cesare quel che è di Cesare».
L’angolo della poesia. Non conosciamo mai la nostra altezza. Non conosciamo mai la nostra altezza / finché non siamo chiamati ad alzarci. / E se siamo fedeli al nostro compito / arriva al cielo la nostra statura. // L’eroismo che allora recitiamo / sarebbe quotidiano, se noi stessi / non c’incurvassimo di cubiti / per la paura di essere dei re. Nessuno resta defraudato dal Cielo. Nessuno resta defraudato dal Cielo. / Anche se il Cielo sembra un ladro, rende / in qualche dolce modo, occultamente, / secondo che decide il suo volere (Emily Dickinson, Poesie, traduzione di Margherita Guidacci, Milano 2004).
2 febbraio 2006.
Linea recta brevissima. Un misto d’importanza decisiva. Tutta l’arte di vivere consiste in un misto di lasciar perdere e di tener duro (Havelock Ellis). La felicità più grande. La massima felicità viene raggiunta quando un uomo vuol essere quello che è (Erasmo da Rotterdam). L’anima e il suo interprete. L’anima, per fortuna, ha un interprete veritiero nell’occhio (Charlotte Brontë). Le possibilità che ancora ci restano. Chiedete consiglio non alle vostre paure ma alle speranze e ai sogni. Non pensate alle vostre frustrazioni, al vostro potenziale ancora irrealizzato. Non preoccupatevi dei tentativi falliti, ma delle possibilità che ancora vi restano (Giovanni XXIII).
Si può affermare che tutto è grazia dopo Auschwitz? L’espressione tutto è grazia è di Teresa di Lisieux e fu pronunciata da lei sul letto di morte, tra immense sofferenze, il 5 giugno 1897. La stessa espressione si ritrova nel Diario di un curato di campagna di Georges Bernanos. Anche il curato bernanosiano pronuncia quelle parole prima di morire. Possiamo ridire anche noi dopo Auschwitz quelle tre parole? Ecco quello che scrive Rocco Pititto nel suo libro Ad Auschwitz Dio c’era. I credenti e la sfida del male, Roma 2005, pp. 36-37. Nel tempo doloroso dopo l’immane tragedia di Auschwitz, quando nell’assoluto silenzio di chi doveva parlare si è consumato il male più radicale, affermare che, nonostante il dominio del male nel mondo, tutto è grazia significa essere certi che il mondo è sempre il mondo di Dio, il luogo dell’incontro con Lui e niente è irrimediabilmente perduto per l’uomo, che è alla sua ricerca. Esso è la cifra segreta di Dio e si dà al credente come offerta di ritrovamento di un senso maggiore che, consentendo di guardare oltre la caducità della scena mondana e i tanti fallimenti della storia umana, porta a trascendere gli avvenimenti di cui si è spettatori e testimoni, per ritrovare in loro i segni dell’azione di Dio nel mondo. È attraverso questi segni che Dio governa il mondo e si rende presente agli uomini, chiamati a completare l’opera incompiuta della creazione. Dio è sempre presente nel mondo ed è sempre accanto all’uomo, soprattutto nel tempo della prova, anche quella più difficile. La storia del Novecento non è solo disseminata delle guerre combattute contro l’uomo e della distruzione delle speranze, della tragedia immane di Auschwitz e dello strazio che dell’uomo lì e altrove, come in altri passaggi decisivi di questo tempo, si è consumato impunemente contro ogni logica di umanità. C’è anche come partita attiva una parte di bene, forse non molto appariscente, ma ugualmente decisiva, testimonianza dell’amore di Dio per l’uomo, che rende meno buia l’esistenza umana. Ad Auschwitz Dio c’era, perché anche lì, come dovunque nel mondo l’uomo è stato negato e ucciso, il fuoco dell’alleanza non si è mai spento e ha continuato a bruciare. È vero che durante la notte delle nostre guerre, il fuoco dell’Alleanza sembrava definitivamente spento dall’orrore dei forni crematori. Ma l’amore non può morire: è presente nell’essere di ogni creatura, di ogni vita. La scelta fatta da Mosè al Sinai tra la vita e la morte, tra la benedizione e la maledizione, si ripropone agli uomini del nostro tempo. La sua urgenza è ancora maggiore se si considerano i rischi mortali che ci minacciano e che ci impongono un rinnovamento spirituale senza il quale l’avvenire dell’umanità – e probabilmente anche quello di ogni traccia di vita sul nostro pianeta – rischierebbero di essere definitivamente compromessi.
L’angolo della poesia. Attesa. Le cose che ignoriamo / e le persone del nostro presagio / sono in cammino. / Ci sforziamo di fingere fermezza / come si deve, ma la gioia solenne / ci tradisce, così come tradisce / il giovinetto appena fidanzato. Per fare un prato. Per fare un prato occorrono un trifoglio e un’ape. / Un trifoglio ed un’ape / e il sogno. / Il sogno può bastare / se le api sono poche. (Emily Dickinson, Poesie, Milano 2004, traduzione di Margherita Guidacci)
9 febbraio 2006.
Linea recta brevissima. Il lavoro più arduo. Pensare è il lavoro più arduo che ci sia, ed è probabilmente questo il motivo per cui così pochi ci si dedicano (Henry Ford). La pace e la guerra. La pace non è soltanto migliore della guerra, ma è anche infinitamente più ardua (George Bernard Shaw).
Il Vangelo e l’Europa. Senza Atene, senza Roma, senza la Chiesa cattolica l’Europa non sarebbe. L’Europa avrebbe, per questo, una sorta di monopolio della fede cristiana? Affermarlo sarebbe un’eresia, né si può far coincidere il Cristianesimo con la nostra civiltà perché il Vangelo è in grado di fecondare tutte le civiltà e le culture. La sua forza sta, infatti, nella universalità della chiamata alla fede e nel dinamismo che immette nella storia a vantaggio di tutti, ma conferendo un innegabile primato alle moltitudini chiamate per nome nel Discorso delle Beatitudini. La nostra civiltà in ciò che ha di più nobile è segnata senza dubbio dal Vangelo, anche se il Cristianesimo non si identifica e non si esaurisce in nessuna delle cristianità storico-politiche che si sono succedute nel nostro continente. Orbene – quali che siano i suoi limiti e le sue colpe – la nostra storia ha portato a un esito di straordinaria importanza: in Europa la libertà ha prevalso perché è stato impossibile per una sola delle forze in gioco soffocare le altre. La libertà è così diventata nello stesso tempo il risultato della storia d’Europa e il valore, dal cui riconoscimento pratico trae origine e regola la varietà dei principi e delle istituzioni che caratterizzano la nostra civiltà. Non che l’assoggettamento del tutto a un solo potere, a un solo principio, a una sola nazione, a una sola razza, a una sola ideologia non sia stato tentato, e più volte; ma è sempre provvidenzialmente fallito. L’Europa, però, ha potuto resistere alle violente negazioni della sua civiltà generate dal suo interno e farsi portatrice di libertà nel mondo, perché il messaggio religioso che l’ha fecondata, il Vangelo, porta dentro di sé inequivocabilmente il principio stesso della pluralità delle sfere della vita. Per questo noi non cesseremo mai di ringraziare gli evangelisti che hanno raccolto dalla bocca di Cristo e ci hanno trasmesso le grandi parole: «Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» (Mt. 22, 21).
Con l’evangelico Date a Cesare nasce la libertà di coscienza. Questo punto essenziale del messaggio di Cristo è entrato per nostra fortuna nel DNA della storia d’Europa, ma anche le altre civiltà e le religioni non cristiane, soprattutto quelle islamiche, hanno bisogno di scoprirne la permanente validità. Lo aveva ben capito François Guizot, l’autore di formazione calvinista della Histoire générale de la civilisation en Europe e della Histoire de la civilisation en France, apparse nella prima metà dell’Ottocento. Egli ravvisa, infatti, nello svolgersi della civiltà europea – la quale non è né ristretta, né esclusiva, né stazionaria – qualcosa di multiforme e persino di tempestoso, che però «si ricollega agli stessi principi e tende a produrre quasi ovunque risultati analoghi». Per Guizot la differenza di fondo della storia d’Europa rispetto a quella di altri continenti ha la sua origine in «un grande fatto»: «La Chiesa dette inizio a un grande fatto, la separazione del potere spirituale e del potere temporale. Questa separazione è la sorgente della libertà di coscienza (Cette séparation c’est la source de la liberté de conscience)».
L’angolo della poesia. L’Eternità è tanto vicina. È un errore di calcolo: / «Vien poi l’Eternità» / diciamo, come se fosse una stazione. / Mentre è tanto vicina / che mi accompagna nella passeggiata / e condivide la mia casa / ed amico non ho più pertinace / di questa Eternità (Emily Dickinson, Poesie, Milano 2004, traduzione di Margherita Guidacci).
16 febbraio 2006.
Linea recta brevissima. Bisogna imparare ad accettarsi. In genere i nostri errori non sono eventi di una gravità estrema. In un mondo in cui abbiamo la certezza di incorrervi nonostante tutte le cautele, una moderata indulgenza sembrerebbe più salutare e vantaggiosa di un eccessivo nervosismo (William James). Ciò che ci rende limitati. Gli uomini sono ansiosi di migliorare le proprie condizioni, ma non vogliono saperne di migliorare se stessi; e questo li rende limitati (James Allen, romanziere americano, 1849-1925). Il punto di arrivo più alto. Quello che mi sembra il punto d’arrivo più elevato e difficile dell’arte non è la capacità di indurre al pianto o al riso, o di suscitare la nostra lussuria o la nostra collera, ma quello di fare quanto fa la natura e cioè colmarci di meraviglia (Gustave Flaubert).
Eredità classica e civiltà planetaria. Il nostro più illustre antichista della seconda metà del Novecento, Italo Lana, nel saggio Il latino nella cultura e nella scuola, pubblicato negli Annali della Pubblica Istruzione (1983, 6, pp. 662-63) scriveva: «Quanto più gli uomini si muovono verso una civiltà planetaria, tanto più è necessario che ogni civiltà particolare approfondisca la conoscenza del proprio retroterra, al fine di conoscere meglio se stessa ( e il proprio presente), per progettare con più chiara consapevolezza il proprio futuro… Proprio perché il mondo di oggi va rapidamente mutando e ancora non sono plasmati i lineamenti del futuro, proprio per questo, per sottoporre ad un vaglio, severo quanto si vuole, il patrimonio di idee, di valori, di convinzioni, di principi generali che è stato elaborato dalle generazioni passate e trasmesso a noi, dobbiamo mettere i giovani di oggi nella condizione di poter direttamente verificare come quelle idee, quei valori, quelle convinzioni si siano formate e affermate. Una volta avvenuta questa presa di contatto e questa analisi approfondita, il giovane accetterà o rifiuterà o integrerà quel patrimonio». Italo Lana aveva fiducia nella validità di ciò che faceva: egli sapeva che molti dei valori che possono gettare luce sulla condizione umana all’alba di questo terzo millennio sono stati scoperti dal mondo greco e romano e solo lì, vicino alle sorgenti, se ne possono studiare le prime commoventi formulazioni.
Poesia inglese contemporanea. Il libro e l’albero. Ogni albero è sacro / ed è peccato / trattare male un libro. / È peccato spingere un libro da una parte / con il piede, / è peccato sbatterlo forte / contro un tavolo, / è peccato buttarne uno sbadatamente / dall’altra parte della stanza. / Devi imparare a girare le pagine con garbo, / senza offendere l’albero / dal cui legno è stata fatta la carta. Ars poetica. Mi hai chiesto chi invidiassi di più: / Quale scrittore? Quale poeta? / Chi vorrei essere / se potessi scegliere / di essere qualcuno diverso da me? // Shakespeare, ho detto, / quasi automaticamente. / No, no. Hai protestato – / Sii più originale. / Dimmi qualcuno / a cui nessuno pensa. // Ecco, ci sono. / Ma non è necessariamente lo scrittore / che invidio, ma la poesia. / E non è semplicemente la poesia, ma la cadenza / che mi commuove. // E per essere onesta / dovrei aggiungere che non è / solo la cadenza / che mi colpisce ma anche / il modo in cui certi versi sono cantati / da certi cantanti – / certi cantanti con certi / tipi di voce (Sujata Bhatt è nata in India nel 1956. Nel 1988 le fu conferito il Commnwealth Poetry Price).
23 febbraio 2006.
Linea recta brevissima. Fame e sete di giustizia. Il cristianesimo autentico è fame e sete di giustizia; ma fame e sete di giustizia che abbraccia Dio e l’uomo e che confessa di non poter arrivare a Dio se non attraverso la realizzazione della giustizia per l’uomo. Nella Prima lettera Giovanni fa un’affermazione che non poteva essere più chiara e forte: «Come puoi amare Dio che non vedi se non ami l’uomo che vedi». Il pianto è inconfondibile con il piagnisteo. Per il cristiano il pianto è inconfondibile col piagnisteo: nel piangere vi è l’affermazione di un valore divino minacciato, nel piagnisteo vi è il rovesciamento di ogni scala di valori reali. Nel piangere vi è la pienezza dell’offerta e nel piagnucolare vi è il rifiuto di donarsi; nel pianto vi è l’incontro volontario con la croce, nel piagnisteo vi è la fuga. Per questo, nell’universo di Cristo, le creature più infelici sono quelle dalle ciglia inaridite, quelle che non hanno afferrato il pianto come dono e come onda purificatrice della vita: Giuda, Simone il fariseo, l’Epulone. (Giulio Bevilacqua)
La tragedia delle democrazie. La tragedia delle democrazie moderne consiste nel fatto che non siano ancora riuscite a realizzare la democrazia. Molte sono le cause di questo fallimento. Anzitutto i nemici dell’ideale democratico non hanno mai deposto le armi… Un’altra grande causa è il fatto che questa attuazione esigeva ineluttabilmente che fosse compiuta sia nell’ordine sociale, sia nell’ordine politico. Ma la causa principale è d’ordine spirituale. Nel suo principio essenziale questa forma, quest’ideale di vita comune che si chiama democrazia deriva dall’ispirazione evangelica, senza la quale non può sussistere. Purtroppo si sono viste le forze direttive delle democrazie moderne rinnegare il Vangelo e il cristianesimo, in nome della libertà umana, e le classi dirigenti degli Stati cosiddetti cristiani combattere le aspirazioni democratiche in nome della religione (Jacques Maritain in La tragedia delle democrazie, Roma 1942).
Le marche: tra snobismo e costoso inganno. Un gesto di rifiuto di fronte al bicchier d’acqua del rubinetto e subito il sommelier comparve al tavolo e lesse a voce alta la lunga lista delle acque imbottigliate. I clienti assaggiarono alcune marche sconosciute in California, a circa sette dollari la bottiglia. Ne bevvero diverse, mentre mangiavano. Molto buona parve loro l’acqua Amazonas, della foresta brasiliana, ed eccellenti le marche spagnole dei Pirenei, ma la migliore fu la francese Eau de Robinet. Dal robinet, dal rubinetto, venivano tutte. Le bottiglie, etichettate da qualche stampatore complice, erano state riempite in cucina. Quel pranzo fu filmato con una cinepresa nascosta in un caro e prestigioso ristorante di Los Angeles, e venne mostrato in televisione, nello show di Penn e Teller (Eduardo Galeano, Le labbra del tempo, Milano 2004, pag. 66).
L’angolo della poesia. Dà a ciascuno la sua morte. Mio Dio, / dà a ciascuno la sua morte, / la morte che fiorì / da quella stessa vita / in cui ciascuno / amò, pensò, sofferse. Compagno dolce d’ogni mia pena. Ho bisogno di te, che sei partecipe / d’ogni tormento mio, / compagno dolce d’ogni mia pena, mio solo fratello. / Ho bisogno di te, come del pane! (Rainer Maria Rilke, Il libro d’Ore, Firenze 1967)
2 marzo 2006.
Linea recta brevissima. Il cammino verso l’autodistruzione. Come il ferro è consumato dalla ruggine, così gli invidiosi sono consumati dalla loro stessa passione (Antistene, filosofo greco vissuto tra il 444 e il 365 a.C. Fondò la Scuola Cinica). L’ipocrisia diffusa. La maggior parte della gente, soprattutto se appartiene al ceto dominante, passa la vita a mettersi e togliersi quella o questa maschera (Gore Vidal, saggista americano). Segno rivelatore. Niente rivela meglio il carattere di una persona di ciò che suscita la sua ilarità. Come se fossero quello che dovrebbero essere. Tratta le persone come se fossero quello che dovrebbero essere. In tal modo incoraggerai le loro disposizioni a far sempre meglio. (Johann Wolfgang Goethe)
Il ruolo dei cosiddetti «atei devoti». Pietro Scoppola ci ricorda nel libro-intervista La democrazia dei cristiani (Roma-Bari 2005) le nove tesi per l’alternanza, che sono del 1988, in cui si precisava come la Chiesa, in un regime di alternanza, non deve assumere carattere di parte. In questo modo il suo ruolo nel civile e nel politico non cessa; anzi, può essere accentuato proprio perché la Chiesa deve operare nella ricostruzione delle riserve etiche della democrazia. Contro questa impostazione, che è la nervatura di fondo della cultura cattolico-democratica, c’è una presenza nuova nella vita pubblica italiana, quella dei cosiddetti «atei devoti», per usare la formulazione di Filippo Andreatta, cioè le persone che fanno un uso pubblico, strumentale della religione e si servono di un cattolicesimo di facciata per dare forza alla tesi dello scontro di civiltà. Ebbene io sono convinto che nel fenomeno degli «atei devoti» vi sia il grave rischio di una strumentalizzazione dei principi e dei valori della Chiesa a fini politici contingenti nel mercato politico quotidiano. Dunque, da parte di alcuni esponenti del centro-destra c’è il tentativo di prendere a prestito un pensiero forte o alcuni lineamenti di un pensiero forte, ben presente nella tradizione italiana, che è il pensiero cattolico, utilizzandolo nella sua parte più precettistica, nel suo aspetto più rigido. Naturalmente non si sentono mai nei discorsi di questi «atei devoti» riecheggiare le espressioni di papa Woityła contro la guerra o le sottolineature del dialogo nord-sud o, anche, alcuni elementi della dottrina sociale della Chiesa, ma solo quella parte della dottrina che può essere utile a dotare di una cultura forte la destra politica. Nel 1929 Sturzo, al momento della firma dei Patti del Laterano, osservava che in Italia si assisteva ad una sorta di confessionalizzazione dello Stato e di sacralizzazione di un movimento politico che non ne aveva il titolo. In effetti, adesso come allora operazioni del genere costituiscono di per sé qualcosa di profondamente pericoloso, soprattutto per chi crede, perché esse riducono la presenza cristiana a un mero fatto socio-culturale e a copertura ideologica, snaturando nel profondo il messaggio del Vangelo. Queste riflessioni sono di Ezio Mauro, il direttore di Repubblica. Egli le ha recentemente esposte a Brescia, intervenendo alla presentazione dell’ultima opera di Pietro Scoppola sul cattolicesimo politico nell’Italia unita.
Ora che poteva guardarsi il suo sposo. …e in lui destò / ancora più forte una gran voglia di pianto. Pianse, / infatti, egli, tenendosi stretta la moglie, dolce / innamorata, quella donna di sì alto sentire. / Quando una terra tanto amata appare ai naufraghi, / cui Poseidone, in alto mare, ha sconquassato / la perfetta nave, travolgendola nel fortunale, / nei marosi, a raffiche; ed essi allora in pochi ormai / e sparuti riescono a reggersi fuori dalle schiumose / onde del mare; e mentre la salsuggine fa crosta / intorno al loro corpo, essi nuotano verso costa, / e come felici sono quando finalmente riescono / a metter piede a terra, sfuggiti alla maledizione / ultima, alla morte! Ecco, non altrimenti di così / era per Penelope ora che poteva guardarsi / il suo sposo, lì dinanzi ai propri occhi, in tutta / la sua amabile dolcezza! E le candide braccia / ora essa non voleva più distogliere dal collo di lui! (Scena finale dell’Odissea).
9 marzo 2006.
Linea recta brevissima. Siamo capaci di cercare e di comprendere. Il piacere più nobile è la gioia di comprendere (Leonardo da Vinci). Non mi sento costretto a credere che quello stesso Dio dal quale siamo stati dotati di comprensione, ragione e intelletto abbia inteso che ci dimenticassimo del loro uso (Galileo Galilei). Il compito primario di un insegnante. Pregare vuol dire prestare attenzione a qualcos’altro o a qualcun altro oltre che a se stessi. Ogni volta che un uomo concentra la propria attenzione su qualcosa – si tratti di un paesaggio, di una poesia, di un problema di geometria, un idolo o il vero Dio – tanto da dimenticare del tutto il proprio ego e i propri desideri, sta pregando. Il compito primario di un insegnante è quello di far imparare agli scolari, in un contesto laico, la tecnica della preghiera (Wystan Hugh Auden). Ambivalenza del logos. La parola è un fenomeno misterioso, dai molti significati. Può essere raggio di luce nell’impero del buio, come ebbe a dire una volta Belinskij dell’Uragano di Ostrovskij, ma può essere anche freccia mortale. Peggio ancora: può essere un momento questa e un momento quello, può addirittura essere le due cose nello stesso tempo (Vàclav Havel).
Clericalismo e anticlericalismo: appunti per una definizione. «Si tratta di uno di quei termini in cui la definizione è strettamente legata al contesto storico-politico in cui viene usato. Oggi comunque viene generalmente usato per indicare il comportamento della Chiesa istituzionale che cerca di intervenire in ambiti della società civile che non le sono propri, per determinarne le scelte e gli orientamenti, utilizzando come strumento di intervento il clero e le sue organizzazioni laicali, indirizzate così verso attività che esulano dai fini per i quali sono state create. Speculare al termine clericalismo è l’anticlericalismo. Clericalismo e anticlericalismo hanno avuto pertanto una storia e una sorte comune. Tra gli avversari della Chiesa il termine clericalismo non è usato in modo univoco; si va da una valenza antiecclesiastica, da cui è quasi sempre assente l’aspetto antireligioso, al radicalismo e all’ostilità aperta nei confronti dello stesso sentimento religioso. Non va però dimenticato che anche all’interno della Chiesa, a partire dalla metà del XIX secolo, nascono movimenti e tendenze anticlericali, che hanno le loro radici in gruppi o persone che agiscono e intendono restare dentro la Chiesa. Una certa mentalità, diffusa ancora oggi, è propensa a sostenere che, come unica depositaria della verità, la Chiesa e la sua classe dirigente abbiano il diritto di intervento in tutti i problemi. L’evoluzione più recente della Chiesa cattolica ha portato quella classe dirigente ad emanare documenti nei quali tale mentalità sembra superata. Non sempre, però, è così nei fatti» (Maurilio Guasco, voce «Clericalismo» in Dizionario di politica, Torino 1990, pp. 146-147).
Poesia del Novecento. Non vi dev’essere un «più» della verità. Qualunque cosa in più della verità / deve apparirci debole… / Il reale è il sogno più dolce che la fatica conosca. A casa, sì, e dove altro? Casa è quel posto dove, / quando ci devi andare, / loro devono accoglierti. / Qualcosa che non tocca meritarsela. Quando ero giovane e ora che sono vecchio. Quand’ero giovane erano i vecchi i miei maestri. / Andavo a scuola da loro per imparare il passato. / Ora che sono vecchio ho per maestri i giovani. / Vado a scuola dai giovani per imparare il futuro. Questi versi, a me tanto cari, sono del poeta statunitense Robert Frost e sono tratti dal volume Conoscenza nella notte e altre poesie, Milano 1988. Traduzione di Giovanni Giudici.
16 marzo 2006.
Linea recta brevissima. Così la vecchiaia deve venirci incontro. Mentre il chiarore del crepuscolo finisce per svanire, / il cielo si colma di stelle che la luce del giorno non lascia percepire (Henry Wadsworth Longfellow, poeta americano, celebre per le sue Ballate e altre poesie del 1842 e per la sua traduzione della Divina Commedia). La vera generosità. La vera generosità verso il futuro sta nell’elargire tutto al presente (Albert Camus). Perché ci lasciamo sfuggire le occasioni migliori. La maggior parte degli uomini si lascia sfuggire le migliori occasioni perché esse arrivano con indosso la tuta e somigliano al lavoro (Thomas Edison). Subordinare l’essere donna all’umano. Bisogna diventare anzitutto una persona umana, prima che tentare di essere moglie e madre. La cosa fondamentale è essere persona umana, essere donna ne è una determinazione (Edith Stein).
Il dilemma fuorviante: Edith Stein è morta come martire cristiana o come ebrea? Rimane nel ricordo la discussione precedente alla sua beatificazione: Edith Stein è morta come martire cristiana o come ebrea? L’esclusività dell’interrogativo è falsa in partenza: appartiene, infatti, alla semplice onestà storica dire che Edith Stein è stata uccisa come ebrea, ma è altrettanto vero che si è fatta carico di questo destino da cristiana. La ragazza aveva rinunciato all’età di tredici anni circa, perciò nel modo tipico della pubertà, alle sue preghiere infantili, che erano state scosse senz’altro già da tempo dall’indifferenza dei fratelli maggiori. Tale atteggiamento venne ancor più rafforzato dall’ovvio, quasi «atmosferico» ateismo o agnosticismo delle università. Per il profilo di Edith Stein è necessario precisare che non è stata l’ebrea religiosa, ma l’atea a diventare cristiana. Solo come cristiana essa è divenuta in assoluto cosciente di doversi confrontare con l’ebraismo religioso ed è preparandosi al battesimo che incomincia a studiare per la prima volta l’Antico Testamento. Edith Stein era per discendenza etnica «ebrea», ma non era «giudea» per il suo atteggiamento di fede. Pertanto, a rigore, è inesatto parlare della sua conversione dal giudaismo al cattolicesimo. A trentun anni non muta la sua fede per un’altra e solo quando aderisce al cattolicesimo Edith riscopre esplicitamente nell’Antico Testamento le radici del Nuovo e nel Nuovo Testamento il compiersi dell’Antico, il suo sviluppo perfettivo. La figura di Edith Stein viene così ad assumere un significato peculiare di straordinaria importanza: in lei il legame, per molti versi rimosso tra ebraismo e cristianesimo, è divenuto nuovamente consapevole. In un appunto Edith Stein dice per che cosa è pronta a dare la sua vita: «Per la Chiesa e il Carmelo, per il popolo ebreo, per la Germania e per tutti coloro che Dio mi ha affidato». Presa dalla Gestapo nel Carmelo di Echt, in Olanda, il 2 agosto 1942, prima di partire Edith fa coraggio a sua sorella Rosa, collaboratrice volontaria del convento, con queste parole: «Vieni, andiamo per il nostro popolo».
Il notiziario. L’industria dell’intrattenimento vive del mercato della solitudine. L’industria della consolazione vive del mercato dell’angoscia. L’industria della sicurezza vive del mercato della paura. L’industria della menzogna vive del mercato della stupidità. Dove si misurano i suoi successi? In Borsa. Anche l’industria degli armamenti. La quotazione delle sue azioni è il miglior notiziario di ogni guerra (Eduardo Galeano, Le labbra del tempo, Milano 2004, pag. 327).
23 marzo 2006.
Linea recta brevissima. Corruptio optimi pessima. La deformazione del cristianesimo è più efficacemente distruttiva della sua stessa negazione. Il vero semenzaio degli ateismi più profondi e più armati è sempre stato, in ogni tempo, la religione impoverita, deformata, piegata al servizio della terra. Dove esiste l’eroismo. Forse si parla tanto di eroismo perché se ne è totalmente smarrito il senso. L’eroismo esiste dove non si esibisce e quando non se ne parla. (Giulio Bevilacqua)
Edith Stein e la questione femminile. Prima della sua conversione al Cristianesimo e dopo il suo ingresso nel Carmelo Edith Stein portò un’attenzione insistente sulla questione femminile. Con grande acume vide qual era la resistenza della Chiesa del suo tempo ad affrontare il problema in una prospettiva che in realtà si sarebbe affermata, almeno in parte, solo grazie al Concilio Vaticano II. L’apporto specifico di Edith Stein sta nell’aver distinto in maniera molto netta quanto è dovuto all’eredità sociologica, o se si vuole alla pressione sociale, da ciò che è valido per sempre. Bisogna, insomma, mostrare nella Scrittura la distinzione oggettiva tra parola umana, che può essere persino erronea, e parola divina. Ma per far questo occorreva una lettura non timida della Bibbia. Ad esempio, in molte lettere paoline i due aspetti sono mescolati: si vedano in particolare la 1 Corinti 11, 3 e ss.; e i termini della questione non mutano per le lettere agli Efesini e a Timoteo che oggi non sono più attribuite all’Apostolo. Scrive testualmente la Stein: «Non dovremmo offendere troppo l’Apostolo se diciamo che nelle indicazioni date ai Corinti il divino e l’umano, il temporale e l’eterno sono mescolati. Pettinatura e abito sono cose del costume e se la sua decisione su come debbano vestirsi le donne corinzie durante il culto era vincolante per la comunità da lui fondata, non è detto che lo debba essere per tutti i tempi. Diverso, invece, è quanto Paolo dice sulla pari dignità dell’uomo e della donna… esprimendo nel modo più puro lo spirito del Vangelo: “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché siete tutti una sola cosa in Cristo Gesù”. Queste parole luminose nascono dall’insegnamento e dall’intera prassi del Salvatore, che ebbe nelle donne le sue più vicine confidenti e che, passo per passo, nella sua attività dimostra di trattare allo stesso modo l’uomo e la donna». Ci permettiamo di rinviare i lettori alla monografia di Hanna-Barbara Gerl, Edith Stein (Vita, filosofia, mistica), Brescia 1998, ed in particolare alle pagine 75-90 che recano il titolo «Donna e teologia: un chiarimento teoretico».
Preghiera mistica in forma di poesia. Se mi metterai al posto giusto. Non chiedermi dei miei sentieri di nostalgia. / Sono una pietra nel tuo mosaico, / se mi metterai al posto giusto. / Mi affido alle tue mani (Edith Stein).
30 marzo 2006.
Linea recta brevissima. Chi è schiavo. Schiavo è chi sta ad aspettare che qualcuno venga a liberarlo (Ezra Pound). L’uomo che non ha una vita interiore è schiavo di quanto lo circonda (Henri-Frédéric Amiel, pensatore svizzero, letterato e di diarista). La scostumata dea del successo. La rilassatezza morale discende dall’esclusiva venerazione della scostumata dea del successo. Questo atteggiamento – insieme alla squallida interpretazione monetaria data alla parola successo – è la nostra malattia nazionale (William James, 1842-1910, è uno dei maggiori pensatori americani. Grande il suo contributo al sorgere della psicologia sperimentale moderna. Fu intimo amico di Henri Bergson). Quando chiudete la porta. Quando chiudete la porta e restate al buio dentro la vostra stanza, ricordatevi di non dire mai che siete soli, perché non siete soli. No, Dio è dentro di voi e anche il vostro spirito è dentro di voi. E di quale luce hanno bisogno per vedere quello che state facendo? (Epitteto, 50-138 d.C. Celeberrimo il suo Manuale tradotto in italiano da Giacomo Leopardi).
Tolleranza e spirito di apertura. Se pensiamo alla tolleranza come aspetto di un sistema giuridico, essa in realtà equivale all’indifferenza; è un concetto negativo che definisce i confini entro i quali la legge non impone specifici modi di comportamento: si assume che vi siano aree in cui gli individui possono comportarsi come vogliono. La tolleranza come atteggiamento di individui o di gruppo può significare il desiderio attivo di comunicazione non ostile con persone che pensano differentemente da noi e la percezione che il loro modo di pensare può radicarsi nella buona volontà; questa percezione implica la nostra disponibilità di discutere di problemi comuni in spirito di apertura e, di conseguenza, la capacità di guardare con un certo scetticismo alle nostre stesse opinioni. Questa osservazione è di Leszek Kolakowski, filosofo e storico polacco. È tratta da un suo intervento sul tema «È concepibile una tolleranza cristiana?» e fa parte del volume L’intolleranza: uguali e diversi nella storia, a cura di P. C. Bori, Bologna 1986.
Poesia del Novecento. Preferisco venire dal silenzio. Preferisco venire dal silenzio / per parlare. Preparare la parola / con cura, perché arrivi alla sua sponda / scivolando sommessa come una barca, / mentre la scia del pensiero / ne disegna la curva (Valerio Magrelli, Poesie, Torino 1996). Tuttologo in televisione. Di profilo ha la faccia da fesso, / di faccia il profilo è lo stesso (Luciano Erba, Poesie 1951–2001, Milano 2002).
6 aprile 2006.
Linea recta brevissima. L’intolleranza uccide. Uccidere un uomo non è difendere una dottrina, ma è uccidere un uomo. Quando i Ginevrini hanno ucciso Serveto, non hanno difeso una dottrina, ma hanno ucciso un uomo (Queste parole di luminosa evidenza furono scritte dall’umanista savoiardo Sébastien Castellion all’indomani del rogo di Michele Servito a Ginevra nel 1553. Castellion denunciò quell’atroce crimine con il trattato De haereticis an sint persequendi del 1554. In quello stesso anno Calvino scrisse a sua volta la Defensio ortodoxae fidei, nella quale sostenne il diritto di uccidere gli eretici). La lezione del Vangelo è chiara e così pure quella della ragione. La tolleranza verso coloro che hanno opinioni diverse in materia di religione è a tal punto consona al Vangelo e alla ragione, che appare una mostruosità che ci siano uomini ciechi, di fronte a una lezione così chiara (John Locke).
«Soffrire passa, aver sofferto non passa mai». Léon Bloy nel suo libro Le Pèlerin de l’Absolu afferma: Souffrir passe, avoir souffert ne passe jamais. Il senso di questo eccellente aforisma va inteso nel modo più ampio. Si può superare ciò che si è vissuto nell’esperienza della vita, ma l’esperienza in sé resta per sempre patrimonio dell’uomo, realtà ingrandita della sua vita spirituale. Non c’è alcuna possibilità di cancellare il fatto vissuto. Trasformato e trasfigurato, il frutto dell’esperienza continuerà ad esistere. Sono i conflitti dello spirito e l’esperienza della vita che creano l’immagine dell’essere umano. L’uomo non è una creatura assolutamente preordinata e finita, egli si forma e si crea nell’esperienza della vita, nelle prove del suo destino. L’uomo è un puro disegno di Dio. Il passato si supera e si vince, è riscattato e perdonato. Questo è l’insegnamento che il cristianesimo ci offre. La nascita a una nuova vita è possibile. Ma in ogni nuova vita trasfigurata rientrano le esperienze passate e ciò che si è vissuto non può sparire senza lasciare traccia. La sofferenza patita può essere superata e offrire spazio alla gioia e alla felicità suprema. Eppure, anche in ogni nuova gioia e felicità entrerà misteriosamente la sofferenza vissuta. Con questa profonda riflessione Nicolaj Berdjaev (1874–1948) introduce l’opera sua più affascinante, Filosofia dello spirito libero. Problematica e apologia del cristianesimo, di cui le edizioni San Paolo hanno pubblicato la prima versione dall’originale russo.
Quando nasce il dialogo autentico. Il dialogo non è polemica e non è apologetica; non nasce dall’idea di aver solo da insegnare; nasce anzi dall’idea che tanto io quanto l’altro né siamo totalmente nell’errore (anzi già siamo in qualche modo nella verità se non altro per questo, che la cerchiamo) né siamo totalmente nella verità; nasce dall’idea che siamo uni, in quanto, ove non fossimo partecipi di un comune logo e non fossimo sulle indicazioni di questo logo sospinti verso un’ulteriorità, che è anche ulteriore unità, il dialogo non sarebbe concepibile; ma nasce anche dall’idea, non solo di una diversità di partenza, bensì anche di una diversità di arrivo che resta di nuovo partenza. L’imperativo del dialogo non è un imperativo provvisorio o funzionale (mai cioè verrà il momento in cui, instaurata l’unità assoluta, il dialogo avrà perduto la sua possibilità e ragion d’essere). Il dialogo media il passaggio da una diversità meno autentica a una diversità più autentica (Alberto Caracciolo, Religione ed eticità. Studi di filosofia della religione, Genova 1999, p. 72).
13 aprile 2006.
Linea recta brevissima. Talora la vita passa accanto a noi e non ce ne accorgiamo. Che stupidi siamo… Quanti inviti respinti, quante frasi non dette, quanti sguardi non ricambiati. Tante volte la vita ci passa accanto e non ce ne accorgiamo nemmeno (Ferzan Ozpetek). L’essenziale. L’essenziale è invisibile agli occhi (Antoine de Saint Exúpery). Sono direttamente proporzionali. La svalorizzazione del mondo umano cresce in rapporto diretto con la valorizzazione del mondo delle cose (Karl Marx).
Bergson fu un grande amico degli uomini. Il Discorso su Bergson, pronunciato il 9 gennaio 1941 all’Accademia francese in morte del grande filosofo, è uno dei testi più alti di Valéry. In esso il poeta dà prova di un’eccezionale capacità di penetrazione nel delineare la personalità del filosofo, il significato storico della sua speculazione, il metodo, lo stile. Valéry accenna anche alla generosità con cui Bergson servì la Francia amatissima e la grande causa de «l’union des esprits et des idéaux». Verso la fine della sua orazione, Valéry esprime ammirazione per Bergson uomo di pensiero che si era posto al servizio di una grande causa. Egli, ad esempio, scrive: «Henri Bergson, grand philosophe, grand écrivain, fut aussi, et devait l’être, un grand ami des hommes. Son erreur a peut–être été de penser que les hommes valaient que l’on fût leur ami». L’esperienza umana più alta a cui Bergson si rifà nelle Deux Sources, quella dell’eroismo morale e della santità, attesta irrefutabilmente qualcosa di diverso: ogni autentico «grand ami des hommes», quale che sia il suo specifico campo d’azione, rende ai suoi simili il servizio che può e deve, nella situazione storica ed esistenziale in cui si trova, e non si pone mai la domanda se forse i destinatari ne siano o non ne siano degni. Egli lavora, piuttosto, a renderli tali.
Cristo è veramente risorto. Alleluia! La credenza di base del mondo cristiano è la credenza nel più grande miracolo della storia del mondo, nella risurrezione di Cristo. Il miracolo della risurrezione non si impone con la violenza, non lo si può conoscere, si dischiude solo a chi crede e a chi ama. Che il Cristo è morto sulla croce di una morte da schiavo, che la verità è stata crocifissa: questo è il fatto che tutti conoscono, che si impone e costringe con la sua presenza, il cui riconoscimento non esige né fede né amore. L’evento terribile è comunicato a tutti ed è riconosciuto da tutti. Ma che il Cristo sia risuscitato, che la Verità abbia vinto il male nel mondo, estirpando le sue radici, la morte, ecco quel che non può essere dato come un fatto che costringe all’assenso, come una prova. Si deve credere nella vittoria della verità della vita sul male e la morte; si deve amare il Salvatore perché il miracolo della risurrezione si sveli. Il Salvatore è apparso nel mondo come uno schiavo e non come un re, è stato stritolato dalle forze di questo mondo, ha ricevuto la morte secondo le leggi di questo mondo. Perciò la realizzazione della salvezza non è una costrizione imposta all’uomo, la libertà della scelta è lasciata all’uomo, e da lui si attende il gesto della fede, la rinuncia volontaria alle forze mortifere di questo mondo a nome della grande Ragione e delle forze che liberano e salvano (Nikolaj Berdjaev in Filosofia dello spirito libero, Cinisello Balsamo 1997. Prima versione italiana dell’originale russo; edizione splendidamente curata da Giuseppe Riconda).
20 aprile 2006.
Linea recta brevissima. Farci guardare negli occhi senza paura. L’anima di una persona è nascosta nel suo sguardo. Per questo abbiamo paura di farci guardare negli occhi (Jim Morrison). Se tu non smetti di cercare. Guarda nel tuo animo! Là dentro c’è una parte di bene che non smette mai di sgorgare, se tu non smetti mai di cercare (Marc’Aurelio). Ciò che ha valore. È il piacere della propria onestà morale ed intellettuale ciò che ha valore. Bisogna leggersi dentro ogni giorno per chiedersi quanto siamo reali, veri ed umani con noi stessi (Luigi Pirandello).
Religione e filosofia alle origini del pensiero greco nella Chiesa nascente. Quello che oggi troppo spesso si tende a dimenticare è l’immenso lavoro di purificazione di miti e di credenze pseudo-religiose compiuto dalla filosofia in ogni tempo. È un lavoro di sgombro che già di per sé è prezioso, aprendo il varco a prospettive nuove e a nuovi approfondimenti della dimensione religiosa. E ciò avvenne sin dalle origini. Con Senofane si ha la critica del politeismo e dell’antropomorfismo. Con Anassagora si ha la prima solenne affermazione che Dio è pensiero, noûs, spirito, causa della natura distinta dalla natura, causa efficiente e finale dell’universo. Socrate nell’Eutìfrone confuta radicalmente la religione mitologica e l’utilitarismo pseudo-religioso. L’essenza di Dio per lui è non il potere illimitato, ma la santità pura. Dio è colui nelle cui mani il giusto affida la sua anima. Si capisce allora perché Erasmo abbia proposto un’aggiunta alle litanie della Chiesa con il suo Sancte Socrates, ora pro nobis. Ed è semplicemente straordinario che il primo filosofo cristiano, Giustino, un greco della Palestina, messo a morte nel 163, abbia pensato che non uno, ma due sono gli Antichi Testamenti, quello della Bibbia, il primo, e quello che è stato offerto all’umanità dalla filosofia greca. In tutti i veri filosofi – scriveva Giustino – brillano i semi di quella verità che con Cristo la rivelazione oggi ci scopre nella sua pienezza. Nel IV secolo sant’Ambrogio esprime la stessa magnanima, limpida visione del rapporto tra fede e ricerca filosofica con queste parole, che Tommaso d’Aquino non si stancherà mai di citare: «Omne verum, a quocumque dicatur, a Spiritu Sancto est». Così – non nel XX secolo, con il Concilio Vaticano Secondo, ma nel II secolo, a partire dal filosofo laico Giustino – fu formulata in termini definitivi la carta eterna dell’umanesimo cristiano.
Quando Bonhoeffer divenne «resistente». Dietrich Bonhoeffer apparteneva all’alta borghesia berlinese e da giovane aveva condiviso all’inizio una posizione nazionalista. L’ambiente di casa era, infatti, vicino alla destra politica. L’avviamento alla resistenza religiosa e politica avviene precisamente nel 1932 quando i pastori non ariani vengono esclusi dalla Chiesa evangelica tedesca. Per lui allora s’impose in coscienza la grande scelta: «Credo che non si possa più appartenere ad una Chiesa – questo fu il suo intimo convincimento – se ne vengono esclusi gli ebrei». All’inizio del 1933 ecco come delineava i compiti di responsabilità della Chiesa evangelica confessante che rifiutava il razzismo hitleriano: 1. La Chiesa deve chiedere conto allo Stato se la sua politica razziale in riferimento agli ebrei possa essere tollerata in una nazione civile. 2. La Chiesa è obbligata incondizionatamente verso le vittime di ogni legge ingiusta e discriminazione sociale, anche se esse non appartengono alla comunità cristiana. 3. Se la Chiesa vede che lo Stato esercita esso stesso la violazione dell’ordine sociale e del diritto, essa si trova nella situazione non soltanto di soccorrere le vittime cadute sotto la ruota, ma di mettere un bastone tra i raggi della ruota stessa (Eberhard Bethge, Dietrich Bonhoeffer teologo, cristiano, contemporaneo, Brescia 1975).
27 aprile 2006.
Linea recta brevissima. Imparare sì, ma saper uscire dalla via segnata. Come non può correre velocemente chi si preoccupa solo di porre il suo piede sulle orme altrui, così non potrà mai scrivere bene chi non ha il coraggio di uscire dalla via segnata (Agnolo Poliziano). L’illusione. L’illusione non è solo un errore: è una maniera totalmente sbagliata di vedere le cose (Henri Bergson). La figura di Gesù. Gesù non esige l’accettazione di prestabiliti sistemi di pensiero e di atteggiamento. Egli è anti-individualista, è l’uomo per gli altri. Non prega a rate, ma con la sua stessa vita. Ci libera dalla tentazione del Deus ex machina. Si allontana dal numero dei privilegiati e siede a mensa con i reietti. Con la sua impotenza umiliante e trasformante conduce l’uomo alla propria personale responsabilità (Dietrich Bonhoeffer). I più coraggiosi. Sicuramente i più coraggiosi sono coloro che hanno la visione più chiara di ciò che li aspetta. Mettono in conto la gioia che può derivare dalla loro scelta, ma guardano in faccia il pericolo che ad essa si accompagna e lo affrontano (Tucidide).
Costretti all’esilio per amore della patria. Da Dante Alighieri a Foscolo fino a Saragat, a Sturzo, a Salvemini, a Turati, a Nenni, a Toscanini e a tanti altri la via dell’esilio fu una triste necessità, non una libera scelta. L’esilio, infatti, è una cosa grave e dolorosa che segna la vita dei cittadini migliori, di quanti non volevano rinunciare a lottare per un paese libero e giusto. Racconta lo storico Pietro Craveri di aver visto presso un antiquario una copia della prima edizione dello scritto foscoliano Jacopo Ortis, con la dedica: A Santorre di Santarosa esule, Ugo Foscolo esule. In realtà fu proprio la dura prova dell’esilio a forgiare inizialmente gli animi di tanti protagonisti del nostro Risorgimento. Il Piemonte divenne punto d’incontro di tanti italiani, mentre i governi reazionari delle altre parti d’Italia continuarono a cacciare in esilio i patrioti. Come non ricordare tra loro Silvio Pellico allo Spielberg, Mazzini, Garibaldi e moltissimi altri? Mi ha commosso una pagina de Le ricordanze della mia vita, che sono tra le maggiori opere memorialistiche della nostra letteratura risorgimentale, in cui il meridionale Luigi Settembrini evoca un viaggio che, per fortuna, ebbe un esito del tutto diverso da quello programmato. Francesco II di Borbone pensò di disfarsi di tutti i condannati politici rinchiusi nelle galere del Regno di Napoli e di presentare all’opinione europea la sua decisione come un atto di liberalità. I condannati politici salirono su un piroscafo per essere spediti in esilio, tutti insieme, negli Stati Uniti. La nave, però, invertì la rotta e li sbarcò in Irlanda. Di quel viaggio merita in particolare di essere ricordato il seguente episodio: Giungemmo presso lo Stretto di Gibilterra; era un bel mattino, il sole indorava le coste di Spagna, e moltissime navi col buon vento entravano dall’Oceano nel Mediterraneo. Eravamo tutti in coperta a guardare lo spettacolo. Ecco, una nave mercantile vicino a noi alzar una bandiera tricolore: era una nave sarda, era la bandiera d’Italia, che dopo dieci anni rivedemmo allora in mezzo al mare, lasciando l’Italia, andando in esilio perpetuo. Non so dire che sentimento fu il nostro. Scoprimmo il capo, salutando in silenzio la bandiera d’Italia.
Io sono giunto a Cristo attraverso la libertà. Io sono giunto a Cristo attraverso la libertà, attraverso l’esperienza immanente delle sue vie. La libertà mi ha condotto a Cristo e io non conosco altra via che conduca a Lui… Quelli che sono venuti al cristianesimo mediante la libertà gli apportano un alito di quella medesima libertà. Il loro cristianesimo è inevitabilmente assai più spirituale, generato nello spirito, non nella carne e nel sangue (Nicolaj Berdjaev, Filosofia della spirito libero, Cinisello Balsamo 1997, pag.84).
4 maggio 2006.
Linea recta brevissima. L’amore vince la morte. L’amore è la principale arma spirituale contro la morte. Questi due antipodi, l’amore e la morte, sono inseparabili. È all’avvicinarsi della morte che l’amore si manifesta con più forza. L’amore non può non vincere la morte. Colui che ama è veramente il vincitore della morte… Il Cristo ha vinto la morte perché era l’incarnazione dell’amore divino universale (Nikolaj Berdiaev). Il senso del viaggio. Si possono percorrere migliaia di chilometri senza mai scalfire la superficie dei luoghi, né imparare nulla dalle genti appena sfiorate. Il senso del viaggio sta nel fermarsi ad ascoltare chiunque abbia una storia da raccontare (Pino Cacucci). Gli alberi sorreggono il cielo. Gli alberi sono le braccia della terra che sorreggono il cielo. Quando avremo tagliato l’ultimo albero, il cielo ci cadrà addosso (Proverbio degli Indios dell’Amazzonia).
Erasmo e Thomas More. Il primo incontro dei «gemelli dissimili». Nell’estate del 1499 Erasmo si recò in Inghilterra, ospite di un suo giovane allievo, William Blount, barone di Mountjoy. Un giorno a Greenwich, nella casa di campagna, il Mountjoy invitò a pranzo il Lord Mayor di Londra e altri importanti personaggi, tra i quali Thomas More. Fu così che More ed Erasmo da Rotterdam si incontrarono per la prima volta. L’olandese e l’inglese non erano stati presentati, ma nel corso della conversazione, che allora si svolgeva in latino, ciascuno rimase tanto colpito dall’intelligenza, dalla signorilità e dallo humour dell’altro che, ad un tratto, come per un’improvvisa illuminazione, esclamarono vicendevolmente: «O tu sei More, o nessun altro», «O tu sei Erasmo, o il diavolo». More aveva allora ventidue anni, Erasmo una decina di più, e fu subito amore a prima vista. I due differivano in tutto, o quasi: per l’ambiente in cui erano cresciuti, per l’educazione ricevuta, per il temperamento che si portavano appresso; ma quando s’incontrarono, scoprirono le loro affinità elettive e l’uno diventò all’altro insostituibile e prezioso. I tentativi di scindere il nome di Erasmo da quello di More si sono ripetuti nel corso di mezzo millennio, perché la vicinanza dell’umanista che maneggiava l’ironia e la polemica graffiante come nessun altro comprometteva la rappresentazione di un More modello di ortodossia rigida e martire della fede. In realtà Erasmo e More erano e restano inseparabili e furono legati da una di quelle amicizie totali la cui delicatezza si rivela in mille tratti affascinanti, tanto che essi costituiscono la coppia più affiatata e insieme di più alto profilo dell’età moderna.
I diritti dell’uomo, orizzonte di una storia veramente civile. Boutros-Ghali, segretario generale delle Nazioni Unite fino al 1995, ha scritto: Come strumento di riferimento, i diritti umani costituiscono il linguaggio comune dell’umanità grazie al quale tutti i popoli possono, nello stesso tempo, comprendere gli altri e scrivere la propria storia. I diritti umani sono, per definizione, la norma ultima di ogni politica… Sono per loro natura diritti in movimento. Con questo intendo dire che esprimono contemporaneamente obblighi immutabili e la situazione in un particolare momento della coscienza storica. Sono dunque sia assoluti sia storicamente situati. E ancora: I diritti umani non sono il minimo comune denominatore di tutte le nazioni ma, al contrario, costituiscono ciò che vorrei chiamare l’umano irriducibile, la quintessenza dei valori in base ai quali affermiamo, insieme, che siamo una sola comunità umana (In Hervé Cassan, in La vie quotidienne à l’ONU du temps de Boutros–Ghali, Paris 1998, pag. 8).
11 maggio 2006.
Linea recta brevissima. Solo le cose mentali sono reali. Solo le cose mentali sono reali. Io vedo attraverso l’occhio, non con l’occhio (William Blake). Mai primo. Chi segue sempre gli altri non arriva mai primo (Anonimo). Saper donare. L’uomo benefico è chi dona meglio, non chi dona molto (Victor Hugo). L’egoista non lo comprende. Finché non cessiamo di vivere solo per noi stessi, non possiamo dire di aver cominciato a vivere (Baden Powell).
La bellissima dedica dell’Elogio della follia. Erasmo era stato un religioso agostiniano e rimase prete per tutta la vita che consacrò alla rinascita della cultura umanistica e alla riscoperta dei Padri della Chiesa, ma l’opus maius dell’olandese fu soprattutto la revisione del testo greco e latino del Nuovo Testamento, pubblicata a Basilea nel febbraio 1516 con il titolo Novum Instrumentum. Riprendere dopo undici secoli la Vulgata che Gerolamo aveva consegnato alla cristianità e rileggerla criticamente, avvalendosi di nuovi strumenti filologici, era impresa di tale arditezza da sembrare a molti blasfema, anche perché si accompagnava esplicitamente a un programma di profondo rinnovamento religioso e di ritorno alle pure sorgenti del Vangelo. Ed è alla luce di quel vasto, articolato disegno di riforma cattolica che si colloca anche la parte polemica dell’opera erasmiana, che trovò la sua più efficace espressione in quello stupendo intreccio di fantasia e protesta, di scherzo e serietà, di sarcasmo e appassionata invocazione alla rinascita spirituale che è l’Elogio della follia, composta di getto nel 1509 a Londra nella casa di More. Erasmo scherza affettuosamente sul fatto che «il nome di More è così vicino al termine greco moría, che designa appunto la follia, quanto ne è lontana la sua persona» e dedica il suo scritto a Thomas con queste parole: Di te assente, o primo dei miei amici, mi ricordo proprio come godo della tua presenza che, come sai, è il piacere più grande che mi sia concesso dalla vita… Per la singolarità e la perspicacia del tuo ingegno, tu ti discosti enormemente dalla gente comune; eppure, per l’incredibile delicatezza e affabilità della tua indole, riesci a essere, e con gioia, l’uomo di tutti in ogni momento (cum omnibus omnium horarum homo).
«Un uomo per tutte le stagioni». Come fosse giudicato More, e non solo nella cerchia degli umanisti, lo si capisce dai mille aneddoti che fiorirono intorno alla sua figura come uomo di spirito e magistrato integerrimo, ma anche da alcuni particolari significativi: il personaggio More, ad esempio, balza con netto rilievo persino da una guida all’apprendimento del latino, in cui il grammatico Robert Whittington, prendendo dall’attualità gli esempi per una versione, nella parte posteriore del foglio 15 parla di Thomas More in questi termini: Ha l’intelligenza di un angelo e una singolare sapienza; io non ne conosco una pari alla sua. Dove trovare tanta dolcezza, umiltà, gentilezza e, secondo le circostanze, grave serietà o allegrezza straordinaria? Egli è un uomo per tutte le stagioni (Vulgaria, 2, 1520). La frase finale a man for all seasons – certamente improntata all’espressione cum omnibus omnium horarum homo, che Erasmo usa nella lettera di dedica all’amico dell’Elogio della Follia – è divenuta la definizione più popolare e classica a un tempo di More e la sua fortuna continua nel secolo XX con il dramma di Robert Bolt nel 1960 e con il film di Fred Zinnemann nel 1966. Essa sta a significare sia la sua perfetta disposizione a essere all’altezza di ogni situazione, fino a quella suprema del sacrificio della vita, sia la possibilità per gli uomini di qualsiasi epoca storica di incontrare More e di accoglierlo per molte buone ragioni come ideale compagno di viaggio.
18 maggio 2006.
Linea recta brevissima. Non si ama un’astrazione: oltre la pietà la premura. Il vero altruismo è più della capacità di essere pietosi, è la capacità di simpatizzare. La pietà può nascere per un’astrazione chiamata umanità, ma la simpatia nasce dalla premura per un particolare essere umano bisognoso che giace all’angolo della strada della vita (Martin Luther King). Una promessa d’immortalità. Una promessa di immortalità è inclusa nell’amore per un altro essere. Amare qualcuno significa dirgli: «Tu non morrai» (Iolanda Poma). Le due ali. Credere nella possibilità di conoscere una verità universalmente valida non è minimamente fonte di intolleranza; al contrario è condizione necessaria per un dialogo sincero e autentico tra le persone (Giovanni Paolo II).
Il potere della vergogna. Nel 1778 Benjamin Franklin fu nominato primo ambasciatore della giovane repubblica americana in Francia. Coautore con Thomas Jefferson della Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti, proclamava a Philadelphia il 4 luglio 1776, Franklin godeva di notevole prestigio negli ambienti rivoluzionari e nei salotti letterari di Parigi. Il preambolo della Dichiarazione, da lui stilato, dice in particolare: Noi riteniamo che queste verità siano di per sé evidenti, che tutti gli uomini sono creati uguali e che sono dotati dal loro Creatore di certi inalienabili diritti fra i quali quelli alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità; che per salvaguardarli vengono istituiti fra gli uomini i governi, i quali derivano i propri giusti poteri dal consenso dei governati; che ogni qualvolta una forma di governo tende a distruggere questi fini è diritto del popolo modificarla o abolirla e istituire un nuovo governo, fondandolo sui principi e organizzandone i poteri nel modo che gli paia più conveniente a realizzare la propria sicurezza e felicità. Un giorno Georges Danton, allora ventenne, chiese a Franklin: «Ma nel mondo di miserie e di ingiustizie nel quale viviamo, dov’è la sanzione? La vostra Dichiarazione non può contare su alcun potere giudiziario o militare per farsi rispettare». Franklin rispose: «Vi sbagliate! Dietro questa Dichiarazione vi è un potere enorme, eterno: the power of shame, il potere della vergogna» (La Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America, Venezia 2003, pp. 71-73).
Due riflessioni sull’amore. Chi è davvero innamorato non lascia passare un momento senza ricordare il volto amato, senza abbracciarlo internamente con piacere; non se ne può staccare in preda al desiderio neppure durante il sonno, ma anche allora se ne sta a conversare con l’oggetto della sua brama. È così per natura che avviene, sia nelle realtà corporee, sia nelle realtà incorporee (Giovanni Climaco, La scala del Paradiso XXX, 6). Questo passo è tratto da uno dei libri più belli di Jean Guitton L’amore umano (Milano 1989, p. 88): Non appena ci si ama, ci si rende conto che l’amore esige un’atmosfera dove potersi amare. Non ci si ama veramente se non ci si ama in qualcosa di superiore, in una unità più alta e più completa. Il vero termine che unisce gli amori, che dà loro un fondamento e senza il quale non possono né comprendersi né sbocciare, è ciò che le anime hanno chiamato Dio. Bisogna infatti che il terzo termine sia un essere che è presente agli altri due, favorendo il loro scambio al di là dello spazio e del tempo, e ciò non è possibile se non è egli stesso superiore al tempo e allo spazio e capace egli stesso di amore, diciamo anzi interamente definito dall’amore.
25 maggio 2006.
Linea recta brevissima. La Bibbia e la storia del suo influsso. La Bibbia è partner ineludibile in quel processo di continuo approfondimento delle questioni fondamentali che costituiscono il carattere specifico della ricerca filosofica. Ma prima ancora si deve parlare di un rapporto di circolarità tra Bibbia e cultura, vista nelle sue varie espressioni, dalla filosofia alla letteratura, dall’arte alla poesia, dalla musica al teatro, al cinema. La Bibbia rimane il grande codice, la prodigiosa riserva d’immagini, l’immenso vocabolario, l’atlante iconografico a cui ha attinto la cultura occidentale (Paul Poupard). Pensare con la propria testa. Quando tutti pensano allo stesso modo nessuno pensa molto (È il motto di un’agenda). Oltre, più in alto. Io trovo che la giustizia sta sempre più in alto di ogni altro attaccamento sentimentale (Sophie Scholl, martire de La Rosa Bianca).
Un libro che ha inciso nella storia: l’Utopia di Thomas More. Con Utopia, un’opera apparentemente atemporale, entrano nella storia un nuovo modo di vedere le cose e una prospettiva di cambiamento. Con il suo libro – che è tra i pochi di cui si può dire che abbiano veramente inciso nella storia – More insegna a lottare, nel solo modo concesso agli uomini di cultura, costretti a vivere in un mondo troppo sordo e ostile, ma impegnati con tutta l’anima a risvegliare le coscienze e ad aprire il varco a quella società futura – libera, giusta, fraterna – di cui l’umanità ha assoluto bisogno. Le idee hanno mani e piedi, camminano cioè con gli uomini che le fanno proprie, e le proposte utopiane, una volta divenute oggetto di discussione, non saranno più messe a tacere. Se proviamo solo ad elencarle, ci accorgiamo che nel corso di mezzo millennio esse sono divenute progetti e ideali storici a cui l’umanità migliore non può rinunciare: l’istruzione pubblica obbligatoria per tutti; un regime costituzionale che escluda i diabolici opposti della tirannide e dell’anarchia; l’accesso alle funzioni pubbliche mediante il voto; la parità tra uomini e donne dinanzi alla legge nel lavoro, nella cultura; la tolleranza reciproca tra le diverse confessioni religiose affinché «nessuno venga perseguitato a motivo della propria religione», la soppressione della pena capitale e, nello stesso tempo, una giustizia penale mite, efficace e realmente uguale per tutti. È molto importante realizzare la migliore armonia possibile tra la fatica del lavoro e la libera attività ricreativa, e quindi una vera e propria cultura del tempo libero, cioè di «un tempo dedicato a piaceri onesti fondati sulla natura e la verità». In una società giusta bisogna evitare, infatti, che i più siano costretti a lavorare «come bestie da soma», alienati da ritmi insopportabili, come quelli a cui erano sottoposti i salariati e gli artigiani inglesi. Il lavoro può essere un fattore di crescita economica, sociale e politica ed è un diritto-dovere, ma esso non deve distruggere l’umanità di chi lo compie e le sue giuste aspirazioni. Per questa ragione la giornata lavorativa, nei limiti in cui lo consentono le comuni necessità, non dovrebbe superare le sei ore. Il lavoro è importante, ma non può essere finalizzato al lavoro stesso, bensì all’otium nel senso classico del termine, perché «è nella coltivazione dell’animo che consiste la felicità della vita» (Utopia, libro II – I mestieri).
Poesia contemporanea brasiliana. Lo stoppino. Era vecchio / ma aveva ancora / un piccolo filo. / Aveva in fondo uno stoppino / ancora capace di accendere / e di incendiare. Questa poesia è di Vera Lúcia de Oliveira, capofila dei «poeti della nuova generazione», quelli nati a partire dal 1958. Nata nell’interno dello Stato di San Paolo, insegna Letteratura portoghese e Letteratura brasiliana in Italia all’Università di Lecce.
1 giugno 2006.
Linea recta brevissima. La costrizione non può unirsi alla sincerità. La costrizione non può unirsi alla sincerità e Cristo accetta solo il dono volontario della nostra anima. Il troppo discutere. A forza di troppo discutere ci si lascia sfuggire la verità. L’eccesso di parole. La verbosità non ha altra sorgente che la sterilità dello spirito. (Erasmo da Rotterdam). I regali dei nemici. I regali dei nemici non sono regali (Sofocle). Aut–aut. Noi dobbiamo amarci l’un l’altro o morire (È un verso di Wystan Hugh Auden che Graham Green amava citare).
La donna nel Vangelo di Luca. Una delle caratteristiche di Luca è che per la prima volta nel suo Vangelo emerge in luce la donna: Maria la madre, Elisabetta la benedetta, Anna la profetessa, la vedova di Naim, la peccatrice a cui molto è perdonato, la Maddalena liberata dal maligno e le benefattrici (Giovanna, Susanna, Marta e Maria di Betania), la donna rattrappita che Gesù guarisce, la donna del popolo che grida benedicendo la madre di Gesù, la vedova che versa nel tesoro tutto ciò che aveva, le donne sulla via del Calvario, le fedeli sotto la croce, presenti alla sepoltura e che ricevono per prime presso la tomba il messaggio della risurrezione. L’amore incarnato di Dio va incontro così, sposo segreto, alla «figlia di Sion» che s’incarna nella donna. Il patto non viene fondato da Gesù solo in quanto Dio, ma da Gesù anche in quanto uomo maschio che radicalmente associa nella sua opera l’altra metà del genere umano al disegno divino d’ineffabile grandezza.
Pretesti per giustificare la schiavitù. Nel 1865 l’atteggiamento della Civiltà Cattolica sul problema della schiavitù, durante la guerra di secessione, risulta chiaro nell’articolo Il concetto morale della schiavitù (VI, 1, pp. 427-445). Mentre in America la soppressione della schiavitù era divenuto uno degli obiettivi della guerra, e l’opinione pubblica europea, commossa dalla lettura della Capanna dello zio Tom, si mostrava largamente favorevole alla causa antischiavista, la rivista gesuitica si preoccupava di dimostrare che la schiavitù in sé e per sé non era contraria al diritto naturale, se si rispettavano alcune condizioni, osservava che non si poteva rimproverare né coloro che ne avevano finora approfittato dove era permessa legalmente, né i sommi pontefici che non l’avevano universalmente condannata, e concludeva che «nel trattare la causa dello schiavo non si allarghino oltre il confine segnato i diritti della natura, sicché alcuno, tratto in inganno, non venga a conchiudere avere la Chiesa colla sua dottrina partecipato in un fatto iniquo». Pagine del genere non si possono leggere senza una profonda tristezza perché i loro estensori autorizzati hanno sostituito alla forza liberatrice immessa nella storia da Colui che pronunciò il Discorso della Montagna e altre divine parole qualcosa d’altro: una sorta di giustificazione storicistica di ciò che è, cancellando l’idea stessa di ciò che il Vangelo ci comanda di far essere. Ci sono momenti alti nella storia in cui la dignità dell’uomo è riconosciuta nel suo valore universale. L’abolizione della schiavitù fu uno di quegli eventi.
Dove Dio si manifesta e si nasconde. Ogni trascendenza è per l’esperienza una possibile dimora divina. Dio ama manifestarsi proprio nel nascondersi in fondo a ciò che l’uomo non giunge a padroneggiare e comprendere totalmente, come i misteriosi penetrali della natura, la ruvida perentorietà del dovere, la terribile conflittualità della storia, le sconfinate lontananze dei tempi, l’enigmatico spessore della memoria, la scabra impervietà del futuro, l’opaca profondità dell’inconscio, il vertiginoso abisso della libertà (Luigi Pareyson).
8 giugno 2006.
Linea recta brevissima. L’eresia più pericolosa. Di gran lunga reca più danno il falso cattolico che un vero eretico (Bernardo di Clairvaux). Le «eresie della vita» sono più pericolose delle «eresie dottrinali» (John Colet). Si credono moderati e sono, invece, incapaci di cambiamento. Proponete ciò che è fattibile, non cessano di ripetermi. È come se mi dicessero: proponete di fare ciò che già si fa; o almeno cercate di conseguire qualche bene che sia compatibile con il male esistente… Ciò che è fattibile per voi è solo ciò che voi volete fare (Jean-Jacques Rousseau).
La Chiesa italiana e i suoi nuovi interlocutori: gli «atei devoti». Alcuni politici, giornalisti e persino intellettuali – tutti autorevoli esponenti del centro-destra – si dichiarano non credenti o atei, ma vogliono allearsi con la Chiesa in nome dell’identità dell’Occidente, contro l’aggressione del fondamentalismo islamico. Questa forma di laicità non ha nulla a che fare con la distinzione doverosa tra ambiti e poteri che non vanno confusi (Stato e Chiesa, Cesare e Dio, politica e religione, città terrena e città di Dio); essa anzi dichiara che vi è, dal suo punto di vista, una totale estraneità fra non credenza e fede religiosa e tuttavia vuol stringere con la Chiesa cattolica un’alleanza difensiva contro il pericolo proveniente da un’altra religione, sia pure declinata dalla sua frazione fondamentalista. Dietro quest’alleanza ci sono la paura del «nemico in mezzo a noi» e l’oblio imperdonabile di ciò che l’emigrazione ha significato anche per milioni di italiani; c’è, in ultima analisi, l’avversione ad affrontare i problemi di una società multietnica e multireligiosa in termini democratici. Ma se le cose stessero così, si dovrebbe avere il coraggio di vedere dove ci portano i promotori di questa alleanza difensiva. Il fine che essi intendono raggiungere, lo sbocco coerente di un’impostazione del genere sarebbe forse una guerra fra due religioni, uno scontro fra due civiltà? Che la Chiesa contrasti lo scontro di civiltà e persegua le vie del dialogo con tutte le religioni mondiali è, però, un dato inconfutabile attestato dai documenti e da innumerevoli gesti del Concilio Vaticano II. Questa idea-forza ha poi assunto forme particolarmente significative nel lungo pontificato di Giovanni Paolo II. La Chiesa cattolica in Italia non può e non deve rinunciare a questo preciso mandato senza tradire l’universalità luminosa che caratterizza l’immissione nella storia di ciò che di più alto vi sia mai stato: il messaggio divino di Cristo Gesù. Una Chiesa che cedesse alla tentazione di diventare il principale supporto ideologico di un Occidente euro-americano, erigendosi a baluardo contro gli assalti del resto del mondo, snaturerebbe se stessa e autorizzerebbe la più colossale degradazione della religione a instrumentum regni.
I bambini annientati nella Shoa. «È una galleria sotterranea che si percorre, tenendosi a un corrimano, in un buio totale, nel quale in alto si accendono e palpitano piccole luci, quasi lucciole o stelle, mentre una voce dice i “nomi”, l’età, la provenienza del milione e mezzo di bambini ebrei uccisi nella Shoah. È una straziante discesa agli inferi che più di ogni altra esperienza ci avvicina a quell’ineffabilità del male di cui parla Wiesel, e lascia – in chi percorre quel cammino – il senso di un’immensa irreparabilità, di un baratro che neppure la giustizia di Dio – “se così si può dire” – riesce a colmare. L’irreparabilità di vite non vissute e ridotte a “nomi”. Dire questi nomi è nello stesso tempo il segno della nostra totale impotenza di fronte al male, e l’atto più religioso che si possa compiere» (Paolo De Benedetti, Quale Dio? Una domanda alla storia, Brescia 20045).
15 giugno 2006.
Linea recta brevissima. Le questioni che sono al confine tra discipline diverse. Il posto più fecondo per la conoscenza è il confine (Paul Tillich). Rispondere a una chiamata. Non tocca a te compiere l’opera, ma non sei libero di sottrartene (Detto rabbinico).
Due mirabili clausole di precauzione. Un passo talmudico ama ricordare: «Bisogna saper dire non so». «Non so», certo, perché non si è mai studiato o pensato abbastanza, ma più radicalmente per la coscienza vigile dell’incolmabile sproporzione tra ciò che forse sappiamo e ciò che veramente c’è ed è stato o sarà. E dunque, un’altra clausola occorre imparare dai maestri ebrei, quella racchiusa nell’espressione: ki-wjakhol, «se così si potesse dire». È una precauzione, un avvertimento circa le inadeguatezze del linguaggio all’argomento. Quando ci troviamo sul limitare tra il sapere e il non sapere, tra il dicibile e l’indicibile, tra l’umano e il non umano, il linguaggio avverte la propria insufficienza. Ki–wjakhol è un atto di autocoscienza del linguaggio, coscienza del suo scarto dalle cose e dai fatti. L’essere umano, scriveva von Humboldt, tesse il suo linguaggio come il bruco il suo bozzolo. Tesse una sua libertà e una sua chiusura. Da un lato il linguaggio è un atto di libertà: ci libera dalla necessità che le cose siano presenti, perché è capace di evocarle nominandole in loro assenza, di richiamare avvenimenti trascorsi o di delineare i futuri, di narrarli quando non sono ancora o non sono più, liberandoci dal tempo passato e presente; ma in cambio ci stringe nelle maglie delle sue strutture grammaticali e delle sue convenzioni semantiche. Le parole, le frasi non sono lo strumento, bensì il corpo stesso del pensiero, ne sono la condizione di vita, ma anche la gravezza. Ki–wjakhol è la coscienza anti-idolatrica del linguaggio umano. Neppure la parola sacra è letteralmente vera, perché è comunque traduzione del non umano nell’umano. È approssimazione e interpretazione. L’unico diventa molteplice: «Una parola Egli ha detto, due ne ho udite» dice il Salmo 62. Anche se la Parola fosse unica, noi la cogliamo molteplice, parziale, rifratta dalla nostra condizione e dal nostro linguaggio. L’idolo ha la pretesa di far coincidere il divino con la sua rappresentazione, la parola con la cosa, o la rappresentazione con ciò che rappresenta; la clausola ki–wjakhol enuncia al contrario un non-potere, un’impossibilità di pienezza, ma insieme la possibilità di dire, la libertà di immaginare e di interpretare (Stefano Levi della Torre, Ki–wjakhol, se così si potesse dire, in Humanitas, I, 2006, pp. 108-109). Il primo numero del 2006 della rivista bresciana è un omaggio a Paolo De Benedetti, che è un giudeo–cristiano, come lo erano gli apostoli. Egli svolge tuttora la funzione di custode della sinagoga della città natale, Asti, ed è nello stesso tempo maestro di tanti cristiani tra i quali conta molti amici. Docente anomalo perché privo di titoli accademici, ha più allievi di un professore ordinario. Ha insegnato a più generazioni l’inscindibile unità dell’Antico e del Nuovo Testamento. È uno dei protagonisti, tra i più originali e discreti, del dialogo interreligioso.
In forma di verso. Che fare? Che fare? – mi chiedi. / La mia risposta è: «Sciogli il cuore dalle tenebre / e vivi senza menzogna. / Il provvido amore farà il resto». L’umana bellezza. Cuore virile e generoso / dalla grazia abitato. / Questa è l’icona d’ogni umana bellezza. Non lavartene le mani. Gettarsi bisogna nella tormenta / dei giorni e dire a se stessi: «Non mi piegherò». / Non mollare è il primo impegno / da mantenere, / per fare la tua parte, / per piccola che sia. (Levi Appulo)
22 giugno 2006.
Linea recta brevissima. Una teologia sicura è quasi un paradosso. Nessuno, nemmeno il teologo più ortodosso, ha il diritto di parlare come se vedesse la faccia di Dio, lui e non i suoi fratelli. Una teologia «sicura» è quasi un paradosso, una caricatura della rivelazione (Paolo De Benedetti). La risposta che dà a una tua domanda. Di una città non apprezzi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda (Italo Calvino). Chi uccide un uomo. Chi uccide un uomo uccide un mondo (Mishnà-Sanhedrin). Come il primo giorno della creazione. Finché non amiamo siamo addormentati, o ci rotoliamo nel fango. Se ami, diventi puro come il primo giorno della creazione (Lev Tolstoj).
Intellettualmente divisi, gli uomini possono cooperare in un compito comune. Sorprende constatare che nel pensiero moderno vi sono filosofi che, pur difendendo la libertà di coscienza, di culto e di associazione religiosa, non estendono la tolleranza agli atei perché essi, negando l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima, distruggono il fondamento ultimo delle relazioni tra gli uomini. La tesi, sostenuta da John Locke nella Lettera sulla tolleranza del 1689, fu condivisa da Voltaire nel Trattato sulla tolleranza, pubblicato nel 1763, e un anno prima, nel 1762, fu fatta propria da Rousseau nel Contratto sociale. Questa eccezione era pericolosa e nel secolo XX è stata portata alle ultime conseguenze dagli Stati totalitari, che hanno imposto alle masse il proprio credo – attraverso il potere della propaganda, della menzogna e della polizia – ingenerando una nuova e più terribile barbarie: l’esclusione dalla società dei dissidenti politici spogliati dei loro diritti, rinchiusi nei lager, condannati a morte. Uno dei grandi meriti della filosofia politica di Jacques Maritain è stato quello di impostare il problema della cooperazione nella ricerca del bene comune tra uomini di differenti credenze sia nell’ordine spirituale, sia nell’ordine temporale. L’idea di sé di cui la democrazia ha bisogno non è una caricatura laicizzata della fede religiosa, ma un insieme di condizioni dell’intelligenza e del cuore, una fede temporale per vivere insieme e risolvere nel modo più umano i problemi della città terrena. Una democrazia autentica non può imporre ai suoi cittadini o esigere da loro, come condizione della loro appartenenza alla civitas terrena, un credo filosofico e religioso. L’oggetto della fede temporale riguardando la convivenza ordinata e la promozione umana, è puramente pratico, non teorico o dogmatico. Ne risulta che uomini che professano principi metafisici o religiosi del tutto diversi o addirittura opposti possono – in virtù non di dottrine comuni, ma di significative convergenze pratiche – incontrarsi nelle stesse conclusioni e lavorare insieme per il bene comune.
La cosa principale è che si tenga il passo di Dio. «A colui che lo trova nella sua felicità terrena e lo ringrazia, Dio non farà mai mancare delle ore in cui gli verrà ricordato che le cose terrene sono transitorie e che è opportuno abituare il proprio cuore all’eternità; né gli farà mancare infine le ore in cui noi possiamo giustamente dire: “vorrei essere a casa…”. Ma tutto ciò vuole il suo tempo; la cosa principale è che si tenga il passo di Dio, che non si continui a precederlo di qualche passo, ma nemmeno che rimanga indietro rispetto a lui di qualche passo» (Dietrich Bonhoeffer, Resistenza e resa, testo scritto il 18 dicembre 1943).
In forma di verso. Non cercare scorciatoie. Non c’è prato in cui riposi / l’occhio, se non raso dalla falce. / Né campo biondeggiante di grano, / se prima non squarciato dal vomere / e debitamente seminato. / Uva non c’è / senza potatura a tempo debito (Levi Appulo).
29 giugno 2006.
Linea recta brevissima. Non è fuori di noi. Rivolgete la vostra attenzione su voi stessi, non lasciatevi trasportare dai sensi e cercate la felicità non nelle passioni, ma nel vostro cuore. La sorgente della felicità non è fuori, ma dentro di noi. Canto popolare russo. Nella dolce notte, / al lume della luna, / è una gioia immaginarsi / che c’è ancora qualcuno al mondo / che pensa pure a te. (Lev Tolstoj). Barbaro e inutile. Non credere di poter fare qualcosa con il terrore. Non rende, di qualunque specie sia (Michail Bulgakov). Sono grandemente a rischio. Grandemente a rischio sono coloro che hanno ricevuto il mandato di predicare il Vangelo. Ad essi non è lecito predicare un Vangelo a metà, a propria misura, defraudando i più generosi del diritto di averlo davanti a sé così com’è (Giulio Cittadini).
Un grande dono del Concilio: la dichiarazione Dignitatis Humanae sulla libertà religiosa (7 dicembre 1965). La libertà religiosa consiste nel fatto che nessuna potenza umana può costringere ad agire contro la propria coscienza e nessuno può essere impedito di agire in conformità con la sua coscienza stessa. Ogni costrizione esercitata dagli uomini è contro la verità, perché intralcia la ricerca del vero a cui ogni uomo ha diritto in forza della sua dignità. Di straordinaria importanza è il capitolo 2 sull’oggetto e il fondamento della libertà religiosa. È un testo che cancella incertezze, tragici errori ed equivoci che sono durati secoli. Quella dichiarazione conciliare segna per sempre il cammino della Chiesa nella storia contemporanea. Sono felice di offrire ai lettori più pensosi il passo della Dignitatis Humanae che ritengo centrale. La persona umana ha il diritto alla libertà religiosa. Il contenuto di una tale libertà è che gli esseri umani devono essere immuni dalla coercizione da parte dei singoli individui, di gruppi sociali e di qualsivoglia potestà umana, così che in materia religiosa nessuno sia forzato ad agire contro la sua coscienza né sia impedito, entro debiti limiti, di agire in conformità ad essa: privatamente o pubblicamente, in forma individuale o associata… Il diritto alla libertà religiosa si fonda realmente sulla stessa dignità della persona umana, quale si conosce, sia per mezzo della Parola di Dio rivelata che tramite la stessa ragione. Il diritto della persona umana alla libertà religiosa deve essere riconosciuto e sancito come diritto civile nell’ordinamento giuridico della società. A motivo della loro dignità, tutti gli esseri umani, in quanto sono persone, dotate cioè di ragione e di libera volontà e perciò investite di personale responsabilità, sono dalla loro stessa natura e per obbligo morale tenuti a cercare la verità, in primo luogo quella concernente la religione. E sono pure tenuti ad aderire alla verità una volta conosciuta e ad ordinare tutta la loro vita secondo le sue esigenze. Ad un tale obbligo, però, gli esseri umani non sono in grado di soddisfare, in modo rispondente alla loro natura, se non godono della libertà psicologica e nello stesso tempo dell’immunità dalla coercizione esterna. Non si fonda quindi il diritto alla libertà religiosa su una disposizione soggettiva della persona, ma sulla sua stessa natura. Per cui il diritto ad una tale immunità perdura anche in coloro che non soddisfano all’obbligo di cercare la verità e di aderire ad essa, e il suo esercizio, qualora sia rispettato l’ordine pubblico informato a giustizia, non può essere impedito.
Piccolo omaggio a Margherita Guidacci (Firenze 1921 – Roma 1992). Ostrica perlifera. Dio mi ha chiamato ad arricchire il mondo / decretandone il semplice strumento / basta un opaco granello di sabbia / e intorno il mio dolore iridescente.