6 luglio 2006.
Linea recta brevissima. Chi è capace di servire? Solo un uomo libero è capace di servire i suoi simili. Il servizio è per sua natura un atto volontario, l’omaggio che un uomo libero fa della propria libertà a chi gli piace, a ciò che egli giudica al di sopra di se stesso, a ciò che egli ama. Il non servire non è un rifiuto di servire, ma di amare (Georges Bernanos). Il decimo errore. Su dieci errori politici, nove consistono semplicemente nel credere ancora vero ciò che ha cessato di esserlo. Ma il decimo, che sarà il più grave, consisterà nel non credere più vero ciò che invece lo è ancora. Il solo che ci sia antipatico. «Homo faber, homo sapiens», ci inchiniamo davanti all’uno e all’altro, che si richiamano a vicenda. Il solo che ci sia antipatico è l’homo loquax, il cui pensiero, quando pensa, non si porta mai su una realtà da indagare, essendo solo una chiacchiera che si aggiunge alle sue parole. (Henri Bergson)
L’ecumenicità è una virtù e una passione. «L’ecumenicità è una virtù e una passione; è la passione di creare comunione, comprendere l’altro, il diverso da noi, di dargli le ragioni che ha. In particolare, questa virtù oggi costituisce l’anima del movimento ecumenico, il movimento interconfessionale che si propone la ricostituzione in unità del mondo cristiano, dopo le grandi divisioni avvenute nel secondo millennio della nostra storia. Nel secolo scorso, il movimento ecumenico ha potuto compiere, con la grazia di Dio, grandi passi in avanti, ottenendo notevoli e decisivi risultati. Ha cambiato il clima dei rapporti reciproci, ha messo tutti sotto il primato della parola di Dio, ha creato strutture comuni di studio. Specialmente dopo la nascita del Consiglio ecumenico delle Chiese (1948) e dopo il Concilio Vaticano II (1962-65), il movimento ha prodotto documenti teologici comuni e continua a realizzare avvicinamenti e accostamenti tra le parti per cui si può parlare ormai di una “diversità riconciliata”. Il cammino tuttavia verso la meta finale, la piena unità visibile dei cristiani in un’unica Chiesa, è ancora lungo. L’ecumenicità si applica prima di tutto nel dialogo tra cristiani, ma sollecita e guida anche il dialogo interreligioso, oggi quanto mai urgente. Essa è una dimensione interna alle chiese, ma riguarda anche tutte quante le comunità e le famiglie umane, dove porta la nota caratteristica di una dialettica di comunione, aperta e protesa alla verità che trascende tutti essendo un dono dello Spirito. Il mezzo principale per procedere insieme verso la verità è il dialogo. Ebbene, l’ecumenicità fa in modo che il dialogo interconfessionale sia sempre e soltanto un ascolto reciproco, dove si è disponibili ai cambiamenti riconosciuti giusti e possibili. Nel dialogo veramente ecumenico ciascuno “deve essere se stesso” – come ci ricorda Paul Ricoeur – ma non in modo miope e chiuso. Il dialogo vero è un procedere insieme, fatto di accostamenti, purificazioni e integrazioni, verso la luce pura e piena del Vangelo di Cristo». In questa pagina la bellezza e l’urgenza dell’ecumenismo sono espresse in un linguaggio essenziale, intenso, preciso. Chi l’ha scritta è P. Giulio Cittadini, prete oratoriano. La si legge nel suo libro Virtù quotidiane, recentemente pubblicato dalla Morcelliana di Brescia.
In forma di poesia. Quando ti vedo. – Dimmi, / come stai? / – Sto bene / soltanto / quando ti vedo (Reminiscenza manzoniana di Levi Appulo).
13 luglio 2006.
Linea recta brevissima. La vita è breve. Prendi la misura della tua vita: essa non può contenere molte cose. Non dire mai: Vorrei non averlo fatto. Non dolerti mai di aver fatto del bene. Anche se colui che beneficasti ti fa del male, tu non dire: Vorrei non averlo fatto! Se il bene che hai compiuto non è stato apprezzato come meritava, ebbene, ti piaccia anche questo risultato poco felice. Via, non perderti in considerazioni meschine. Quando un precetto è più efficace. Il precetto che fa presa è soprattutto quello inserito in un testo poetico, come se fosse un verso; in prosa colpisce di più il precetto che, per la sua concisione, assume la forma di una sentenza. (Seneca). Distinguere per unire. Nessuno più di coloro che sono entrati nell’unità può capire meglio la distinzione (Taulero. Nome italianizzato del grande mistico tedesco Tauler. Strasburgo 1300 ca-1361).
I guasti di un insegnamento troppo verbale. Nell’educazione il maestro deve saper suscitare l’interesse dello studente e provocare la sua iniziativa. Un sapere del tutto libresco, al contrario, comprime e sopprime quelle attività che chiedono soltanto di prendere il volo. In ogni materia, lettere o scienze, il nostro insegnamento è rimasto troppo verbale; ma non è più il tempo in cui era sufficiente essere uomo di mondo e saper discorrere sulle cose. Si tratta di scienza? Ebbene si espongono soprattutto dei risultati, mentre sarebbe meglio cominciare a conoscere i metodi per insegnare subito ai fanciulli a praticarli. Chi insegna solleciterà sempre coloro che apprendono a osservare, a sperimentare, a reinventare. Allora sì che l’attenzione a ciò che vanno scoprendo si farà sempre più grande! Il fanciullo è cercatore e inventore, sempre pronto a spiare la novità, insofferente di regole, più vicino alla natura di quanto non sia l’uomo adulto. L’insegnante è, però, un adulto e necessariamente farà passare in prima linea tutto l’insieme di risultati acquisiti di cui si compone il patrimonio sociale e di cui egli è legittimamente fiero. Pertanto, per enciclopedico che sia il programma, ciò che l’allievo potrà assimilare della scienza già fatta, si ridurrà a poca cosa, sarà spesso studiata senza gusto e sempre velocemente dimenticata. Nessuno dubita che ciascuno dei risultati acquisiti dall’umanità non sia prezioso, ma si tratta di un sapere adulto e l’adulto lo troverà quando ne avrà bisogno, semplicemente se ha appreso dove cercarlo. Coltiviamo piuttosto nel fanciullo un sapere che risponda effettivamente agli interessi dei fanciulli. Cerchiamo, dunque, di non soffocare sotto il peso dei rami e delle foglie secche, prodotti di antiche vegetazioni, la pianta nuova che chiede di germogliare. Queste osservazioni fotografano i guasti di un insegnamento troppo verbale, che prevale ancora oggi nelle nostre scuole di ogni ordine e grado. Henri Bergson accenna a questo problema nel secondo dei due grandi saggi con cui si apre Pensiero e movimento. Un libro che costituisce il suo «discorso sul metodo», pubblicato nel 1934. È francamente una vergogna per la cultura italiana aver ignorato questo capolavoro, uno dei più geniali che siano stati mai scritti, sino all’anno 2000, in cui è apparsa la traduzione di Francesca Sforza presso l’editore Bompiani.
Poesia del Novecento. A coloro che verranno. Lo sappiamo: anche l’odio contro la bassezza / stravolge il viso. / Anche l’ira per l’ingiustizia / fa roca la voce. Oh, noi / che abbiamo voluto apprestare il terreno alla gentilezza, / noi non si poté essere gentili. / Ma voi, quando sarà venuta l’ora / che all’uomo un aiuto sia l’uomo, / pensate a noi / con indulgenza (Bertolt Brecht).
20 luglio 2006.
Linea recta brevissima. È defatigante. Un’attesa troppo prolungata fa male al cuore. A ognuno la sua tristezza. Il tuo cuore conosce la propria amarezza. L’iracondo e il riflessivo. L’iracondo commette sciocchezze, il riflessivo sopporta. Il disprezzo e la pietà. Chi disprezza il prossimo pecca, beato chi ha pietà degli umili. (Libro dei proverbi)
«Leggere bene ad alta voce», un aiuto prezioso a chi voglia capire e gustare. Potrà essere utile dissertare sull’opera di un grande scrittore: la farà meglio comprendere e meglio gustare. Ma, di nuovo, bisogna che l’allievo abbia cominciato a gustarla e di conseguenza a comprenderla. Ciò significa che lo studente dovrà innanzitutto reinventarla o, in altre parole, appropriarsi fino a un certo punto, dell’ispirazione dell’autore. Come potrà farlo se non seguendone le orme, adottandone i gesti, l’attitudine, l’andatura? Leggere bene ad alta voce significa questo. L’intelligenza giungerà più tardi a introdurvi le sfumature. Ma sfumatura e colore non sono niente senza il disegno. Prima dell’intellezione propriamente detta vi è la percezione della struttura e del movimento, vi è, nella pagina che si legge, la punteggiatura e il ritmo. Segnalarli come occorre, tenere conto delle relazioni temporali tra le diverse frasi del paragrafo e le diverse parti della frase, seguire senza interruzione il crescendo del sentimento e del pensiero fino al punto musicalmente annotato come culminante, in ciò consiste innanzitutto l’arte della dizione. Si ha torto di considerarla come un’arte semplicemente dilettevole. Anziché giungere al termine degli studi come un ornamento, essa dovrebbe essere all’inizio e ovunque come un sostegno. Su di essa poseremo tutto il resto, se non cediamo ancora all’illusione che la cosa principale è di discorrere sulle cose e che le si conosce sufficientemente quando si sa parlarne. Ma si conosce e si comprende solo ciò che si può in qualche misura reinventare. Sia detto en passant, vi è una certa analogia tra l’arte della lettura, così come l’abbiamo definita, e l’intuizione che raccomandiamo al filosofo (Henri Bergson, Il pensiero e il movimento, Milano 2000, pp. 78-79).
Mai la virtù resta nascosta. Mai la virtù resta nascosta e, comunque, il restar nascosta non è per lei stessa danno: giorno verrà che disveli quella virtù che rimane nascosta e soffocata dalla malignità dei tempi suoi. Nato è per pochi chi pensa solo ai suoi contemporanei. Molte migliaia di anni, molte migliaia di popoli verranno ancora, in futuro: ad essi rivolgi il tuo pensiero. Anche se il livore avrà imposto il silenzio a tutti i tuoi contemporanei, verranno, un giorno, quelli che sapranno giudicare senza volerti né offendere né lusingare. Se una ricompensa per la virtù viene dalla fama, neppure questa perisce (Seneca, Ep. 89, 17).
Forse è l’ultima poesia di Thomas S. Eliot. Una dedica a mia moglie. A cui devo la gioia palpitante / che tiene desti i miei sensi alla veglia, / e il ritmo che governa il riposo nel sonno, / il respiro comune / di due che si amano, e i corpi / profumano l’uno dell’altro, / che pensano uguali pensieri / e non hanno bisogno di parole / e si sussurrano uguali parole / che non hanno bisogno di significato. // L’irritabile vento dell’inverno non potrà gelare, / il rude sole del tropico non potrà mai disseccare le rose / nel giardino di rose che è nostro ed è nostro soltanto. / Ma questa dedica è scritta affinché altri la leggano: / sono parole private che io ti dedico in pubblico. Eliot la scrisse per la seconda moglie, la giovane Valerie Fletcher, sposata nel 1957, che illuminò gli ultimi anni della sua vita. Eliot morì nel 1965.
27 luglio 2006.
Linea recta brevissima. Lo scandalo per eccellenza. Lo scandalo non è dire la verità, è non dirla tutta intera. È introdurvi, per omissione, una menzogna che la lascia intatta al di fuori ma che le rode, come un cancro, il cuore e le viscere. Scandalo è introdurvi piccoli sotterfugi che la sfigurano. Il rischio di ogni istante. La libertà, vivificata da un principio spirituale, la cui sorgente è la nostra anima, rischia a ogni istante, come noi e con noi, la propria salvezza e la propria dannazione (Georges Bernanos). Amare la giustizia. La giustizia fa onore a una nazione (Libro dei proverbi). Il tempo e la verità. Il tempo prova sempre la verità (Thomas More).
L’identikit del gentlement nei Discorsi universitari di Newman. Tra le opere più notevoli di John Henry Newman per intensità di riflessione, eleganza di stile e importanza dei temi trattati, c’è L’idea di università, la cui redazione finale risale al 1873. Molto opportunamente P. Giulio Cittadini ha scelto una pagina particolarmente significativa di quell’opera e l’ha offerta alla riflessione di quanti leggeranno il suo volumetto Virtù quotidiane, pubblicato nel maggio 2006 dalla Morcelliana di Brescia sotto la voce «Signorilità». Suona quasi una definizione di gentiluomo il dire che egli è uno che non reca mai dolore. Egli si preoccupa soprattutto di eliminare gli ostacoli che impediscono la libera attività di chi gli sta vicino e si adopera a rimuovere ostacoli e intralci, piuttosto che prendere egli stesso l’iniziativa. Evita accuratamente tutto ciò che può provocare dissonanze o produrre choc negli altri. Evita con cura tutto ciò che porta al conflitto di opinioni, o di sentimenti, suscitando sospetto o risentimento. Il suo pensiero principale è di mettere ciascuno a suo agio. Ha occhi per ogni persona con cui entra in relazione: è tenero verso chi è timido, gentile verso chi è riservato, pieno di comprensione per chi è goffo. Si guarda da allusioni inopportune, evita discussioni che potrebbero suscitare irritazione. Difficilmente mette avanti se stesso e tiene banco nella conversazione. Ciò che egli dice non è mai noioso. Non dà importanza alcuna ai favori che fa e sembra che li riceva egli stesso quando li concede. Non parla mai di se stesso se non quando vi è costretto. Non difende mai se stesso, non ha orecchi per la maldicenza e i pettegolezzi. Interpreta sempre ogni cosa per il meglio. Nelle discussioni non è mai meschino o volgare, non confonde le accuse personali o le frasi taglienti con argomentazioni serie, non ricorre ad attacchi personali. Con prudenza lungimirante, osserva la massima dell’antica sapienza secondo la quale dovremmo sempre comportarci verso i nostri nemici come se dovessero diventare un giorno nostri amici.
Passi, accresciuta da me, questa eredità… Io venero le scoperte della sapienza e gli scopritori. Mi piace farle mie come se fossero un’eredità che ci viene da molti antenati. Per me hanno acquistato, per me hanno penato. Facciamo come il buon padre di famiglia, aumentiamo il capitale che abbiamo ricevuto. Passi, accresciuta da me, ai posteri questa eredità. Ancora molto resta da fare e molto resterà; né ad alcuno, anche se nascerà fra mille secoli, mancherà l’occasione di aggiungervi qualcosa (Seneca, Ep. 64, 7).
3 agosto 2006.
Linea recta brevissima. L’arte come rappresentazione simultanea. L’arte che voglia rappresentare convenientemente la realtà dovrà renderla con una rappresentazione simultanea e del paesaggio interno e del paesaggio esterno. Ne risulta che l’artista dovrà tentare di produrre un’intersezione tra due paesaggi (Fernando Pessoa). Porsi le giuste domande. L’arte del domandare è l’arte stessa del pensare (Hans G. Gadamer). Una parola non è la stessa. Una parola non è la stessa in uno scrittore o in un altro. Uno se la strappa dalle viscere, l’altro la tira fuori dalla tasca del soprabito (Charles Péguy). È sempre il quadro intero. I pittori vanno dallo schizzo al quadro dipingendo ogni volta il quadro intero. La memoria del presente. I poeti non devono perdere la memoria del presente. (Charles Baudelaire)
«La democrazia è di essenza evangelica». Di tutte le concezioni politiche la democrazia è la più lontana dalla natura, la sola che trascenda, almeno nelle intenzioni, le condizioni della «società chiusa». Essa attribuisce all’uomo dei diritti inviolabili, i quali, per rimanere inviolati, esigono da parte di tutti una fedeltà inalterabile al dovere. Un uomo ideale, che faccia parte di un ordinamento democratico, è rispettoso degli altri come di se stesso e assume obblighi che considera ineluttabili con intima adesione, sì che non si riesce a veder se è il dovere la sola giustificazione del diritto, o se è lo stesso diritto che imponga l’adempimento del dovere. Il cittadino è così, a un tempo, «legislatore e suddito» per usare il linguaggio di Kant. La democrazia proclama la libertà, richiede l’uguaglianza e riconcilia queste due sorelle nemiche, ricordando loro di essere sorelle, mettendo al di sopra di tutto la fratellanza. Si consideri da questo lato la concezione repubblicana e si vedrà che il terzo termine elimina la contraddizione, così spesso segnalata, fra gli altri due e che la fratellanza è l’essenziale: e questo permette di dire che la democrazia è di essenza evangelica e ha per motore l’amore. Questa luminosa pagina di Henri Bergson sulla democrazia, via alla «società aperta» e traguardo etico–politico di una umanità rinnovata dallo spirito del Vangelo, è tratta dall’ultimo capolavoro del filosofo francese Le due fonti della morale e della religione (Brescia 1996, p. 267).
Il commento di Jacques Maritain. A illustrazione della frase bergsoniana: «la democrazia è per essenza evangelica» Maritain ha dedicato lo scritto Cristianesimo e democrazia, apparso nella primavera del 1943, a New York (Milano 1950). In esso l’ex–discepolo di Bergson, ormai in pieno accordo con il maestro su questi temi, osserva giustamente: «Ciò che interessa la vita politica del mondo e la soluzione della crisi della civiltà non è affatto la pretesa che il cristianesimo sia legato alla democrazia, e che la fede cristiana obblighi i fedeli ad essere democratici; ma è constatare che la democrazia è legata al cristianesimo e che è sorta nella storia umana come manifestazione temporale dell’ispirazione evangelica. La questione non verte sul cristianesimo come credo religioso e come via alla vita eterna, ma sul cristianesimo come lievito della vita sociale e politica dei popoli e come apportatore agli uomini di speranza terrena, sul cristianesimo come energia storica che opera nel mondo».
Poesia del Novecento. Mangia e bevi, e sii contento. «Mangia e bevi» – mi dicono. / «E sii contento di averne». / Ma come posso io mangiare e bere, quando / quel che mangio a chi ha fame lo strappo, / e manca a chi ha sete un bicchier d’acqua? (Bertolt Brecht).
10 agosto 2006.
Linea recta brevissima. L’attenzione. Cercar di rimediare agli errori con l’attenzione e non con la volontà (Simone Weil). Entrambi, il visibile e l’invisibile. Le cose visibili possono essere invisibili. Se qualcuno va a cavallo in un bosco, prima lo si vede, poi no, ma si sa che c’è. Tuttavia il nostro pensiero comprende entrambi, il visibile e l’invisibile. E io utilizzo la pittura per rendere visibile il pensiero (René Magritte). La tormentosa superstizione da scacciare. Noi ci troviamo alle soglie di una vita nuova e completamente gioiosa; accedere ad essa dipende unicamente da questo: liberarsi dalla tormentosa superstizione che sia necessaria la violenza nella vita di relazione e accettare l’eterno principio dell’amore (Lev Tolstoj).
La verità «rivoluzionaria» del Vangelo, fermento di una storia più alta. Quali che siano le differenze fra la Dichiarazione dell’indipendenza americana e la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, l’una e l’altra hanno la loro sorgente originaria nel Vangelo, che ha immesso per sempre nel mondo un nuovo e più alto senso della dignità dell’uomo. La presa di coscienza della novità del messaggio cristiano e delle conseguenze che esso comporta si svolge nella storia e ha i suoi tempi di maturazione; il cammino dei popoli e delle stesse Chiese in quella direzione non è, infatti, una marcia inarrestabile, ma una conquista non sempre facile, uno sforzo doloroso esposto com’è all’errore, allo scacco, a pericolosi slittamenti e arretramenti. Si aggiunga che, soprattutto in Europa, gli ideali di matrice cristiana spesso sono stati difesi, nel campo dei grandi principi dello Stato di diritto e della democrazia, da pensatori e uomini d’azione che non erano credenti; non per questo, però, essi erano meno tributari del cristianesimo, «il gran fatto, il maggior fatto senza dubbio della storia universale, che ha plasmato il nostro modo di sentire e di pensare in guisa incancellabile, sì che anche i cosiddetti liberi pensatori, anche gli anticlericali non possono sfuggire a questa sorte comune dello spirito europeo», come scrive Federico Chabod nella sua mirabile Storia dell’idea d’Europa (Bari 1961). A esemplificazione di quanto s’è detto val la pena di ricordare un episodio della rivoluzione francese. Quando la notte del 4 agosto 1789 i capi della borghesia rivoluzionaria indussero alcuni dei maggiori proprietari di Francia a presentare le proposte più ardite sull’abolizione dei privilegi feudali, e quelle proposte furono quasi tutte accolte, la consapevolezza di aver scritto una grande pagina di storia afferrò l’Assemblea Nazionale. I suoi membri stabilirono allora di togliere la seduta, alle due del mattino, al canto del Te Deum, il più celebre e solenne inno di lode a Dio (Georges Lefebvre, L’Ottantanove, Torino 1949).
Sulla poesia. Io credo e professo che la poesia sia indefinibile e che si manifesti nei momenti della nostra parola quando ciò che ci è più caro, ciò che di più ci ha inquietato e agitato nei nostri sentimenti e nei nostri pensieri, ciò che appartiene più profondamente alla ragione stessa della nostra vita, ci appaia nella sua verità più umana; ma in una vibrazione che sembri superare la forza dell’uomo, e che non saprebbe mai essere conquista né di tradizioni né dello studio sebbene delle une e dell’altro essa incessantemente si nutra. Essa è il frutto di un momento di grazia. I modi della poesia sono, dunque, infiniti, sono tanti quanti sono i poeti del passato, d’oggi e del futuro. Ogni poeta ha da svincolare la propria originalità liberamente, ma ha nello stesso tempo da ricordarsi che ogni poesia, per essere tale, deve anche possedere quei caratteri d’anonimia che le impediranno sempre di apparire estranea ad ogni essere umano. Ogni vera poesia risolve miracolosamente il contrasto d’essere singolare, unica, anonima e universale (Giuseppe Ungaretti, Sulla poesia).
17 agosto 2006.
Linea recta brevissima. L’emozione creatrice. Tutte le abitudini del mestiere sono sacrificate alla ragione ultima dell’emozione (Umberto Boccioni). L’arte e la creazione. L’arte è l’immagine allegorica della creazione (Paul Klee). La serietà e il riso. Chi non ride mai non è una persona seria (Fryderyk Chopin).
«Veni Mediolanum ad Ambrosium episcopum». Nelle Confessioni Milano è tutt’uno con Ambrogio: Veni Mediolanum ad Ambrosium episcopum (V, 13). L’africano giunge a Milano nell’autunno del 384, a trent’anni, come vincitore della cattedra di retorica; ma il riconoscimento gli veniva da Simmaco, capo del partito filopagano, al quale non parve vero inviare nella capitale dell’impero un eretico anticlericale capace di tener testa ad Ambrogio, suo lontano cugino. Quando arriva a Milano, Agostino è, infatti, ancora legato ai manichei, anche se intellettualmente deluso dalla insostenibilità, divenuta sempre più evidente, delle loro dottrine. Il primo incontro tra i due fu per una visita di cortesia. Ambrogio gli diede il benvenuto «da perfetto vescovo» (satis episcopaliter) e Agostino prese subito ad amarlo «non come maestro di verità, ma come persona che gli mostrava benevolenza» (Conf. V, 13). Il vescovo predicava spesso e il professore di retorica andava ad ascoltarlo ogni domenica per giudicare «se la sua arte oratoria fosse quale si diceva». Ma mentre l’attenzione è rivolta alle parole, entrano nell’anima sua a poco a poco verità, chiarificazioni essenziali, aspirazioni nuove e più alte. L’efficacia di Ambrogio su Agostino si rivelerà sempre più profonda e decisiva: nei libri centrali delle Confessioni il protagonista è Ambrogio che, parlando al popolo, istruisce e illumina Agostino, aprendogli orizzonti fino ad allora sconosciuti. Ambrogio ridà ad Agostino il gusto della ricerca, facendolo passare, a poco a poco, dalla «disperazione di trovare la verità» (Conf. VI, 1) alla ricerca del come e dove trovarla. I risultati non tardarono ad arrivare: Agostino abbandona definitivamente il manicheismo, rifiuta ogni antropomorfismo nella concezione di Dio, ritorna con animo mutato a leggere la Bibbia, sceglie il cattolicesimo come ipotesi religiosa da esplorare e decide di rimanere frattanto nella Chiesa cattolica come catecumeno finché fosse balenata una luce verso la quale poter dirigere i suoi passi. Il segno più duraturo dell’influenza di Ambrogio su Agostino rimane, però, l’adesione convinta dell’africano al metodo praticato dal vescovo di Milano nell’interpretazione della Scrittura: Ambrogio dette ad Agostino la chiave per comprendere la Scrittura ponendo al centro della sua esegesi le parole di Paolo: «La lettera uccide, ma lo spirito vivifica» (2 Cor. 3, 6).
Poesia del Novecento. Va tranquillo il vecchio capitano. L’amore più non è quella tempesta / che nel notturno abbaglio / ancora mi avvinceva poco fa / tra l’insonnia e le smanie, / balugina da un faro / verso cui va tranquillo / il vecchio capitano (Giuseppe Ungaretti in Allegria di naufraghi). La pietà. Sono un uomo ferito. / E me ne vorrei andare / e finalmente fingere / pietà, dove si ascolta / l’uomo che è solo con sé. / Non ho che superbia e bontà. / E mi sento esiliato in mezzo agli uomini. / Sono stanco di urlare senza voce (Giuseppe Ungaretti in Sentimento del tempo).
24 agosto 2006.
Linea recta brevissima. Dar voce a chi non ha voce. Apri la tua bocca in favore del muto (Libro dei Proverbi). Il capo che idolatra se stesso è un grande corruttore. Se il capo idolatra se stesso e permette al seguace che questi faccia di lui il suo idolo, allora la figura del leader si trasforma in quella del peggior corruttore (Dietrich Bonhoeffer). Riportarsi al centro del cuore. La poesia è l’arte in cui meglio si celebra l’attivazione della memoria. Ricordare è tornare in noi stessi, riportarsi al centro del cuore: dunque conoscersi (Massimo Cacciari). Una percentuale di diritto al mistero. Un artista non dovrebbe mai rinunciare alla sua percentuale di diritto al mistero (Fabrizio De André).
Il «colloquio a distanza» tra Ambrogio e Agostino. Grande e sotto ogni aspetto decisiva fu l’influenza di Ambrogio su Agostino, tuttavia il modo di rapportarsi reciproco dei due fu sempre indiretto e, per così dire, a distanza. «Non mi era possibile interrogarlo – scrive Agostino – su ciò che volevo e come volevo: una turba di gente indaffarata si frapponeva tra me e le sue orecchie, tra me e la sua bocca» (Conf. VI, 3). La discrezione di Agostino nei confronti di Ambrogio è fuori discussione e ciò nonostante si ha l’impressione che in realtà i due spiriti fossero molto diversi e che la via imboccata – la predicazione di Ambrogio per tutti i fedeli – fosse la forma più opportuna di comunicazione tra loro. In un passo delle Confessioni (ibid.) Agostino si chiede «quali lotte Ambrogio sostenesse contro le tentazioni che gli venivano dalla sua stessa grandezza (adversus ipsius excellentiae tentamenta)». Questa è una di quelle frasi, acutissime e anticonvenzionali, con cui l’africano sospinge i lettori di ogni tempo a interrogarsi su se stessi, ma anche sulle vicende della storia e dei loro protagonisti: per ogni uomo autenticamente grande, la più forte tentazione non viene forse dalla consapevolezza che egli ha della missione da compiere e della sua stessa personalità? A me pare che sia lo stesso interrogativo a dominare il dramma di T. S. Eliot, Assassinio nella cattedrale. I tentatori vogliono che l’arcivescovo di Canterbury «si perda nello stupore della sua stessa grandezza» e Thomas Becket risponde alle loro sottili analisi e insinuazioni con le celebri parole: «Chi siete voi che mi tentate con i miei stessi desideri?». Agostino aveva bisogno di apporti sollecitatori anche in campo filosofico e questi gli vennero soprattutto da Simpliciano, che era stato la guida spirituale di Ambrogio nel periodo che precedette l’esercizio del servizio episcopale. Per approfondire le ragioni della fede a cui andava progressivamente aprendosi, Agostino doveva superare per sempre gli scogli del materialismo e del dualismo. I colloqui amichevoli con Simpliciano contarono molto per lui: l’umile, dottissimo prete anziano, era, senza apparire, al centro del movimento intellettuale milanese che tendeva a incorporare alla visione cristiana della vita ciò che di meglio si trovava in Plotino e nei platonici, senza per questo platonizzare il cristianesimo. Alla morte di Ambrogio nel 397, Simpliciano gli succedette nella cattedra episcopale. Due anni prima Agostino era stato nominato vescovo di Ippona. Commuove vedere il venerando maestro di Ambrogio e di Agostino scrivere all’africano per chiedere a sua volta lumi su ottantatré diverse questioni.
Se è vera poesia. L’artista, il poeta, nella sua adesione, lo sappia o meno, alle circostanze sino nel loro segreto, cerca di ristabilire un’unità nell’essere, di ritrovare una serenità. E per questo, se noi vogliamo conoscere a fondo un dato momento della storia, noi dobbiamo interrogare gli artisti, i poeti. Sono essi gli interpreti più veri per i secoli, del divenire di una società (Giuseppe Ungaretti).
31 agosto 2006.
Linea recta brevissima. La regola e l’emozione. Amo la regola che corregge l’emozione. Amo l’emozione che corregge la regola. La realtà non si rivela che quando è illuminata da un raggio poetico (Georges Braque). Sulla statua di Colombo a New York. Sulla statua di Cristoforo Colombo a New York è comparso il seguente graffito: «Lui comunque è uno che si era perso».
Il difficile rapporto tra Agostino e sua madre Monica. Il padre di Agostino, Patrizio, un piccolo proprietario terriero, viene descritto dal figlio come uomo impulsivo e sensuale, ma generoso e affezionato. La sua figura è nettamente superata dalla figura di Monica. Patrizio, che era pagano, fu vinto dalla «eloquenza dei costumi» della moglie e si iscrisse tra i catecumeni della chiesa cattolica un anno prima di morire. Sull’adolescenza di Agostino grava l’effettiva povertà di mezzi dei suoi genitori, i quali, però, con «ostinata risolutezza» volevano assicurare al figlio l’educazione classica. Essi facevano di tutto per risparmiare ed erano costretti anche a vestire miseramente per mantenerlo agli studi medi nella vicina Madaura (Sermo 356, 3). Agostino, però, non poté recarsi a Cartagine per proseguire gli studi superiori, non avendo i suoi il denaro occorrente, e così fu costretto a trascorrere un anno di ozio a Tagaste. In quel sedicesimo anno della sua vita per Agostino scoppiò, tardiva e violenta, la crisi della pubertà e la sua condotta travolse «tutti i limiti della legge di Dio» (Conf. II, 2). La madre, sgomenta, lo supplicava di «astenersi specialmente dall’adulterio con l’altrui donna», ma le sue incalzanti sollecitudini non trovavano ascolto. L’anno successivo la generosità di un signore di Tagaste e i sudati risparmi dei suoi genitori permisero ad Agostino di frequentare la scuola di retorica a Cartagine; lì lo studio intenso e l’amore per una giovinetta di umili condizioni, che gli diede un figlio, Adeodato, lo liberarono presto da dissipazioni e amorazzi. A quella donna, che resta innominata nelle Confessioni, Agostino serbò assoluta fedeltà per quindici anni e ciò attesta la nobiltà del suo animo. Nel frattempo l’adesione al manicheismo, anche se non piena, allontanò Agostino dalla ricerca della fede per nove anni, dal diciannovesimo al ventottesimo, ingenerando un’angoscia indicibile nell’animo di Monica. Nel 383 Agostino, stanco di essere boicottato da gruppi di studenti turbolenti (eversores) e ormai disilluso dei manichei, desideroso di operare in un ambiente culturalmente meno ristretto e più ricco di opportunità, fugge dall’Africa per raggiungere Roma. Ma fugge altresì da sua madre e per mettere a segno la sua decisione non esita a mentirle: «Mi seguì fino al mare; quando mi strinse violentemente, nella speranza di dissuadermi dal viaggio o di proseguire con me, la ingannai, fingendo di non voler lasciare solo un amico, che attendeva il sorgere del vento per salpare. Mentii a mia madre, a quella madre… Essa si rifiutò di tornare a casa senza di me, e faticai a persuaderla di passare la notte all’interno di una chiesuola che sorgeva vicinissima alla nostra nave. Quella notte stessa io partivo clandestinamente, mentre lei rimaneva a pregare e a piangere» (Conf. V, 8). Agostino, ormai ventinovenne, malgrado l’affetto e la stima per sua madre, fa dunque di tutto per partire senza di essa forse proprio a causa delle sue eccessive premure.
Poesia del Novecento. Il poeta. Il poeta ha le sue giornate / contate / come tutti gli uomini; ma quanto, / quanto variate! // Con un rosso di sera fa ritorno, / e con le nubi cangia di colore / la sua felicità, / se non cangia il suo cuore (Umberto Saba).
7 settembre 2006.
Linea recta brevissima. Occorre essere in tanti a sognare. Se tanti uomini sognano la stessa cosa, il sogno può diventare realtà (Helder Camara). Il silenzio e il suono. Mi importa il momento in cui il silenzio diventa suono. Mi importa il momento in cui il suono si trasforma in silenzio (Luciano Berio). Il momento giusto. È sempre il momento giusto per fare la cosa giusta (Martin Luther King). Non c’è che da tentare. Forse non c’è / da guadagnare / né da perdere / per noi. / Per noi non c’è / che da tentare. / Il resto / non ci riguarda (Thomas Sterne Eliot). La verità e il sogno. Inquietudine e pace. Donami, Signore, l’inquietudine affinché possa poi giungere alla pace che vive in Te (Sophie Scholl, giovanissima martire de La Rosa Bianca, il movimento fondato a Monaco dagli universitari antinazisti).
Allora avvenne qualcosa di grande, l’apparizione di un uomo grande che cambia un’epoca. L’uomo della fine del secolo XX non conosce più in larga misura valori assoluti, perciò neppure universalmente vincolanti. Tutto si è fatto relativo per lui. Noi non intendiamo con questo la scienza esatta, né i compiti d’ordine tecnico o sociale o altri ancora, ma ciò che abbiamo chiamato l’interpretazione dell’esistenza. Questo però agisce già direttamente in molti settori della vita, mediamente e spesso in modo decisivo in tutti. L’uomo medio attuale non conosce più criteri oggettivi per i quali gli possa risultare chiaro ciò che è valido. Allora voi probabilmente direte: «Bene, ma ora che si può fare?». Permettetemi di rispondere con uno schizzo breve di un’epoca che rappresenta in parte un parallelo della nostra situazione. Naturalmente non è uguale alla nostra, giacché la storia non si ripete. Tuttavia vi si può apprendere qualcosa anche per noi. Si tratta precisamente dell’epoca in cui si concluse l’età aurea di Atene: il tempo della guerra del Peloponneso, durata quasi 30 anni, dal 431 al 404, e causa d’una distruzione radicale. In essa è esploso il vizio originario dei Greci, che è il versante negativo della loro originaria forza, l’agonismo: il vizio, cioè, di non riuscire a trovare un ordine comune e a lavorare in concordia. Nell’antica religione mitica si radicava tutto ciò che si chiamava tradizione: relazioni di profondo rispetto, criteri del gusto e del degno, ordini della vita individuale e sociale. Ebbene tutto questo si era disintegrato in uno scetticismo generale, anzi in una generale indifferenza. Quanto poi alla vita dello spirito essa stava nelle mani di gente, il cui nome era divenuto la designazione d’un’esistenza senza sostanza, i sofisti. Per loro i valori spirituali erano stati sostituiti da quelli materiali. Verità, moralità diritto non avevano più peso; ciò che valeva era il piacere, la ricchezza, il prestigio, il potere. La vita intellettuale si risolveva in un indefinito discutere e analizzare. Importante restava, in una cultura come quella ateniese fortemente legata alla parola, la tecnica di farsi politicamente strada con l’arte della parola. Una brutta epoca, caratterizzata da nomi quali Gorgia, Callicle, Prodico, Protagora. E allora avvenne qualcosa di grande, di misterioso, come misteriosa è sempre l’apparizione di un uomo grande che cambia un’epoca. Fu Socrate (Romano Guardini, Pluralità e decisione, 1961. Trad. it. nel vol. XVI dell’«Opera omnia», Socrate e Platone, Brescia 2006, p. 504).
Poesia del Novecento. Più d’ogni cosa prediligo. Un buio afoso grava sul giaciglio / e respira con affanno il petto. / Più d’ogni cosa prediligo forse / l’esile croce e una via segreta (Osip Mandel’štam).
14 settembre 2006.
Linea recta brevissima. Una citazione da Lincoln. Nel necrologio per Gunnar Myrdal, apparso sul New York Times del 18 giugno 1987, leggiamo che quest’uomo, che è riuscito ad armonizzare una rara intelligenza e competenza sociologica con una forte passione sociale, teneva sulla sua scrivania una citazione da Lincoln: «Peccare con il silenzio, quando si dovrebbe protestare a gran voce, fa degli uomini dei vigliacchi». Dove si mostra il coraggio? Il coraggio si mostra soprattutto nella povertà, nella malattia, nei pericoli (Aristotele). La verità è un bene per tutti. Devi credere che sia un bene comune per tutti gli uomini, nessuno escluso, che la verità ogni volta venga portata alla luce (Socrate nel dialogo platonico Carmide). Credo che dovremmo essere avidi di sapere quello che è vero e quello che è falso sulle cose di cui discutiamo: infatti è un bene per tutti che la verità sia resa evidente (Socrate nel dialogo platonico Gorgia).
Cogliere la totalità dell’esistenza, riscoprire la gioia. Alcune persone hanno subito fin dall’inizio della loro vita scosse talmente gravi per cui non è concesso loro di avere nostalgia per qualcosa di libero e degno. Si sono abituati in un periodo molto lungo ad allentare la tensione interiore, e si procurano come surrogato delle gioie di più breve durata e più facili da soddisfare. È il triste destino dei ceti proletari e la rovina di ogni fecondità spirituale. Cercare un rimpiazzo, però, a noi deve ripugnare. Nella prova dobbiamo, infatti, resistere, semplicemente attendere e ancora attendere, soffrire indicibilmente per la separazione, provare nostalgia fin quasi ad ammalarci – e solo in questo modo manteniamo viva la comunione con le persone che amiamo, sia pure in modo molto doloroso. Purtroppo sono pochi gli uomini capaci di albergare in se stessi molte cose contemporaneamente. Quando si sentono minacciati, sono solo paura; quando c’è qualcosa di buono da mangiare, sono solo avidità; quando un loro desiderio non si realizza, sono solo disperati; quando qualcosa gli riesce, non sono più capaci di vedere nient’altro. Essi non colgono la pienezza della vita e la totalità dell’esistenza autentica; tutto ciò che è obbiettivo e tutto ciò che è soggettivo si risolve per loro in meri frammenti (Dietrich Bonhoeffer in Resistenza e resa).
Poesia del Novecento. Preghiera. Quando mi desterò / dal barbaglio della promiscuità / in una limpida e attonita sfera / quando il mio peso mi sarà leggero / il naufragio concedimi Signore / di quel giovane giorno al primo grido (Giuseppe Ungaretti, Allegria di naufragi).
21 settembre 2006.
Linea recta brevissima. Se l’utopia degenera in ideologia. Vi sono anche utopie liberticide. Esse appaiono più realizzabili di quanto non le si creda e noi ci troviamo attualmente davanti a una questione angosciante: come evitare la loro realizzazione definitiva? La vita cammina verso le utopie. E può essere che cominci un secolo nuovo, un secolo in cui gli intellettuali e la classe colta troveranno un modo di evitare le utopie e di tornare a una società non utopica, meno perfetta e più libera (Nikolaj Berdiaev). La fede in un’attività cui siamo chiamati. Vi è in me, vi è sempre stato e vive in me, con ogni mio respiro, la fede in un’attività alla quale siamo stati chiamati: impregnare di dolore la polvere, darle un’anima. Io credo in un universo invisibile nel quale iscriviamo ciò che abbiamo inconsapevolmente compiuto. Sento l’energia della luce che fa scaturire la musica dalle pietre e soffro per la freccia della nostalgia, la cui punta ci colpisce subito a morte e ci spinge a cercare al di fuori, là dove inizia l’insicurezza (Nelly Sachs).
Platone e Aristotele sull’estetica del comico. Platone scriverà sull’arte comica due osservazioni che ritengo non soltanto vere, ma di grande penetrazione psicologica. La prima è la seguente: non è possibile comprendere ciò che è serio se non in relazione al ridicolo, ma con questo non si intende affatto dire che chi vuol possedere la virtù, anche in minima parte, debba mescolare in sé il serio e il ridicolo. La seconda osservazione ha anche un innegabile valore educativo. «Se godi assai di una rappresentazione comica o, in privato, nell’ascoltare le buffonate che ti vergogneresti di fare, e non le censuri come atti perversi, l’innata tendenza alla licenza, che contenevi con il freno della ragione e per timore di essere tacciato di indecente scurrilità, tu allora l’allenti e, ardita, per quegli altri casi, la trasporti inconsapevolmente ai casi della tua vita e così diventi tu stesso quasi un autore di commedie buffe» (Repubblica X 606 c). Aristotele si assunse contro il maestro la parte di apologeta della poesia ed elaborò la tesi della purificazione spontanea, o catarsi, come segno ed effetto di un’opera d’arte veramente riuscita. Aristotele definiva nella sua Poetica (4149 a 30-35) come anche alla commedia possa essere applicata la dottrina della catarsi formulata principalmente per la tragedia, perché l’opera d’arte riuscita libera in noi la capacità di sorridere che dispone al bene e alla benevolenza. Aristotele, però, non dimentica la fondatezza delle critiche platoniche e anch’egli vuole che siano esclusi dalla commedia il dolore e il danno.
Poesia religiosa del XX secolo. Il dono del Signore. Ti è passato accanto il Signore / e non hai aperto la porta / della tua casa. / Le luci di tutti gli smeraldi, / i nitidi occhi delle stelle più pure, / l’alito della vita che spira / tra selve di uomini e di foglie / sono povere cose nel nulla / di fronte al dono che il Signore / voleva recarti, quando, / forte di un silenzio d’amore, / ha sostato davanti alla soglia / della tua casa. Un altro amore. Le creature sono Tue / e noi l’ignoriamo. / Sono luci nell’arco / del Tuo volere, / parole della Tua legge, / soffio del Tuo amore. / Le creature sono Tue / e la nostra brama ci spinge / a possederle, a devastarle. / Abbi pietà dei nostri occhi / che le guardano, / della nostra carne / che le desidera, / del nostro orgoglio / che le seduce. / Insegnaci un altro amore. (Donata Doni)
28 settembre 2006.
Linea recta brevissima. Ciò che ci fa buoni e ciò che non lo può. Ciò che è buono ci rende buoni. I vantaggi che ci vengono dalla fortuna non lo possono: infatti non sono dei beni (Seneca). Se la massa è plagiata, il populismo corruttore trionfa. Al di là di ogni distinzione di ceto e di livello d’istruzione, là dove manchino il senso della responsabilità personale e la coscienza del bene comune, si verifica un fenomeno di vaste proporzioni, una sorta di proiezione-transfert di cui Tacito negli Annali ci indica la causa: «tanta gente è felice se il Principe mostra d’avere i suoi stessi gusti» (Levi Appulo).
Ciò di cui abbiamo assoluto bisogno: una più alta moralità civile. «Il pericolo più grave non è quello che viene da fuori, bensì un male oscuro che insidia dal di dentro le istituzioni. È l’appannarsi dei valori ideali, è lo scivolare della vita politica su binari di interessi corporativi inconfessabili, è una montante mediocrità di comportamenti civili, amministrativi, politici – che allontana i giovani dalla vita pubblica, e diffonde sfiducia e scetticismo. Se resta povera di ideali, di rigore morale nella vita pubblica, ogni democrazia si corrompe. Ed è proprio su questo che mi pare dobbiamo oggi raccogliere il messaggio dei nostri cari che sono caduti, in questa piazza, dieci anni fa. Ricordiamo il loro impegno, la loro rigorosa passione civile, suggellata dalla drammaticità della loro morte. Ed è con questo metro intransigente che essi chiedono siano misurati i comportamenti di tutti, i nostri, quelli di ciascuno di noi, e quelli delle istituzioni. Diverse possono essere le soluzioni proposte per i gravi problemi che abbiamo davanti. Ma in una cosa credo ci troviamo tutti d’accordo: che cioè la strada per risolverli è quella di esigere una più alta moralità civile, una grande limpidezza nei comportamenti politici». La strage fascista di Piazza della Loggia, a Brescia, avvenne il 28 maggio 1974. Il brano che qui riporto fa parte del discorso tenuto dieci anni dopo da Luigi Bazoli, che in quella tragedia aveva perso la moglie Giulietta Banzi. Quelle sue parole suonano ancora oggi quanto mai attuali; ad esse Luigi Bazoli fu sempre rigorosamente fedele, anche negli anni in cui fu assessore all’urbanistica nell’Amministrazione Comunale della sua città. Luigi Bazoli impegnò la sua fervida intelligenza in molteplici iniziative culturali e politiche. Morì improvvisamente, a causa di un incidente stradale, il 10 ottobre 1996.
Poesia religiosa del XX secolo. Non sappiamo parlarti, Signore. Non sappiamo parlarti, Signore. / Parlarti come si parla / alla propria anima, / senza ingannarci, / senza ingannarti. / Parlarti come il fiore che s’apre, / come l’astro fisso nella Tua luce, / i cieli assorti nel Tuo splendore. / Non sappiamo che dirti / trascurate preghiere, / o lanciarti il grido / dell’anima, della carne ferita. / Insegnaci le parole del silenzio (Donata Doni).
5 ottobre 2006.
Linea recta brevissima. Lui arriva sempre dopo. Che non ti accada, come dice il proverbio, di imparare come l’improvvido, dopo aver sofferto (Esiodo). La bellezza che libera l’anima. La rivelazione della bellezza divina e la sua forza che libera l’anima ci tocca da vicino nel tempio di Pesto, nella cappella medicea, nella lettura dell’Orestiade e della Divina Commedia, nel racconto della Passione di Matteo (Ulrich von Wilamowitz). La Chiesa cristiana primitiva e la filosofia. La Chiesa cristiana primitiva non cercò di mescolarsi agli Dèi della religione popolare, ma optò decisamente per il Dio dei filosofi come interlocutore diretto e provvidenziale. La prova? Ce la dà già san Paolo nel discorso agli ateniesi (Levi Appulo). Non per la prossima volta, ma per sempre. Noi non facciamo storia per diventare prudenti per la prossima volta, ma saggi per sempre (Leopold von Ranke).
Un gran colpo di fortuna: all’inizio ci fu Socrate. Nei Taccuini di Albert Camus si legge questa splendida massima: «Perché un pensiero cambi il mondo, bisogna che cambi prima la vita di colui che lo esprime. Che cambi in esempio» (II, p. 139). Ebbene, Socrate ha cambiato il mondo con il suo pensiero e con il magistero della sua vita. Nelle discussioni socratiche Platone intravide subito, quand’era molto giovane, un mondo nuovo, assolutamente degno di essere esplorato: il mondo della filosofia. Ma in Socrate egli vide un uomo che aveva un infinito interesse per la ragione, un uomo che aveva raggiunto una perfetta armonia tra intelligenza e passione e tra le parole e i fatti. Ha colto perfettamente nel segno uno dei maggiori studiosi di Socrate quando ha scritto. «Vi è in Socrate una favolosa compenetrazione di vita e di pensiero. Pochi filosofi hanno raggiunto questa perfetta armonia tra credo filosofico e vita vissuta. Un numero ancora minore di individui ha considerato quest’armonia necessaria. Noi certamente possediamo molti esempi di grandi imprese filosofiche, sia sistematiche che analitiche, che tuttavia non sono state avvalorate da vite altrettanto sublimi. Per quanto poderose siano state queste acquisizioni, non sempre risultano altrettanto convincenti. E non saranno mai altrettanto affascinanti. È stato certamente un gran colpo di fortuna che il primo grande filosofo della nostra storia sia stato in grado di ispirare e insegnare nella stessa notevole misura in cui ha saputo fare filosofia» (G. X. Santas, Socrate. La Filosofia dei Dialoghi giovanili di Platone, Milano 2003, p. 16).
La stupidità è più pericolosa. La stupidità è un nemico più pericoloso della malvagità: Contro il male è possibile protestare, ci si può compromettere, in caso di necessità è possibile opporsi con forza; il male porta sempre con sé il germe dell’autodissoluzione, perché dietro di sé nell’uomo lascia almeno un senso di malessere. Ma contro la stupidità non abbiamo difese. Qui non si può ottenere nulla, né con le proteste, né con la forza… Perciò è necessario essere più guardinghi nei confronti dello stupido che del malvagio (Dietrich Bonhoeffer in Dieci anni dopo. L’Opera omnia del teologo tedesco è edita dalla Queriniana di Brescia).
Poesia religiosa del XX secolo. Dimmi che non sarà la morte. Sarà come incontrarti / per le strade di Galilea / e sentire il battito di luce delle Tue pupille divine / riscaldare il mio volto. / Sarà la Tua mano / a prendere la mia / con un gesto d’amore / ignoto alla mia carne. / Sarà come quando parlavi / a chi era respinto / per i suoi peccati, / sarà come quando perdonavi. // Dimmi che non sarà la morte, / ma soltanto un ritrovo / di amici separati / a catene d’esilio. / Dimmi che non saranno / paludi d’ombra / a sommergermi, / né acque profonde / a travolgermi. / Solo il Tuo volto, / solo il Tuo incontro, Signore (Donata Doni).
12 ottobre 2006.
Linea recta brevissima. Qualcosa di più. C’è qualcosa di più di qualsiasi modernità, la verità (Romano Guardini con queste parole, pronunciate all’Università di Monaco, prese congedo dall’insegnamento nel febbraio 1965). Se non corrisponde. Quello che mi dici non mi è affatto gradito, se non corrisponde a verità (Platone).
Quando si elimina la distinzione fra verità e ciarlatanismo. «Per poter solo comprendere che cos’è l’eroismo ci vuole un livello morale più alto che quello di un’ideologia, per la quale la violenza e la menzogna rappresentano i principi fondamentali di tutta la vita. È questa infatti la pseudo-filosofia del piccolo borghese. Oltre che alla violenza egli crede solo alla menzogna, e a questa forse ancora più ardentemente che a quella. Fra le idee europee che, grazie alla propria affermazione, egli ritiene definitivamente liquidate – la verità, la libertà, la giustizia – la verità è per lui la più odiosa, la più impossibile. Egli vi sostituisce il “mito”: questa parola ha nel suo vocabolario culturale una parte altrettanto rilevante quanto la parola “eroico”. Se si guarda più da vicino che cosa intende con essa, risulta che è l’eliminazione della differenza fra verità e ciarlatanismo. Il problema della verità, cioè della verità come idea assoluta, della verità nella sua eternità e nella sua variabilità, è un problema del più grave peso morale. Che cos’è la verità? Così domanda non solo lo scettico patrizio romano, così domanda la filosofia stessa, lo spirito che pensa criticamente se stesso. Esso vuole vivere, esso ammette che la vita ha bisogno della verità, dalla quale è aiutata, promossa. “Solo ciò che promuove la vita è vero”. Questa affermazione può andare. Ma per non cadere fuori da ogni morale, per non sprofondare in un abisso di cinismo, è necessario completarla con l’altra affermazione: “Solo la verità promuove la vita”. Se la “verità” non è data una volta per tutte, ma è variabile, tanto più profonda coscienziosa e sensibile dev’essere la preoccupazione dell’uomo spirituale per la ricerca di essa, la sua attenzione ai moti dello spirito mondiale, a ciò che è giusto e necessario nel tempo, a ciò che è voluto da Dio. Ad essa l’uomo spirituale deve prestare il suo servizio, incurante dell’odio degli ottusi, dei paurosi e degli ostinati, degl’interessati alla conservazione di quello che è diventato falso e cattivo. Così dunque in poche parole si presenta il problema della verità alla mente umana pur mediocremente bennata, pur mediocremente timorosa di Dio. Al tipo umano di cui ho parlato fu, invece, riservato un altro compito: mettere sul trono la menzogna come unica potenza creatrice della vita storicamente efficace; professare l’abolizione di ogni differenza fra verità e menzogna; istituire in Europa un vergognoso pragmatismo, che nega lo spirito stesso in favore dell’utile, che commette o approva senza scrupolo illegalità di ogni genere e delitti, quando servono, attribuendo alla falsificazione lo stesso valore che alla verità» (Dal discorso tenuto da Thomas Mann a Berlino il 17 ottobre 1930).
Poesia religiosa del XX secolo. L’ora degli ulivi. Giunge sempre l’ora della solitudine / dell’inquieta veglia / con pensieri d’angoscia. / Non c’è angelo che ti conforti, / non c’è cuore che lo senta. / I fratelli, gli amici, le persone / che ti vogliono bene / sprofondano in abissi remoti. / Tu sola col tuo dolore / che non osi confessare, / che non osi confidare. / È l’ora degli ulivi che vedono / gemere il Figlio di Dio, / l’ora in cui gli altri / dormono ignari. / Non formuli neppure una preghiera. / Se tu dicessi «Padre», forse / il cuore di pietra si scioglierebbe (Donata Doni).
19 ottobre 2006.
Linea recta brevissima. Un’anima giusta, saggia e buona. So bene che c’è intelligenza nella tua anima. Negli uomini c’è anche un altro tipo di amore, quello di un’anima giusta, saggia e buona (Euripide). L’opera dello scultore. Lo scultore deve rendere attraverso la forma esteriore l’attività dell’anima (Parole di Socrate, che era stato scultore, riferite da Senofonte nei Memorabili). Ma se viene una luce che è dal Cielo. Siamo di un giorno. / Che cosa è alcuno, che cosa non è? / Sogno di un’ombra è l’uomo. / Ma se viene una luce, che è dal Cielo, / tutto si fa fulgore intorno agli uomini / e dolcezza di vita (Pindaro).
I fatti parlano soltanto quando lo storico li fa parlare. L’accuratezza più scrupolosa nella raccolta e nella presentazione dei fatti è assolutamente necessaria, ma non sufficiente per una vera ricerca storica. Questo concetto è espresso felicemente da due eminenti storici del XX secolo, Edward Hallett Carr e Lucien Febvre. «Lodare uno storico per la sua accuratezza – precisa Carr – equivale a lodare un architetto per il fatto di servirsi, nel costruire gli edifici, di legname ben stagionato o di cemento adeguatamente mescolato. Si tratta di una condizione necessaria della sua opera, non già della sua funzione essenziale. Quelli che sono considerati fatti fondamentali identici per tutti gli storici costituiscono generalmente la materia prima dello storico e non la storia vera e propria… La scelta di questi fatti fondamentali dipende non già da una qualità intrinseca dei fatti stessi, ma da una decisione a priori dello storico… Si suol dire che i fatti parlano da soli: ma ciò è, ovviamente, falso. I fatti parlano soltanto quando lo storico li fa parlare». Lucien Febvre, a sua volta, scrive: «Lo storico crea i suoi materiali o, se si vuole, li ricrea: lo storico non si muove vagando a caso attraverso il passato, come uno straccivendolo a caccia di vecchiumi, ma parte con un disegno preciso in testa, con un problema da risolvere, un’ipotesi di lavoro da verificare. Dire: “Questo non è un atteggiamento scientifico”, non è forse mostrare semplicemente che della scienza, delle sue condizioni e dei suoi metodi non si conosce molto? L’istologo, ponendo l’occhio sulla lente del suo microscopio, afferra forse immediatamente i fatti bruti? L’essenziale del suo lavoro consiste nel creare, per così dire, i soggetti della sua osservazione, con l’aiuto di tecniche assai complicate; e poi, presi questi oggetti, nel “leggere” i suoi prospetti e i suoi preparati: compito arduo in verità. Perché descrivere quel che si vede, passi; ma vedere quel che si deve descrivere, ecco il difficile».
Poesia italiana del Duemila. Divento sempre più simile a mio padre. Vecchiaia – inizia il Grande Mimetismo, / divento sempre più simile a mio padre. / Giacinto, ti raggiungo! / Disco che mi colpisce per farmi uguale a te. / Volto, gesti, inflessione, andatura: / torno all’originale, / semplice applicazione di un programma. / O forse mi travesto per salvarmi, / barricato nel suo recinto genetico. / Da quale predatore sto fuggendo, / per abdicare al mio aspetto? / (Il modo in cui dico: «Davvero?», / sentendomi doppiato, / parlato da una voce che è la sua). / Vecchiaia – l’Invasione si avvicina. / Non so se potrò ancora firmare col mio nome (Valerio Magrelli).
2 novembre 2006.
Linea recta brevissima. I primitivi e i grandi classici. Dir cose semplici in parole semplici è un’arte praticata ingenuamente dai primitivi e ritrovata consapevolmente dai grandi classici (Levi Appulo). Maledetti gli ingiusti. Guai a voi, che aggiungete casa a casa e unite campo a campo, finché non vi sia più spazio, e così restate soli ad abitare nel paese… Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro (Libro di Isaia).
Una donna che fa onore a Roma. Film, romanzi, articoli di giornali e saggi troppo spesso portano in primo piano le vicende ignobili delle donne peggiori. Per la storia romana due di esse balzano al primo posto tra le più svergognate e intriganti, ed entrambe rivendicano per sé un ruolo di invadenti first lady nella gestione del potere sottratto il più possibile al Senato e accentrato nella domus imperiale, in cui una sola volontà avrebbe dominato, la loro. Tacito scrive di Agrippina, la madre di Nerone, che «ardeva di tutte le cupidigie di una malvagia sete di potere» (Annali 43, 2); ma quel giudizio si attaglia perfettamente anche a Messalina. Ebbene, a Roma, il ruolo della first lady era stato ben diversamente interpretato – con grande discrezione, nobile apertura d’animo a ciò che può ben umanizzare la vita e rara finezza spirituale – da Livia, la consorte dell’imperatore Augusto. Di essa mi piace riportare due episodi. Il primo è narrato da Seneca nel De clementia, e qui mi limito a sintetizzarlo; il secondo ci è fatto conoscere da Plutarco nel suo scritto La E di Delfi e sarà proposto alla riflessione degli amici lettori giovedì prossimo.
Livia, Augusto e Cinna. Lucio Cornelio Cinna, uomo politico romano del primo secolo a. C., aveva preparato un piano per uccidere Augusto. L’imperatore ne venne a conoscenza e, su consiglio della moglie Livia, non volle ricorrere alla forza. Convocò Cinna e «gli specificò il luogo, i complici, il giorno, il piano dell’agguato, il nome di colui al quale era stato affidato il compito di colpirlo» (Clem. 3, 7, 9). La conclusione del lungo colloquio fu: «Da oggi cominci tra noi una nuova amicizia. Facciamo a gara per vedere chi di noi due sarà più leale, io che ti ho dato la vita o tu che me la devi» (ibid. 3, 7, 11). Cinna, divenuto intimo collaboratore e amico di Augusto, fu anche il suo unico erede. L’episodio narrato da Seneca costituisce il tema di un dramma di Corneille, il Cinna.
L’elemento decisivo è l’eccezionale. Un metodo che vada bene per le opere minori ma non per quelle grandi è ovviamente partito dalla parte sbagliata. In geometria, se posso servirmi di un paragone così remoto dal nostro campo, è possibile arrivare alle parallele euclidee. Allo stesso modo, la storia sembra aver dimostrato che, mentre il luogo comune può essere compreso come una riduzione dell’eccezionale, l’eccezionale non può, invece, essere compreso dilatando il luogo comune. Sia logicamente sia casualmente, l’elemento decisivo è l’eccezionale, perché esso introduce (per quanto strano possa sembrare) la categoria più ampia. Questa riflessione, molto intelligente, descrive bene il metodo che Edgar Wind ha seguito nello studio della grande pittura dell’età rinascimentale. In italiano è stata tradotta l’opera sua fondamentale, Misteri pagani nel Rinascimento, Milano 19852. Ma Wind suggerisce un criterio di cui non dovremmo dimenticarci quando ci rapportiamo alle grandi figure dell’umanità in ogni campo, dalla filosofia alla poesia.
9 novembre 2006.
Linea recta brevissima. Le guerre e la ricchezza. Tutte le guerre scoppiano per l’acquisto di ricchezze (Platone). Le tenebre e la luce. Se la luce che è in te è tenebra, quanto grande è quella tenebra (Vangelo di Matteo).
La E di Delfi. Plutarco nel suo scritto La E di Delfi racconta che sulla facciata del tempio apollineo di Delfi era appesa una grande «E», accanto al motto «Conosci te stesso». Una prima era stata costruita in legno, una seconda in ferro e una terza in oro, ed era stata fatta apporre dalla moglie dell’imperatore Cesare Augusto. Gli archeologi non hanno saputo interpretare in modo convincente tale simbolo. L’interpretazione che presenta Plutarco è la più forte e la più toccante. La «E» indicherebbe Ei, che vuol dire «Tu sei», e significherebbe il modo più adeguato e compiuto da parte dell’uomo di porgere il saluto al Dio, prima di entrare nel tempio, dopo aver letto il motto «conosci te stesso». Ebbene, la risposta al motto «conosci te stesso» era «Tu sei»: tu solo sei l’Essere che è e non perisce, mentre noi siamo apparenza di essere. Leggiamo il testo di Plutarco: «Si tratta di un modo, anzi del modo più compiuto, in sé e per sé, di rivolgersi a Dio e di salutarlo: pronunciare questa sillaba significa già installarci nell’intelligenza dell’essere divino».
La politica non può legittimare mai la rappresaglia. È noto che Tucidide esce allo scoperto nella sua Storia, ricorrendo ai suoi famosi «discorsi», con cui ci illumina sui meriti e sugli errori della politica delle poléis greche e, in primo luogo di Atene. Dei discorsi che attribuisce ai suoi personaggi il loro autore dice testualmente: «Ho posto in bocca a ciascuno dei parlanti i sentimenti adeguati all’occasione, espressi nel modo in cui ritenni che chi aveva parlato li avesse verosimilmente espressi, mentre cercavo di giungere quanto più vicino possibile al significato generale di quanto veniva detto» (I, 22). Crediamo costituisca un testo esemplare, tra i più alti di cui possa far tesoro l’umanità, quello nel quale Tucidide dà voce ai negoziatori spartani che, nel momento in cui il loro esercito stava per capitolare a Sfacteria (si era nel 425 a. C.), implorano una politica d’intesa con i vincitori ateniesi. Le loro parole sono particolarmente illuminanti: Noi crediamo che i grandi scontri non siano condotti nel modo migliore, verso una sicura soluzione, quando la fazione che ha avuto la meglio in guerra, volgendosi alla rappresaglia, impone all’altra un accordo in termini non paritari, bensì quando ha il coraggio di offrire un accordo in termini inaspettatamente moderati. Se, infatti, l’altro diviene ora debitore non di una ritorsione, bensì di una restituzione di virtù, allora un senso di pudore aiuterà a tener fede ai patti. La lezione di Tucidide ci pare sia proprio questa. Gli spartani implorano di non regolarsi nei loro rapporti secondo la legge del taglione e, anzi, di applicarla al contrario: Lasciateci la generosità da ricambiare, non l’offesa. La vostra moderazione farà venire fuori la nostra parte migliore, non la peggiore, e voi ne ricaverete un ulteriore vantaggio: la pace durerà (Tucidide 4, 19, 2-3).
Poesia religiosa del Novecento. Il dono del Signore. Ti è passato accanto il Signore / e non hai aperto la porta / della tua casa. // Le luci di tutti gli smeraldi, / i nitidi occhi delle stelle più pure, / l’alito della vita che spira / tra selve d’uomini e di foglie / sono povere cose nel nulla / di fronte al dono che il Signore / voleva recarti, quando / forte di un silenzio d’amore, / ha sostato davanti alla soglia / della tua casa (Donata Doni).
23 novembre 2006.
Linea recta brevissima. Il comico. Il comico esige, per produrre tutto il suo effetto, qualche cosa come un’anestesia momentanea del cuore (Henri Bergson). Andare incontro alla Verità con tutta l’anima. Lo so: Dio mi ha dato una mente che pone la scoperta della Verità al di sopra di ogni altra cosa, che non desidera altro, che non pensa ad altro, che non ama altro (Agostino).
Un messaggio attualissimo: occorre un radicamento nuovo della persona nella città. Le città hanno una vita propria, hanno un loro proprio essere misterioso e profondo, hanno un loro volto. Hanno, per così dire, una loro anima ed un loro destino: non sono cumuli occasionali di pietra, sono misteriose abitazioni di uomini e più ancora, in certo modo, misteriose abitazioni di Dio. La nostra disattenzione a questi valori di fondo, che hanno invisibilmente ma realmente peso e destino alle cose degli uomini, ci ha fatto perdere la percezione del mistero delle città: eppure questo mistero esiste e proprio oggi – in questo punto così decisivo della storia umana – esso si manifesta con segni che appaiono sempre più marcati e che richiamano alla responsabilità di ciascuno e di tutti… Le generazioni presenti non hanno il diritto di distruggere un patrimonio a loro consegnato in vista delle generazioni future! Il diritto all’esistenza che hanno le città umane è un diritto di cui siamo titolari noi delle generazioni presenti, ma più ancora quelli delle generazioni future. Un diritto il cui valore storico, sociale, politico, culturale, religioso si fa tanto più grande quanto più riemerge, nell’attuale meditazione umana, il significato misterioso e profondo delle città. Ogni città è una città sul monte, è un candelabro destinato a far luce al cammino della storia. Ciascuna città e ciascuna civiltà è legata organicamente, per intimo nesso e intimo scambio, a tutte le altre città ed a tutte le altre civiltà: formano tutte insieme un unico grandioso organismo. Ciascuna per tutte e tutte per ciascuna.
La città come riserva dei beni umani essenziali. Storia e civiltà si trascrivono e si fissano, per così dire, quasi pietrificandosi, nelle mura, nei templi, nei palazzi, nelle case, nelle officine, nelle scuole, negli ospedali di cui la città consta. Le città restano, specie le fondamentali, arroccate sopra i valori eterni, portando con sé, lungo il corso tutto dei secoli e delle generazioni, gli eventi storici di cui esse sono state attrici e testimoni. Restano come libri vivi della storia umana e della civiltà umana: destinati alla formazione spirituale e materiale delle generazioni venture. Restano come riserve mai esaurite di quei beni umani essenziali – da quelli di vertice, religiosi e culturali, a quelli di base, tecnici ed economici – di cui tutte le generazioni hanno imprescindibile bisogno. La città è lo strumento in certo modo appropriato per superare tutte le possibili crisi cui la storia umana e la civiltà umana vanno sottoposte nel corso dei secoli. La crisi del nostro tempo – che è una crisi di sproporzione e di dismisura rispetto a ciò che è veramente umano – ci fornisce la prova del valore, diciamo così, terapeutico e risolutivo che in ordine ad essa la città possiede. Come è stato felicemente detto, infatti, la crisi del tempo nostro può essere definita come sradicamento della persona dal contesto organico della città. Ebbene: questa crisi non potrà essere risolta che mediante un radicamento nuovo, più profondo, più organico, della persona nella città in cui essa è nata e nella cui storia e nella cui tradizione essa è organicamente inserita. I due passi qui riportati sono tratti dal discorso tenuto da Giorgio La Pira al Convegno dei Sindaci di tutto il mondo in Firenze il 2 ottobre 1955.
Poesia religiosa del Novecento. Affacciarsi sul limite. Cresciuto amore per grandi silenzi / di spazi e di deserti, / lo sguardo lentamente / s’affaccia sul limite / e sente l’Invisibile (Ugo Fasolo).
30 novembre 2006.
Linea recta brevissima. Un motto fulminante. Non agitatevi tanto, il cielo è di tutti (Henri Cartier-Bresson, un maestro della fotografia nel secolo XX). Pensarla così è anzitutto un errore concettuale. L’umanità s’inventa sempre nuovi confini e nuove guerre, molte delle quali vengono definite «etniche». Per i biologi è anzitutto un errore concettuale. Il genere umano è uno solo, al di là delle differenze: ce lo dicono i geni. Oggi noi sappiamo di essere «tutti parenti e tutti differenti» (Guido Barbujani).
Pericle e la democrazia ateniese. Il giudizio su Pericle esige una valutazione d’insieme sulla sua azione politica, sulle finalità che l’animarono, sui risultati a cui pervenne. Pericle aveva quarant’anni quando diventò capo dello Stato ateniese; vi sarebbe rimasto, sempre liberamente rieletto, per un ventennio. Aperto alle nuove correnti di pensiero, amico e protettore di filosofi come Anassagora e artisti come Fidia, fu schivo di frastuono e di applausi. «Olimpio» fu il nomignolo per lui coniato dai comici, ma quel termine ebbe successo perché serviva a marcare la sua distanza dall’istrionismo populista e dai pregiudizi del tempo. Governò senza alcuna violenza, si sottopose sempre al libero voto delle assemblee, alle leggi comuni e all’obbligo dei controlli di vario tipo che esse richiedevano. Rispettò la libertà di ciascuno nella propria vita privata. Si disse che non aveva altra arma all’infuori della sua eloquenza. E i suoi concittadini pensavano che in Atene aveva potuto affermarsi la più avanzata democrazia perché alla sua guida c’era «l’uomo più eminente», che era in grado d’impedire il disgregarsi dell’autorità statale che è il pericolo di ogni regime libero a larga base popolare. Lo storico Tucidide, conservatore e suo fiero avversario, nella sua grande onestà intellettuale gli rese l’omaggio più alto con i celebri discorsi che gli attribuì (III, 14). Nella politica interna Pericle attuò le libertà democratiche e promosse provvedimenti di giustizia sociale come nessun altro nell’antichità. Per parecchi anni le paghe che Pericle aveva istituito, per consentire ai non abbienti la partecipazione attiva alle istituzioni democratiche, furono un lieve indennizzo per il tempo speso a servire la cosa pubblica; né si può negare che fosse un preciso dovere della polis, anche se fino ad allora ignorato, elargire sussidi agl’invalidi e agli orfani di guerra. Gli inconvenienti, criticati anche da cittadini come Socrate, si manifestarono assai più tardi, in un clima mutato, sì che non possono imputarsi a Pericle, ma piuttosto all’ultra demagogo Cleone. Tuttavia anche l’«Olimpio» ebbe qualche cedimento, almeno su un paio di questioni. Ingiustificata e grave fu, ad esempio, la distribuzione di denaro in occasione di pubbliche feste, prima elargito in misura moderata e poi dilatata fino ad assorbire pericolosamente addirittura gli avanzi di bilancio. Quando Pericle divenne capo dello Stato le magistrature erano già allora quasi tutte sorteggiate, ma dopo una previa designazione di candidati eleggibili; fu un errore abolire quella designazione, rendendo più aleatoria e casuale la scelta di magistrati particolarmente capaci e competenti.
Poesia religiosa del Novecento. Il tuo fianco scheggiato. Il tuo fianco scheggiato di lancia / e quel fiume di Sangue / che attraversiamo da millenni / a guado / ci sospingano tenere ombre / all’Approdo supremo / senza amare memorie / all’abbraccio sereno del Padre (Giuseppe Centore).
7 dicembre 2006.
Linea recta brevissima. Di quale divertimento si tratta? Ciò che ci diverte, ci coinvolge. Ma di quale divertimento si tratta? (Levi Appulo). Una frase che ha radici molto antiche nel Cristianesimo. È meglio essere cristiani senza dirlo che dirlo senza esserlo (È stata pronunciata dal cardinale Dionigi Tettamanzi, arcivescovo di Milano, al recente convegno di Verona, il quarto della Chiesa italiana dopo il Concilio).
Dove Pericle fallì: non può esistere un «imperialismo pacifico». In politica estera appare evidente l’intreccio di alcune felici intuizioni e l’esito finale fallimentare a cui andò incontro lo statista ateniese. Pericle riprese le ostilità contro l’impero persiano per la liberazione delle poleis greche soggette al dominio straniero o minacciate nella loro indipendenza. La difficile vittoria conseguita contro i «barbari» fu sancita nella pace di Callia nel 449: i persiani si impegnarono a non penetrare più con navi da guerra nel mar Egeo. Il Mediterraneo orientale diventava così parte integrante del dominio ateniese dei mari e Atene sostituiva Sparta nell’egemonia sui greci. Strumento indispensabile per vincere l’impari duello con i persiani era stata la lega delio-attica; ma all’indomani un altro disegno prese il posto dell’alleanza. Pericle tentò di realizzare, a spese degli alleati, quello che fu detto «imperialismo pacifico», ignorando che tra i due termini vi è un rapporto di reciproca esclusione, un’antitesi insuperabile. Certamente i vantaggi del protettorato ateniese avevano ancora il loro peso perché garantivano una difesa comune in caso di aggressione, in cambio di un tributo non eccessivamente gravoso, e l’instaurazione di regimi assai meno oppressivi dei precedenti. Tuttavia Pericle fallì in quell’impresa perché non seppe costruire insieme alle città alleate una confederazione veramente rispettosa dei loro diritti. Un po’ per volta le città furono sottomesse alla volontà di dominio di Atene, che represse spietatamente le loro rivolte. I segni e le cause di questo fallimento furono principalmente tre: il trasferimento del tesoro della lega dalla città sacra di Delo ad Atene, la sua confisca a esclusivo vantaggio del demos ateniese, la fine di ogni consultazione con gli ex alleati.
La radiografia più rigorosa dei nostri problemi. Tocqueville aveva visto qual è il nostro problema oggi. «Agli uomini per i quali la parola “democrazia” è sinonimo di rivoluzione, anarchia, distruzioni, stragi, ho tentato di dimostrare che la democrazia poteva governare la società rispettando le fortune, riconoscendo i diritti, risparmiando la libertà, onorando la fede; che se il governo democratico sviluppava meno di altri talune delle facoltà dell’animo umano (rispetto al governo aristocratico), recava tuttavia benefici grandi; e che, forse, la volontà di Dio era di diffondere una felicità parimenti mediana per tutti, e non di rendere alcuni estremamente felici e pochi soltanto quasi perfetti. Ho inteso anche ricordare loro che, quale che fosse l’opinione di ognuno a tal riguardo, non era più tempo di deliberare, poiché la società si veniva sviluppando in una certa direzione e li trascinava con sé, tutti, verso l’uguaglianza di condizioni, sì che non restava da far altro che scegliere tra mali inevitabili. Il nostro problema, oggi, non è affatto di sapere se si può instaurare un regime democratico o un regime aristocratico, ma di scegliere tra una società democratica che progredisca senza grandezza ma con ordine e moralità, e una democrazia disordinata e depravata, in preda a furori frenetici o sottoposta a un giogo più greve di tutti quelli che hanno oppresso gli uomini dalla caduta dell’Impero romano fino a oggi» (Da una lettera scritta nel 1835).
Poesia religiosa del Novecento. Speranza. Nella rinata bellezza del mondo / ogni giorno mi levo e mi consumo: / creatura momentanea di durata infinita, / tesso per il Creatore la veste della vita (Maura Del Serra).
14 dicembre 2006.
Linea recta brevissima. Preferirei che sul mio conto… La narrazione fatta da uno stupido intorno a ciò che ha detto un uomo intelligente non è mai esatta, perché egli inconsciamente traduce ciò che sente in frasi fatte, in luoghi comuni. Preferirei che sul mio conto riferisse il peggiore dei miei nemici purché filosofo, piuttosto che un amico digiuno di filosofia (Bertrand Russell). La funzione del poeta. La funzione del poeta, secondo un’illusione ricorrente, dovrebbe essere fondamentalmente didattica. Ma la poesia non è per nulla riducibile a qualcosa da insegnarci. Quei critici che ritengono che il loro compito sia quello di cercare una «morale» e degli «insegnamenti» nei drammi di Shakespeare, e considerano come fine dell’Amleto o del Macbeth quello di metterci in guardia contro l’abitudine di rinviare o contro l’ambizione, sono totalmente fuori strada (Alfred E. Taylor).
L’integralismo non è vera fede. Si legge spesso che le tendenze fondamentalistiche, anche in casa cristiana anzi cattolica, sono solo un eccesso, una specie di sfogo di crescita, della nuova vitalità che distingue oggi il fenomeno religioso. Eppure il fondamentalismo non è un eccesso di vita per la religione, ma il suo esatto contrario, vale a dire la sua morte. Se si crede almeno che l’essenza di ogni religione degna del nome, e squisitamente poi l’essenza della religione cristiana, sia l’atteggiamento che di fronte al male insegna a cercarne in primo luogo la radice in se stessi, e a imboccare quel doloroso cammino di trasformazione, che non finisce mai, e che ogni giorno fa i conti con l’uomo vecchio, con la sua angoscia e la sua volontà auto-affermativa. Questo cammino, che conosce certo anche i giorni di grazia e di gioia, tutto è però fuorché affermazione, proclamazione, difesa della propria identità, cioè del proprio io, anche nella veste potenziata e uniformata del proprio noi affermato in opposizione agli altri. Gesù chiama il Padre «il padre vostro che abita nel segreto» e invita a pregare nel segreto della propria stanza. Ma, si dice, essere testimoni, essere martiri, è altrettanto importante. Sì, ma i martiri, chi li ha mai visti riempire, agitando bandiere, una piazza, o addirittura uno stadio? Di «martiri», cioè di veri testimoni, noi conosciamo e onoriamo quelli che la propria identità non l’hanno affatto affermata con la forza del noi sulle piazze, ma l’hanno offerta, in solitudine, esattamente come ha fatto Cristo (Roberta De Monticelli, Il Sole 24 Ore del 22 ottobre 2006).
Non va confusa la filosofia con la cultura. Per Seneca la filosofia dev’essere costitutivamente orientata al bonum; la cultura, invece, è come la ricchezza e la salute, qualcosa di cui è possibile fare un uso buono o cattivo. Essa è condannabile quando soffoca la vita interiore, storna la nostra attenzione verso oggetti che non ne sono degni, o si pone addirittura al servizio di falsi valori. La filosofia non si identifica neppure con le arti liberali, che nella cultura hanno un posto di rilievo. Esse le offrono un grande vantaggio: richiamano, infatti, l’attenzione su tanta parte dell’esperienza umana. La riflessione di Seneca induce Voltaire a interrogarsi sul rapporto tra le savant e le vrai philosophe. Voltaire non li vorrebbe contrapporre fra loro, perché dovrebbero essere comuni a entrambi l’esemplarità morale, la lealtà civile, la tolleranza religiosa.
21 dicembre 2006.
Linea recta brevissima. Pregare e leggere. Quando preghi, sei tu che parli con Dio; quando leggi, è Dio che ti parla (Ambrogio). No, le difficoltà sono il nostro stato normale. Le difficoltà non sono una condizione temporanea, da lasciar passare come una burrasca per metterci al lavoro quando il tempo sarà calmo: no, sono il nostro stato normale; bisogna far conto d’essere, per tutta la vita, per tutte le cose buone che vogliamo fare, in angustia temporum (Charles de Foucauld). La Speranza. La Speranza – dice Dio – ecco quello che stupisce me stesso. Questo è stupefacente. Che quei poveri figli vedano come vanno le cose oggi e che credano che andrà meglio domattina. Questo è stupefacente, ed è proprio la più grande meraviglia della nostra grazia. E io stesso ne sono stupito. E bisogna che la mia grazia sia in effetti di una forza incredibile. E che sgorghi da una fonte come un fiume inesauribile (Charles Péguy).
Lo scandalo insopportabile: la sofferenza dei bambini. Noi siamo davanti al male. E per me io mi sento veramente come Agostino prima della conversione al cristianesimo. Anch’io mi pongo lo stesso interrogativo: Cercavo donde venga il male e non ne uscivo. Ma è anche vero che io so ciò che occorre fare se non per diminuire il male quanto meno per non aumentarlo. Noi non possiamo impedire, forse, che in questo mondo i bambini siano torturati. Ma noi possiamo diminuire il numero dei bambini torturati. E se voi cristiani non ci aiutate, chi dunque nel mondo potrà aiutarci? Io non ho che delle ragionevoli illusioni sull’esito di questo combattimento, ma credo necessario condurlo e so che ci sono, quantomeno, degli uomini decisi in tal senso. Temo soltanto che essi si sentano qualche volta soli e che, a duemilaquattrocento anni di distanza, loro e noi corriamo il rischio di assistere impotenti al sacrificio di Socrate. Socrate sarà ancora solo, se non ne accogliete l’appello e vi rifiutate a un obbligo che si impone a tutti, e in primo luogo alla vostra dottrina: la difesa dell’innocenza violata e brutalmente sfruttata, la malattia e la sofferenza immeritata dei bambini nel mondo. Avrete il coraggio di unirvi a quanti vi hanno già preceduto in questo compito o l’ostinazione nel compromesso con i potenti della terra vi ha strappato definitivamente la virtù della rivolta e dell’indignazione che nobilitò tanti momenti della vostra storia? Io posso parlare soltanto di ciò che so e so per certo che, se i cristiani si decidessero, milioni di voci si aggiungerebbero nel mondo al grido di un pugno di solitari, che senza legge né fede lottano oggi un po’ dappertutto e senza tregua per i bambini e per gli uomini (Albert Camus, Dai Fragments d’un exposé fait au convent des dominicains de Latour Maubourg, 1948).
Preghiera cristiana. Dio e più ancora. Aspetto / ciò che non ha origine in me. / Aspetto te, / genio e più che genio, / Dio e più ancora, / Dio e uomo, / Cristo Gesù (Max Jacob, 1876-1944, da Dio del muro, Vicenza 1983).
28 dicembre 2006.
Linea recta brevissima. Compassione e umiltà. La compassione è tutto il cristianesimo… L’umiltà è la forza più formidabile che possa esistere al mondo (Fedör Dostoevskij). Il Vangelo degli egoisti. La vita sarebbe impossibile in una comunità in cui la regola fosse che ognuno dovesse badare ai fatti propri nel senso di dover fare ogni cosa per sé (Socrate nel dialogo Carmide). Saggezza ed entusiasmo. La saggezza è quella di un uomo che è al di sopra delle tentazioni del proprio interesse. L’entusiasmo è proprio di chi non si è lasciato derubare, né ha perduto nel corso degli anni il fresco ardore della giovinezza (Levi Appulo).
Il non credente e i cristiani. Che cosa attende dai cristiani chi non crede? Voi avete voluto chiederlo a una persona che non condivide le vostre convinzioni e io vorrei subito riconoscere questa generosità di spirito. C’è anzitutto un fariseismo laicista, che finge di credere che sia cosa facile il cristianesimo e, in nome di un cristianesimo di facciata, fa mostra di esigere dal cristiano più di quanto il laicista non esiga da se stesso. In secondo luogo non partirò mai dal principio che la verità cristiana sia illusoria, ma soltanto da questo mio non averla potuta capire. Detto questo mi sarà più facile porre il mio terzo ed ultimo principio. Io non cercherò di modificare nulla di quello che penso io e nulla di ciò che voi pensate allo scopo di ottenere una conciliazione che sarebbe piacevole per noi tutti e lascerebbe le cose come prima. Al contrario, ciò che voglio dirvi oggi, è che il mondo ha bisogno di un vero dialogo, che l’opposto del dialogo è tanto la menzogna quanto il silenzio. (Albert Camus, Dai Fragments d’un exposé fait au convent des dominicains de Latour Maubourg, 1948).
Chi ha mai trovato la propria salvezza nelle vittorie di Alessandro Magno? In una lettera al filosofo Temistio (264 c), l’imperatore Giuliano scrive: «Credo che le imprese di Alessandro Magno siano superate da Socrate, figlio di Sofronisco. Al suo insegnamento si devono anche le scuole che segnano la storia della filosofia classica: l’Accademia, il Liceo, la Stoa. Chi ha mai trovato la propria salvezza in quelle che furono le vittorie di Alessandro? Invece è grazie a Socrate se tutti coloro che cercano la verità e la pace interiore nella filosofia trovano tuttora salvezza».
Cristo è diventato la nostra speranza. In Cristo puoi vedere la tua fatica e la tua ricompensa: la tua fatica nella passione, la tua ricompensa nella risurrezione. Così egli è divenuto la nostra speranza. Noi infatti abbiamo due vite: una nella quale siamo attualmente, e l’altra che speriamo. Quella nella quale siamo ci è nota; quella che speriamo ci è sconosciuta. Con le sue fatiche, le sue tentazioni, le sofferenze e la morte, Cristo ti ha mostrato la vita che hai da vivere adesso; con la sua risurrezione ti ha mostrato la vita che ti attende. Per questo, dunque, è diventato la nostra speranza nelle tribolazioni e nelle tentazioni. Lui stesso, dunque, è divenuto la nostra speranza; Lui che ci ha dato lo Spirito Santo e ci fa camminare verso la speranza. Non cammineremmo, infatti, se non avessimo la speranza (Agostino, Esposizione sul Salmo 60, 4).
Una preghiera sublime, ma poco conosciuta. Nel tuo abisso. Prendimi nelle tue braccia, / cioè nell’abisso, / accoglimi nell’abisso / e, se rifiuti ora, / fallo più tardi (Franz Kafka, 1883-1924, in Confessioni e diari, Milano 1967).
4 gennaio 2007.
Linea recta brevissima. Il «credo» di un grande storico. Credo solo nel Critone e nel Discorso della Montagna. Questo è il mio socialismo e lo tengo inespresso nel mio pensiero perché ad esprimerlo mi pare di profanarlo (Gaetano Salvemini in una lettera del 1947 indirizzata a Giovanni Modugno, che da sempre era stato l’amico suo più caro).
Ecumenismo. Che lo «stallo» non diventi «arretramento». Abbiamo vissuto una stagione, quella in cui l’ecumenismo era passione di pionieri, sovente osteggiati dalle rispettive Chiese di appartenenza, e anche noi cattolici abbiamo dovuto soffrire l’incomprensione e una lunga ostilità per questa nostra scelta. Poi sono giunti gli anni della primavera e del dialogo, avviati dal Vaticano II: una stagione benedetta, che ha visto colmare in pochi decenni fossati profondi e carichi di secoli di divisione. Ma questo cammino si è progressivamente arenato in uno «stallo», anche perché non si è riusciti a trarre concrete conseguenze pastorali e istituzionali, convergenze e accordi teologici né continuità e saldezza di anticipazioni profetiche. E, come sempre avviene, lo «stallo» non tarda a slittare verso l’«arretramento»: paure, insicurezze, avversità fanno pensare che è più semplice e meno rischioso piegare sul «già noto», stringere le fila, ricompattare la propria confessione attorno alle certezze acquisite nel passato. Umanamente questo è più che comprensibile, ma la ritrovata centralità della parola di Dio, frutto irreversibile del Concilio, porta a leggere le situazioni in altro modo: non nell’ottica mondana dell’efficienza, del rendimento, del rapporto costo-benefici, ma in quella evangelica della maggiore o minore conformità al Vangelo. Certo, per secoli le Chiese hanno creduto in perfetta buona fede che fosse possibile vivere e testimoniare il Vangelo pur restando separate; ma il soffio dello Spirito che ha animato tanti nostri padri e fratelli nella fede in questi ultimi cent’anni ci ha fatto capire che oggi questo non è più possibile. Sì, «non è il Vangelo che cambia, siamo noi che lo capiamo meglio» amava ripetere papa Giovanni. L’ecumenismo per noi non è un incarico particolare, una «missione» a tempo, ma la modalità concreta, quotidiana in cui ci è stato chiesto di vivere il Vangelo: non ci è possibile disgiungere la nostra faticosa ricerca di sequela del Signore Gesù, il nostro essere cristiani, dalla passione per l’unità del corpo di Cristo che è la Chiesa. Per questo è con gioia che a suo tempo ci siamo riconosciuti nelle parole dell’enciclica Ut unum sint di Giovanni Paolo II: «L’ecumenismo, il movimento a favore dell’unità dei cristiani, non è soltanto una qualche appendice, che si aggiunge all’attività tradizionale della Chiesa. Al contrario, esso appartiene organicamente alla sua vita e alla sua azione e deve, di conseguenza, pervadere questo insieme ed essere come il frutto di un albero che, sano e rigoglioso, cresce fino a raggiungere il suo pieno sviluppo. Così credeva nell’unità della Chiesa papa Giovanni XXIII e così egli guardava all’unità di tutti i cristiani» (UUS 20).
Una poesia di Brecht sul Natale. Vieni, Gesù, perché Tu ci sei davvero necessario. Oggi siamo seduti, alla vigilia / di Natale, noi gente misera, / in una gelida stanzetta, / il vento corre di fuori, / il vento entra. / Vieni, buon Signore Gesù, da noi, / volgi lo sguardo: / perché Tu ci sei davvero necessario (È la parafrasi della preghiera luterana da recitare prima del pasto).
11 gennaio 2007.
Linea recta brevissima. Prepararsi ad affrontarli. I grandi uomini, le grandi nazioni, non sono mai stati spacconi e buffoni, ma, consapevoli degli orrori della vita, si sono preparati ad affrontarli (Ralph W. Emerson). Un luogo di leadership. La presidenza non è solo una carica amministrativa. Quella è la parte minore. È più di un lavoro d’ingegneria, più o meno produttivo. È preminentemente un luogo di leadership morale. Tutti i nostri grandi presidenti sono stati leader del pensiero in momenti in cui, nella vita della nazione, certe idee storiche dovevano essere chiarite (Franklin D. Roosevelt, 11 settembre 1932).
L’arte astratta oggi, via di liberazione. «Nel corso degli ultimi decenni si aggiunge il funesto profluvio massiccio delle impressioni dei sensi; gli innumerevoli stimoli della nostra vita tecnicizzata e il logoramento della forza recettiva degli organi. È particolarmente gravido di conseguenze il continuo venirci sotto gli occhi di immagini in virtù della tecnica fotografica e delle molteplici forme dell’illustrazione. È cosa che non innalza – come spesso si afferma – la capacità di vedere, ma la indebolisce. Per noi il mondo diventa sempre più una corrente di immagini che si affretta davanti a noi, immagini che in breve si precipitano su di noi, rapidamente scompaiono e non producono alcuna impressione. Forse l’arte astratta, che si allontana dalle immagini immediate della realtà e invece di esse produce figure che nascono liberamente, è una difesa contro il caos di apparizioni della realtà immediata, le quali divengono sempre più sbiadite. Il tono deprezzativo con cui si parla degli “oggetti” tradisce che in questo campo si è verificato qualcosa: la forza d’impressionare, propria della cosa, la finezza del sentire e la profondità dell’organo sono diminuiti. L’arte astratta, da un lato, la forza visiva svalutata con la tecnica e l’inondazione di immagini, dall’altro, si appaiano, e costituiscono due aspetti dello stesso fenomeno» (Romano Guardini, Eternità e storia, vol. XVI dell’«Opera omnia», Socrate e Platone, Brescia 2006, pag. 450).
Due Americhe. Gli «alieni» indigeribili. Il senatore del Massachusetts Henry Cabot Lodge, un «bramino» alto e snello che, con la sua barba alla Van Dyke e i modi cerimoniosi, non sarebbe potuto essere più diverso da Fitzgerald Kennedy, una volta tenne un sermone all’irlandese sulla necessità d’impedire agli individui inferiori – gli «alieni indigeribili» – di corrompere gli Stati Uniti. «Lei è un giovanotto impudente» sentenziò Lodge. «Crede che gli ebrei o gli italiani abbiano dei diritti su questo paese?». Fitzgerald Kennedy replicò: «Gli stessi diritti di suo padre o del mio. C’è solo la differenza di qualche nave» (Robert Dallek, John Fitzgerald Kennedy. Una vita incompiuta, 1917–1963, Milano 2005). Mi dico: perché no? Gorge Bernard Shaw, parlando da irlandese, riassunse così il suo approccio alla vita: «Io sogno cose che non ci sono mai state… e mi dico: perché no?» (John F. Kennedy, discorso al Parlamento irlandese).
18 gennaio 2007.
Linea recta brevissima. Il motto di un matematico. Ho fatto mio il motto del matematico Jacob Bronowsky: «Poni una domanda impertinente e probabilmente avrai una risposta pertinente» (John Fitzgerald Kennedy). L’unica ricompensa che si potesse chiedere. Ogni uomo doveva mettersi alla prova e, se era coraggioso e fortunato, trovava la maturità. Era quella l’unica ricompensa che si potesse chiedere, o cui si avesse diritto (Ward Just).
La nuova concezione della psyché e la «cura dell’anima». Il punto di raccordo tra i diversi aspetti del pensiero socratico è la sua dottrina dell’anima, la quale ha segnato profondamente la civiltà umana e in particolare quella dell’Occidente. Socrate è stato «il primo a introdurre nel pensiero greco la nozione dell’anima intesa non più come pallido fantasma che ha relazione prevalentemente con i sogni e con la morte, bensì come l’essenza spirituale del nostro essere» (W. D. Ross, The Problem of Socrates, in «Classical Association Proceeding», 1933, n. 30, p. 23). La validità di questa tesi è stata colta in tutta la sua grande rilevanza anche da Werner Jaeger. «Quello che colpisce è che quando Socrate, in Platone come negli altri socratici, pronuncia questa parola “anima” vi pone sempre come un fortissimo accento e sembra avvolgerla in un tono appassionato e urgente quasi di invocazione. Labbro greco non aveva mai, prima di lui, pronunziato così questa parola. Si ha il sentore di qualcosa che ci è noto per altra via: e il vero è che qui, per la prima volta nel mondo della civiltà occidentale, ci si presenta quello che noi ancora oggi talvolta chiamiamo con la stessa parola… La parola “anima”, per noi, in grazia delle correnti spirituali per cui è passata nella storia, suona sempre con un accento etico o religioso; come altre parole: “servizio di Dio” e “cura dell’anima” essa suona cristiana. Ma questo alto significato essa lo ha preso per la prima volta nella predicazione protrettica di Socrate» (Paideia. La formazione dell’uomo greco, vol. II, Firenze 1954, pp. 62 sg). Per Socrate, in fin dei conti, l’unica cosa necessaria era che l’anima compisse ogni sforzo per conseguire la conoscenza e la virtù, ed è in questa luce che deve essere riletta l’intera filosofia del maestro di Platone. L’anima ha una sua propria essenza originaria, essendo capace di conoscenza e di una conoscenza grazie alla quale l’uomo diventa buono, capace di onorare l’umanità che è in sé e negli altri. Essa è vivente, in quanto principio costitutivo della nostra realtà biologica, ma deve anche «divenire vivente» in virtù di un orientamento esistenziale. L’anima è la vera e propria sostanza dell’uomo, la sua forza fondamentale ed essa cerca la verità quanto più decisamente vuole il Bene. Con Socrate in ogni momento il discorso intende portare se stesso e l’interlocutore a vivere nella sfera dell’essenzialità.
Poesia religiosa europea. Allontana dalle mie parole. Tu, Signore, / ami la discrezione, / ami la luce, / ami la nudità dello spirito, / ma sopra tutte le cose / ami l’amore. // Rimanda, dunque, / lontana dalle mie parole / la retorica del mondo, / le ciarle e l’arida eloquenza, / la fiacchezza e l’artificio / di una sapienza / meramente umana (San Giovanni della Croce da Avvisi e sentenze).
25 gennaio 2007.
Linea recta brevissima. Accostarci a idee e a personaggi storici lungo il sentiero del tempo. Siamo uomini e non angeli e, per molti di noi, la migliore possibilità di formarci un’idea delle cose nella loro dimensione perenne è di accostarci ad esse lungo il sentiero del tempo (John Burnet). Un passo verso l’extra-umano. La libertà di osare un passo verso l’extra-umano è una delle più significative definizioni dell’uomo (Romano Guardini). Sicuro segno di un pensiero giusto. La parola adeguata è il più sicuro segno del pensiero giusto (Nicomaco di Gerasa). Una saggezza personale. Il filosofo aspira a definire, a conquistare, possedere e trasmettere una saggezza personale (Platone).
La cultura classica. Non bisogna dire, come fanno spesso i suoi detrattori, che la cultura classica è nata con la testa voltata indietro, a guardare il passato; essa non è un autunno, torturato dal rimpianto nostalgico per la primavera sparita. Vive piuttosto fermamente nella piena luce di un caldo giorno d’estate. Una cultura classica è definita da un insieme di grandi capolavori, fondamento riconosciuto della nostra civiltà, fonte d’ispirazione perenne per quanti hanno scelto come strumento dialettico insostituibile il metodo del «cercare esaminando», ossia il dialogo fondato socraticamente sulla domanda e la risposta. Ma se c’è un progresso e un’autentica elevazione dell’uomo, l’uno e l’altra sono di ordine morale più che pedagogico.
Chi vuol comprendere un testo deve essere pronto a lasciarsi dire qualcosa da esso. Chi vuole comprendere, non potrà fin dall’inizio abbandonarsi alle proprie pre-supposizioni, ma dovrà mettersi, con la maggiore coerenza e ostinazione possibile, in ascolto dell’opinione del testo, fino al punto che questa si faccia intendere in modo inequivocabile e ogni comprensione solo presunta venga eliminata. Chi vuol comprendere un testo deve essere pronto a lasciarsi dire qualcosa da esso. Perciò una coscienza ermeneuticamente educata deve essere preliminarmente sensibile all’alterità del testo. Tale sensibilità non presuppone né un’obiettiva «neutralità» né un oblio di se stessi, ma implica una precisa presa di coscienza delle proprie pre-supposizioni e dei propri pregiudizi. Bisogna essere consapevoli delle proprie prevenzioni perché il testo si presenti nella sua alterità e abbia concretamente la possibilità di far valere il suo contenuto di verità nei confronti delle presupposizioni dell’interprete (Hans Georg Gadamer in Verità e metodo, Milano 1972).
Poesia religiosa francese. Assai più che perdono. Lasciami piangere, / Signore, / lo spettacolo della mia follia, / o ridere / della mia irragionevolezza. // Io ho vergogna di me, ranocchio malsano, / e della mia bussola rotta. // Aiutami, mio Dio! / Tu, la cui mano / accarezza i monti e l’oceano, / demolirai in me / il muro del peccato. // Passato, presente, futuro / tutti gli istanti della mia vita / tu raccoglierai in uno solo / e mi restituirai la limpidezza / del tuo stesso sentire. // Tu, Dio nella mia felicità, / assai più che perdono, / dono (Max Jacob da Dio del muro, Vicenza 1983).