Dinanzi a un compito difficile, a un’impresa ardita, a una missione che abbia valore universale l’atteggiamento ricorrente è quello di oscillare fra la diffidenza verso ciò che rimette in discussione le nostre certezze e lo scetticismo che si arrende alle difficoltà. Altri uomini, invece, e io non esito a porli tra i veri benefattori dell’umanità, assumono un atteggiamento opposto e, come tutti gli autentici operatori di bene, vivono per aprire un varco in mezzo agli uomini a ciò che è giusto e degno. Se sono sufficientemente collegati tra loro, questi uomini fanno sì che, un giorno dopo l’altro, l’ideale diventi progetto storico, dovere a cui siamo interiormente obbligati, speranza da realizzare. Ebbene, tra le idee direttrici che più nobilitano il secolo appena concluso, ha un posto di rilievo l’ecumenismo, ossia la ricerca seria e costante in ogni ambito, da parte dei cristiani appartenenti a diverse confessioni, delle vie idonee per manifestare insieme l’essenziale unità della Chiesa di Cristo.
Questa esigenza fu drammaticamente avvertita da Erasmo, al momento stesso in cui nel cuore dell’Europa si consumava fra cattolici e luterani la rottura dell’unità religiosa, e sono noti i tentativi compiuti in quella direzione da personalità eminenti come Bossuet e Leibniz. Il movimento ecumenico, tuttavia, si trasformò da esigenza a centro propulsivo di confronto dottrinale e di scelte operative solo con il Congresso di Edimbur¬go, nel 1910, e con la Conferen¬za di New York nel 1913. Cessa¬to il primo conflitto mondiale, nei vent’anni tra le due guerre ci furono im¬portanti progressi dalla Conferenza di Stoccol¬ma nel ’25 a quella di Losan¬na nel ’27 e di Utrecht nel ’39 e la partecipazione dei rappresentanti delle diverse confessioni che portavano il nome cristiano si allargò significativamente. Dopo la seconda guerra mondiale il Consiglio ecumenico delle Chiese si riunì ad Amsterdam, mostrando visibilmente al mondo quanto fosse sentita la ricerca dell’u¬nità. Le opposizioni dottrinali resistevano, ma Amsterdam era la promessa di giorni migliori, perché l’ecumenismo era chiaramente indicato come la via attraverso cui i cristiani potessero riscoprirsi fratelli e affrontare insieme i gravi problemi del mondo. Ad Amsterdam si abbatteva l’odiosissimo reticolato della separazione ostile e il metodo della teo¬logia controversistica cominciava ad essere sostituito dal dialogo e dalla ricerca storica. E va da sé che una nuova visione delle «ragioni», anche parziali, delle altre confessioni com¬porta sempre, oltre a una co¬raggiosa revisione di idee e comportamenti, l’assunzione di nuove responsabilità.
Non è questo il luogo per tracciare, sia pure a grandi linee, le tappe di un movimento che ha già novant’anni di vita, né per delineare un quadro sinottico delle difficoltà che sono ancora da superare e delle prospettive che, al suo interno, si aprono anche per la Chiesa cattolica. Qui vorrei solo fare qualche riflessione sul mutamento di mentalità a cui ci spinge la ricerca dell’unità tra i cristiani. Vorrei innanzi tutto ricordare quello di cui tante volte ci parlava l’indimenticabile padre Carlo Manziana, l’oratoriano di Brescia internato nel campo di Dachau: il rilancio dell’idea ecumenica nella seconda metà del secolo Ventesimo ha la sua effettiva, reale premessa nell’incontro e nella convivenza fraterna di evangelici, cattolici, ortodossi e cristiani di altre confessioni nei lager nazisti durante la seconda guerra mondiale. Accomunati nella persecuzione, preti, pastori, semplici fedeli insieme soffrirono, pregarono, si fecero testimoni di Cristo a servizio degli altri. Allora cominciarono a cadere i muri di divisioni plurisecolari per far posto a un’esperienza straordinaria di comunione e di fraternità. Lì nacque in ognuno il fermo proposito d’impegnare le rispettive confessioni a rendere pura da pregiudizi e alterazioni interessate la memoria del passato, a valorizzare i doni reciproci di spiritualità e di santità, a vivere con gioia le molte cose che i credenti in Cristo hanno in comune.
La seconda riflessione è che, sollecitata dai suoi figli dotati di maggiore intelligenza storica, la Chiesa cattolica si è finalmente inserita, a pieno titolo, nel movimento ecumenico grazie al Concilio Vaticano II. Giovanni XXIII aprì la strada al dialogo ecumenico e Paolo VI, durante il Concilio e per tutto il suo pontificato, si rivolse con parole accorate alle altre Chiese cristiane, riconoscendo che anche la Chiesa cattolica aveva le sue responsabilità nel favorire la separazione. Ed è in primo luogo nei confronti dei fratelli appartenenti alle altre Chiese cristiane che i cattolici devono sinceramente far proprio l’invito di Giovanni Paolo II: «Alla fine di questo Secondo Millennio si deve fare un esame di coscienza: dove siamo, dove Cristo ci ha portati e dove noi abbiamo deviato dal Vangelo». Oggi l’ecumenismo è anche per il magistero della Chiesa cattolica un impegno e un cammino dell’intera comunità dei credenti, una meta irreversibile, com’è detto nell’enciclica Ut unum sint del 25 maggio 1995.
Giornale di Brescia, 20.1.2000. Articolo scritto in occasione dell’incontro promosso dalla Ccdc con mons. Aldo Giordano.