«Nella vita gli uomini sono per noi più importanti di qualsiasi altra cosa».
Dietrich Bonhoeffer e l’agire politico
Vi sono opere, nella storia del pensiero, che sono state scritte in circostanze particolari. Opere scritte o ambientate nella prigionia da uomini ingiustamente condannati. I dialoghi platonici in cui parla Socrate nel tribunale o nel carcere come l’Apologia o il Critone; il dialogo di Boezio con la filosofia e la sua consolazione; il Dialogo del conforto nelle tribolazioni e le lettere dalla Torre di Londra di Thomas More; le riflessioni e le lettere di Dietrich Bonhoeffer raccolte in Resistenza e resa. Molte altre, naturalmente, se ne potrebbero citare.
Di questi scritti colpisce, tra le altre cose, il carattere dialogico, esplicitato nella forma letteraria del dialogo o della corrispondenza epistolare. Come se nel momento della solitudine non solo aumentasse, come è naturale, il bisogno di dialogare con l’altro, ma si chiarisse anche la natura intimamente dialogica del pensiero umano, che perfino nell’isolamento si articola come discorrere che passa dall’uno all’altro, come domandare e rispondere e ancora domandare; come porre, togliere e ancora porre. Forse per questo le riflessioni nate in queste singolari solitudini riescono a dialogare attraverso gli anni e i secoli con uomini e donne di altre epoche.
Alcuni di questi scritti si collocano all’inizio di grandi epoche del pensiero: la vicenda socratica all’inizio della grande filosofia platonica e aristotelica, la riflessione di Boezio all’inizio – sia pure attraverso lunghissimi travagli – del pensiero medievale; More – assieme ai molti perseguitati per ragioni religiose nelle diverse confessioni o posizioni filosofiche – all’inizio dell’età moderna; Bonhoeffer all’inizio di un’età che non sappiamo ancora dire ma che è nostra ed è più grande di noi.
Queste opere esprimono via via l’approfondirsi di una riflessione sull’uomo, disegnano idealmente quasi una fenomenologia dello spirito umano che si sviluppa attraverso figure diverse: l’uomo come anima in Socrate; l’uomo come persona in Boezio; l’uomo come coscienza in More; l’uomo come essere per l’altro nella fedeltà alla terra in Bonhoeffer. È un cammino, come si vede, di sempre maggiore singolarizzazione dell’essere umano e di progressiva incarnazione, incorporazione. In Platone e Boezio e in parte anche in Thomas More il carcere assurge a simbolo della condizione dell’uomo nel mondo: il mondo, il corpo è un carcere da cui dobbiamo liberarci. In Bonhoeffer l’accento è posto sul dire sì alla vita, sulla fedeltà alla terra, sull’amore del mondo, non sulla negazione di esso.
Ma che cosa è questo mondo che dobbiamo amare?
La centralità della persona
La prima cosa che colpisce leggendo le pagine di Resistenza e resa, ripercorrendo le numerosissime lettere ai genitori, agli amici, ai parenti, alla fidanzata, è la centralità spirituale e teologica degli affetti familiari, dell’amore, dell’amicizia. Raffinato intellettuale e uomo politicamente impegnato, Bonhoeffer non è affatto proiettato in modo esclusivo nel mondo pubblico, della cultura o della storia, ma mostra una preoccupazione costante per la vita quotidiana dei suoi cari segnata dalle ristrettezze e dai pericoli della guerra, per le relazioni umane, per gli eventi decisivi della vita personale familiare. Tra 1e più belle riflessioni contenute nel testo sono da ricordare quelle in occasione del matrimonio dell’amico Eberhard Bethge e quelle in occasione del battesimo del figlio dell’amico. Nella predica di nozze Bonhoeffer rivendica il carattere anzitutto umano dell’unione tra uomo e donna, il suo essere un atto che riposa non sul destino o su di una volontà superiore, ma su di una libera scelta umana. È il trionfo umano sull’incertezza che Dio benedisce e per questo la felicità terrena ha il suo diritto: «Nella celebrazione di ogni matrimonio deve risuonare in qualche misura il giubilo che nasce dal fatto che gli uomini possono fare cose tanto grandi, e che a loro son dati la libertà e il potere immensi di prendere in mano il timone della propria vita. Nella felicità di una coppia di sposi deve ritrovarsi in qualche modo il giustificato orgoglio dei figli di questa terra, di poter essere artefici della propria fortuna. In proposito non è bene parlare in modo troppo frettoloso e remissivo, di volontà e di guida divine. Infatti, non si può trascurare che qui è anzitutto all’opera e celebra il suo trionfo semplicemente la nostra volontà umana; che è anzitutto la strada da voi stessi scelta quella su cui ponete il piede; che quella che avete fatto e fate non è in primo luogo una cosa pia, ma è una cosa in tutto per tutto mondana. Perciò, ancora, siete voi e voi soli che ne portate la responsabilità , e nessun uomo può togliervela. […] Questo rivendicare la felicità terrena, che voi volete trovare l’uno nell’altra e che consiste – per usare le parole dell’inno medievale – nell’esser consolazione l’uno per l’altra con l’anima e con il corpo, ebbene questo ha il suo diritto davanti agli uomini e davanti a Dio»[1]. L’ordine umano – anche quello giuridico e politico – è dunque il frutto della volontà umana e non del fato o dell’immediato volere di Dio. Quest’ultimo entra non a sostituire la libertà umana, ma a suggellarla, a benedirla, a sostenerla. Questo rapporto tra umano e divino nel matrimonio – un terreno così rilevante per la vita sociale e politica come dimostrano le attuali discussioni – potrebbe offrire ancora oggi qualche spunto importante per una più complessiva riflessione sul rapporto tra ordinamento giuridico umano e ordinamento giuridico divino.
Nelle pagine di Resistenza e resa la spiritualità e la fede sono intessute della vita quotidiana e viceversa ogni momento della vita quotidiana è letto e vissuto alla luce della Parola. Continui sono i richiami letti e meditati alle Scritture e alle relazioni personali, quali chiavi interpretative del tempo, luoghi di consolazione; stimoli all’azione e alla conversione. Davvero si ha l’impressione che la vita di Bonhoeffer sia stata una vita comune, ossia una vita vissuta dialogicamente in cui ogni pensiero e ogni azione scaturiscono da un con-essere, un con-fare, un con-sentire, un con-patire: «Ci accorgiamo solo allora di come la nostra vita sia intrecciata con quella delle altre persone, anzi di come il centro stia al di fuori di noi stessi, e del fatto che noi non siamo affatto dei singoli. L’espressione ‘come se fosse una parte di me’ è senza dubbio verissima, e l’ho sentito spesso quando mi è stata annunciata la morte di pastori miei confratelli o di miei allievi. Credo che sia semplicemente un fatto naturale; la vita umana si estende molto al di là della nostra esistenza corporea. Probabilmente, è una cosa che sente soprattutto una madre»[2]. E ancora: «Non si diventa ‘uomini completi’ da soli, ma unicamente assieme ad altri …»[3].
Questa accentuazione della dimensione del con-essere non deve far pensare ad una prospettiva di dissoluzione dell’io nella comunità. Al contrario nell’età che esalta la dimensione del «Wir» del popolo rispetto all’«Ich» borghese, negli anni in cui la gioventù viene educata a spogliarsi della propria individualità e intimità e ad annullarsi nel cameratismo e nello spirito di corpo, Bonhoeffer rivendica il senso del distacco, della gelosia custodia di sé: «Se non abbiamo il coraggio di ristabilire un autentico senso della distanza tra gli uomini, e di lottare personalmente per questo, affonderemo nell’anarchia dei valori umani. […] Noi ci troviamo al centro di un processo di involgarimento che interessa tutti gli strati sociali; e nello stesso tempo ci troviamo di fronte alla nascita di un nuovo stile di nobiltà che coinvolge uomini provenienti da tutti gli strati sociali attualmente esistenti»[4]. Questo stile di nobiltà si conquista nel raccoglimento, nella riflessione, nella gioia della vita nascosta e nel coraggio della vita pubblica, nella lotta contro l’instupidimento.
Si tratta di valori che Bonhoeffer ritiene di aver appreso – pur in mezzo a limiti storici e sociali – dall’ambiente familiare e amicale in cui è cresciuto. Da questo intreccio di storie personali nasce l’impegno civile, la resistenza al nazismo che vedeva impegnati non solo gli amici, ma anche molti altri familiari di Bonhoeffer. In questo contesto si deve citare Gerhard Leibholz, il cognato di Bonhoeffer, che per le sue origini ebraiche dovette lasciare la Germania. Tra i più significativi giuristi tedeschi seppe denunciare la deriva autoritaria dello Stato tedesco e sottolineare l’importanza dello Stato di diritto e della tutela dei diritti individuali[5]. La sensibilità di Bonhoeffer nei confronti della questione ebraica, il suo antivedere che la violazione dei diritti di alcuni cittadini significava una violazione dei diritti di tutti i cittadini, nasce certamente anche dal rapporto con Leibholz. L’attenzione di Bonhoeffer nei confronti degli individui concreti lo colloca in una prospettiva diversa da quella di molti altri che parteciparono al complotto del 20 luglio: conservatore per molti aspetti ma liberale, non certo un nostalgico dell’ordine autoritario di un tempo.
In questa cerchia di amici e familiari nasce anche il gusto per la condivisione della vita, della gioia, della bellezza. L’amore per la musica, i viaggi, le letture comuni. Questa centralità delle relazioni umane si può sintetizzare con la frase di Bonhoeffer: «nella vita gli uomini sono per noi più importanti di qualsiasi altra cosa»[6]. Non l’‘uomo’ in generale e astratto, ma ‘gli uomini’ concreti, incontrati, sfiorati, conosciuti.
Responsabilità e storia
Questa centralità delle persone risalta in modo chiaro nella connotazione dell’agire storico come agire «responsabile»[7]. L’agire responsabile è anzitutto riconoscimento della vita come bene. La vita stessa non è estranea al bene, ma è già bene. Ciò vale ancor più dal punto di vista teologico, quando Dio si presenta all’uomo come il vivente, come la vita vera. Dopo che Dio attraverso il movimento dell’incarnazione, morte e resurrezione ha assunto la vita umana, passando attraverso la morte, ha sottratto la vita alla morte, ossia al dominio del male ed ha rivelato la vita in Dio come bene, la scelta etica non può più concepire la ‘vita’ come luogo neutro di applicazione di un’esteriore norma astratta, ma ha da ripetere o rifiutare questo movimento di incarnazione (assunzione della vita umana come luogo del proprio giocarsi), di crocifissione della vita (il ‘no’ detto alla vita vecchia) e di resurrezione (il ‘sì’ detto alla vita nuova): «È il sì al creato, al divenire, alla crescita, alla fioritura e alla fruttificazione, alla salute, alla felicità, al potere, all’efficienza, al valore, al successo, alla grandezza, all’onore, in breve il sì al dispiegamento della forza della vita. È il no alla defezione, già da sempre insita in tutto questo, dall’origine, essenza e fine della vita, il no che significa morte, sofferenza, povertà, rinunce, dedizione, umiltà, abbassamento, rinnegamento di sé, e che contiene contemporaneamente, in tutto questo, già di nuovo il sì alla nuova vita»[8].
Lo sfondo su cui si colloca l’agire umano non è dunque quello di un irriducibile dualismo, tra ideali esterni alla vita da una parte e realtà della vita dall’altra, ma quello di un’unica esistenza storica in cui sono dialetticamente presenti i due momenti. Con la realtà dell’incarnazione si è superata la frattura tra l’essere di Dio – come essere per gli altri – e vita umana – caratterizzata dal desiderio di affermazione di sé. È dentro la vita umana – come affermazione di sé – che si è incarnata la vita divina – come dono di sé – e quest’ultima ha riscattato la prima formando con essa un’unità dialettica: «un’affermazione di sé libera dal proprio sé (eine selbstlose Selbstbehauptung) […] un’affermazione di sé mediante il dono di sé a Dio e agli uomini»[9]. Vivere responsabilmente significa vivere in risposta a questa dialettica: «chiamiamo responsabilità il condurre una vita come quella indicata, intesa cioè come risposta alla vita di Gesù Cristo (al ‘sì’ e al ‘no’ pronunziato su di noi)»[10].
Con ciò la vita responsabile non è una vita che sorga per iniziativa di un uomo il quale si assume l’onere particolare di trasformare le condizioni storiche, ma è una risposta ad una iniziativa divina che non riguarda aspetti particolari, ma la «totalità e l’unità»[11] dell’esistenza. Concepita in questo modo, la responsabilità come risposta non può riguardare singoli atti o prestazioni, ma un orientamento globale della vita: «responsabilità significa dunque l’impegno totale della vita, significa che si tratta di una questione di vita o di morte»[12]. Al di là dei singoli atti per Bonhoeffer si ha da rispondere alla vita, della vita, con la vita. Il concetto cardine è il concetto di Stellvertretung: un concetto che ha fortissime radici teologiche con riferimento alla sofferenza e alla morte di Gesù per la salvezza dell’uomo e che indica quindi la ‘sostituzione vicaria’, ma un concetto anche con radici politico-giuridiche legate al tema della ‘rappresentanza’[13]. Questo concetto è per Bonhoeffer a fondamento della responsabilità come emerge chiaramente là dove l’uomo deve «agire in luogo di altri»[14], come avviene, ad esempio, per il genitore, l’uomo di Stato o il dirigente. In tutti questi casi essere responsabili significa dover agire per conto di un altro, al posto di un altro, vuol dire cioè sostituirsi a lui. Se però la responsabilità, come sopra abbiamo visto, è risposta globale della vita alla vita, ciò ha precise conseguenze. In primo luogo la responsabilità non può essere riservata a un ruolo o ad un ufficio specifico: non solo genitori o uomini di Stato devono agire responsabilmente, ma ogni uomo è tenuto in certo senso ad agire in luogo di altri anche quando egli è responsabile solo di se stesso. Con questo non si deve pensare che solo un tipo particolare di uomo dotato di certe qualità che possa agire per gli altri: ogni uomo è tenuto ad agire come se agisse al posto dell’umanità. Con ciò viene allargata in senso universale e non aristocratico l’assunzione di responsabilità. In secondo luogo, il sostituirsi agli altri non può significare solo il ‘decidere per gli altri’, ma deve significare una disponibilità al «dono (Hingabe) totale della propria vita»[15]. Sostituirsi agli altri nella decisione – e, come nel caso di un genitore o di un uomo di Stato, in una decisione in cui ‘ne va’ della vita di un altro – è possibile solo se si è disposti anche a dare la vita per l’altro al cui posto si decide. Con ciò, implicitamente, viene giudicato irresponsabile un potere che, dall’esterno di una situazione volesse esercitare una potestas indirecta in decisioni che possono mettere a rischio la vita di coloro al cui posto si decide. Il diritto di ‘decidere per altri’ non viene legato solo ad uno status dato dalla natura, dalla cultura o assegnato dalla società, ma trova il suo bilanciamento, per così dire esistenziale, in un dovere di solidarietà che va fino alla radicale donazione di sé. In terzo luogo, la responsabilità non può essere intesa come responsabilità nei confronti di una causa – e qui il richiamo polemico a Max Weber è evidente – ma come «un rapporto da persona a persona»[16]. Esiste certamente anche una responsabilità verso le cose, i valori, le istituzioni, ma non si deve dimenticare che la loro origine e il loro fine è l’uomo stesso. Per questo la responsabilità nei confronti di una ‘causa’, sia pur nobile, è valida solo entro i limiti di un orientamento alla persona concreta. «Al di fuori di essi produce una pericolosa distorsione della vita che consiste nel predominio delle cose sulle persone»[17]. Senza questo limite la responsabilità nei confronti di una causa (il popolo, la nazione, il socialismo ecc.) può portare a sacrificare la vita di uomini come prezzo necessario al conseguimento di un ideale. Al contrario l’agire responsabile non sacrifica ma suscita la responsabilità degli altri. Il mio sostituirmi agli altri non può significare sollevare gli altri dalla loro responsabilità, come se gli altri non fossero all’altezza di decidere e solo io potessi farlo. L’azione responsabile è quella che pone gli altri di fonte alla loro responsabilità e dunque li rende partecipi della decisione stessa.
Tempo della vita, tempo della salvezza
Un altro elemento centrale nella concezione bonhoefferiana dell’agire storico è il senso del tempo vissuto come tempo di Dio. Nessun attimo, nemmeno quelli interminabili della solitudine nel carcere, è tempo sprecato, ogni attimo ha il suo senso profondo: «Se è vero che provo desiderio di uscire di qui, credo però che nemmeno uno di questi giorni sia sprecato». Ogni evento va in qualche modo compreso e adesso, in quanto evento di Dio, occorre abbandonarsi, arrendersi nella braccia di Dio. Ciò non significa affatto rassegnarsi e abbandonare la lotta e la resistenza, ma anzi condurla fino in fondo: «All’inizio mi sono anche domandato con inquietudine se fosse veramente la causa di Cristo quella per cui do tante preoccupazioni a voi tutti; ma mi sono tolto subito dalla testa la questione come una tentazione ed ho acquisito la certezza che il mio compito è proprio quello di sostenere sino alla fine un siffatto caso limite con tutta la sua problematica»[18]. Proprio la certezza che la vita sta nelle mani di Dio, consente di resistere fino in fondo liberi rispetto ad ogni preoccupazione di successo mondano. È solo l’immersione in Dio, la resa nelle sue mani, che consente la resistenza al male. E la resistenza si attua solo attraverso l’azione, attraverso l’impegno nella storia, ma può prolungarsi anche nel chiuso di una cella; qui l’azione trova il suo prolungamento e il suo compimento nella sofferenza. «Non solo l’azione, ma anche la sofferenza è una via verso la libertà. La liberazione nella sofferenza consiste in questo, che all’uomo è possibile rinunciare totalmente a tenere la propria causa nelle proprie mani, e riporla in quelle di Dio;’ In questo senso la morte è il coronamento della libertà umana. Comprendere o meno la propria sofferenza come prosecuzione della propria azione, come compimento della libertà, questo determina se l’azione umana sia o non sia un affare di fede». E d’altra parte questa volontà caparbia di resistenza non significa affatto imperturbabilità, ostentata superiorità e indifferenza nei confronti del dolore. Significa solamente che accanto all’esperienza del dolore, anzi proprio dentro di essa si sperimenta qualcosa di più grande: «Sperimentiamo sempre di nuovo, in mezzo a tutte queste difficoltà, una bontà e una benevolenza molto più grandi»[19].
Non si deve però pensare ad una visione sacrificale dell’azione sofferente. La desacralizzazione dell’agire umano che Bonhoeffer pone in atto è radicale. Ciò non riguarda solo l’agire politico di chi detiene il potere: nessun governo mondano può pretendere per sé di essere santo – già nel 1932 Bonhoeffer aveva denunciato come sotto il nazionalsocialismo si nascondesse un messianismo secolarizzato – ma neppure le azioni di resistenza al tiranno e neppure la sofferenza in sé può pretendere di essere santa e redimere: «Noi certo non siamo Cristo e non siamo chiamati a redimere il mondo con le nostre azioni e la nostra sofferenza; non dobbiamo proporci l’impossibile né angosciarci per non esserne all’altezza; non siamo il Signore, ma strumenti nelle mani del Signore della storia, e possiamo condividere realmente le sofferenze degli altri uomini solo in misura molto limitata. Noi non siamo Cristo, ma se vogliamo essere cristiani, dobbiamo condividere la sua grandezza di cuore nell’azione responsabile, che accetta liberamente l’ora e si espone al pericolo, e nell’autentica compassione che nasce non dalla paura, ma dall’amore liberatore e redentore di Cristo per tutti coloro che soffrono»[20].
L’agire responsabile è dunque l’agire che accetta fino in fondo la propria parzialità, il proprio essere imperfetto, portatore di limiti e impurità, non innocente né santo. Tanto più quando esso si trova nel caso limite in cui non è sorretto dalla guida delle leggi e deve affidarsi alla propria decisione, allora più che mai non può pretendere di farsi legge a se stesso, ma deve riconoscere la colpa che esso si assume agendo e deve rimettere il proprio agire al giudizio di Dio. È con questo atteggiamento, come sappiamo, che Bonhoeffer stesso decise di agire responsabilmente nel partecipare alla congiura contro Hitler. Non ritenendo che la propria scelta di resistenza fosse la scelta giusta e santa, ché anzi si macchiava della colpa della violenza, ma accettandone la radicale secolarità. Più fortemente l’agire politico, anche il più nobile, non poteva essere desacralizzato.
L’agire storico nell’orizzonte del cristianesimo non-religioso
Un ultimo elemento rilevante in Resistenza e resa e senz’altro centrale da un punto di vista teologico è la proposta di un cristianesimo non religioso. È questa la parte più complessa del pensiero di Bonhoeffer, resa più difficile dal fatto di essere stata espressa solo in forma frammentaria.
Secondo Bonhoeffer le persone religiose parlano di Dio quando l’uomo è giunto al proprio fallimento. Dio diventa così il deus ex machina che risolve i problemi umani, che sta “al di là” della vita. È il famoso “Dio tappabuchi” che si fa intervenire sfruttando la debolezza umana. Ma è proprio a questo sfruttamento che Bonhoeffer si ribella, da un lato perché gli pare meschino, dall’altro perché gli pare perdente: «io vorrei parlare di Gesù non ai limiti, ma al centro, non nelle debolezze, ma nella forza, non dunque nella relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e nel bene dell’uomo […] La chiesa non sta lì dove vengono meno le capacità umane, ai limiti, ma sta al centro del villaggio»[21]. Ma questo significa che Cristo non deve essere annunciato solo là dove il mondo viene meno; come se il cristianesimo annunciasse una salvezza “da” questo mondo. Collocare Cristo al centro del mondo significa recuperare il mondo in quanto mondo, nella sua mondanità divenuta adulta, come luogo teologico: il cristiano, non ha sempre un’ultima via di fuga dai compiti e dalle difficoltà terrene nell’eterno, come chi non crede nei miti della redenzione, ma deve assaporare fino in fondo la vita terrena». Adulto termine giuridico.
E ancora «Essere cristiani significa essere uomini. Cristo crea in noi non un tipo d’uomo, ma un uomo»[22]. Io temo che i cristiani che stanno sulla terra con un solo piede, staranno con un solo piede anche in paradiso». Mentre il Dio religioso è un Dio potente che risolve i problemi che la debolezza umana non può risolvere, il Dio non-religioso è invece quello che salva attraverso la sua debolezza, la sua sofferenza, la sua crocifissione. In una omelia del 1932 Bonhoeffer aveva così commentato l’episodio di Gedeone, in cui il Signore ordina di diminuire gli armati per vincere la battaglia: «‘Gedeone troppa gente è con te’. Invece di portargli armi, eserciti, risorse sterminate, gli chiede il disarmo, cioè la fede: fa’ andar via gli armati! Crudele scherno di Dio verso ogni potenza umana; la più amara di tutte le prove della fede; incomprensibile signore e despota del mondo!»[23]
Il Dio con noi non è il Dio che ci tira fuori dal mondo risolvendoci i problemi, ma il Dio che ci abbandona, ossia che ci fa «vivere nel mondo senza l’ipotesi di lavoro Dio», che ci rende adulti, pienamente uomini, responsabili delle nostre azioni. La sfida del cristianesimo non-religioso di Bonhoeffer sta ancora lì, davanti a noi, e invita a considerare la mondanità del mondo, il suo essere adulto come un dono di Dio, accettando la “debolezza” di Dio e rinunciando a «quello che noi chiamiamo atteggiamento “pretesco”, quell’andar fiutando le tracce dei peccati degli uomini per riagguantarli»[24].
È allora un cristianesimo appiattito nel mondano, quello di Bonhoeffer?
All’opposto: proprio il riconoscimento della mondanità del mondo porta con sé 1a scoperta del valore primario della vita spirituale. Non la conquista del mondo è l’obiettivo del cristiano, ma la conquista della propria anima: «Compito della nostra generazione non sarà ancora “cercare grandi cose”, ma salvare e preservare la nostra anima dal caos e vedere in essa l’unica cosa che possiamo trarre come “bottino” dalla casa in fiamme. Con ogni cura vigila sul cuore, perché da esso sgorga la vita (Prov. 3,239). Noi dovremo salvare più che plasmare la nostra vita, sperare più che progettare, resistere più che avanzare. Ma noi vogliamo preservare a voi giovani, alla nuova generazione, l’anima con la cui forza voi dovete progettare, costruire e plasmare una vita nuova e migliore»[25].
Con ciò siamo ritornati all’inizio. Anche l’amore del mondo, l’essere-per-altri, la fedeltà alla terra di Bonhoeffer non si contrappongono alla preoccupazione di Socrate, Boezio, Thomas More per la propria anima. Giacché non il mondo, ma la nostra anima ci sarà data come bottino. Non perché il mondo debba essere lasciato alla sua dannazione, ma perché il mondo è già stato salvato. I cieli nuovi e la nuova terra sono già stati inaugurati. Anche se noi vediamo solo macerie e desolazioni. Ma è il nostro occhio che è poco capace di guardare la presenza di questo futuro. Perché l’unica porta attraverso cui possiamo gettare uno sguardo su questo futuro è, appunto il presente, non appena lo si viva come abbandono all’essere-per-altri. Sono queste anime i fondatori delle grandi epoche spirituali.
[1] D. Bonhoeffer, Widerstand und Ergebung. Briefe und Aufzeichnungen aus der Haft, hrsg. von E. Bethge, München 1970; tr. it. Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, a cura di A. Gallas, Milano 1988, pp. 101-102.
[2] Ivi, p. 168.
[3] Ivi, p. 271.
[4] Ivi, p. 70.
[5] Cfr. G. Leibholz, Die Auflösung der liberalen Demokratie in Deutschland und das autoritäre Staatsbild, München-Leipzig 1933; tr. it. La dissoluzione della democrazia liberale in Germania e la forma di Stato autoritaria, Milano 1996. Sui rapporti tra Leibholz e Bonhoeffer, cfr. S. Leibholz Bonhoeffer, Vergangen, erlebt, überwunden. Schicksale der Familie Bonhoeffer, Gütersloh 19834 ; Chr. Strohm, Theologische Ethik im Kampf gegen den Nationalsozialismus. Der Weg Dietrich Bonhoeffers mit den Juristen Hans von Dohnanyi und Gerhard Leibholz, München 1982.
[6] Ivi, p. 468.
[7] Sull’etica della responsabilità in Bonhoeffer, si vedano A. Conci, Dietrich Bonhoeffer. La responsabilità della pace, Bologna 1995; A. Gallas, Ánthropos téleios. L’itinerario di Bonhoeffer nel conflitto tra cristianesimo e modernità, Brescia 1995; R. Esposito, Nove pensieri sulla politica, Bologna 1993, pp. 78-82; E. Feil, L’eredità di Dietrich Bonhoeffer: la dimensione politica quale orizzonte dell’etica, in A. Conci – S. Zucal (eds.), Dietrich Bonhoeffer. Dalla debolezza di Dio alla responsabilità dell’uomo, Morcelliana, Brescia 1997, pp. 205-227.
[8] D. Bonhoeffer, Ethik, hrsg. von I. Tödt, H.E. Tödt, E. Feil, C. Green, München 1992; tr. it. Etica, a cura di A. Gallas, Brescia 1996, p. 219.
[9] Ivi, p. 220.
[10] Ivi, p. 221.
[11] Ivi.
[12] Ivi.
[13] Al concetto di ‘rappresentazione/rappresentanza’ anche Gerhard Leibholz aveva dedicato un importante studio (Das Wesen der Repräsentation unter besonderer Berücksichtigung des Repräsentativsystems, Berlin 1929).
[14] D. Bonhoeffer, Etica, cit., p. 224. È questo anche il significato prevalente nell’opera di Hans Jonas Das Prinzip Verantwortung.
[15] D. Bonhoeffer, Etica, p. 225.
[16] Ivi, p. 226.
[17] Ivi.
[18] Resistenza e resa, tr. it. cit., pp. 193-194.
[19] Ivi, p. 282.
[20] Ivi, p. 71.
[21] Ivi, p. 351.
[22] Ivi, p. 441.
[23] D. Bonhoeffer, Gli scritti (1928-1944), a cura di M.C. Laurenzi, Brescia 1979, p. 127.
[24] Resistenza e resa, tr. it., p. 422.
[25] Ivi, p. 367.
NOTA: testo, rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 2.2.2006 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.