Io dovrei ormai essere abituato a parlare in pubblico, e non dovrebbe costarmi grande fatica dire qualche parola a voi, che, ascoltando quanto è stato appena letto, avete avuto la bontà di seguire i miei pensieri. In realtà non è così, perché, in definitiva, ciò che avete ascoltato io l’ho scritto per me stesso, o, forse, potrei presumere di dire, l’ho scritto per Dio, tentando di offrirgli di me stesso quello che potevo. Invece dinanzi a voi mi sento come denudato: mi pesa esibire i miei sentimenti, dal momento che la vicenda della mia vita risulta già chiaramente da quanto avete ascoltato. E la vicenda è questa: Stefania, la mia prima moglie, è stata operata di cancro al seno a 28 anni, ed è morta a 30, lasciandomi con una bambina di neppure 4 anni. Poi, 7 anni dopo, mi sono risposato, con Anna. È partendo da questi fatti che io ho continuato a svolgere le mie riflessioni, e potrebbe dunque aver ragione una certa obiezione radicale che viene fatta al mio discorso, o tentativo di discorso: – Va bene, tu pensi così perché sei stato colpito da una disgrazia, perché la tua vita è stata infranta in questo modo.
Certo, può darsi che sia così. Forse, se non avessi vissuto quanto ho vissuto, sarei stato diverso in qualcosa. Però, e vi prego di credermi, per quello che posso in buona fede ricostruire degli anni precedenti della mia vita, quando ancora non ero stato colpito dalla grande disgrazia, io ritrovo sempre il medesimo me stesso; voglio dire che in me era già profondamente radicato questo senso, il senso che la fede si confronta in modo scandaloso con la nostra situazione umana. Noi abbiamo spostato, per certe ragioni che sarebbe lungo spiegare ora, l’attenzione dal piano della fede al piano della conoscenza. Mentre la fede, in origine, era un grido di invocazione a Dio, come dice S. Paolo nella lettera ai Romani in riferimento ad Abramo, nostro padre nella fede: Contra spem in spem credidit, contro ogni speranza ha creduto. La fede ha questo carattere paradossale, appartiene all’orizzonte della volontà, e non a quello della conoscenza: questo aspetto è stato colto anche da autori contemporanei. Max Horkheimer, ad esempio, un intellettuale ebraico lontano da ogni professione di fede, sente fortemente il senso della fede, come nostalgia del totalmente altro. Egli afferma di rifiutare una realtà in cui il carnefice abbia per sempre ragione sulla vittima. Il carnefice uccide la vittima, la vittima muore, il mare si richiude sopra di loro, e ciò che è stato fatto non può più essere disfatto, non può più essere consolato, non c’è più possibile appello, o remissione. Ora, se è questa la realtà nella quale viviamo, è una realtà assolutamente cinica, in cui la morte chiude per sempre gli occhi a tutti, in cui tutto ciò che abbiamo vissuto in definitiva si rivela insignificante, in cui se non saranno i nostri figli a dimenticarsi di noi, saranno i nostri nipoti a farlo. Chi di voi ricorda solo il nome del proprio trisavolo? Invece l’uomo si affida ancora alla fede, e ancora la proclama, seppure nella forma di un’invocazione disperata: – Signore, io non posso accettare che la tua bontà consenta stabilmente un mondo pieno di ingiustizie, e di orrori e di sofferenze come quello che vediamo. La fede, dice S. Paolo sempre nella prima lettera ai Romani, non è una conoscenza, ma una possibilità. Con la fede non possiamo sperare di avere ciò che già abbiamo, ma possiamo sperare in ciò che non possediamo. E così, aggiungo io, non possiamo avere fede in quello che già conosciamo, perché altrimenti non sarebbe più fede, ma solo conoscenza.
In realtà noi abbiamo fatto anche questa altra sottile operazione: siamo passati dalla fede come invocazione paradossale di salvezza, di cancellazione del male, di consolazione, alla fede come sistema di conoscenze, e, per di più, sistema di conoscenze costruito per darci tranquillità, per tamponare la nostra inquietudine: il Signore è buono, misericordioso, il Signore è morto per noi, ecc. Questo cambiamento nell’orizzonte della fede è, secondo me, inaccettabile; come anche è inaccettabile l’altro meccanismo nel quale siamo venuti crescendo. Mi affido qui a chi conosce un po’ la Bibbia: nei testi sacri la fede è soprattutto liberazione ma, notate bene, liberazione dalla sofferenza prima ancora che dalla colpa. Quando in Giovanni i discepoli gli domandano: – Ma sei veramente tu quello che deve venire, o dobbiamo aspettare qualcun altro?, Gesù risponde: – Guardate, i ciechi vedono, i lebbrosi sono risanati, i sordi ascoltano. Questo è il senso primo delle promesse di Dio: esse riguardano la nostra vita, la nostra corporeità, la nostra , per così dire, terrestrità, le persone che ci sono vicine, che abbiamo incontrato. E noi invece siamo saliti sempre al piano superiore. Abbiamo fede, sì, ma la nostra vita rimane grosso modo quello che è: invecchiamo, ci ammaliamo, vediamo morire le persone care, moriamo noi. La vita normale, con il suo carico di dolore, non cambia anche se Dio, per mezzo della crocifissione di Gesù Cristo, ha cancellato la nostra colpa, il nostro peccato. Insomma, per noi colpa e dolore sono separati. Invece in tutto l’Antico Testamento è strettissimo il rapporto tra colpa (o meglio, tra peccato) e sofferenza, anzi l’una spiega l’altra: noi, invece, abbiamo distinto ciò che un tempo era unito: nella nostra mentalità la fede cancella la colpa, e però rimangono tutte le sofferenze. Questo è un aspetto che, a mio giudizio, mostra una deviazione dai contenuti originali della fede.
A questo punto ciascuno di voi potrebbe dirmi: – Tu sei condizionato da quanto hai sperimentato nella tua vita. Hai una visione della fede cristiana così cupa, così disperata! Come puoi conciliare questa tua continua insistenza sull’angoscia dell’esperienza umana con la speranza che pur Dio ci ha dato, con la redenzione che abbiamo pur ricevuto in Cristo? -. E qui mi permetterei di rispondere con l’esperienza del laico: io sono un cattolico un po’ atipico, nel senso che, non per scelta ma per una serie di circostanze, la mia vita è trascorsa quasi sempre in mezzo alla laicità, intesa come non-confessionalità: ho fatto l’ufficiale della guardia di finanza, e dunque mi sono trovato a vivere in ambienti laici, con amici laici, giornali laici, editori laici. E mi sono accorto che il laico molto spesso si fa delle domande molto più radicali di quelle del credente. Il credente spesso appare come uno che ha la risposta in tasca e guarda al laico dicendo: – Figlio mio, la verità è questa. Se non l’hai capito, peggio per te. Ritorna nel solco -. Mentre invece può darsi, e io lo credo, che agli occhi di Dio sia più importante della sicurezza del credente la sofferenza dell’ateo che non capisce, che non riesce a credere. Perché la fede non è un possesso automatico, non è un diritto, non è una priorità che ci è stata concessa, ma è un dono. Molto spesso si dice che le prostitute e i pubblicani precederanno i credenti nel Regno dei Cieli: bene, io penso che ciò succederà anche per molti laici. Rispetto a loro solo una cosa possiamo fare: riaffermare la forza della nostra testimonianza. Ai laici, ai cosiddetti maestri del sospetto, siamo debitori di risposte. Io ricordo che, quando vivevo in un paesino delle Marche, una ragazzina delle medie si rivolse così al parroco, turbata e confusa da una lezione ascoltata a scuola: – Qui non è mica vero che il mondo e l’uomo sono stati creati in sei giorni. Anzi, mi hanno spiegato che l’uomo discende dalla scimmia. E il parroco le rispose: – E tu non starle a sentire quelle sciocchezze. E allora noi di fronte a quanto dicono Marx, Freud, Nietzsche, Kafka, e anche Dostoevskij, dovremmo forse rispondere come quel parroco? Ma sono veramente sciocchezze? Noi credenti abbiamo l’impressione di possedere tutto, di avere veramente una forza, e in realtà l’unica forza di cui disponiamo è la consapevolezza della nostra debolezza. Anche perché noi siamo, o dovremmo essere, gli adoratori di un Dio crocifisso, non di un Dio trionfante.
Io non voglio raccontarvi altre cose che queste. Ripeto il mio disagio di trovarmi di fronte a voi, verso cui mi sento come messo a nudo. Vi ringrazio per essere venuti ad ascoltare un discorso sulla difficoltà della fede, sul dovere di porsi delle domande, proprio mentre in televisione ci sono trasmissioni molto più divertenti di questa mia lugubre predica. Ringrazio l’amico Trotta che, proprio perché amico, ha detto un sacco bene di me; l’amico Mezzanotte che ha letto da par suo delle pagine che io stesso riscopro, perché uno le scrive per se stesso, a tavolino e poi nella lettura le ritrova trasfigurate. Ringrazio coloro che mi hanno offerto la possibilità di stare in mezzo a voi e di rendervi la mia testimonianza., una povera testimonianza che non vuole insegnare niente a nessuno, ma solo riproporre il mio personale vissuto, che potrebbe essere del tutto differente da quello di chi ha vissuto una fede tranquilla, serena, di chi ha accolto con animo tranquillo tutte le sventure, proprio in quanto uscite dalla mano di Dio, di chi vive serenamente, di chi sa che lo aspetta una vita eterna di beatitudini. Ecco, so che vi sono modi diversi di sperimentare la fede, né pretendo di dire che la mia fede è quella giusta, anche se naturalmente la sento così perché mi sembra quella più vera.
Mi ha sempre colpito un pensiero di Simone Weil, la notissima scrittrice e pensatrice ebrea. Confrontando la morte dei primi martiri cristiani e la morte di Gesù sulla croce, ella notava che, stranamente, chi moriva fra i supplizi per testimoniare la propria fede nel Dio crocifisso, aveva nei confronti della propria esperienza di morte un atteggiamento di gioia. Si vedano in proposito le lettere dei protomartiri, che non nascondevano l’impazienza di giungere a Roma, ove le belve del circo li avrebbero frantumati con i loro denti, trasformandoli nel pane di Cristo. Questo atteggiamento è esattamente opposto a quello di Gesù di fronte alla morte: poiché Gesù ha sudato sangue nell’orto del Getsemani, ha supplicato di essere liberato dalla sofferenza, ha urlato sulla croce la propria paura di essere stato abbandonato dal Padre: Gesù è Dio che muore, ed è in Lui che il Padre compie la reale esperienza della sofferenza, che mai avrebbe potuto fare altrimenti. È proprio a questo che vorrei riportare la vostra attenzione, a questa centralità del dolore che, a mio giudizio, segna l’esperienza del cristiano, l’esperienza che il Padre e il Figlio stessi hanno fatto, e il Padre attraverso il Figlio.
Voi conoscete Teresa del Bambin Gesù, una santa che gode ancor oggi di un’enorme venerazione: i soldati francesi che, durante la Grande Guerra, morivano sulla Marna, ne tenevano l’immagine nel portafoglio; lo scrittore ebreo Joseph Roth ne parla nel romanzo La leggenda del santo bevitore, da cui Ermanno Olmi ha tratto il suo film. Ebbene, S. Teresa è stata educata ad un tipo di cristianesimo fatto di totale, fiducioso abbandono: era la via dell’umiltà, dell’accettazione, del dolore, la piccola via, com’ella la chiamava. Teresa è morta poco più che ventenne ed è forse morta disperata. Ma non fraintendetemi: la disperazione di Teresa è come quella di Giobbe, che, prostrato dal dolore, continua a credere in Dio; la sua era una disperazione all’interno dell’esperienza della fede, e lo dimostra quando dice: – Non c’è pensiero dell’ateo, non c’è pensiero di ribellione che non mi abbia attraversato e che io non abbia fatto mio. Perché effettivamente, o noi cristiani riusciremo a fare nostre le domande di chi non crede, oppure non saremo fraterni nei loro confronti, e rischieremo di non accoglierli. Per ciò che mi riguarda io ho cercato di condividere anche con loro questa vicenda della fede cristiana come esperienza di dolore, un’esperienza modellata su un Dio che ha scelto di morire sulla croce per noi.
Testo, non rivisto dell’Autore, dell’incontro tenuto il 6.12.1993 a Brescia su iniziativa della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.