I grandi influssi formatori dell’Europa sono stati unanimemente individuati nella cultura greca, nel diritto romano e nel Cristianesimo in quanto visione della vita e fonte di ispirazione morale. Nel variare delle vicende storiche è proprio il terzo elemento, il Cristianesimo, quello che ha più profondamente segnato la vita dei popoli europei, costituendo altresì un principio di sostanziale continuità tra epoche che pure si differenziano tra loro da molti punti di vista. Malgrado errori e colpe, noi europei siamo cristiani e non possiamo non esserlo, come ebbe a scrivere Benedetto Croce nel 1942. Non possiamo non esserlo perché il Cristianesimo ha modellato il nostro modo di sentire e di pensare in modo incancellabile; a tal punto, scriveva lo Chabod, nella sua Storia dell’idea dell’Europa, del 1943-’44, che “la diversità profonda che c’è fra noi e gli antichi, fra il nostro modo di sentire la vita e quello di un contemporaneo di Pericle e di Augusto è proprio dovuta a questo gran fatto, il maggior fatto senza dubbio della storia universale, cioè il verbo cristiano”.
Mezzo secolo dopo che quei giudizi furono espressi, possiamo ancora ritenerli validi? Se sì,in che senso ed entro quale limite? Qual è, insomma, l’atteggiamento religioso degli europei alla fine del secondo millennio dell’era cristiana? Qual è il rapporto tra religione e società nell’Europa contemporanea, attraversata negli ultimi decenni da fenomeni assai vasti di contestazione e di rifiuto?
É questo un problema di interesse primario che riguarda certamente le singole confessioni religiose, ma riguarda anche il futuro dell’Europa e dell’identità europea. Bene ha fatto, quindi, la Fondazione Agnelli a sollevare questi interrogativi e a portarli esplicitamente a livello di discussione critica, sollecitando un complesso di ricerche i cui risultati sono oggi raccolti in due volumi di estremo interesse: La religione degli europei (Ediz. Fondazione Agnelli, Torino). Il primo volume riguarda la Francia, l’Italia, la Spagna, la Gran Bretagna, la Germania e l’Ungheria; il secondo volume si occupa delle nazioni scandinave, della Polonia, della rinascita dell’ortodossia nell’ex Unione Sovietica e passa poi a delineare un’interpretazione a più voci circa il rapporto tra religione e sfera politica. E le voci hanno l’autorevolezza di Emile Poulat, Jean Remy, Karel Dobbelare. Gli strumenti di cui si avvale questo tipo di ricerca sono in primo luogo quelli dell’analisi sociale, ma ciò non comporta affatto alcun partito preso, perché i percorsi della fede e della pratica religiosa nella società contemporanea sono studiati nella loro specificità e autonomia e le singole Chiese esprimono anch’esse direttamente il loro punto di vista attraverso gli interventi di studiosi che non nascondono la loro appartenenza all’una o all’altra famiglia religiosa.
Idue volumi della Fondazione Agnelli offrono su ognuno degli argomenti affrontanti notizie estremamente documentate e riflessioni di notevole livello; qui posso limitarmi solo a segnalare qualche spunto per uno dei Paesi europei, il nostro. Per quanto riguarda il “caso italiano”- a cui è dedicato uno studio ampio e articolato di Franco Garelli – la prima osservazione che balza agli occhi è che l’Italia è Paese di tradizione cattolica al punto che si può scorgere in questo suo carattere un aspetto dell’identità nazionale. La maggioranza dei membri adulti della collettività nazionale appare possedere in comune una stessa cultura e una disposizione relativamente costante a riconoscersi in essa.
La seconda osservazione è che, malgrado i guasti prodotti dallo stretto rapporto esistente tra religione e politica, la Chiesa rimane per i cetisubalterni l’istituzione più vicina alle loro sofferenze e alle loro attese. Secondo l’acuta annotazione di Antonio Acerbi, fatte le debite eccezioni, sembra che in Italia la risposta cattolica all’ondata di laicizzazione sia stata in prevalenza di tipo neo-intransigente. Questa mentalità la Chiesa italiana se la porta appresso, malgrado la mirabile apertura di orizzonti operata dal Concilio, e finisce sempre, in un modo o nell’altro, col legittimare giudizi e atteggiamenti che molti sentono di non dover condividere: una visione strumentale dell’azione sociale e politica, la pretesa di dare risposte esaustive anche in campi che non sono quelli della fede e della vita morale, la tendenza ad individuare i rischi per la fede non tanto all’interno del campo religioso quanto nella secolarizzazione delle strutture politiche ed economiche o nel restringersi dei consensi intorno al partito che doveva rendere visibile la cosiddetta “unità politica dei cattolici”.
Questo, però, è solo uno dei lati della medaglia; c’è, infatti, anche l’altro, quello strettamente congiunto allo spirito innovatore del Concilio. Esiste una parte del popolo di Dio, assai più consistente di quanto non si creda, che coniuga coerentemente nel quotidiano presenza sociale e approfondimento interiore, senso dello Stato e fedeltà al Vangelo, mediazione culturale e testimonianza religiosa. Nessuno, beninteso, si nasconde la gravità della crisi morale che l’Italia attraversa e il parziale svuotamento del senso religioso. Ecco alcuni dati su cui riflettere. Denatalità: negli anni Ottanta il tasso medio della regione italiana più feconda, la Campania, è inferiore a quello medio della Svezia. Unione coniugale: la situazione nel 1975 prevedeva che circa il 93% dei soggetti si sarebbe sposato; negli anni Ottanta risulta, invece, celibe o nubile il 30%. Né si deve tacere che il tasso di aborti volontarî in Italia è uno dei più rilevanti nell’Europa occidentale. Dall’altra parte, però, ci sono mille segni di una primavera cristian. C’è lo slancio missionario della Chiesa italiana al servizio dei popoli più poveri e oppressi. C’è la risposta plebiscitaria dei giovani per il mantenimento nelle scuole dell’ora di religione. C’è la straordinaria vitalità di tante piccole comunità e parrocchie. C’è il miracolo quotidiano del volontariato cattolico, senza il quale l’Italia precipiterebbe nel caos e proprio nei settori dei giovani a rischio, dei tossicodipendenti, degli alcolisti, dei malati di Aids, dei portatori di handicap, deidetenuti ed ex detenuti, degli stranieri e delle persone senza fissa dimora, delle madri nubili, degli anziani e degli ammalati.
Sul “caso italiano” è forse opportuno anche quantificare la presenza di confessioni e movimenti religiosi non cattolici. Le espressioni religiose diverse da quella cattolica non sembrano interessare più di ottocentomila soggetti, evidenziando un carattere decisamente minoritario. A grandi linee, l’area evangelica conta dai duecentomila ai trecentomila membri. Gli ebrei ammontano a poco più di trentamila unità, mentre sono poche migliaia gli italiani che si riconoscono nella religione musulmana. Gli appartenenti ai nuovi movimenti ammonterebbero a circa trecentocinquantamila unità, la gran parte dei quali è costituita dai Testimoni di Geova (centocinquantamila aderenti e altrettanti simpatizzanti). Infine, il fenomeno dei nuovi culti e dei movimenti emergenti interesserebbe poco più di duecentomila persone, tra membri attivi e semplici simpatizzanti.
Abbiamo tentato un approccio al “caso italiano” per suscitare nel lettore domande analoghe sulle altre nazioni prese in esame ne La religione degli europei. In che cosa si differenziano dall’Italia Paesi a grande maggioranza cattolica come la Spagna e la Francia? E nei Paesi dell’Est lo straordinario risveglio religioso registrato fino al 1989-90 non era ancora sollecitato dalla lotta di resistenza non violenta contro un potere oppressivo, negatore della libertà delle coscienze? Quale futuro avrà la Chiesa ortodossa nella ricostruzione del tessuto sociale in una società in cui la disgregazione istituzionale e le esplosioni nazionalistiche hanno assunto le forme più drammatiche? E, più in generale, quale futuro c’è per la fede cristiana in Europa?
A noi sembra che Marcello Pacini abbia colto nel segno quando ha sintetizzato il significato complessivo dell’indagine svolta sulla dimensione religiosa in Europa alla fine del secondo millennio. “Una conclusione generale – scrivePacini – che abbiamo tratto dalle ricerche è la seguente: il rapporto tra religione e società nell’Europa contemporanea è molto più complesso e richiede visioni più articolate di quanto non si poteva credere in passato: la religione continua infatti a essere, seppure in forme alquanto diverse dal passato, un cruciale fattore di produzione di identità individuali e collettive dentro la modernità. In questo senso, le ricerche mettono in discussione le chiavi interpretative che in questi decenni le scienze sociali hanno utilizzato per definire il destino della religione nelle società avanzate. Secolarizzazione, privatizzazione, eclissi: nessuna di queste categorie appare, alla luce delle ricerche, soddisfacente”. Infatti, per quanto indubbiamente ciascuna di esse sottolinei aspetti reali, tuttavia è proprio la tesi generale ad esse sottesa, quella che diagnosticava l’inevitabile ritirata della religione e del suo ruolo sociale di fronte alla marcia di una modernità europea a-religiosa e indifferente, a non risultare confermata.
Giornale di Brescia, 2.2.1994. Articolo scritto in occasione di un incontro con Antonio Acerbi e Marco Demarie.