L’incontro con Mons. Franco Masserdotti, Vescovo comboniano di Balsas in Brasile, bresciano originario di Fiumicello, Presidente del Cimi (consiglio indigenista missionario), organismo voluto dalla Conferenza episcopale brasiliana per la pastorale indigena, si è tenuto in Palazzo Loggia a Brescia il 29 maggio 2001, su iniziativa di CCDC, SVI, Missionari Comboniani, Ufficio Missionario Diocesano. L’incontro è stato aperto dal sindaco di Brescia prof. Paolo Corsini e coordinato dal presidente dello Svi Claudio Donneschi.
l “testamento” di dom Franco (tratto da www.nigrizia.it)
Una settimana prima di essere travolto da un’auto, nell’incidente che spezzerà la sua vita, dom Franco scrive a Nigrizia, il mensile dei Missioanri Comboniani in Italia. Condivide la sua esperienza, riflette sulla ricchezza della chiesa latinoamericana, sul ruolo dei missionari e su una proposta coraggiosa che lancia come sfida. Ora dom Franco ci accompagna dall’alto: chi seguirà le sue orme?
Ricordo quando arrivai la prima volta in Brasile nel 1972. Entrando in nave nella Baia di Guanabara e guardando verso la città di Rio di Janeiro, la prima cosa che mi si presentò agli occhi fu la grande statua del Cristo Redentore, che dalla collina del Corcovado sembra proteggere la città. Quel Cristo dalle enormi braccia spalancate mi diede un’impressione di accoglienza. Commosso, pensai: «Sono venuto in Brasile per annunciarlo, ma lui è già qui che mi aspetta». Questo pensiero ha sempre accompagnato la mia vita di missionario. Il Signore è presente nella storia, nella cultura, nel dolore dei popoli. Io, missionario, sono chiamato a condividere con i fratelli e le sorelle a cui sono inviato l’esperienza di Dio per un arricchimento reciproco. Sono un mendicante che incontra altri mendicanti e, insieme, cerchiamo l’unico tesoro, che è il Dio della vita, che costruisce il suo Regno tra tutti i popoli attraverso Cristo nella forza dello Spirito. Il processo di evangelizzazione in America Latina è carico di ambiguità. Senza voler generalizzare, dobbiamo riconoscere l’alleanza storica tra il progetto politico-militare e mercantilistico del colonialismo e il progetto religioso: un’alleanza che ha prodotto violenza, intolleranza e negazione dell’altro. Giovanni Paolo II ha affermato: «La chiesa (…) vuole guardare la verità per ringraziare Dio per il bene realizzato e imparare dagli errori commessi per lanciarsi rinnovata verso il futuro. Essa riconosce il legame che c’è stato tra la croce e la spada. Ma riconosce pure che l’espansione della cristianità iberica ha portato ai nuovi popoli la fede cristiana» (Al Celam, 12-10-84). Purtroppo questa ambiguità ha creato condizionamenti che perdurano. Durante il Simposio sulle rivalità etniche in Sud America (Barbados, 1971) gli antropologi denunciarono la continuità coloniale delle missioni tra gli indios e proposero una moratoria missionaria o una revisione dei metodi di evangelizzazione. Come risposta a questa critica, nel 1972 in Brasile nacque il CIMI (Consiglio indigenista missionario). Ma il rinnovamento dell’evangelizzazione era già iniziato con la Conferenza di Medellín (1968), che “inculturò” il Concilio Vaticano II alla luce dei segni dei tempi e delle sfide del continente. Si affermò che «è preoccupazione della chiesa latino-americana comprendere, alla luce della parola di Cristo, il momento storico che viviamo e cercare risposte nuove per la promozione umana dei popoli del continente, basata sui valori di giustizia, pace, educazione e amore coniugale». Opzione per i poveri. Ciò che caratterizzò la Conferenza di Medellinfu la scelta dei poveri: «Non si può rimanere indifferenti di fronte alle terribili ingiustizie sociali esistenti in America Latina, ingiustizie che mantengono la maggioranza del nostro popolo in una dolorosa povertà, che arriva a essere, in molti casi, una miseria disumana. Un sordo clamore di milioni di persone chiedono a noi vescovi una liberazione che non arriva loro da nessuna parte». La Conferenza di Puebla (1979) ribadì la stessa linea: «Quando ci avviciniamo al povero per accompagnarlo e seguirlo, facciamo quello che Cristo ci ha insegnato quando si è fatto nostro fratello, povero come noi». La chiesa si è sempre preoccupata dei poveri. In America Latina, però, non si è limitata a “dare un pesce” o a “insegnare a pescare”. Ha voluto, invece, impegnarsi per “ripulire il fiume della società”, inquinato dall’ingiustizia e dalla corruzione, assumendo con coraggio la dimensione profetica dell’evangelizzazione, in virtù della quale si sente chiamata a trasformare il sistema socio-economico ingiusto ed escludente. Questa “opzione per poveri” si è espressa in molti modi: teologia della liberazione, lettura popolare della Bibbia, pastorali sociali… Io ritengo che si sia concretizzata soprattutto nella vita delle comunità ecclesiali di base, con la loro apertura ai ministeri laicali, la loro spiritualità della liberazione, la loro metodologia partecipativa attenta al dialogo e al rispetto della cultura e della religiosità popolari. Le comunità di base non sono solo piccole strutture di una chiesa in movimento, ma anche una “nuova visione di chiesa”, che orienta e dinamizza le linee pastorali. I poveri sono avvertiti come protagonisti di una rinnovata evangelizzazione e della costruzione di una società fraterna, giusta e solidale. In Brasile e in altre parti dell’America Latina l’apertura missionaria delle comunità di base è garantita da un nuovo modo di vivere le missioni popolari in cui i laici sono protagonisti.