1. Nell’occasione della recente ricorrenza del cinquantenario della morte (12 aprile 1959), la conoscenza e l’approfondimento della figura di don Primo Mazzolari sono andati arricchendosi di saggi che, nell’attuale temperie culturale, hanno contribuito a riaccendere l’attenzione sull’uno o l’altro aspetto della sua complessa personalità, di questo singolare esponente dell’Italia religiosa del Novecento. A questo fervoroso e denso impegno di sviluppo delle ricerche non sono per altro mancati contributi, pur di diversa impostazione, dovuti a studiosi bresciani quali Franco Dorofatti, Antonino Fedele, Anselmo Palini che hanno prodotto nuovi elementi di valutazione e giudizio sull’appassionante vicenda del parroco di Bozzolo.
Entro questo ricco panorama l’indagine del rapporto fra don Primo e la realtà bresciana – la gerarchia ecclesiastica e la Chiesa locale, la società, gli ambienti culturali della nostra città – ha registrato un nuovo, specifico, stimolante, assai documentato contributo dovuto ad Anselmo Palini, contributo espressamente dedicato ad una meticolosa ricognizione critica delle personalità bresciane che hanno intrattenuto un duraturo, fecondo rapporto col sacerdote cremonese, dopo alcune precedenti indagini condotte da chi scrive sull’amicizia e collaborazione fra Mazzolari e il suo editore, Vittorio Gatti, ed altri saggi dedicati ad un esame ravvicinato e puntuale della corrispondenza epistolare intrattenuta dal sacerdote cremonese con alcuni bresciani, da don Guido Astori al dottor Paolo Tosana.
Ricerche che non hanno esitato a presentare Mazzolari da una parte come un contestatore e un ribelle, comunque come un personaggio la cui fedeltà alla Chiesa appariva perennemente contraddistinta dal dubbio, se non addirittura sospetta; dall’altra, come un provocatorio antesignano di sviluppi futuri, a motivo della preveggente– spesso anticipatoria – percezione dei problemi, delle contraddizioni della Chiesa e della società italiana.
La graduale pubblicazione di una serie di inediti (soprattutto del vastissimo epistolario e dei diari) ha fatto in qualche modo giustizia di abusati luoghi comuni, riproponendo la figura di don Mazzolari in tutto il suo spessore e nella sua profondità, nel quadro di un’evoluzione progressiva delle sue idee e del suo modo di percepire e vivere la fede, il proprio complesso rapporto con la storia, aspetti che, fra l’altro, proprio l’indagine delle sue frequentazioni ed amicizie bresciane consente di cogliere con singolare pienezza ed efficacia.
Le diverse fonti, le testimonianze legate al suo rapporto con la nostra città, con un’ampia schiera di sacerdoti e uomini di cultura, con il suo editore o il cenacolo dell’oratorio della Pace, permettono, infatti, di approcciare un Mazzolari più tormentato ed insieme più sfumato di quanto a prima vista in passato potesse sembrare; una personalità, cioè, che conserva una sostanziale linearità di posizioni, ma della quale i documenti rivelano pure i dubbi e le esitazioni interiori, soprattutto a proposito delle scelte nei riguardi delle guerre, della maturazione degli itinerari politici dei cattolici italiani.
Don Mazzolari è spesso a Brescia e in vari centri della provincia. Prete in cura d’anime, nel pieno della sua maturazione intellettuale, evoca Verolanuova – ove è consacrato sacerdote – come una località con “bellissime tradizioni religiose, ma un po’ sbandata e stanca […] una popolazione rurale docile e buona, ma impoverita dalle ultime crisi agrarie”. Frequenta il territorio bresciano tenendo esercizi spirituali, conferenze ed incontri, giornate di meditazione e di preghiera, in tempi di crescente sospetto presso le gerarchie ecclesiastiche nazionali a motivo delle aperture ai “lontani”, delle sue coraggiose prese di posizione. Per lui che, come scrive, si sente bresciano d’animo, “veronese di adozione /…/ affezionato a questa terra che mi raccolse fanciullo, a questa Chiesa che mi vide sacerdote, a un vescovo, al nostro vescovo che con gesto di particolare, paterna benevolenza, mi imponeva le mani a’ piedi dell’altare”, si tratta di una frequentazione naturale a motivo dell’assonanza del sentire con un clero dalle forti radici popolari e dalla riconoscibile vocazione spirituale.
E così, nei ricordi, spesso compaiono il prevosto don Francesco Manfredi dalla predicazione “addottrinata, severa, quasi dura, ma ben nutrita e dignitosamente insegnata”, il curato don Lampugnani che gli insegna i primi rudimenti di latino, il maestro Pochetti per il quale nutre un’ammirazione profonda.
Nativo di Verolanuova è pure don Marco Amighetti che gli rimane vicino per tutta la vita, dividendo con lui l’adolescenza e gli anni del seminario, il fervore per l’interventismo e le amarezze di tutta una vita. In occasione dell’ordinazione sacerdotale dell’amico, don Mazzolari scrive per altro la sua prima opera, pubblicata nel 1915, senza apporre la propria firma, anche se l’iscrizione Parole dette da un amico ne la Chiesa di Verolanuova, oltre allo stile del discorso, rendono certa l’attribuzione. Questo scritto, puramente d’occasione, si rivela importante in quanto prima testimonianza pubblica del parroco di Bozzolo.
Don Primo sente di appartenere insomma pienamente a quel clero educato e diretto da mons. Giacinto Gaggia e fruitore degli stimoli derivanti dagli ambienti che ruotano attorno ad una personalità di prestigio, a una figura di eccezione come quella del filippino padre Giulio Bevilacqua, la cui statura religiosa e morale si è già affermata e costituisce un sicuro punto di riferimento per molti sacerdoti e laici. Amici fedeli sono pure numerosi bresciani presso i quali trova un sostegno e un approdo nei momenti più tumultuosi e difficili della propria vita.
2. Nel corso di una delle sue non rare visite in città don Primo fa la conoscenza di Vittorio Gatti, di cui probabilmente ha già sentito parlare presso l’oratorio della Pace. Il poco più che quarantenne editore bresciano che Mazzolari conosce e al quale si stringe in un rapporto di solidarietà umana e di affinità culturale, prima ancora che per le opportunità editoriali offertegli, ha aperto nel 1928 una piccola libreria prima in via Dante e quindi in piazza Duomo (ora piazza Paolo VI): il compimento di un’aspirazione a lungo coltivata già all’interno dell’editrice Morcelliana.
Il rapporto fra Gatti e Mazzolari trova prezioso humus e diviene esperienza significativa per la loro comune formazione culturale, incistata nel personalismo comunitario di ascendenza francese, per un’affine ispirazione religiosa e civile, esperienza che depone a favore di un sodalizio fatto di profonda ed intensa amicizia, di idealità comuni, di operosa collaborazione. Entrambi operano alla luce di una religiosità vissuta con intima adesione della coscienza e consapevole scelta di libertà, sensibile alla storia degli uomini, non estranea o indifferente alla vicenda mondana.
Entrambi, ancora, vivono una disposizione attivistica, concreta, un’attitudine organizzativa assai spiccata entro una consapevolezza precorritrice nel tempo dei compiti di un cristiano impegnato – da laico o da sacerdote – in un’età greve, in una temperie di graduale condizione di minoranza per i cattolici. Sono accomunati da una curiosità culturale aperta a sollecitazioni della produzione cattolica più progressista ed avanzata, in prima linea nelle battaglie di frontiera, in un sentire svincolato da ogni sudditanza, ribelle ed insofferente del conformismo diffuso. Nella loro corrispondenza affiora il coraggio di proclamare i diritti della fede e della coscienza, i principi della giustizia sociale contro il privilegio, della libertà di tutti – cattolici e non – contro la dittatura, contro ogni forma di coercizione, di assoggettamento spirituale e materiale.
Vittorio Gatti vive come don Mazzolari l’appassionamento per il cattolicesimo dell’inquietudine e del dialogo, del non appagamento e della riflessione, di contro a quello farisaico del tempio e rubricistico della legge, dell’autorità e della devozione esteriore. Questo l’uomo, l’amico Vittorio Gatti, “singolare provocatore e diffusore di cultura” come è stato definito, sceso in campo, come ebbe a scrivere egli stesso, “a combattere la buona battaglia per il libro e la cultura cattolica in Italia”, che trova in don Mazzolari il suo autore per eccellenza.
Un editore che vive pienamente la consapevolezza dei rischi da correre nell’esercizio della propria attività in una Brescia ormai monopolizzata da un fascismo a forti connotazioni anticlericali come quello lasciato in eredità da Augusto Turati (passato alla segreteria nazionale del Partito fascista a Roma) e che non esita ad assumere appieno le proprie responsabilità, in un impegno che prende le mosse da una fede cristiana apertamente dichiarata, trasparente, lineare, vissuta prima come coerente esperienza di vita che come suggestione ideale.
Non è frutto del caso, dunque, il fatto che da una reciproca volontà scaturisca il primo lavoro pubblicato da Mazzolari presso Gatti editore nel luglio del 1932: si tratta dell’opera Il mio parroco. Confidenze di un povero prete di campagna, che nelle intenzioni dell’editore dovrebbe costituire la prima anticipazione di una trilogia (Dal fondo di un presbiterio di campagna e Lettere al mio parroco gli altri due titoli), opera, scrive Gatti, “del colto, squisito, geniale … e mordente autore”, un proposito che non potrà però realizzarsi se non parzialmente.
Le favorevoli impressioni suscitate dal volume editato inducono Vittorio Gatti – nella condivisione senza remore dell’opera – a incitare senza riserve don Mazzolari a proseguire nella sua attività. L’iter col quale il manoscritto del secondo lavoro in preparazione viene predisposto permette di evidenziare il pieno coinvolgimento della cultura cattolica bresciana. Una prima versione viene inviata in lettura a don Paolo Guerini: Mazzolari è tranquillo, come scriverà il 2 dicembre 1932 a Gatti, “confidando nella larghezza dei giudizi tanto intelligenti del professore”.
Mentre il sacerdote di Bozzolo cesella le ultime modifiche, Gatti si consulta con don Giuseppe Tedeschi, direttore di “Madre Cattolica” per avere consigli su come procedere in vista della necessaria richiesta dell’imprimatur ecclesiastico. Il responso del prelato non tarda a venire. “Ho letto. Meraviglioso! Non tutte le pagine stanno ad uguale altezza, ma ve n’ha di straordinarie” scrive don Tedeschi, passando immediatamente il testo a mons. Emilio Bongiorni, vicario della diocesi all’indomani della morte del vescovo Gaggia scomparso da pochi mesi. Anche il giudizio di Mons. Bongiorni è altrettanto confortante, al di là di qualche parziale correzione: “A me pare”, questo il verdetto, “che il lavoro sia buono e che meriti le lodi /…/ date dalla Civiltà Cattolica all’opuscolo Il mio parroco”.
Ma le richieste di modifica parziale, pur fondamentalmente estranee a problemi di ortodossia, convincono don Mazzolari, già impegnato a stendere le pagine del volume che lo renderà noto – La più bella avventura – a concordare con l’editore un pausa piuttosto che ad operare le correzioni suggerite. Dunque, nell’anno 1934 Vittorio Gatti pubblica il nuovo volume di Mazzolari, elaborazione del tema della parabola del figliol prodigo ricavata da alcune prediche che l’autore ha tenuto fra il 1929 e il 1932 a Brescia e in valle Camonica, opera che, come noto, incontrerà soverchi impedimenti alla sua diffusione, con l’ingiunzione del ritiro dal commercio e la proibizione a procedere a nuove edizioni, proibizione voluta il 5 febbraio 1935 dalla Suprema Congregazione del S. Uffizio.
Questa tappa del comune percorso intrapreso da Mazzolari e Gatti riveste un’importanza decisiva nella definizione del rapporto che li lega in solidale amicizia e collaborazione. Una vicenda assai dolorosa per il parroco di Bozzolo quella dell’ammonimento comminatogli dall’autorità ecclesiastica, nell’atto – scriverà – di “obbedienza piena /…/ con cuore devoto ed appassionato verso la Chiesa cattolica apostolica romana” e che, per quanto riguarda Gatti, finisce per confermare e rafforzare i vincoli di un sodalizio e ragioni di investimento culturale nel quale gli crede fino addirittura a mettere in gioco la stessa sopravvivenza della sua attività.
Gatti non solo per garantire un buon esito all’iniziativa, ma animato da sincera vocazione, sente il bisogno, prima della stampa del volume, di consultare il sacerdote che per autorevolezza acquisita e per posizione rivestita all’interno delle gerarchie ecclesiastiche bresciane può risultare di una certa influenza, ancora una volta don Tedeschi. Il sacerdote esprime un parere sincero quanto affidabile: “ho scorso il manoscritto – così rassicura il direttore di “Madre cattolica” – non mi pare si debbano coltivare timori per la censura ecclesiastica. Sento che è prezioso”.
Il testo, su incarico da parte del vescovo di visionare il manoscritto, viene letto pure da mons. Angelo Bosio, dotto prevosto di San Lorenzo e docente di teologia morale presso il Seminario maggiore di Brescia, cui don Mazzolari ha fatto giungere con tutta fretta le parti mancanti. Lo scritto viene impaginato e reso in bozza, pronto per la stampa. A quel punto una prima doccia fredda: Mons. Bosio – probabilmente su indicazione di Mons. Bongiorni – desidera rileggere il lavoro una nuova volta “per togliere ogni possibile interpretazione in senso protestante”.
Don Primo pazienta ed obbedisce, esamina le correzioni proposte e le accetta: nel marzo del 1934 il libro è stampato col titolo La più bella avventura scelto proprio su suggerimento dello stesso editore. L’amico bresciano scrive a Mazzolari il mese successivo, dopo le prime favorevoli accoglienze: “il librò avrà i lettori che si merita nel campo nostro e nell’altro /…/ ha spalancato una finestra verso luci nuove. Per quale motivo si dovrebbe richiudere?”.
Vittorio Gatti comunica al sacerdote i suoi sentimenti, le sue riflessioni. Lo scritto del parroco evidentemente non rappresenta per lui una semplice operazione commerciale. Darlo alle stampe è il risultato di una scelta assunta con istintiva adesione, ma pure frutto di una progressiva immedesimazione ideale, passaggio importante di un cammino di educazione religiosa e sostentazione spirituale. Gatti non si limita a tenere al corrente il suo autore delle fortune iniziali dell’edizione, ma gli apre il suo animo di credente: “Ora ella”, scrive nel maggio 1935, “s’è messa in cammino con anime che la seguono. La strada è quella che conduce sempre al padre: bisogna continuare il cammino particolarmente per la salute dei seguaci fra i quali ci sono anch’io”.
Nonostante le prime avvisaglie di imminnenti difficoltà, Vittorio Gatti procede senza cedimenti. Al fine di far conoscere l’opera prende contatti con numerosi studiosi. Fra i bresciani si segnala il giovane Mario Bendiscioli che l’anno prima, nel 1933, in un suo ampio contributo dal titolo “Romanesimo e germanismo” ha dato prova di indubbio coraggio intellettuale, attaccando al cuore e apertamente il violento complesso antiromano proprio del prussianesimo e del razzismo pangermanico.
Ancora: Gatti consulta gli amici don Guerini, don Tedeschi, padre Bevilacqua, don Pebejani, “il dr. Montini, fratello del Monsignore”, ma la conclusione della vicenda pare ormai chiara: “Dobbiamo tirare innanzi sorretti dalla speranza di un conforto spirituale – così Gatti rincuora don Mazzolari nel giugno 1934 – lei come autore, io come editore. Dunque stia bene tanto”.
I due amici si trovano presto al centro di una doppia censura. L’una, quella ecclesiastica, risulta particolarmente amara, costringendo il parroco di Bozzolo “al martirio della moderazione”, l’altra – fatta di minacce, vessazioni, denunce – quella messa in opera dalle gerarchie fasciste, che offende le coscienze del sacerdote e del cittadino, personalità avvezze a rifuggire da ogni forma di compromesso.
Da Gatti naturalmente non può giungere che una testimonianza accorata che – l’uomo, l’editore, il cristiano sono un tutt’uno – risale alle radici della Parola e insieme mette in luce il volto comprensivo e partecipe della Chiesa bresciana, dei suoi esponenti più sensibili e lungimiranti, la loro disposizione all’ascolto, a lasciarsi interpellare.
Gatti così scrive nel luglio 1934 all’autore: “Se Gesù non avesse predicato l’amore e la fratellanza umana e la paternità di Dio, non l’avrebbero crocifisso. Giusto è quindi che chi ripete da apostolo la sua dottrina senza avversativi e a tutti senza distinzione debba subire l’urto della opposizione”.
A sostenere il volume pure una breve missiva di padre Bevilacqua, assai eloquente: “bellissimo e vivo il suo libro; farà gran bene ai fratelli lontani dalla casa paterna, ma farà gran bene a tutti gli ipocriti che si illudono di essere dentro”. Accantonata la pubblicazione di altri due scritti (il già citato e pronto Lettere al mio parroco e il nuovo Pascha Nostrum), anche una terza opera trova impedimento all’edizione. Si tratta di Quando la Patria chiama, scritto in forma di lettera come risposta ad un giovane arruolato nella guerra di Etiopia; le letture del manoscritto sono negative e Mazzolari recede dall’intento, scrivendo a Gatti: “mi ero illuso che si potesse in questo momento servire in piedi e da cristiano il proprio paese. Forse è ancora presto”.
Gatti – rischiando nuovamente la censura – riprende a stampare per Mazzolari nel 1936, con l’opera Lettera sulla parrocchia. Invito alla discussione, che esce però nell’anonimo Un laico di Azione Cattolica, accolto sull’importante quotidiano “l’Italia” con una lunga e favorevole recensione di Mario Bendiscioli. La Lettera viene integralmente riproposta nelle pagine della rivista “Segni e Tempi” a soli pochi mesi dall’edizione bresciana. Evidentemente a Gatti, consenziente all’iniziativa, importa maggiormente diffondere e facilitare la diffusione del pensiero mazzolariano piuttosto che, ancora una volta, il mero rendiconto economico.
La pubblicazione del volume indica all’editore la possibilità di un rilancio delle opere mazzolariane senza pericoli di ulteriori censure. Del 1937 è quindi il volume dal titolo Il samaritano, cui seguiranno l’anno successivo I lontani e Tra l’argine e il bosco (cui collabora don Antonio Novi, sacerdote bresciano insegnante preso il Seminario diocesano e critico letterario), scritti che iniziano a delineare le posizioni di don Mazzolari per una Chiesa più vicina ai laici ed agli indifferenti, in prima linea nel proclamare la Parola.
Nel 1939 è la volta de La via Crucis del povero, di una ristampa (praticamente clandestina) de La più bella avventura nel 1940 e, ancora, nel 1941 di Tempo di credere e l’anno successivo di Anch’io voglio bene al Papa. Opere nelle quali si esprime l’opposizione morale di editore ed autore al fascismo ed alla guerra, nel confronto fra il tempo di Cristo e l’ora vissuta dai cristiani. Edizioni il cui merito va certamente assegnato al coraggio di Vittorio Gatti, come ricorda lo stesso don Mazzolari, che dedica La via Crucis del povero (ristampata nel 1942), al suo editore “tenace e sfortunato, amico fedele e carissimo, queste pagine insieme sentite e sofferte, in un’ora dove il credere nelle forze dello spirito è giudicato una follia”.
Anch’io voglio bene al Papa del 1942 costituisce l’ultimo volume pubblicato da Gatti per don Mazzolari. Uno dei suoi testi più intensi, a lungo rimasto non distribuito proprio a motivo delle censure ecclesiastiche vaticane, di un severo giudizio dello stesso Pio XII che fa sapere di non essere particolarmente “contento per il modo troppo umano di cui si scrisse del Papa”.
Difficoltà, resistenze, contrarietà che indeboliscono il tentativo di don Primo di divulgare le proprie idee cristianamente ispirate, ed ancora ben presenti nel secondo dopoguerra. Nel 1951 il S. Uffizio gli proibisce di scrivere sul suo giornale «Adesso» e gli prescrive impedimento a predicare fuori della diocesi senza il permesso del vescovo (ottenendo, peraltro, immediata obbedienza); del 1954 è la nuova diffida dal tenere omelie extraparrocchia. Sino al caso – dopo l’apparizione nel 1956 di una recensione assai critica apparsa su “La Civiltà Cattolica” di Tu non uccidere– del ritiro dal commercio del libro, ritiro ordinato nel 1958.
Così solo dopo la scomparsa di don Primo Vittorio Gatti procederà a diverse ristampe “affinché”, come ebbe a dire, “le sue idee continuassero a vivere”
3. La frequentazione con alcuni giovani intellettuali bresciani è mediata soprattutto dalla conoscenza con il farmacista dottor Paolo Tosana, dispiegatasi a partire dal 1936. Don Mazzolari inizia a frequentare la casa del nostro concittadino, la cui moglie, signora Rachele, è di origini cremonesi, per un rapporto che continuerà fino al 1959, anno della morte di don Primo e si svilupperà pure attraverso un ricco scambio epistolare. I frequenti atti di carità compiuti dalla famiglia bresciana, rinsaldano man mano il rapporto che diventa sempre più intenso, confidenziale, intimo: i Tosana si sono infatti contraddistinti per un attivo, intenso impegno sociale tanto che lo stesso parroco di Bozzolo ringrazia continuamente per la generosità con cui si prodigano nell’aiutare i suoi poveri. Don Mazzolari nutre una profonda e sincera stima per la famiglia: per la carità autenticamente cristiana della signora Rachele, per l’intelligenza viva e la rettitudine del dottor Paolo, per la sensibilità della giovane figlia Claudia.
Ben presto, nella casa bresciana di via Moretto 67, la presenza di don Mazzolari richiama numerose persone, che condividono riflessioni e conversazioni sulla situazione del Paese e sui problemi più scottanti connessi all’attualità. Questi incontri, nati da circostanze del tutto fortuite e propiziati dall’amicizia con la famiglia Tosana, aiutano in quegli anni numerosi bresciani a resistere alla dittatura fascista e successivamente ad impegnarsi in prima persona, nei più svariati campi, nella ricostruzione del Paese.
A questa sorta di cenacolo spirituale e culturale partecipano, chi già prima della guerra e durante gli anni del conflitto, chi invece, poiché più giovane, nel dopoguerra, mons. Giuseppe Almici, Massimo Avanzini, Stefano e Ercoliano Bazoli, Antonio Bellocchio, Francantonio Biaggi, Pierfranco Biemmi, Mario Cassa, Romeo Crippa, Gianfranco De Bosio, Fabiano De Zan, Annibale Fada, Leonzio Foresti, Edoardo Malagoli, Gaetano Masetti e signora, Fausto e Stefano Minelli, Giulio Onori, Vittorio Sora, Camillo e Giulio Togni e diversi altri ancora.
Si tratta di esponenti del mondo cattolico bresciano, ma anche di liberal-moderati e pure di epigoni zanardelliani accomunati nell’anelito alla libertà, nella coerenza di valori quotidianamente vissuti. Le conversazioni vertono su tematiche di ordine religioso e sulle più assillanti problematiche del tempo, nella costante ricerca di una parola chiara e aperta, che aiuti a orientarsi in un tempo in cui non vi è alcuna forma di libertà e giungono solo informazioni manipolate e filtrate dal regime.
In una città largamente fascistizzata, culturalmente chiusa ad ogni confronto, ove è difficile e rischioso leggere autori stranieri, don Mazzolari introduce aria fresca non solo in campo religioso, ma anche culturale, fra un gruppo di intellettuali che avvertono come Brescia possa presto decadere e soffocare nelle sue aspirazioni più autentiche nel rischio della simbiosi col fascismo e nella disponibilità, per certi versi, all’incontro con alcuni settori dell’intellettualità laica sul terreno ambiguo dell’esaltazione dell’ordine, dell’autorità e della tradizione.
Grazie a don Mazzolari, per utilizzare le parole di Fausto Minelli, è invece possibile concepire la cultura “come ricerca di luce e verità. Questa è appunto la cultura che desideriamo affermare, consapevoli che da questa ricerca obiettiva di verità può, alla fine, determinarsi l’adesione al Vangelo di Cristo come al più valido riparo alla frana che sembra travolgere pensiero, costume e libera vita dell’umanità”.
Straordinaria la sintonia tra Mazzolari e Stefano Bazoli, accomunati da una singolare sensibilità e dalla medesima consapevolezza di essere uomini di frontiera. I due si conoscono presumibilmente tramite Vittorio Gatti dopo la lettura da parte di Bazoli de La più bella avventura, anche se il loro incontro sarebbe rimasto occasionale senza la comune frequentazione di casa Tosana. La prova più nitida dell’amicizia che li lega è senz’altro da individuare nelle lettere che Bazoli e don Mazzolari si scambiano dal 1949 fino all’anno precedente alla morte del parroco di Bozzolo.
Il carteggio mette in risalto una profonda stima reciproca ma anche una visione politica per certi aspetti molto simile, nonché un condiviso senso di responsabilità civile. Bazoli scrive almeno due articoli su “Adesso”, tematizzando in entrambi i casi l’impegno dei cattolici in politica, impegno caro anche all’amico sacerdote. A lui si deve anche l’incontro, avvenuto presumibilmente nel marzo del 1952, con Concetto Marchesi, l’illustre latinista e intellettuale comunista che condivide con don Primo lo sdegno per le ingiustizie e l’attenzione per la povera gente.
La presenza fra gli altri di Lodovico Montini, brillante politico, promotore delle fortune della Dc e delle Acli bresciane, o del citato Fausto Minelli, presidente della Banca S. Paolo e fondatore della Morcelliana, dell’avvocato Giulio Onofri o dello stesso Bazoli, non deve essere però fraintesa. I rapporti di Mazzolari con esponenti in vista del mondo politico vanno circoscritti a frequentazioni personali, e non interpretati quali mediazioni o contatti con la struttura di un partito o della stessa Azione Cattolica. D’altra parte, egli preferisce rimanere al di fuori dai luoghi della politica, in modo da agire direttamente dove i problemi si presentano con drammatica urgenza e richiedono un intervento immediato. La sua missione è altra rispetto a quella del politico, al quale riconosce tuttavia un ruolo fondamentale e responsabilità non differibili.
Non vi è dubbio, tuttavia, che le sue opere e le battaglie combattute nel secondo dopoguerra soprattutto dalle pagine di “Adesso”, hanno contribuito alla formazione di diversi giovani bresciani. Il modo di affrontare le questioni più delicate e di proporre soluzioni spesso controcorrente, denota l’impegno a scuotere le coscienze e indurre a cercare un futuro senza timori e compromessi. Per questo don Mazzolari diviene un modello etico e di comportamento per i più giovani con quali condivide l’urgenza di cambiamento all’interno della Chiesa e il bisogno che la politica assurga ad occasione di riscatto per gli sfruttati, di affermazione della giustizia.
A questo proposito è significativa la questione sollevata da un gruppo di giovani bresciani che nel dopoguerra assumono il sacerdote cremonese come guida per districarsi nella complessa realtà politica del proprio tempo. Nel settembre del 1950 compare sulle pagine centrali di “Adesso” la lettera collettiva di un “gruppo di giovani né fascisti né comunisti né democristiani; ma cristiani, democratici, italiani”, lettera attraverso la quale si pone una serie di precisi interrogativi inerenti alla guerra che in quegli anni sembra minacciare il fragile equilibrio internazionale.
La missiva nasce nell’ambiente dell’editrice “La Scuola” ad opera di un gruppo di cui fanno parte Giovanni Cristini, Marco Del Corno, Giuseppe Gilardini, Mauro Laeng, Lino Monchieri, Franco Nardini, Matteo Perrini, Gaetano Santomauro, Gabriele Calvi, giovani particolarmente attenti alle grandi questioni e che, ancora giovanissimi, negli anni della guerra si sono impegnati a vario titolo nel movimento partigiano.
Le riflessioni che ne scaturiscono sono state ampiamente studiate dai biografi di don Mazzolari: fornendogli stimoli, incentivi, esempi, Brescia ha saputo alimentare, con i fermenti di un cattolicesimo riflessivo e critico, uno spirito già singolare per inclinazione. D’altro canto è pure significativo determinare la portata ed il significato che la testimonianza del parroco di Bozzolo ha lasciato in terra bresciana. La sua natura irruenta e la trascinante carica comunicativa hanno fatto in modo di porlo a contatto con persone di ogni estrazione: in ogni momento della sua vita ha potuto contare sui bresciani che sono stati fra gli amici più tenaci e fedeli. In questo modo gli è stato possibile svolgere una rilevante azione educativa ed esercitare una forte influenza “politica” su una parte della classe dirigente locale, non esclusivamente di area cattolica.
Per molti bresciani la sua vicinanza ha attribuito alimento ad una concezione della fede cristiana strettamente ancorata al Vangelo, una lettura che non si identifica quindi con nessuna scelta politica e nessuna costruzione intellettuale, ma sempre più vigile e critica delle degenerazioni dei conflitti contemporanei, nel contempo attenta ad una quotidiantità da spendere nella tensione al servizio del bene comune, tensione attraverso la quale i cristiani possono e debbono costituire l’anima della società, condividendo appieno la necessità di elargire spazio alla memoria ed al senso del futuro, riflettendo intorno al profilo inquieto della propria fede.
4. Vale la pena non sottacere il dinamico rapporto che ha legato don Mazzolari alla Chiesa bresciana e riepilogare, seppur per sommi capi, l’atteggiamento della comunità ecclesiale nei suoi confronti. Come noto gli ostacoli incontrati dal parroco di Bozzolo a far circolare le sue riflessioni mostrano con nettezza le difficoltà cui nella Chiesa italiana dagli anni Trenta ai Cinquanta ed oltre andava incontro la diffusione pubblica di tesi che affrontassero, per esempio, la questione del ripudio per motivi religiosi dello strumento della guerra e della partecipazione ai conflitti.
Abbiamo già segnalato il rapporto, spesso mediato dall’editore Gatti, che il parroco di Bozzolo intreccia con il mondo ecclesiastico bresciano. Sacerdoti come don Guerini, mons. Bosio, don Tedeschi, padre Bevilacqua ed altri non esitano a testimoniare la propria condivisione con le battaglie di Don Primo, alla luce di una interpretazione umanistica del ruolo della Chiesa, nella sottolineatura della importanza e centralità della vita parrocchiale, nonchè dell’attenzione verso “lontani”.
Essi sono ben consapevoli che la “profezia” di don Mazzolari – con il suo auspicio di una “cristianità in piedi di fronte a una civiltà prona davanti a tutti gli idoli” – ripropone un problema permanente nella Chiesa, quello del rapporto fra istituzioni ed un corpo ecclesiale all’interno del quale si formano idee, si avanzano proposte che difficilmente trovano, almeno nell’immediato, accoglienza e riscontro, ma più spesso suscitano diffidenza, perplessità, ostilità.
Uno dei più cari amici di don Mazzolari è senza dubbio don Guido Astori. Nato a Carpenedolo nel 1888, compagno di studi a Cremona, è professore in seminario, quindi parroco nella città del Torrazzo, ma assai spesso a Brescia. Tra don Guido Astori e don Mazzolari il rapporto d’amicizia si sviluppa anche in un continuo scambio di lettere, che abbraccia cinquant’anni. In questo epistolario, che don Guido Astori decide di pubblicare nel 1974, riecheggiano tutti gli avvenimenti più importanti della vita di don Mazzolari, i suoi scritti, i suoi impegni pastorali, i suoi giudizi sulle vicende storiche. All’indomani di uno dei primi corsi di esercizi predicati a villa San Filippo, don Mazzolari scrive all’amico: “Caro don Guido, le mie giornate di Brescia furono benedette dal Signore al di là delle mie speranze. Lo devo certamente alle preghiere tue e di altre anime buone…”. La raccolta di lettere, costituisce tutt’ora una delle fonti principali per conoscere lo stato d’animo con cui il sacerdote cremonese affronta le proprie traversie. Con l’amico egli divide le inquietudini della sua crisi vocazionale e le palpitazioni per la prima guerra mondiale, si confronta su problemi pastorali e si consiglia nelle decisioni fondamentali. Non sempre don Guido, di carattere ben più mite e riservato, condivide certe asprezze e le idee dell’amico che trova troppo spesso eccessivamente ardite. Ma appunto proprio in ragione di questo diverso temperamento, egli diviene per Mazzolari un riferimento prezioso, ineludibile.
Le frequentazioni dell’oratorio della Pace consentono l’avvicinamento di sacerdoti dalla straordinaria personalità. Accanto a Padre Bevilacqua, padre Carlo Manziana (poi vescovo di Crema), padre Acchiappati, don Luigi Pizzocaro. Di questi ultimi, dopo una presenza a Cicognara, don Primo scriverà “I due missionari furono straordinari: hanno lasciato qui tutta la loro anima ardente e delicata. Ascoltandoli, non si poteva non rimanere pensosi e anche coloro che non ricevettero il Signore sacramentalmente devono aver sentito un brivido divino nel loro cuore”.
Don Mazzolari nutre una profonda stima e considerazione per padre Giulio Bevilacqua. In una lettera ad un amico, il parroco di Bozzolo definisce l’oratoriano della Pace “un’anima straordinaria”. La problematica dei lontani, uno dei temi centrali nel pensiero e nella predicazione di don Primo, è molto cara anche al padre filippino, che vi dedicherà un libro, La parrocchia e i lontani (Vicenza, 1962). Il futuro cardinale-parroco partecipa pure al XV° anniversario di ordinazione del sacerdote di Bozzolo: Don Primo nel suo Diario parla ampiamente di questa giornata trascorsa a villa S. Filippo, “accolti dalla larga e bellissima carità di padre Bevilacqua”.
Don Mazzolari e padre Giulio, sono parole di mons. Manziana,
“amarono appassionatamente la parrocchia, entrambi molto scrissero sulla parrocchia, sulla crisi della parrocchia, ma alla loro autentica e sofferta vocazione di parroci si sovrapponeva una incoercibile vocazione di intellettuali e maestri, soprattutto per le giovani generazioni, ottenendo un più vasto e qualificato raggio di udienza […]. Ma una cosa preoccupava sino allo spasimo tanto don Mazzolari che padre Bevilacqua: la povertà, non soltanto per sentire l’eminente dignità dei poveri, per farla rispettare, per difenderla e sollevarla, ma per viverla. Vedevano la ricchezza come la grande responsabile delle ingiustizie sociali, della degradazione morale, dell’appesantimento della vita della Chiesa”.
Due sacerdoti che vivono un nobile magistero spirituale e religioso, un’esperienza contrassegnata da una cifra distintiva riconducibile alla secolare tradizione lombarda del sacerdote come “buon pastore”, come pastore di anime, nella vigile attenzione alle vicissitudini di ogni giorno, a tutti i richiami che vengono dalle inquietudini e dai bisogni profondi, dalle speranze e dalle attese dell’umana condizione. L’attenzione alla persona, dunque, alla sua valenza teologica, che rinvia evidentemente al mistero dell’incarnazione, rappresenta richiamo forte e persuasivo ad una profonda passione per le sorti dell’uomo nella completezza e nell’integrità della sua dimensione, mondana, terrestre e spirituale insieme.
Per Mazzolari riferimento particolare soprattutto nel periodo del fascismo, sono, dunque, i padri Filippini che fanno dell’oratorio della Pace un luogo di resistenza morale e un baluardo di verità. Essi, come noto, hanno dato voce a un cattolicesimo moderno, culturalmente adulto, connotato da un’attenzione partecipe ed insistente alle problematiche sociali ed alla vita pubblica. Nel novembre 1926 proprio l’oratorio della Pace di Brescia è stato preso di mira dalle camicie nere, che vi irrompono e tentano di aggredire padre Giulio Bevilacqua: un “covo di resistenza e propaganda contro la guerra: la Pace esercita una deleteria influenza tra i giovani e li conduce, attraverso una sottile e abile propaganda, a pensare e a ragionare contro le organizzazioni e le direttive del regime “. Così nella raffigurazione degli esponenti locali del partito fascista.
Ne parla in una lettera a don Mazzolari un caro amico, padre Giuseppe Acchiappati:
“Qualche cosa ti sarà arrivato della nostra settimana di passione. Non entro nei particolari. Ringrazio il Signore di avermi concessa la luce che da tempo aspettavo. Il fatto di Brescia è il fatto di troppe città d’Italia per non doverci essere una revisione nei nostri giudizi. L’ho fatto e mi sento capace di ogni sacrificio per non venir meno al dovere luminoso di tracciare alle anime, che chiedono, vie diritte senza esitazioni né prudenziali riserve.
Da rammentare, fra l’altro, come il ventennio fascista abbia prodotto nel pensiero di Mazzolari una straordinaria maturazione, con la sua graduale ascesa a ruolo di protagonista, pur sempre periferico, ma non marginale, della storia della Chiesa italiana del Novecento. Maturazione che si può cogliere seguendo diversi percorsi, sintetizzabili nella persistente fiducia nella democrazia e nell’abbozzo di un mutamento di prospettiva in materia di pace e di guerra, con conseguenti atteggiamenti che più volte lo portano allo scontro con i gerarchi del regime.
Possiamo dire che proprio grazie anche a Brescia e alle propensioni, agli umori che attraversano il cattolicesimo bresciano, don Primo vive il passaggio del superamento del nazionalismo e dell’interventismo democratico sino all’aperto, concreto e sofferto sostegno alla resistenza al nazi-fascismo. Il rapporto con padre Bevilacqua non sempre è stato facile. Nel dopoguerra il padre filippino è tra i principali promotori e collaboratore della rivista “Humanitas”, edita ininterrottamente dal 1946. La pubblicazione segue in quegli anni un percorso parallelo rispetto a quello di “Adesso” – tra l’altro padre Bevilacqua scrive sul periodico del 15 aprile 1956 un breve articolo – e sviluppa gli stessi principi assiologici del radicalismo cristiano che Mazzolari applica alla politica.
Nonostante Bevilacqua sia vicino al prete di Bozzolo per sensibilità, ne disapprova l’irruenza militante e la mancanza di prudenza, pur riconoscendo la causa di tale attitudine nel modo totalizzante di vivere la fede. Proprio nel periodo di “Adesso” nell’ambiente dei filippini inizia ad insinuarsi una certa estraneità al modo di procedere di don Mazzolari. La portata di questo distacco – una volontà di distinzione – è espressa nel necrologio scritto in “Humanitas” da padre Bevilacqua che, in tono sofferto e partecipe, traccia un ritratto efficace del parroco di Bozzolo senza nascondere diversità che non compromettono tuttavia la profondità del legame affettivo.
Mazzolari è pienamente consapevole della portata del magistero bonomelliano, vista la filiale devozione con cui vi si rapporta, definendo il presule, in uno dei molteplici scritti che gli dedica, membro della “breve famiglia dei vescovi veramente ecumenici”.
A sua volta mons. Giacinto Gaggia, originario di Verolanuova, è uomo contraddistinto da un attivismo versatile, “un libro senza prefazione né indice”, secondo la definizione dello stesso Mazzolari. Con lui il giovane seminarista divide lunghe giornate estive fra conversazioni e passeggiate nella campagna cui entrambi sono legati. Lo stesso prelato officia l’ordinazione sacerdotale di don Primo, che in lui cercherà conforto e appoggio dopo il Plebiscito del 1929 quando si astiene dal voto in occasione delle elezioni politiche pesantemente condizionate dal regime. Questo atteggiamento lo porta allo scontro frontale con i fascisti, ma soprattutto gli costa l’isolamento fra i sacerdoti. Angustiato, si rivolge al vescovo mons. Gaggia che, con la solita bonarietà, gli comunica di aver assunto la stessa posizione di distanziamento critico dalla dittatura totalitaria.
Più complessa ed articolata l’esperienza con il vescovo mons. Giacinto Tredici, che in occasione dell’intervento del Sant’Uffizio nei confronti di La più bella avventura , difende don Mazzolari, mettendo in risalto i grandi meriti ottenuti a Brescia e provincia con le predicazioni e la partecipazione a molteplici iniziative. Successivamente, mons. Tredici, al pari dell’Episcopato lombardo, prende le distanze dal parroco di Bozzolo, sottolineando la non opportunità di certi suoi interventi pubblici o delle sue prese di posizione in articoli giornalistici relativi alla necessità di un rinnovamento della Chiesa, al dialogo con i “lontani”, all’urgenza di un più coraggioso impegno sui temi della pace, alla sollecitazione per un laicato più maturo, autonomo e responsabile. Così in una lettera al vescovo di Cremona, datata 5 febbraio 1937, mons. Tredici critica apertamente gli interventi di don Mazzolari, sul quotidiano “L’Italia” inerenti il rapporto fra la Chiesa e i poveri. Alcuni anni dopo, segnalando al presule della città lombarda che il Santo Padre non ha gradito l’opuscolo di don Mazzolari Anch’io voglio bene al Papa, mons. Tredici suggerisce al confratello di obbligare il parroco cremonese a “sottoporgli prima i suoi libri, anche se li stampa altrove”.
I rapporti tra Mazzolari e Montini risultano tutt’ora di difficile, complessa decifrazione. Don Primo è di casa presso la famiglia di Paolo VI, avendo stretto con il fratello del futuro pontefice, Lodovico, una viva amicizia ed essendo considerato addirittura da sua moglie Giuseppina il proprio direttore spirituale. Malgrado ciò, monsignor Montini nel 1942 non esita ad esprimere il proprio disappunto per il volume Anch’io voglio bene al papa, che trova inopportuno, e sembra dissentire da don Primo per il suo essere comprensivo con i “lontani” ed ipercritico con i “fedeli”.
Questi motivi rappresentano le obiezioni costanti che egli gli muove e che ricorrono in diversi documenti. Montini ribadisce ancora il proprio pensiero quando, unitamente alla Conferenza episcopale lombarda, ammonisce i redattori di “Adesso” di essere “interpreti rigoristi della morale del Vangelo”. La critica riguarda la radicalità che porta i redattori e lo stesso don Primo
“a sistematica severità e facilità di giudizio e penetrante critica dei difetti della vita cattolica; trovare imperfetti e riprovevoli quelli che professano la vita cattolica, comprensibili e compatibili e forse migliori quelli che non la professano; tendenze verso sinistra, quasi qui fossero i poveri, i perseguitati, i chiamati al regno di Dio; sussiego e critica verso le forme organizzative della vita cattolica e verso l’aspetto giuridico e temporale della Chiesa; nessuna cooperazione che si conosca alle opere nostre; inquietudine, intransigenza, freddezza, senza dimostrazione d’amore per le forme consuete dell’apostolato cattolico; simpatia invece per le espressioni critiche e riformistiche, non che per correnti di dubbia consistenza nello spiritualismo moderno”.
Si ha notizia anche di un’udienza ottenuta dal prete di Bozzolo a seguito della Lettera ai vescovi della Valpadana che Montini considera come contraddittoria e irriverente nei confronti dell’episcopato. In più di un’occasione, il cardinale di Milano si mostra però un paziente mediatore teso a correggere l’atteggiamento di quel prete ribelle.
Solo al termine della propria esistenza terrena (anche se alcuni suoi scritti continuano ad essere censurati pure dopo la morte) don Mazzolari trova gesti di fraterna distensione: come l’invito nel novembre 1957 da parte dell’arcivescovo Giovanni Battista Montini a predicare durante la Missione in corso di svolgimento nella diocesi di Milano, benché un provvedimento del 1954 gli impedisca di prendere la parola fuori Bozzolo.
L’apertura del pontefice bresciano è tuttavia determinante per la definitiva accettazione e valorizzazione dell’opera di don Mazzolari. In un memorabile intervento del 1° maggio 1970, nell’occasione di un incontro con i parrocchiani di Bozzolo, Cicognara e Roncadello, riferendosi a don Primo, Papa Paolo VI avverte l’esigenza di rendere in qualche modo giustizia al parroco di Bozzolo. “C’è chi va dicendo – si trova ad affermare fra l’altro – che io non ho voluto bene a don Primo. Non è vero: io gli ho voluto bene. Certo … non era sempre possibile condividere le sue posizioni: camminava avanti con un passo troppo lungo e spesso non gli si poteva tener dietro. E così ha sofferto lui e abbiamo sofferto anche noi. È il destino dei profeti”.
Per concludere: una chiesa bresciana che avverte, sostiene e talora persino sollecita la visione anticipatrice di don Mazzolari circa i futuri approdi del Concilio Vaticano II. Condivide con lui la visione evangelica della vita fondata su di un umanesimo integrale ed una proposizione articolata sia del progresso sia della liberazione dell’uomo. Una riflessione ed una pratica di fede che riconducono direttamente all’originalità della vicenda della Chiesa bresciana del Novecento, nella consonanza con gli approdi della stessa Chiesa universale circa il primato dell’uomo sull’organizzazione economica e sociale, l’etica del lavoro, la pratica della non violenza, alla luce di una disposizione profetica che sarà propria del magistero di papa Paolo VI.
Una Chiesa ed un laicato cattolico bresciano che si dimostrano particolarmente attenti alle pieghe di una dinamica in progress, di una successione evolutiva di idee, posizioni, scelte che hanno caratterizzato l’itinerario mazzolariano. Questo percorso è contraddistinto anche a Brescia da una profonda, autentica dimensione pastorale, dalla pienezza di un ministero sacerdotale esercitato con straordinaria dignità e missionarietà, in nome, oggi potremmo sostenere, della “differenza cristiana”, di una Chiesa, per dirla con padre Enzo Bianchi, “presidio di autentico umanesimo e spazio di dialogo”, della pratica del valore della prossimità che riconosce volto e nome di ogni uomo.
Una testimonianza, quella del parroco di Bozzolo, che a Brescia viene condivisa e vissuta come non suscettibile di deformazioni o, peggio ancora, falsificazioni, né di strumentali appropriazioni o di affiliazioni politiche, poiché innervata da un’indefettibile fedeltà alle convinzioni religiose, alle pratiche della fede, nonché alla cultura del cattolicesimo democratico più aperto e sensibile alle istanze di rinnovamento civile e sociale.
Ancora: una testimonianza fedele a quella comunità ecclesiale – così ha scritto Nazareno Fabbretti – “la cui forza è anche in questa pazienza, in questo vivere della sofferenza e della speranza dei suoi figli più coraggiosi”.
Per don Mazzolari, dunque, una presenza a Brescia non certamente occasionale, bensì eloquente ed espressiva, tesa a coniugare – secondo lo spirito dei tempi – esperienza spirituale, vita ecclesiale, attività di formazione ed educazione, proposta culturale, esempio civile, attitudine comunitaria, una presenza rischiarata da una fede limpida, cristallina, coerente al punto da assurgere ad esempio, ad occasione di memoria consolidata, sempre da rinvigorire e perennemente alimentare.
NOTA: testo provvisorio, senza apparato critico, distribuito dall’Autore in occasione della relazione tenutasi
all’interno del convegno “Primo Mazzolari profeta e testimone” in data 13.3.2010.