Manifesto della vita interiore, capolavoro di autobiografia intellettuale, le “Confessioni” sono altresì uno dei più alti documenti di pedagogia in azione ed una fonte di straordinaria ricchezza per chi vuol cogliere l’uomo nella concretezza esistenziale del suo divenire e nelle profondità del suo spirito
L’apporto di Agostino alla riflessione pedagogica e all’approfondimento teoretico, psicologico e spirituale del problema educativo è di una straordinaria vastità e abbraccia di diritto tanta parte dell’opera di quel grande; sarebbe quindi vana presunzione tentare di costringere il suo pensiero e le immense potenzialità formative del suo messaggio nello spazio di un articolo. Preferisco, pertanto, proporre ai lettori un approccio più diretto ai testi di Agostino, puntando solo su due scritti molto significativi: “L’ordine”, composto all’indomani della conversione, nel ritiro di Cassaciàco, quando l’ex-retore si preparava al battesimo (lo riceverà il 19 aprile dell’anno seguente), e le “Confessioni”, dettate dodici anni dopo l’evento che aveva cambiato la sua esistenza. “L’ordine” ha la freschezza dello stile dialogico, perché Agostino associava alla sua ricerca giovani amici e discepoli. È l’opera prima di un intellettuale laico – e che tale progettava di rimanere – deciso a vivere sul serio il Vangelo. Le “Confessioni” sono scritte, invece, in Africa, a Ippona, quando il laico cristiano si è dovuto piegare da anni ormai alla volontà del popolo di Dio che lo ha gridato sacerdote e lo ha voluto suo vescovo.
“L’ordine” è la prima prova del genio di Agostino, le “Confessioni” ne sono l’espressione più alta. La prima opera nasce dalla discussione e dalla responsabilità educativa di Agostino, nel fecondo ritiro dalla campagna lombarda; la seconda è un lungo, appassionato dialogo con Dio e, nella sua luce, con i compagni di viaggio che sono tutti gli uomini suoi fratelli.
1. La fresca genialità dell’opera prima: «L’ordine»
Per Agostino la prima e la più radicale forma di alienazione è quella dell’uomo nei confronti di se stesso, perdendo la sua dimensione interiore. La causa più grande di smarrimento sta nel fatto che l’uomo non si conosce: erroris maxima causa est quod homo sibi ipse est incognitus (“De ord.” I, 1, 3). Non può, infatti, vivere una sua vita autonoma e personale chi innanzi tutto non lavora a mettersi in chiaro con se stesso e non si impegna a individuare e a cauterizzare «le piaghe dei pregiudizi correnti prodotti dalla banalità quotidiana». Lo spirito, divenuto estraneo a se stesso, si degrada allora a una reale mendicità perché la sua natura lo stimola a cercare l’unità e la dispersione nel molteplice glielo impedisce. È sapiente invece chi si rapporta a Dio ed è con Dio poiché ha coscienza della propria interiorità (sapiens prorsus cum Deo est, nam et seipsum intellegit, II, 2 5). Il procedimento dialogico-maieutico ha una particolare efficacia nel mettere in moto gli spiriti; quando ci si sente «legati dalle catene del dialogo», tra persone che cercano il vero, anche quelli che sono digiuni di studi possono imparare ed insegnare qualche cosa agli altri. Occorre, però, nota con molta sagacia Agostino, non fermarsi al dialogo, facendo seguire ad esso opportune letture di approfondimento e – cosa di non minor rilievo – momenti di riflessione personale, perché «lo spirito deve imparare a riflettere e prender l’abitudine di abitare in se stesso» (I, 3, 6). Se non c’è silenzio interiore, l’oblio inghiotte inesorabilmente anche quello che di bello e di vero abbiamo intravisto e compreso.
Il complesso rapporto, che è alla base del processo educativo, tra autorità e ragione è già delineato con chiarezza. «All’apprendimento – osserva Agostino – siamo condotti necessariamente da un duplice principio: l’autorità e la ragione. In ordine di tempo viene prima l’autorità, secondo la realtà ha una sua priorità di valore la ragione (tempore auctoritas, re autem ratio prior est); l’autorità di chi sa è, infatti, il necessario punto di partenza per coloro che ancora devono istruirsi, mentre la ragione è il criterio più conveniente per chi è divenuto colto. Ma una persona colta non è stata sempre tale, né sapeva qual fosse la via migliore per diventarlo. È chiaro, quindi, che soltanto l’autorità può aprire la porta a tutti coloro che aspirano ad apprendere. Colui che è entrato attraverso quella porta e segue con rettitudine le regole della ricerca razionale, tende a sua volta ad apprendere per proprio conto e a valutare quanto fossero fondate le nozioni apprese prima della sua verifica razionale» (II, 9, 26).
Ai giovani bisogna comunicare la gioia della libertà interiore e della generosità, perché solo allora essi comprendono le ragioni di una vita più alta. Si deve essere padroni di sé soprattutto per meglio donarsi agli altri. Sono d’ostacolo al recupero e all’attuazione di se stessi nell’amore totale per Dio e il prossimo la sfrenatezza, il torpore nell’accidia e soprattutto l’avidità. «Si convincano i giovani che l’amore al denaro è il più sicuro veleno di ogni loro nobile aspirazione» (amorem pecuniae totius suae spei certissimum venenum esse credant, II, 8, 25).
Gli educatori sono esortati a non porre sulle spalle degli altri pesi che essi stessi non vorrebbero portare. Agostino ammonisce: «Si guardino nell’usare le sanzioni da ogni eccesso e, nel perdonare, da ogni difetto. Non puniscano se non giova a migliorare i giovani; non siano indulgenti se può volgere al peggio; considerino sempre come familiari coloro che sono affidati alla loro responsabilità e al loro amore».
Il convertito non rifiuta la cultura letteraria ed estetica fino ad allora professata, ma la umanizza e la eleva a una più alta dignità. «Io, se posso dare un consiglio ai miei, secondo il mio pensiero e il mio sentimento, ritengo che essi devono essere formati alla pienezza del sapere, se vogliono avere intelligenza dei problemi» (II, 5, 15). Ma anche un programma d’istruzione modesto e rudimentale, per nutrire interiormente la persona di chi apprende, ha bisogno d’inquadrarsi in una limpida visione dei fini a cui è orientato il processo educativo. Visione della vita e delle finalità educative che può essere lapidariamente espressa in una frase: non il dominio dell’uomo sull’uomo, ma il mondo per l’uomo e l’uomo per Dio, causa creatrice dell’universo, luce che illumina le nostre anime, fonte a cui si beve la felicità. La legge di progressione del valore comanda la scelta dei contenuti e l’armonizzazione dei fini dell’educazione. Di quella legge ci rende consapevoli la filosofia, intesa da Agostino come un esercizio liberante della ragione che si apre alla fede e che si nutre della fede, nella convinzione, suffragata dal suo stesso itinerario spirituale, che «la legge razionale è valore che, attuato, ci conduce a Dio» (I, 9, 27) e che le verità rivelate le quali integrano e oltrepassano le conquiste della sola ragione, liberandoci dall’incertezza e dall’errore, «non si confondono con le verità razionali, come alcuni dicono, ma non entrano neppure in dissidio con esse, come altri vorrebbero» (nec confuse, ut quidam, nec contumeliose, ut multi praedicant, II, 5, 16). Contro questa seconda tesi Agostino è assai esplicito: «Le divine Scritture non insegnano ad evitare e a schernire gli amatori della saggezza in senso assoluto, ma gli amatori della saggezza di questo mondo. Chiunque pretende che la filosofia si deve evitare in senso assoluto, pretende semplicemente che noi non amiamo la saggezza» (I, 11, 32).
2. Il capolavoro: le «Confessioni»
A quarantatré anni, Agostino scrisse le “Confessioni” «per aprirsi al genere umano, al cospetto di Dio». Intorno ai settantaquattro anni, quando si volgerà a giudicare le sue opere, dirà delle Confessioni: «esse mi commuovono ancora quando le leggo, così come mi commuovevano quando le scrivevo» (Retract. II, 32).
Le “Confessioni” sono come il “De civitate Dei” e il “De Trinitate” l’opera sua più celebre e di più larga risonanza. Esse costituiscono un’opera unica, di così intensa originalità che invano si tenterebbe di incasellare in un genere letterario. Manifesto della vita interiore, capolavoro di autobiografia intellettuale, le “Confessioni” sono altresì uno dei più alti documenti di pedagogia in azione ed una fonte di straordinaria ricchezza per chi vuol cogliere l’uomo nella concretezza esistenziale del suo divenire e nelle profondità del suo spirito. Qui, come mai prima nella storia del pensiero, l’uomo è divenuto per se stesso motivo di sorpresa e di stupore, a cominciare dal mistero della nascita, dell’infanzia, della puerizia, della preadolescenza. Con animo trepido Agostino indaga i doni che una nuova esistenza reca con sé ed insieme le prime manifestazioni difettose («ho visto e considerato a lungo un piccino in preda alla gelosia: non parlava ancora e già guardava pallido il fratello di latte», I, 7, 11), che bisogna tollerare con indulgenza, non perché siano inconsistenti, ma perché destinate a sparire col crescere degli anni.
L’apprendimento del linguaggio avviene in maniera «naturale», mentre le vie dell’apprendimento a scuola sono «penose», moltiplicando inutilmente la fatica e la sofferenza dei figli degli uomini, senza che neppure i genitori se ne rendano conto. Agostino denuncia le barbare usanze disciplinari che imperversavano nelle scuole (I, 9) e altrove precisa che «lo stesso imparare, a cui i fanciulli sono costretti con castighi, è castigo così grave che talvolta essi preferiscono sopportare il castigo stesso, anziché imparare» (“De civ. Dei” XXI, 14). Arriva persino a scrivere: «Se uno dovesse scegliere tra la morte e il ripercorrere l’infanzia, chi non preferirebbe morire?» (ibid.). Nell’ampia e articolata analisi alla quale Agostino sottopone la scuola non sono solo condannati i castighi corporali, ma anche i metodi didattici costrittivi, per cui egli pone in contrasto con tanta parte della forma mentis e della prassi scolastica dell’antichità greco-romana.
Nella contestazione alla scuola del suo tempo, Agostino avverte – ed è fatto singolare – la privazione del gioco come il misconoscimento di un diritto del bambino. L’esigenza di una riforma dell’insegnamento è chiaramente invocata con limpidi principi tratti dalle osservazioni di fatti evidenti. «Nessuno fa bene ciò che fa malvolentieri» (I, 12, 19), osserva Agostino, e «per imparare vale più la libera curiosità che la pedante costrizione» (I, 14, 23). Un insegnamento formativo fa leva non sulla paura, ma sull’interesse effettivo di colui che apprende, sulla sua libera curiositas.
L’amore per il gioco e per le vittorie esaltanti nelle gare, il gusto delle favole e delle narrazioni poetiche («piangevo la morte di Didone che avveniva per amore di Enea», I, 13, 21), una vivissima curiosità, le disobbedienze quasi esclusivamente per amore del gioco: sono tratti di una fanciullezza che non è solo quella di Agostino. Nel preadolescente la passione per gli spettacoli, la smania di imitare gli attori, il desiderio di riuscire a primeggiare nella recitazione come nello sport si accompagnano ad una più acuta sensibilità per l’uso della parola («le parole, questi vasi eletti e preziosi», I, 16, 26). È l’età degli studi medi, della grammatica e della letteratura, nella vicina Madaura, a trenta chilometri da Tagaste. Indifferenti ai problemi umani dei testi presi in esame, estranei alle attese dei ragazzi, quegli insegnanti, che Agostino ricorda come lui «avvolti in mantelli» (I, 16, 25), secondo la foggia locale, gli resero ostico il greco (I, 14, 23) e già nella scuola elementare un insegnamento nozionistico e meccanico gli aveva fatto aborrire persino la verità bellissima dei rapporti tra i numeri.
Occorre, invece, far leva il più possibile sul naturale aprirsi della mente del discente, senza per questo elevare i suoi impulsi e interessi a criterio esclusivo del lavoro formativo. L’educazione infatti è sintesi feconda di spontaneità e obbligo, di libera curiosità e sana disciplina (I, 14, 23), di immediatezza e integrazione equilibratrice. Pensando al perché da fanciullo amasse il latino, Agostino ne indica il motivo nel fatto di averlo imparato naturalmente, attraverso il quotidiano commercio con le altre persone, «con un poco di attenzione, senza bisogno di intimidazioni e torture, anzi fra carezze di nutrici, festevolezze di sorrisi e allegria di giochi, perché il mio cuore stesso mi sollecitava a dare alla luce i suoi pensieri» (cum me urgeret cor meum ad parienda concepta sua, I, 14, 23).
La crisi della pubertà, tardiva e violenta, scoppia nel sedicesimo anno e si trasforma in vera e propria crisi morale, favorita anche dall’ozio forzato cui Agostino è costretto dalla povertà di mezzi in attesa di proseguire gli studi a Cartagine. Nell’adolescenza il bisogno di amare si manifesta in modo intenso ed insieme vago, incerto. «Che altro mi dilettava allora se non amare ed essere amato?» (II, 2, 2).
È un sentimento diffuso e senza oggetto: «Non amavo ancora, e amavo già di amare. Amando di amare, cercavo qualcosa da amare» (III, 1, 1) Rousseau gli farà eco nell’Emilio (1. IV): «Una lunga inquietudine precede i primi desideri, si desidera senza saper che cosa».
La sensualità disordinata rende la sua esistenza dispersa. È il momento del superbo rifiuto (superba deiectio) di ogni legge morale, a cui nell’intimo si accompagna un’inquieta stanchezza (inquieta lassitudo). Contrassegno costante dello smarrimento morale è l’incapacità di distinguere l’azzurro dell’affetto dalla foschia della libidine (serenitas dilectionis a caligine libidinis, II, 2, 2). È questa l’età in cui la società dei coetanei è un reale bisogno, che però può essere parassitato e deviato dalla suggestione del gruppo. Si ride al pensiero di ingannare quanti non sospettano da noi un certo comportamento e si gode a non agire da soli «forse perché non è facile ridere da soli» (II, 9, 17). «Vi è dunque un’amicizia inimicissima, una seduzione inesplicabile dello spirito, un’avidità di nuocere nata dai giochi e dallo scherzo. Uno dice: Andiamo, facciamo – e si ha pudore a non essere spudorati» (sed cum dicitur: ‘Eamus, faciamus’ et pudet se non esse impudentem, II, 9, 17).
Agostino ha celebrato in maniera altissima proprio nelle “Confessioni” l’immanente eticità della cultura, la sua straordinaria capacità catartica quando racconta che cosa significò per lui, giovane studente a Cartagine, lontano dalle malefatte dei «demolitori» (eversores), seriamente impegnato nello studio e, nello stesso tempo, avido di ricchezza, onori, piaceri, la lettura dell’“Hortensius” di Cicerone. «Quel libro mutò il mio modo di sentire (ille liber mutavit affectum meum), suscitò in me nuove aspirazioni e nuovi desideri» (III, 4, 7). «Più delle parole m’interessava – dice Agostino – quello che esse esprimevano» (ibid.).
Quel libro rivelò Agostino a se stesso, operò la sua prima conversione alla interiorità della coscienza morale, suscitò in lui quell’ardente passione della verità che costituisce il primo tratto di ogni personalità autentica. Divenuto, ancor giovanissimo, insegnante di retorica, Agostino non si limitava affatto a «vendere chiacchiere atte a vincere cause»: egli insegnava tanto ad acuere linguam quanto la ricerca della vera sapientia. Agostino avvertì sempre il valore positivo del suo far scuola poiché portava nell’insegnamento la sua «buona fede» (IV, 2, 2); non era tutto fumo, c’era pure qualche sprazzo di luce nel suo lavoro di professore (ibid.).
Tra i molteplici motivi di grande rilevanza pedagogica che le “Confessioni” offrono occorre ricordare come Agostino imposta il rapporto tra scienza e fede e quello tra retorica e filosofia. In polemica con i manichei – la cui gnosi presumeva di spiegare con assoluta razionalità le realtà divine e i fenomeni fisici – Agostino denuncia «l’audacia sfrontatissima» (V, 5, 8) di chi incorpora al dato rivelato una teoria o un’ipotesi scientifica, piegando la Scrittura ad un compito che le è del tutto estraneo. Nuoce e molto ai cristiani confondere la scienza, vera o presunta che sia, con l’insegnamento religioso e affermare con sfacciata ostinazione quanto si ignora. Non esiste una rivelazione religiosa dei fenomeni naturali e pertanto è assurdo attribuire alla Scrittura una rivelazione cosmologica invece che morale e religiosa. Agostino ribadisce questa stupenda intuizione in altre opere. Che dire?
Se i giudici di Galilei avessero avuto il senso agostiniano della specificità della rivelazione non si sarebbero certo arrogati un’autorità in un campo in cui erano incompetenti a giudicare. Non meno importante è la questione del rapporto tra retorica e filosofia.
Nell’antichità la cultura oratoria e letteraria non era in contrasto, come oggi, con quella scientifica, ma con la filosofia, che poneva al di sopra della eloquenza la serietà e l’impegno del pensiero. Agostino, ex-professore di retorica e vescovo cattolico, vive più intensamente la tensione drammatica e la convergenza di retorica e filosofia. Malgrado il ricorso ad espressioni drastiche, sempre originate dalla vibrata protesta per la vacuità morale che si accompagna all’estetismo e a quella specie di ignoranza fastosa che è l’erudizione fine a se stessa, Agostino era troppo colto e di animo elevato per ignorare il valore delle lettere, i diritti della poesia, la funzione umanizzante della cultura e confessava: «dai versi, dalla poesia posso anche trarre un reale alimento» (versus et carmen etiam ad vera pulmenta transfero, III, 6, 11).
In realtà la soluzione che Agostino dà del problema rifugge costantemente sia dal sincretismo compromissorio, sia dagli esclusivismi settari: occorre invece riscoprire e far proprio l’universalmente umano che brillò anche in epoche pagane, abbandonare al passato il male e valorizzare sempre tutto ciò che è buono. «Un argomento esposto non deve sembrar vera perché esposto eloquentemente, né falso perché risuonano confusamente le parole della bocca: ma neppure vero perché espresso rozzamente, né falso perché forbito il discorso. La sapienza e la stoltezza sono come dei cibi utili e nocivi: possono essere somministrati con parole ornate o disadorne, così come su piatti signorili o rustici» (V, 6, 10).
Considerazioni vere oggi come lo erano quando furono scritte.
Scuola Italiana Moderna, 15 aprile 1987.