Per tutto il periodo del campionato mondiale di calcio, con un po’ di fortuna, sono riuscito a regolare ogni impegno in modo tale da essere libero durante la trasmissione delle partite di calcio. E non me ne vergogno affatto!
L’attacco demolitore al campionato mondiale è stato condotto da taluno con una mentalità che francamente non può essere condivisa. Forse che le porcherie di non pochi politici debbono allontanarci dal compiere i nostri doveri di cittadini che intendono contribuire, per quel che possono, al bene comune? Certamente no. E allora perchè i fenomeni di fanatismo stupido, e talora criminale, o la giostra dei miliardi per l’acquisto dell’uno o dell’altro calciatore, o le provocatorie insulsaggini del calcio parlato, dovrebbero gettare sul fuoco del calcio in quanto tale un implacabile anatema e conferire la patente di imbecilli a quanti – e sono molte decine di milioni anche in Italia – godono di quello sport e giungono persino a giudicarlo «il gioco più bello del mondo?».
Le recriminazioni sollevate contro i mondiali nascono o da un moralismo troppo facile (e troppo facilmente confutabile), o, peggio, dalla pretesa superiorità morale e intellettuale di chi dice di essere immune dalla malattia del calcio e se ne vanta. Io francamente non riesco a vedere che cosa abbiano a che fare quelle recriminazioni interminabili con il calcio vero, quello giocato ad armi pari, undici contro undici, in cui ognuno può dare il massimo di se stesso, e può accadere che giocando «con coraggio, altruismo e fantasia» (come dice De Gregori in una bella canzone) si vinca contro chi è più titolato e pagato. Non riesco a capire perché dovrebbe appartenere ad una sottospecie umana chi si è goduto in pace il gioco corale del Belgio, le sorprese del Camerun, gli assalti della Germania, l’impeto generoso dell’Irlanda, la testardaggine dell’Inghilterra. Non capisco perché non sia lecito e bello trepidare ed esultare insieme, per il gioco e le fortune degli azzurri.
Dal calcio potremmo anche imparare qualcosa. Per esempio, a non dire più, al termine di ogni competizione elettorale, che «abbiamo vinto tutti». Nel calcio, infatti, chi vince vince e chi perde perde e non c’è spazio per l’indeterminatezza. Di più: chi perde, giocando bene, può ben uscire di scena a testa alta, tra gli applausi.
Chiudo facendo mia un’osservazione di Vittorio Sammarco (Segnosette del 26 giugno ’90). «No, il calcio non è la nuova droga collettiva. Non si preoccupino i benpensanti. A Napoli nessuno, sottolineo nessuno, si illude che il secondo scudetto porti benefici alla città, e dopo il vittorioso mondiale dell’82 niente cambiò nella coscienza collettiva degli italiani». E se si vince, perché non si dovrebbe far festa anche con cortei di auto che strombazzano? Il giorno dopo si torna a lavorare o a cercar lavoro. Una parentesi di misteriosa, ma reale amicizia collettiva, di sintonia nello sperare uno stesso risultato non è poi cosa da disprezzare.
Giornale di Brescia, 7 luglio 1990.