Nel 1933 la Chiesa cattolica, su iniziativa di papa Pio XI, celebrò il «giubileo della redenzione» per festeggiare il diciannovesimo centenario della redenzione del mondo e di «tutti quei meravigliosi benefici che hanno dato inizio alla vera rinascita del mondo, questa vita e questa civiltà cristiana di cui noi gustiamo i frutti maturi».
Ma quella stessa data sarà ricordata per sempre nella storia dell’umanità per un’altra ragione, quella incisa a lettere di bronzo nella sala della Shoah, cioè dell’Olocausto, al Museo della Diaspora a Tel-Aviv: «L’anno millenovecentotrentatré dell’era cristiana, Adolf Hitler salì al potere in Germania. Nella sua epoca, i tedeschi e i loro complici sterminarono sei milioni di ebrei, tra i quali un milione e mezzo di bambini ebrei; chiuse nei ghetti, le vittime lottarono disperatamente per la loro vita, mentre il mondo rimaneva in silenzio».
La Shoah è un elemento rivelatore. Con essa sono messe in luce realtà dinanzi alle quali non è permesso chiudere gli occhi, sì che ogni silenzio sulla Shoah è sempre un cattivo silenzio. È dunque di lì che bisogna partire per cogliere l’importanza decisiva di Israele nel dialogo ecumenico, ma anche nell’autocomprensione dell’identità cristiana delle Chiese. Da questo punto di vista, quali che fossero gli errori contenuti nei suoi scritti sulla situazione nel 1864 degli ebrei in Polonia e in Russia, resta pienamente valida l’intuizione centrale di Solov’ev: «La questione ebraica è anzitutto una questione cristiana».
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Questa verità non fu compresa affatto per molti secoli. Come ha ben detto Michel Remaud nel suo libro Cristiani di fronte a Israele, tradotto in italiano dalla Morcelliana, «il Cristianesimo non è una religione autoctona». Non è, infatti, pensabile il Nuovo Testamento senza l’Antico, o un Sant’Agostino che si rivolga a Dio senza la poesia orante dei Salmi. Il Cristianesimo implica un doppio riferimento da cui non può liberarsi senza snaturarsi: alla Scrittura, alla quale il Nuovo Testamento rimanda di continuo, e al popolo di Israele, con cui il cristiano proveniente dal paganesimo si trova messo in comunione dalla fede in Cristo.
Questa meditazione si compie in Gesù, ma Gesù nella sua persona e nella sua missione non è dissociabile dal suo popolo. E l’esperienza mostra che, pur senza aderire alla fede in Cristo, Israele rimane per noi in larga misura l’interprete della Parola. Gesù non può essere degiudaizzato per essere tirato dalla parte di un Cristianesimo che pretenda di bastare a se stesso, rifiutando l’Antico Testamento.
Rifiutando l’Antico Testamento, si mutila infatti il Vangelo. E disinteressandosi di Israele, ci si stacca dalle proprie radici perché la comunione con Israele è inscritta nell’identità cristiana stessa.
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Il Concilio Vaticano II approvò la dichiarazione conciliare Nostra aetate sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane il 28 ottobre 1965. In quella dichiarazione la cosa veramente memorabile era ed è il paragrafo 4 dedicato a Israele.
Quel celebre paragrafo, approvato vent’anni dopo Auschwitz, segnava le svolta cattolica sulla questione ebraica: una svolta che si compiva nella seconda metà del Ventesimo secolo. Ma la nuova impostazione dei rapporti con la religione ebraica obbligava la Chiesa cattolica a iniziare un nuovo modo di rapportarsi a se stessa, cioè alla sua radice, alla sua storia, alla sua missione.
«Scrutando il mistero della Chiesa – così comincia il paragrafo 4 della Nostra aetate – il sacro concilio ricorda il vincolo con cui il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo. La Chiesa di Cristo infatti riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, Mosè e i profeti. Essa afferma che tutti i fedeli di Cristo, figli di Abramo secondo la fede, sono inclusi nella vocazione di questo patriarca e che la salvezza della chiesa è misteriosamente prefigurata nell’esodo del popolo eletto dalla terra di schiavitù.
Per questo la Chiesa non può dimenticare che ha ricevuto la rivelazione dell’Antico Testamento per mezzo di quel popolo con cui Dio, nella sua ineffabile misericordia, si è degnato di stringere l’antica alleanza, e che si nutre dalla radice dell’ulivo buono su cui sono stati innestati i rami dell’ulivo selvaggio che sono i gentili. La Chiesa crede, infatti, che Cristo, la nostra pace, ha riconciliato gli ebrei e i gentili per mezzo della sua croce e dei due ha fatto una sola cosa in se stesso.
Inoltre la Chiesa ha sempre davanti agli occhi le parole dell’apostolo Paolo riguardo agli uomini della sua stirpe «dei quali è l’adozione a figliuoli e la gloria e i patti di alleanza e la legge e il culto e le promesse, ai quali appartengono i padri e dai quali è Cristo secondo la carne» (Rm 9, 4 – 5). Essa ricorda anche che dal popolo ebraico sono nati gli apostoli, fondamenta e colonne della Chiesa, e così quei moltissimo primi discepoli che hanno annunciato al mondo il vangelo di Cristo».
Da queste premesse si intendono trarre le conseguenze sul piano operativo: «Essendo perciò tanto grande il patrimonio spirituale comune a cristiani e ad ebrei, questo sacro concilio vuole promuovere e raccomandare tra loro la mutua conoscenza e stima, che si ottengono soprattutto dagli studi biblici e teologici e da un fraterno dialogo. E se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli ebrei allora viventi, né agli ebrei del nostro tempo».
La conclusione della Nostra aetate è la ferma condanna dell’antisemitismo: «La Chiesa, che esecra tutte le persecuzioni contro qualsiasi uomo, memore del patrimonio che essa ha in comune con gli ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli ebrei in ogni tempo e da chiunque».
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La rivelazione perderebbe una buona parte del suo significato se si purgasse la Bibbia di tutti i passaggi che non sono, nel senso comune del termine, «edificanti». Allo stesso modo, sarebbe un errore voler strappare dalla storia della Chiesa cristiana le pagine che testimoniano la presenza tenace, nelle coscienze dei credenti, della tentazione antisemita.
Il Vaticano II non ha voluto fare appello alla traduzione nel suo documento sull’ebraismo e ha fatto bene, perché era indubbiamente necessario che la Chiesa in primo luogo manifestasse la volontà di non sentirsi legata ad un passato che bisogna oggi saper sconfessare senza reticenza e falsi pudori.
Gli atti di eroismo dei cristiani in difesa degli ebrei sono stati senza numero anche nella Germania nazista e in Italia e vanno ricordati agl’immemori. Fra i tanti penso con profonda riconoscenza al nostro don Paolo Liggeri, vero angelo del soccorso ebraico, ed in particolare a due tedeschi martiri a causa del loro amore per i fratelli ebrei: Bernhard Lichtenberg, il prevosto del duomo S. Edvige di Berlino, e il padre gesuita Friedrich Muckermann, che dell’instancabile lotta contro il neopaganesimo razzista ci ha lasciato una illuminante, nobilissima memoria nel suo scritto La via tedesca, di recente ristampato a Brescia.
Tuttavia i cristiani, mentre sono chiamati a una nuova comprensione della loro identità e del mistero d’Israele, devono continuare a interrogarsi onestamente sulla loro non-innocenza, sui modi in cui anch’essi hanno alimentato l’antisemitismo, insomma sulla parte diretta e indiretta avuta nel destino di sofferenza degli ebrei.
L’incontro fraterno nasce da un atto di generosità liberatrice, ma di esso è parte essenziale anche l’assunzione delle proprie colpe e dei propri errori.
Articolo scritto sul Giornale di Brescia il 14 gennaio 1993 in occasione dell’incontro promosso dalla CCDC alla Pace con il teologo Martin Cunz.