Sul quotidiano israeliano Jerusalem Post il 14 gennaio 1988 fu pubblicata una lettera aperta di Dalia Landau, un’ebrea israeliana, a Bashir Khayri, avvocato di professione e palestinese. E’ una lettera che racconta quarant’anni di storia, quarant’anni di tragedia che deve, per l’onore stesso dell’umanità, trovare un epilogo ragionevole, coerente ai grandi principi morali a cui pure le parti in conflitto affermano di far riferimento. Uno stesso destino unisce Dalia e Bashir: hanno una casa in comune, quella in cui Bashir è nato prima che sorgesse lo Stato d’Israele e in cui Dalia è cresciuta dopo il suo arrivo in Israele nel ‘48. “Dopo la guerra dei Sei Giorni sei venuto qui a Ramle insieme a due altre persone a vedere la casa in cui sei nato. Dopo quella tua visita, ho accettato il tuo invito a venire a Ramallah. Abbiamo parlato per ore e stabilito un caldo rapporto umano. Tuttavia, fu chiaro che le nostre posizioni politiche erano molto diverse. Ognuno di noi guardava attraverso le lenti della sofferenza del proprio popolo. La mia prospettiva, però, cominciò a cambiare. Da allora anche i muri di casa evocano memorie e lacrime di altra gente. L’amore per il mio Paese ha perduto la sua innocenza e si è caricato di una nuova dimensione”. A quale nuovo modo di sentire i rapporti tra ebrei e palestinesi porta questa nuova dimensione in cui si pone anche l’amore per il proprio Paese? Stralcio da quel mirabile documento di storia e di umanità alcuni passi. “Forse un giorno, se tutti e due saremo disposti a fare dei sacrifici, arriveremo a una sorta di perdono reciproco… Ognuna delle due parti, la mia e la tua, ricorre a una dose di ingenuità per giustificare le proprie posizioni: fino a quando terremo in vita questo circolo vizioso? Ci insegnano che l’essenza della nostra tradizione ebraica si può racchiudere in queste parole: Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te. Fin quando sia israeliani che palestinesi non faranno proprio questo principio fondamentale, non costruiremo mai una solida base per la coesistenza”.
Certamente il punto d’incontro preliminare è l’accettazione reciproca del principio dell’autodeterminazione. Dalia Landau su questo punto è estremamente chiara. Finché vi sarà da parte palestinese il rifiuto di riconoscere ad Israele il diritto all’autodeterminazione, sarà difficile – anche se rimane assolutamente necessario – per gli israeliani che appoggiano la lotta palestinese per l’autodeterminazione trascinare i loro connazionali sulle loro posizioni. Quando una guerra non finisce mai, il cuore diventa colmo di rancore e la durezza, l’eliminazione dell’altro appaiono agli occhi dei più giovani come un imperativo. “Quest’eredità di dolore – prosegue Dalia Landau – si accrescerà e si indurirà nell’amarezza nel passare da una generazione all’altra”. Di qui il grido che prorompe dal cuore di questa donna coraggiosa, l’impegno e non farsi incastrare da ciò che è alle nostre spalle. “Io mi appello – scrive nobilmente Dalia Landau – sia ai palestinesi che agli israeliani perché comprendano che l’uso della forza non risolverà alle radici questo conflitto. È una guerra che nessuno riuscirà a vincere. O i nostri due popoli otterranno ambedue la liberazione, o non l’avrà nessuno”. È a questa consapevolezza lucida, estremamente realistica che bisogna tornare di continuo per trovare il coraggio di costruire ogni giorno la pace, se si vuol risparmiare alle generazioni che salgono, ai figli degli ebrei e dei palestinesi, un destino di atroce, reciproco imbarbarimento. “Le nostre memorie d’infanzia, le mie e le tue, sono intrecciate nella tragedia. Se non riusciamo a trovare un modo per trasformare quella tragedia in una comune benedizione, rimanere aggrappati al passato distruggerà il nostro futuro. Deprederemo così dell’infanzia serena e lieta a cui ha diritto un’altra generazione ancora e ne faremo martiri per una causa che non ha nulla di santo. Prego affinché con la tua collaborazione (nel far adottare metodi di lotta non violenti) e con l’aiuto di Dio, i nostri figli possano gioire davvero della bellezza e dell’abbondanza di questa terra santa”.
Penso che poche altre pagine abbiano la forza e la determinazione di non arrendersi agli ostacoli, rendendo operativo il comando di Qoelet: “Contro il male il bene, contro la morte la vita.” Il documento, che mi sono permesso di citare con ampiezza, pone al centro dell’attenzione una realtà assai poco conosciuta: fra tanti luoghi di conflitto, in Israele operano e si diffondono vere e proprie “Nevè Shalom”, oasi di pace, in cui si fanno cadere barriere di odio e di paura e gettano ponti per accrescere tra ebrei e palestinesi il rispetto, la conoscenza reciproca, l’amicizia. A coloro che anticipano un futuro di fraternità tra uomini appartenenti a comunità ancora in conflitto, va tutta la nostra commossa gratitudine. Non è quindi senza significato se ad uno di essi, al professor Edy Kaufman, leader del “Movimento per i diritti dell’uomo e per la pace in Israele”, il “V Colloquio Internazionale per la pace, i diritti dell’uomo, lo sviluppo dei popoli” ha rivolto l’invito a illustrarci la storia e il senso della loro difficile, eroica, affascinante esperienza. Convinti come siamo che la via della pace è una sola, cioè la salvaguardia di un nido ebraico come di un nido palestinese, e che essa passa attraverso la sconfitta degli estremismi, noi ci auguriamo che l’incontro con un tenace e illuminato tessitore di pace come Edy Kaufman obblighi ognuno di noi a uno sforzo: a integrare le nostre pur motivate scelte con il giusto apprezzamento delle ragioni degli altri. Perché questa è la difficoltà vera della questione: occorre conciliare contendenti ognuno dei quali ha un suo diritto da far valere.
Giornale di Brescia, 7.10.1988. Articolo scritto in occasione dell’incontro promosso dalla Ccdc con Edy Kaufman.