«Tra quelli che erano saliti per il culto durante la festa, c’erano anche alcuni greci. Questi si avvicinarono a Filippo, che era di Betsaida di Galilea e gli chiesero: Signore, vogliamo vedere Gesù» (Giov. 12, 20-36).
Simpatici questi greci che con tanta discrezione e per interposta persona si fanno avanti per poter vedere Gesù e commovente questo loro desiderio, che inconsciamente esprime il bisogno del paganesimo di incontrare la risposta cristiana!
Una curiosità e , in fondo, un’invocazione religiosa, ben diversa da quell’indifferenza diffusa che rende il nostro tempo quasi impenetrabile dall’annuncio evangelico… Questi pagani, pur in modo ancora incerto ed ambiguo, avvertono il fascino del Cristo. Sono dunque figure emblematiche, alla cui richiesta il Cristo giovanneo oppone un discorso complessa e dal tono evasivo, fondato soprattutto sulla metafora del seme che se non muore rimane solo e infecondo e se invece muore da molto frutto.
C’era infatti un grosso equivoco da dissipare. Questi greci avevano certamente sentito tanto parlare di Gesù, dei suoi miracoli, dei suoi discorsi, del numero grande dei suoi discepoli, del suo messaggio provocatorio e rivoluzionario, delle speranze che andava suscitando nel popolo e tra la sua gente. Era evidentemente l’uomo del momento, che risvegliava larghe e urgenti emozioni, chiaramente destinato al successo, a un’imminente grandiosa affermazione del movimento da lui suscitato. L’avvenire era nelle sue mani e il potere, religioso e politico, stava per arridergli…
Questi pensieri nascevano, nella mente dei greci, da una loro precisa intuizione del mondo e della vita e da un quadro di valori, al vertice dei quali stavano la forza, il potere, la gloria. Quanto erano dunque lontani dal pensiero di Cristo e di Dio!
È l’equivoco che accompagna tutto il percorso del Vangelo, della vicenda di Gesù: egli non è venuto per essere servito ma per servire e dare la sua vita agli altri.
Diventa chiara l’articolazione del discorso che Giovanni mette sulla bocca del Signore: «Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me!» (Giov. 12, 3). Quando sarò elevato da terra. Non prima, non diversamente, non per altri motivi. Chi cerca il vero Cristo al di fuori di questa sua elevazione lo cerca male, non fa che cadere nell’equivoco, trovare giustificazioni per la propria sete di dominio. Ma per Giovanni (e per Gesù) questo concetto di elevazione da terra ha un correlato. Vi si fondono infatti sia la elevazione dolorosa della Croce, sia quella gloriosa della risurrezione e della risurrezione e della ascensione alla destra del Padre. Il Cristo elevato da terra è insieme il Cristo crocifisso e il Signore della gloria. Questi due momenti si susseguono saldamente, anzi confluiscono nella realtà dell’unico eterno mistero: quello del Crocifisso risorto, dell’agnello immolato che supplica per noi alla destra del Padre suo.
Il Cristo è il seme disfatto che diventa spiga, colui la cui morte viene assorbita nella vittoria. È colui la cui glorificazione nasce perennemente dalla vergogna della croce: glorificato sulla Croce, la sua vittoria si nutre della sconfitta, il suo regno sta sulla diaconia, nel servizio, la sua forza appare dalla debolezza.
I greci cercano dunque male la gloria del Cristo. La cercano al di fuori di questa di questa sintesi vivente, di questo paradosso, scandalo e follia, che è la croce-risurrezione. Il vero Gesù è quello crocifisso: scomunicato, percosso, annientato e perciò elevato da terra.
Ciò che spiega tutto questo è l’amore con cui il Cristo consuma il proprio sacrificio. «È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo!». L’ora di Cristo è quella degli uomini che lo crocifiggono e del Padre che lo libera dai lacci della morte e lo costituisce Signore.
“Elevato da terra” è dunque un concetto contraddittorio secondo una certa logica puramente formale, ma vitalissimo in sé, una sintesi esistenziale che sta alla base della decisione cristiana.
«Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per riempire tutte le cose» (Ef. 4, 10).
Davanti alla croce non c’è più posto per l’uomo che insegue il successo, l’affermazione forsennata di sé, la propria divinizzazione. Quest’uomo è in realtà destinato allo scacco, al fallimento definitivo. La Croce invita l’uomo a perdere se stesso, secondo le prospettive della prudenza umana, per ritrovarsi veramente in una prospettiva di risurrezione. «Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mando, la conserverà per la vita eterna» (Giov. 12, 25). La vita eterna, per Giovanni, è la verità eterna della nostra vita, di quella che già viviamo nel tempo. Gesù crocifisso annuncia la regalità del dono, del servizio, dell’amore per gli amici fino al sacrifico della vita e domanda questo a coloro che credono in lui.
Elevato da terra, Morcelliana, Brescia 1987, pp.12-14.