Quello di Emiliano Rinaldini è un nome ricorrente a Brescia e nel bresciano, ma non solo: nel tempo gli sono state intitolate vie pubbliche, scuole, aule scolastiche, aule e residenze universitarie, istituzioni di vario tipo, sentieri.
Nato il 19 gennaio 1922, Rinaldini si è interamente formato nel sistema educativo fascista, all’interno del quale – tuttavia – incontra maestri ed educatori che fanno maturare in lui una radicata coscienza antitotalitaria, fondata in primo luogo sul principio evangelico dell’amore verso il prossimo.
Frequenta l’asilo dalle Dorotee in via Marsala, le elementari in via Grazie. Considera suoi veri maestri soprattutto gli insegnanti delle elementari, mentre meno apprezzati sono i docenti che incontra all’Istituto Veronica Gambara, dove prende la maturità magistrale nel 1940. Si iscrive poi alla facoltà di Magistero presso la Cattolica di Milano (che per la guerra non potrà mai frequentare), e si considera a tutti gli effetti uno studente universitario.
Un grande influsso positivo gli viene dalla famiglia, soprattutto dalla madre Linda, che in una pagina di diario (che quasi quotidianamente annotava, pubblicato dopo la morte in più edizioni, prima nei «Quaderni della Fionda» e poi presso La Scuola editrice) viene descritta come ‘pedagogista innata’ e inconsapevole, che educa i quattro figli all’amore reciproco.
C’è poi l’ambiente dell’Oratorio filippino della Pace, dove lo conduce la madre e dove incontrerà figure di grande statura intellettuale e spirituale, che diverranno il suo punto di riferimento: in una pagina di diarioli definirà «i miei carissimi Padri della Pace (Padre Manziana, Padre Pifferetti»), ai quali dobbiamo aggiungere anche padre Olcese. Lì maturano anche solidissime amicizie, come quella con Lino Monchieri, che ha scritto:
Alla Pace […] trovammo il nostro ambiente naturale di crescita e di maturazione. Trovammo anche lo stesso direttore spirituale: Padre Manziana. Trovammo la conferenza di San Vincenzo: Padre Manziana ci aveva eletto coppia fissa per la visita, con offerte di buoni/cibo, alle famiglie bisognose del quartiere più povero della città.
È ancora Monchieri che riferisce dell’incontro con l’altro ambiente che, con la Pace, risulta fondamentale per la formazione di Rinaldini, cioè quello dell’editrice La Scuola. Siamo nel 1940 (hanno 18 anni)
in seguito ad una visita guidata presso la redazione di “Scuola Italiana Moderna” e alle officine grafiche della Editrice “La Scuola”, determinante fu l’incontro con il prof. Vittorino Chizzolini e con don Peppino Tedeschi. I due personaggi ci presero a voler bene, in special modo il primo. Da subito, il prof. Chizzolini ci reclutò nell’Ufficio Diocesano Aspiranti e ci introdusse nelle attività a favore della fiorente Azione Cattolica […]. ci instillò un amore durevole per l’educazione e per i problemi della Scuola. ci volle accanto a sé nelle attività che promuoveva e seguiva: la Messa del Povero, presso la chiesa di San Giuseppe e l’assistenza ai randagi, presso il dormitorio di San Giacinto, in Castello.
Rinaldini diviene così l’allievo prediletto di Chizzolini che, nel gennaio 1943, lo nomina suo successore nel ruolo di Delegato Diocesano Aspiranti di Azione cattolica. Di grande importanza fu dunque l’ingresso all’editrice La Scuola, dove – come hanno ben messo in luce gli studi del prof. Luciano Pazzaglia – convivevano (come del resto nel “mondo cattolico” più in generale) almeno tre anime: una rappresentata da chi era da tempo allineato con le scelte politiche del regime (come per esempio Marco Agosti), l’altra da chi più o meno tacitamente(e non senza ripercussioni) portava avanti la sua tenace opposizione al fascismo (come don Peppino Tedeschi), infine quella di chi (come Chizzolini) si collocava in «una autonoma posizione di mediazione tra le due linee».
Partecipa così a incontri formativi– come quelli promossi dal Paedagogium o dalla Gioventù cattolica – nei quali ha occasione di ascoltarefigure eminenti del cattolicesimo democratico italiano come Gesualdo Nosengo, Giorgio La Pira, Giuseppe Lazzati. Nelle loro parole trova conferma di quello chesi sta ormai delineando come un programma di vita: l’autoformazione, l’educazione del carattere, l’ascesi personale, il costante impegno di perfezionamento interiore.
Un altro capitolo fondamentale della vita di Rinaldini è quello, ancorché limitato a nemmeno due anni scolastici, dell’esperienza di insegnante elementare, iniziata nel 1942 e conclusasi anzitempo il5 febbraio 1943 con un trasferimento improvviso e inaspettato a Salò che rifiuta per la distanza. Saluta alunni e genitori, lascia per sempre (con rammarico) le aule scolastiche ed entra a tempo pieno nella redazione di«Scuola italiana moderna».
Nonostante la breve esperienza, sente la professione come sua e la interpreta come ‘impegno totale’ che prosegue oltre le aule scolastiche (incontrando e conversando con gli alunni per strada, alla Pace, a casa sua) e oltre le discipline scolastiche (al centro della sua azione educativa c’è – potremmo dire – la formazione integrale della persona, a cominciare dalla sua crescita spirituale e morale). Coltiva – intuendone la fruttuosità per l’azione educativa – il rapporto con i genitori, improntandolo alla collaborazione reciproca. (un approccio alla scuola e all’insegnamento del tutto originale e per nulla scontato nel periodo). Così scriveva Rinaldini nell’ottobre 1942:
Quanto mi piace fare il maestro a questo modo. Non fermarmi sulla cattedra, ma uscire, andare per le case dei miei ragazzi, passeggiare con loro, discorrere. Come vale collaborare a questo modo con i genitori; ci si sente sostenuti, si vede che hanno stima e fiducia in noi e questo è sprone ad un lavoro più intenso.
Alla prova scritta per il concorso magistrale osserva i colleghi e riflette sul grande tema della preparazione professionale degli insegnanti:
Molte maestre, parecchi maestri erano presenti. Sproporzione esagerata di fronte ai posti disponibili; gente che non ha mai visto la scuola, gente a cui ripugna vivere nella scuola era presente. Davanti a me c’era una maestra giovanissima […] che diceva sinceramente di essere venuta ai concorsi impreparata, con la speranza che i documenti non fossero regolari.
Tanta gente, troppa gente, pochi maestri veramente tali anche nel profondo del cuore.
Quella che sente ben presto come una missione non è solo l’essere maestro o educatore ma qualcosa di più: una sorta di ‘apostolato educativo’, che si declina nelle aule e in tutti gli ambienti e con tutte le persone che incontra: dalla mensa del povero alla redazione di SIM per arrivare fino alla caserma e infine – come vedremo – tra i partigiani. Proprio per questo Chizzolini non mancherà di presentarlo ai giovani come realizzazione dell’ideale del maestro cristiano.
Nella primavera del 1943 gli eventi bellici e politici cominciano a precipitare, ma Rinaldini nel suo diario non si sofferma tanto sulla critica agli ormai evidenti fallimenti della politica fascista, ma insistepiuttosto sul tema – tanto caro al cattolicesimo democratico – della ricostruzione sociale. I fondamenti sono:
1. Intensità di vita spirituale (essere cristiani veri)
2. Preparazione sociale (conoscenza dei problemi che agitano le masse)
3. Preparazione professionale («Alla base di ogni problema è un fatto di educazione»).
Mentre matura – attraverso esperienze di carità ‘vissuta’, conferenze, letture – una profonda sensibilità sociale, Rinaldini comincia a maturare una altrettanto viva sensibilità politica frequentando il Gruppo di Azione Sociale (GAS), una sorta di ‘laboratorio’ di riflessione socio-politica in vista dei cambiamenti in atto. Il gruppo nasce e si ritrova nei locali de La Scuola editrice – scrive Lino Monchieri – «col beneplacito di don Peppino e con l’assistenza sollecita di Chizzolini». Nel Diario di Monchieri troviamo il resoconto delle prime riunioni, nelle quali si discutono libri e documenti, come Gli ultimi quattro radiomessaggi natalizi di Pio XII; Le encicliche sul comunismo ateo e sul nazifascismo; Germanesimo e Terzo Reich; il Mein Kampf; La dottrina del fascismo; Razzismo e mito del sangue. Scriveva ancora Monchieri della seconda riunione del GAS:
Peppino […] ha fatto notare che il regime attuale (fascista) […] è un regime ladro, corrotto, menzognero, che dà il cattivo esempio ai cittadini. Si tratta quindi di prepararci (per sostituirlo) […]. Abbiamo bisogno di uno stato che sia d’esempio ai cittadini, che formi, con coscienza e con onestà, dirigenti e funzionari fedeli e onesti, competenti e probi.
Con il precipitare degli eventi politici e con la caduta del fascismo, comincia a delinearsi la maturazione della scelta. All’euforia post-25 luglio («Oggi finalmente ci sentiamo liberi; oggi è tolto il giogo che vilmente e inconsciamente ci asserviva al dispotismo di un uomo»), segue ben presto l’amara impressione che «qualche cosa di grave abbia ad avvenire». Dopo l’8 settembre scrive:
Impegniamoci con tutte le nostre forze a divenire migliori moralmente, con una sensibilità spirituale più alta. Lottiamo pure contro i tedeschi per liberare questa Italia, ma impegnandoci fin d’oggi a liberare noi stessi.
Sempre più evidente è ora la consapevolezza politica di Rinaldini (14 settembre 1943):
Questi giorni sono di spasimo grande. La patria è in brandelli. I figli di una stessa terra stanno preparandosi per combattere l’uno contro l’altro (il ritorno di Mussolini provocherà questa dolorosa tragedia: fratelli contro fratelli!).
Così come lucido e per nulla scontato il giudizio su Mussolini e sul fascismo:
Non imputiamo ad un capo la colpa di tutto il male che ci sovrasta. Noi tutti siamo responsabili con lui.
Alla fine di settembre matura ormai in lui la decisione (27 settembre 1943):
È uscito oggi l’ordine per tutti i militari fuggiaschi di presentarsi. Tutti ci siamo chiesti: che cosa faremo? «Ribelli?», noi, se verremo inclusi nel bando di chiamata? Prender la via dei monti per andare a vivere l’avventura di gente considerata ribelle? Rimanere a casa per non far subir conseguenze alla famiglia? Darsi ai tedeschi? Non ho ancora parlato ai miei genitori, ma già chiara è davanti a me la risoluzione: se mi danno il loro consenso, io fuggirò subito; altrimenti, […] rimarrò, pronto a farmi deportare, a ricevere una palla nel petto, sempre disposto a non cedere di fronte ai tedeschi e ai fascisti.
All’inizio di ottobre 1943 aderisce con entusiasmo alla milizia civica che Lunardi sta organizzando in città, ma vorrebbe fare di più, percepisce quasi di essere lasciato in disparte. Allora si confida con un sacerdote (don Bondioli):
Lui mi ha ascoltato pazientemente, poi mi ha detto che avevano pensato di tenere fuori da qualsiasi attività tanto me che P., vice presidente diocesano. Questo per la ragione di aver qualcuno da poter usare, libero da qualsiasi impegno.
A mente serena, questa sera, ripensandoci, non posso altro che ripetere a me stesso: Il passo è fatto, non si ritorna indietro. Tutti devono amare la Patria e che ostacolo può esserci per servirla? Forse la costituzione non completamente robusta?
[…] Io non mi sento assolutamente di starmene raccolto, chiuso in casa, isolato in campagna. Voglio fare. […]. La guerra non la fa solo chi è temerario. Riesce meglio chi unisce a un saldo principio della vita una sicura base spirituale. Non è da eroe gettarsi in mezzo alla mischia. Eroe è chi calcola tutto, chi si prepara e serenamente va all’azione. La forza vera, quella che ha sostenuto i martiri, veniva dallo spirito non dalla carne. Farà bene, in un’azione, il tipo ardito, ma non inferiore sarà chi ha accumulato forze spirituali e ad queste attinge. Quel che vale su tutto e su tutti è lo spirito.
Il 12 ottobre 1943 scrive poi una pagina che suona come il preludio di un addio:
Per misura di prudenza, nascondo questa sera tutti i miei diari, le mie lettere, i giornali […] Se il Signore avrà destinato ch’io debba morire in questi tempi, sia pure, io l’accetto di buon grado.
Alla fine del 43 per evitarela chiamataalle armi della Repubblica di Salò si rifugia con alcuni amici in una baita sui monti di Collio. Sa che Lino Monchieri («l’amico più caro») è prigioniero e che anche padre Manziana è stato arrestato. Sono di questo periodo alcune riflessioni sulla misericordia che – come vedremo – guideranno la sua azionenella guerra partigiana:
Ho capito, questa sera, che il nemico non va odiato, che il brigante politico, sia fascista o nazista, anche se verrà giudicato secondo giustizia, avrà pur diritto da parte dei cristiani alla sua parte di misericordia. […] Sì, giustizia sarà fatta anche dagli uomini, ma sopra questa dovrà trionfare la misericordia, altrimenti se ci lasceremo corrodere dall’odio e dalla vendetta, la catena non si spezzerà più.
Nel febbraio 1944, la fucilazione di Lunardi e Margheriti gli dà occasione per una profonda meditazione sulla giustizia:
La sete e la fame di giustizia non è mai stata più grande di oggi. Un’arsura che non può essere ammorzata, un desiderio insaziabile ci tormenta. Troppi mali, efferatezze d’ogni genere si sono venuti compiendo in questi ultimi anni e l’animo nostro è pieno. Il vaso trabocca e il liquido che esce fuori non è più sete né fame di giustizia, è odio e brama di vendetta. […] Io ho un terrore che mi attanaglia: finita la canea fascista e nazista che strage avverrà? Si preannuncia di una grandezza terribile, con un odio sadico, una sete di sangue che scorra dalle camicie nere giù a rivoli per le strade. Siamo su falsa strada. […] Ritorniamo a Cristo anche per la giustizia. […] Se prenderemo a modello la giustizia di Dio, la nostra giustizia terrena non errerà e i vantaggi saranno nostri. […] Sento il bisogno, vorrei dire fisico, di una giustizia anche terrena, ma fin d’ora ho l’animo scevro da desiderio d’odio e di vendetta contro qualsiasi. Anche per Lunardi e Margheriti verrà fatta giustizia. Sì, lo desidero anch’io ma nello stesso tempo, proprio per essere fedele anche a loro, sento il dovere di pregare per chi li ha uccisi. Mi nasce in cuore una compassione che non ammorza la giustizia ma la rende più chiara.
Rimane sui monti per circa tre mesi ma poi alla fine di febbraio ‘44, di fronte a un nuovo decreto per i renitenti, con pena di ripercussione verso le famiglie, decide di presentarsi in caserma a Brescia, dove segue la messa pasquale officiata dal vescovo mons. Tredici: «Che riflessioni mi ispira la Pasqua, quest’anno? La Croce è più sanguinante, il Cristo più vicino ancora, ma noi siamo lontani e il Golgota non ci ha attirati a sé».
Il 20 aprile 1944 si consuma per Rinaldinila scelta definitiva di abbracciare la resistenza: dopo aver saputo che il loro reparto stava per essere trasferito in Germania, Emi e l’amico Aldo Lucchese abbandonano la caserma e prendono la strada dei monti: prima a Bovegno e poi in Valsabbia, in una casina sotto la Corna Blacca. Con gli altri partigiani delle Fiamme Verdi, Rinaldini partecipa attivamente a molte azioni. Di alcune è addirittura attento organizzatore, come il rischioso assalto alla caserma della GNR di Vestone, il 19 luglio 1944, che si conclude senza perdite e con un soddisfacente bottino di armi.Alla fine di luglio si costituisce, all’interno delle Fiamme Verdi, la brigata “Perlasca”, guidata da Ennio Doregatti (Toni) e prendono forma i vari gruppi: Rinaldini è vice-comandante del Gruppo «S4» (una ventina di persone), comandato da Paolo Pagliano.
Tra agosto e settembre – come Rinaldini temeva – la sua famiglia subisce pesanti ripercussioni: i genitori arrestati, il fratello Federico e la sorella Giacomina deportati nei lager nazisti. Federico morì nel lager di Mauthausen nel marzo 1945.
Ai primi di ottobre del ‘44 si trasferisce in Valsabbia da Verona il 40° battaglione mobile della GNR e si ferma a Idro, aggregandosi all’unità delle SS. Le cinque compagnie che vengono allestite in valle agiscono da quel momento con precisi compiti di rastrellamento, repressione e azione poliziesca che affiancano e sostituiscono i tedeschi.
Il 13 novembre 1944 – com’è noto – la radio trasmette il “Proclama Alexander”: il comandante delle forze alleate in Italia annuncia la sospensione delle operazioni sulla Gotica, invitando i “patrioti italiani” a cessare la loro attività e a sbandarsi per fronteggiare l’inverno. Il gruppetto S4 decide di fermarsi comunque tra Livemmo e Odeno, ospiti degli abitanti del luogo, tra i quali il parroco di Odeno, don Lorenzo Salice,la cui canonica diventa un importante luogo d’incontro per i partigiani della zona.
Al contempo il comandante del 40° battaglione mobile della GNR, Ciro Di Carlo, ordina di intensificare rastrellamenti e perlustrazioni «con pattuglie anche piccole, ma agili, decise, spregiudicate».
È in questo contesto che si colloca il rastrellamento del 7 febbraio 1945 a Odeno, durante il quale viene catturato Emiliano Rinaldini. Assieme ad Emi viene arrestato anche don Lorenzo: al mattino vengono incolonnati verso il fondo valle, diretti al carcere di Idro.
Don Salice racconta che a Casto c’è un primo interrogatorio davanti al tenente Bianchi: «Un giovane sottotenente dice di conoscere Emiliano Rinaldini. È un suo compagno di scuola e sa che è studente all’Università Cattolica». Don Primo Leali, parroco di Nozza, ha aggiunto: «Era un suo compagno di scuola a Brescia ed assieme avevano anche frequentato l’oratorio dei PP. Filippini della Pace e sarà questi che dirà a Emi a San Bernardo: Fuggi! E poi invece gli sparerà la sventagliata di mitra».
A Idro i prigionieri vengono divisi: Emi viene portato via da solo, interrogato a lungo e torturato, poi riportato a Odeno perché sveli dove sono armi e compagni. Ha raccontato Carla Leali, protagonista e testimone di quegli eventi:
non una sola parola uscì dalle sue labbra e chiunque l’ha visto attesta che ha sempre avuto un sorprendente aspetto di fierezza. In questi due giorni subì un vero martirio […]. E la notte […] precedente la sua morte, mentre sdraiato sul pavimento tentava con le mani incatenate di prendere la corona del rosario che aveva nella tasca, per il rumore che la catena faceva e che disturbava i fascisti, ricevette pugni e calci. Ciò nonostante fece tanto che poté prendere la corona e allora soltanto si acquietò.
Anche una donna di Odeno ricordava «di averlo visto legato a Odeno, aveva in mano la corona del Rosario. Emi fu torturato crudelmente: [gli] avevano messo in testa anche una specie di corona di ferro tanto che dopo morto aveva dei segni di sangue come fosse stata una corona di spine».
Sulla mulattiera che da Belprato conduce a Nozza, poco oltre la chiesetta di San Bernardo, il 10 febbraio Emi subisce un’esecuzione senza processo e senza condanna: gli viene ordinato di togliersi le scarpe e di scappare. Aal contrario il suo corpo viene fermato per sempre nella gelida neve di febbraio, colpito da una raffica di mitra alle spalle: ha da poco compiuto 23 anni. Così lo trovano, riverso nel suo sangue, alcuni abitanti di Belprato che lo conducono al paese dove il corpo viene lavato e ricomposto: la piccola comunità è in lutto, le donne portano bucaneve; nonostante il rischio di ripercussioni si officiano solenni funerali. Nella memoria collettiva la figura di Emi resterà sempre viva: sul cippo che lo ricorda non mancheranno mai i fiori.
A tutt’oggi – come ha sottolineato Rolando Anni nel suo importante volume sulla Brigata Perlasca, che resta di fatto l’unica ricostruzione storica della resistenza in Vallesabbia – poco si sa del ruolo di Emi nel gruppo S4 e nella brigata. Nelle testimonianze dei compagni possiamo però trovare più volte riscontro di quella personalità mite ma decisa che emerge dalle pagine del suo diario.
Particolarmente interessante la testimonianza (inedita, raccolta da padre Luigi Rinaldini nel 1989) di un compagno di brigata, Paolo Benetelli (Bobi) (1989), proprio perché descrive la realizzazione di quei propositi di misericordia e carità che si leggono nel diario:
ho vissuto con Emi Rinaldini dal giugno al novembre 1944 […].
Posso dire di non aver più conosciuto un uomo così; eravamo tutti uguali di fronte a lui: partigiani, tedeschi e fascisti.
Voleva per tutti un regolare processo […]. Mi ricordo ancora del suo sorriso, che non lo abbandonava, nemmeno nei momenti in cui era preoccupato.
Aveva aiutato tutti i suoi uomini a trovare conforto nella fede e più nessuno nella squadra bestemmiava o imprecava.
Il cibo scarseggiava, egli attendeva sempre, che tutti avessero mangiato prima di sedersi al tavolo, così facendo a volte rimaneva poco o nulla, allora, essendocene accorti, ognuno lasciava in tavola quel tanto, che abbisognava per la sua parte, affinché non notasse, che lo facevamo di proposito.
Aveva trasformato la squadra in un modello di vita e comportamento militare e civile.
I pochi prigionieri fatti nel periodo, che ho vissuto con lui, non hanno mai subito maltrattamenti o morte, perché li considerava uomini di pari dignità di fronte alla vita e non voleva nemmeno sentire pensieri né vedere azioni violente nei loro confronti.
Illuminante è anche la testimonianza Giuseppe Perucchetti, che faceva parte del S4:
era sorprendente la sua visione precisa e sintetica delle cose che il futuro ci avrebbe richiesto di fare. Non mancava mai la preghiera e la lettura di un brano della Imitazione di Cristo.
La quotidiana meditazione di quel piccolo manuale di formazione cristiana (un testo che guidò le ultime ore anche di Teresio Olivelli e Andrea Trebeschi) lo accompagnò fino alla fine: com’è noto, una copia dell’Imitazione gli venne trovata addosso, intrisa del suo sangue.
Come abbiamo cercato di accennare, la resistenza di Rinaldini fu morale, prima ancora che politica, frutto di una intensa preparazione spirituale e culturale. Analogamente a quanto avvenne per Bettinzoli e Perlasca, la scelta di combattere, cioè di prendere le armi, fu dolorosa e sofferta, ma vissuta come risposta a un imperativo morale: per la libertà dall’occupante tedesco e dal suo collaborazionista fascista e per la democrazia, nella speranza di una società più giusta e più umana. Dai suoi scritti non traspare avventatezza bensì consapevolezza (dei tempi chi si trovava a vivere, della necessità di compiere una scelta di parte, come cristiano e come italiano) e abnegazione (sa di rischiare la vita ma sceglie di farlo pensando al dopo, all’Italia che vorrebbe lasciare alla famiglia). Troviamo mitezza (spesso confusa con la debolezza) e grande determinazione.
Rinaldini – voglio rammentarlo mentre ci avviamo alle conclusioni – si colloca all’interno di un non sparuto gruppo di donne e uomini di scuola, che operarono attivamente nella resistenza bresciana, facendo traballare lo stereotipo di una scuola che oscillava tra la quieta indifferenza e il pieno consenso al regime. Ricordiamo tra gli altri Enzo Petrini e Pietro Chiodi, Laura Bianchini e la moglie del comandante della Brigata Perlasca, la maestra Santina Dusi Doregatti (che ci ha lasciati pochi giorni fa) e che come Rinaldini passò, senza nulla rivelare, attraverso le inumane torture inflitte nel carcere nazifascista allestito nell’Hotel Milano di Idro.
Se si rileggono le biografie commemorative di Rinaldini raffrontandole con quelle di altri partigiani, non si può non cogliere la corrispondenza con un «modello di morte stoica e mite», nel quale appaiono evidenti tanto la somiglianza con la passione di Cristo da una parte quanto la vicinanza con l’esperienza del martirio cristiano dall’altra. Come i primi martiri si erano opposti alla cultura pagana, così non pochi partigiani cattolici vivono la loro scelta come opposizione al neo-paganesimo nazi-fascista.
Quel suo morire scalzo nella neve, mitragliato vilmente alle spalle, non può che fargli assumere l’aspetto della vittima innocente, dell’agnello sacrificale, compimento di quanto aveva scritto nel diario nel novembre del 1942:
Ho bisogno però di entrare di più in questo mare di sangue, in questa vastità di dolore, sentire il pianto di chi soffre senza difesa, di chi muore senza mamma. Devo entrare in questo gioco di forze, sentirlo dentro di me, vivere questa vita.
Allora la guerra rovinatrice, per me, non sarà passata invano; avrò imparato qualche cosa di grande, vivendo vicino all’umanità crocifissa.
Tuttavia se vogliamo andare alla radice della sua scelta, non possiamo che identificarla in quel suo firmarsi (parafrasando l’ultimo verso della Preghiera del Ribelle) “Ribelle per amore”: amore per la Patria, amore per la Libertà, amore per l’umanità sofferente, amore per il Cristo.
Come per molti altri combattenti della Libertà, vittime della crudele violenza nazifascista, anche la morte di Emi si colloca – simbolicamente – tra la tragedia dell’eroe e il sacrificio del martire: entrambi la affrontano consapevoli dell’epilogo al quale li avrebbe condotti la loro scelta.
NOTA: Testo, della conferenza trascritta, rivisto dall’Autrice, tenutasi a Brescia su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.