Time alwais trieth out the truth
«Il tempo prova sempre la verità»
Thomas More
All’inizio dell’estate 1499 un giovane inglese, che aveva studiato con profitto a Parigi, rientra in patria, portando con sé, come proprio ospite, il migliore dei suoi maestri e il più dotto. Quel giovane “di così squisita gentilezza” (Ep. 118) era William Blount, barone di Mountjoy, e il suo maestro-amico, Erasmo da Rotterdam. Fu lui, il Mountjoy, a fare da tramite tra Erasmo e More, che erano informati dei rispettivi interessi e dei loro primi tentativi letterari, ma non si erano mai visti, né si erano scritti. Secondo un’antica tradizione, i due s’incontrarono per la prima volta ad un pranzo del Lord Maior di Londra. Non erano stati presentati, ma nel corso della conversazione, che allora si svolgeva in latino, ciascuno rimase tanto colpito dall’intelligenza, dalla signorilità e dallo humour dell’altro che, ad un tratto, come per un’improvvisa illuminazione, esclamarono vicendevolmente: “O tu sei More, o nessun altro”, “Se non sei il diavolo, tu sei Erasmo”.
Erasmo aveva nove o dieci anni più di Thomas, che era venuto al mondo nel 1478. Erasmo e Thomas perdettero entrambi la madre quando erano ancora ragazzi; Thomas, però, ebbe nel padre una guida nello stesso tempo energica e affettuosa, mentre Erasmo fu molto presto orfano anche del padre. Egli inoltre soffrì tutta la vita per la sua condizione di “bastardo”, il cosiddetto defectum natalium, e non ebbe mai intorno a sé il calore di una famiglia. L’inglese nasce in un ambiente della media borghesia, che gli permette di conciliare la passione per la cultura e un’ottima preparazione professionale; l’olandese, che è nato per gli studi, riesce nel suo intento anche perché viene abbandonato dal suo tutore in un convento agostiniano fornito di un’ottima biblioteca. Studente senza mezzi, Erasmo patirà ristrettezze assai gravi che metteranno in pericolo la sua salute; per troppi anni egli sarà alla ricerca di un posto da precettore, di un titolo accademico, di un mecenate che capisse finalmente il suo genio e la sua missione. Erasmo conoscerà una relativa agiatezza tardi, solo dopo che alcuni suoi scritti avranno successo, inondando letteralmente l’Europa, benché i diritti d’autore fossero in quel tempo molto aleatori. Erasmo e More differiscono dunque in tutto, o quasi: per l’ambiente in cui sono cresciuti, per il tipo di formazione ricevuta, per il temperamento che si portano appresso e per la personalità che ognuno di essi riuscì a costruirsi. Ma quando i due si incontrano, scoprono le loro affinità elettive e l’uno diventa all’altro insostituibile e prezioso.
1. I tre soggiorni di Erasmo in Inghilterra
Giunto in Inghilterra al seguito del ventenne Lord Mountjoy, che più tardi divenne precettore del principe Enrico, Erasmo vi rimase fino al gennaio del 1500. Quei sei mesi, trascorsi tra Londra e Oxford, furono per lui molto importanti: «In Inghilterra ho trovato – scrive Erasmo all’altro suo discepolo inglese, Robert Fisher, rimasto a Parigi – un’umanità e una cultura non trite e triviali, ma profonde, precise, solide» (Ep. 118). Fu quella l’occasione per conoscere ed essere conosciuto da uomini eminenti come John Colet, vero maestro spirituale degli umanisti inglesi, o i grecisti William Grocyn e Thomas Linacre. Nella casa di campagna di Mountjoy, a Greenwich, incontrò More ed ecco in quali termini, nella stessa lettera del 5 dicembre 1499, parla per la prima volta di colui che sarebbe diventato l’amico di tutta la vita: «La natura ha mai plasmato – si chiede Erasmo – un ingegno più duttile, più incantevole, più felice di quello di Thomas More?» (ibid.). Erasmo aveva allora trent’anni, o poco più, e Thomas ventuno e tra i due scoccò subito la scintilla di una simpatia, che nasceva a un tempo dalla testa e dal cuore.
Erasmo compie nel 1505 un nuovo viaggio in Inghilterra. Vi ritrova i vecchi amici e se ne fa di nuovi, due su tutti: John Fisher, cancelliere all’università di Cambridge, e William Warham, arcivescovo di Canterbury. Durante questo secondo soggiorno di Erasmo a Londra, More – che s’era sposato l’anno precedente, nel 1504 – l’ospitò a casa sua, nella City, e per l’umanista olandese quei giorni furono qualcosa di indimenticabile. Nel tempo libero Erasmo e More insieme si esercitavano a tradurre alcuni dialoghi morali di Luciano di Samosata. Il greco di Siria, vissuto nel II secolo d. C., è uno spirito caustico, ma per i due traduttori la sua critica delle menzogne convenzionali, persino il suo sarcasmo irridente, potevano ben servire, quale pars destruens, alla causa del risveglio religioso e allo smascheramento di soprusi e superstizioni.
Una preoccupazione, però, assillava la mente di Erasmo: dove cercare un lavoro per non essere troppo di peso agli amici benefattori e, nello stesso tempo, come conciliare questa necessità con l’incoercibile vocazione a dedicare interamente la sua vita agli amatissimi studi? L’acuta consapevolezza di ciò che chiama “l’incerto presente” (Ep. 189 del 1° aprile 1506) rende tanto più gradita la proposta del medico della famiglia reale, l’italiano Giovanni Battista Boerio, di accompagnare in Italia per un viaggio d’istruzione i suoi due simpatici figli, sovrintendendo anche ai loro studi. L’impegno era per un anno; ma poi Erasmo si fermò a Venezia, dalla fine del 1506 alla metà del 1508, nella casa di Aldo Manuzio, a curare la stampa dell’Adagiorum chiliades («Migliaia di Adagi»). In quell’opera Erasmo commenta, con rigore filologico e con fine percezione dei sentimenti umani, detti epigrammi e proverbi tratti dal tesoro dell’erudizione classica; ma quella specie di “biblioteca di Minerva” era vivificata dalla passione cristiana del suo autore e dal dibattito religioso che allora affascinava gli spiriti. Nel 1509 Erasmo conclude il periodo italiano, un triennio di esperienze di opposto segno: era stato affascinante esplorare grandi biblioteche e manoscritti, viaggiare, conoscere di persona uomini di cultura e alti prelati; ma era stato terribile, e terribile fino all’angoscia, toccare con mano quanto grande fosse la crisi del centro stesso del cattolicesimo, della Chiesa di Roma, dopo un Alessandro VI e durante il “regno” di Giulio II, il papa guerriero.
Dall’Inghilterra, intanto, giungevano ad Erasmo pressanti sollecitazioni a portarsi al più presto nell’isola a lui cara, in cui con il nuovo re, Enrico VIII, al quale egli era ben noto, sembrava dovesse aver inizio un’era di pace tra i popoli e di progresso negli studi. Erasmo si mise, dunque, in viaggio a metà luglio e fu attraversando a cavallo le Alpi, al passaggio dello Spluga, che concepì l’Elogio della Follia. A Strasburgo Erasmo abbandonò il cavallo e proseguì per nave sul Reno, fino al mare. Questa volta in Inghilterra si fermerà a lungo, quasi ininterrottamente cinque anni, dal 1509 al 1514. Al suo arrivo, e si era alla fine del 1509, costretto all’immobilità da un dolore ai reni, si fermerà nella casa di More, nel cuore della City, accolto con gioiosa ospitalità da Joan Colt, la giovane moglie di Thomas. Lì Erasmo scrive, senza il sussidio di alcun libro, non essendo ancora arrivata la sua «biblioteca», quel mirabile intreccio di fantasia e protesta, di scherzo e serietà, di critica implacabile e invocazione appassionata alla rinascita spirituale che è il Moriae encomium id est stultitiae laus. Racconta Erasmo:
“Il piacere di un’opera che si comincia me la fece mostrare ad alcuni cari amici, per rendere più piacevole lo scherzo condividendolo con altri. Piacque molto a loro e insistettero perché continuassi. Obbedii e impiegai nel lavoro più o meno sette giorni” (Ep. 337).
Erasmo dedicò l’Elogio a More, “il cui nome è così vicino al termine greco moría, che designa appunto la Follia, quanto ne è lontana la sua persona”. Nella lettera dedicatoria, che è la sola vera chiave di lettura di quello scritto, Erasmo conia per l’amico l’espressione che diverrà celebre: cum omnibus omnium horarum homo, “l’uomo di tutti in ogni momento”. In quegli anni di incontri ravvicinati l’amicizia tra Erasmo e Thomas non poteva che accrescere la gioia reciproca del confronto sulle idee e le prospettive care a entrambi; ma essi amavano anche gareggiare in battute e facezie che servono a ridimensionare uomini e cose, sollevando gli animi con una risata liberatoria. Thomas è felice di aprire in totale libertà il suo animo a Erasmo che, a sua volta, può fare altrettanto con lui. È questo un raro privilegio anche per spiriti eletti e i due amici ne erano consapevoli. Lo aveva capito anche Richard Whitford, un sacerdote legato a entrambi da affettuosa ammirazione, che li soprannominava «i gemelli» (Ep. 191 del 1° maggio 1506).
More in quel tempo era ormai un avvocato di grido e a lui erano affidati compiti sempre più prestigiosi. La carica a Vice Sceriffo della City, che ricoprì dal 1510 al 1518, gli imponeva di amministrare la giustizia a livello municipale, ed era compito che egli assolveva con rapidità e competenza, soprattutto a difesa di chi era vittima dell’altrui prepotenza. Eppure, che More fosse a Londra, o fosse impegnato all’estero in una delle difficili missioni che gli venivano affidate, la corrispondenza con Erasmo attesta con quale delicata premura egli si adoperasse costantemente a liberare l’amico da incombenze fastidiose, o da richieste imbarazzanti. È uno dei tratti di umiltà generosa che caratterizzano il modo in cui Thomas si rapporta a Erasmo, come a un fratello maggiore.
2. Quel magico 1516 – La riforma umanistica della politica
Dopo il 1514 Erasmo farà in Inghilterra ancora brevi puntate, ma ormai i suoi lavori lo impegnano direttamente sul continente dove sorgono le “officine” dei suoi editori. Alcuni tra i frutti migliori del suo lavoro sono colti in quel mirabile 1516. Vede allora la luce l’Institutio principis christiani («L’educazione del principe cristiano»), dedicata a Carlo di Gand, il giovane sovrano dei Paesi Bassi, divenuto nel 1516 re di Spagna per la morte di Ferdinando d’Aragona. Il nuovo re Carlo I nel giugno del ’19 sarà eletto imperatore e si chiamerà Carlo V. A lui e agli altri sovrani che si dicono cristiani Erasmo chiede di abbandonare per sempre le sanguinose illusioni della politica di potenza, foriera d’inevitabili guerre; sostituendo ad essa, nelle intenzioni e nella prassi, l’effettiva ricerca della pace: in politica estera, mediante oneste trattative diplomatiche, per stroncare alla radice il ricorso alla guerra; in politica interna, attraverso il rispetto delle autonomie locali, unica via per tenere uniti popoli fra loro diversi.
Tra l’estate del 1516 e la primavera dell’anno seguente l’umanista mette al centro della sua riflessione politica il tema della pace nel Dulce bellum inexpertis («Dolce è la guerra per chi non ne ha fatto esperienza»). Nel ‘16 l’umanista pubblica anche la Paraclesis («Esortazione allo studio della filosofia cristiana») per offrire una visione d’insieme sui fini della cultura e dell’educazione. L’avvenimento culturale e religioso per eccellenza, che segna per sempre la missione e la vita di Erasmo – ponendole al centro dell’attenzione dell’intera Europa, ma anche inevitabilmente delle più roventi polemiche – è, però, la sua edizione, in greco e in latino, del Nuovo Testamento con le annotazioni apparsa anch’essa nello stesso 1516. L’umanista olandese aveva osato riprendere dopo undici secoli il testo sacro così come Gerolamo, il più venerato tra i suoi maestri, lo aveva consegnato alla cristianità con la sua Vulgata, per rileggerlo avvalendosi dei nuovi strumenti filologici acquisiti nella conoscenza del greco. L’arditezza dell’impresa era tale da sembrare a molti blasfema, e comunque scandalosa; per fortuna di Erasmo, papa Leone X aveva dato ad essa il suo avallo, accettando la dedica del Nuovo Testamento.
Ma quale sorpresa ha in serbo per i suoi amici ed estimatori Thomas More? Dieci anni prima aveva dato buona prova della sua cultura e del suo gusto letterario, traducendo in inglese la vita di Pico della Mirandola, scritta in latino dal nipote Gianfrancesco nel 1498, quattro anni dopo la morte dell’umanista, appena trentunenne, tra le braccia di Savonarola. Malgrado il titolo, The Life of John Picus, la biografia occupa appena un terzo del libro che il giovane More dedica a un’amica divenuta clarissa; il resto comprende un’antologia di brani dello stesso Pico e la trasposizione in versi delle sue massime spirituali. Poi, come sappiamo, More aveva curato la versione dal greco in latino di alcune operette morali di Luciano. Ebbene, in quel magico 1516, More esce allo scoperto con un’opera che gareggia con l’Elogio erasmiano per finezza, ironia e passione riformatrice. Quel libro, incominciato nel 1515 nei Paesi Bassi, dov’era in missione, e finito l’anno seguente a Londra, sarà il suo capolavoro: ha per titolo Utopia, dal greco u-topos, “non luogo”, ciò che non è in nessun luogo. Una parola che da quel momento è entrata a far parte del linguaggio universale. Il 3 settembre 1516 il manoscritto è inviato a Erasmo, con la preghiera di rivedere il testo prima che venga stampato; l’opera esce alla fine dell’anno.
La materia affrontata scotta, non meno di quella dell’Elogio, e More – che nel 1513 aveva cominciato a scrivere in latino La storia di Riccardo III – sa perfettamente che nell’età moderna ci sono poche gallerie di mostri paragonabili alla serie di sovrani di cui, negli ultimi cento anni, ha beneficiato l’Inghilterra. Egli non può, quindi, non porsi un interrogativo: come Nerone nei primi anni del principato, Enrico VIII chiama a servizio dello Stato i migliori tra i sudditi e fa la figura del principe saggio e brillante, ma fino a quando durerà l’idillio? Ci sarà anche per lui, come ci fu per il figlio di Agrippina, un elemento scatenante che, a un certo punto, lo spingerà a invertire la rotta e a trasformarsi in crudele tiranno capace di ogni arbitrio? E perché mai gli Stati e i popoli dovrebbero essere alla mercé di un potere che si pone al di sopra della legge, invece di ordinare la loro esistenza mediante istituzioni meno ingiuste e regole certe? More è consapevole di quanto sia decisivo il ruolo della politica nella sorte dei popoli, ma conosce anche quanto sia rischioso parlare di politica in un regime assolutistico. Tuttavia, assecondando una sua inclinazione, egli affronta le questioni di fondo del buon governo (de optimo reipublicae statu), con un tipo di scrittura che gli permetta meglio di criticare i mali della sua Inghilterra e, nello stesso tempo, di indicare vie nuove a un’umanità che non voglia rinunciare al sogno di una vita più degna: dopo tutto, non è forse vero che «la realité n’est que dans le rêve», come dirà Beaudelaire? Ne verrà fuori uno scritto singolarissimo, che More chiama bagatela litteraria, ma che farà entrare il suo nome tra gl’immortali.
L’Utopia è opera assai complessa, perché il suo autore fa di un racconto fantastico una vera e propria “parabola meta-storica” ricca di profondi significati. Egli indugia a descrivere la mescolanza di acuta razionalità e stravagante insensatezza, che caratterizza la società degli utopiani, perché l’elemento fabulatorio ha uno scopo ben preciso: il viaggio-finzione deve apparire a volte assai poco credibile per aprire più agevolmente il varco alla diagnosi severa dei mali della società e per inaugurare un nuovo tipo di riflessione su problemi di così grande importanza. Ciò permette a More di avere una maggiore libertà di espressione e, nello stesso tempo, di ribadire che il suo pensiero non è sic et simpliciter quello del protagonista dello scritto, il misterioso navigatore Itlodeo. La connotazione enigmatica data al racconto ha colpito in ogni tempo l’immaginazione dei lettori, ma non deve farci dimenticare che anche la prefigurazione della società futura, almeno sotto alcuni aspetti, trova la sua premessa nell’analisi critica dei mali della società inglese, come ebbe a sottolineare Erasmo nell’Epistola 999. L’autore di Utopia ha individuato le tare del mondo moderno e la maggior parte dei problemi che ne derivano, nella concentrazione del potere politico e della ricchezza, nella spietatezza dei rapporti sociali, nel bellicismo criminale, nella frenesia del danaro “unica misura di tutte le cose”, nella riduzione dell’uomo a ciò che produce.
“Quando considero con attenzione – scrive More verso la fine dell’opera – tutti questi Stati che oggi prosperano dappertutto, non riesco a scorgervi nient’altro, e Dio mi perdoni, che una sorta di congiura di ricchi (quaedam conspiratio divitum) i quali, in nome e sotto il pretesto dello Stato, badano solo ai propri interessi”.
Insomma, con Utopia entra nella storia un nuovo modo di vedere le cose e una nuova prospettiva per cambiarle. Le proposte utopiane, infatti, una volta divenute oggetto di discussione, non saranno più messe a tacere. Se proviamo solo ad elencarle, ci accorgiamo che nel corso di quasi mezzo millennio esse sono divenute progetti e ideali storici a cui l’umanità migliore non può rinunciare: un regime costituzionale che escluda i diabolici opposti, tirannide e anarchia; la parità tra uomini e donne dinanzi alla legge, nel lavoro e nella cultura; una giustizia penale mite, ma efficace e realmente uguale per tutti; la tolleranza religiosa reciproca tra le diverse confessioni religiose e, più in generale, tra quanti credono in Dio e nella vita ultraterrena in cui solo può realizzarsi la perfetta equazione tra virtù e felicità; l’armonia tra la fatica del lavoro e la libera attività ricreativa, e quindi una vera e propria cultura del tempo libero, di “un tempo dedicato a piaceri onesti fondati sulla natura e la verità”.
Non si può capire il profondo legame che unisce Erasmo e More, se si prescinde da quello che il Mesnard ha definito il loro “evangelismo politico”; ma è anche vero che, se non si legge correttamente l’Utopia, si rischia di fraintendere la personalità stessa del suo autore. L’Utopia non va presa, infatti, come un esempio di società perfetta, la quale non esiste e non potrebbe mai esistere nella storia, che presenta ad ogni passo opzioni e risultati ambivalenti, avanzamenti e arretramenti, sviluppi perfettivi e degenerazioni, vittorie e sconfitte prima di tutto di ordine morale. Gli utopiani sono ancora dei primitivi e la loro razionalità si attiene alle regole di una morale prevalentemente edonistica e utilitaria. Essi ignorano l’orizzonte cristiano della fede, del perdono, dell’amore disinteressato; eppure, col loro buon senso, hanno saputo fare di risorse limitate l’uso migliore, costruendo una società non priva di difetti e tuttavia assai più giusta di quella edificata nei regni e nelle repubbliche dei cosiddetti Stati cristiani, in cui la politica si è trasformata in sistema di brutale dominio dell’uomo sull’uomo, in una prassi metodicamente estranea a ogni imperativo morale e religioso. La provocazione di More è dunque questa: se si vuole restituire la politica alla sua propria essenza e al valore che la specifica, se si vuole umanizzarla, occorre assolutamente acquisire la consapevolezza critica degli esiti disastrosi di un potere che, scisso dalla coscienza morale, si ponga come fine a se stesso.
Nel 1532, cinque anni dopo la morte dell’autore, appariva Il Principe di Machiavelli, benché terminato nel dicembre del 1513; ma Erasmo nell’Institutio principis christiani e More nell’Utopia, rispettivamente all’inizio e al termine del 1516, ne avevano stilato in anticipo la confutazione, rivendicando la connessione assolutamente necessaria tra morale e politica. Ancora una volta i due amici si trovano a combattere la stessa battaglia, naturalmente ciascuno a modo suo e secondo il suo genio, ma nella comune convinzione che all’opera insostituibile di risveglio delle coscienze, alla rinascita culturale e religiosa, debba essere affiancata una vera e propria riforma umanistica della politica.
3. I reciproci doni
Tra il 1515 e il 1521 i due amici si scambiano “doni” che, in realtà, sono tra i più grandi che potessero farsi; e il primo di essi è proprio quello di procurare l’uno all’altro nuovi amici. Il 7 maggio 1515 – il giorno stesso in cui More e Cuthbert Tunstall, sacerdote umanista e fine diplomatico, sono nominati “ambasciatori nelle Fiandre per conto del re” – Erasmo scrive una lettera al suo affezionato Pietro Gilles, umanista anch’egli e segretario della municipalità di Anversa, allora primo centro commerciale in Europa, per presentargli “le due persone più colte di tutta l’Inghilterra”, suoi “amici carissimi” (Ep. 332). More ben presto si lega molto a Gilles ed è a lui che toccherà scrivere la lettera di dedica dell’Utopia a un illustre personaggio, l’erasmiano Gerolamo Bussleyden. Gilles ed Erasmo, a loro volta, preparano per l’amico inglese un dono degno di lui: nell’estate del 1517 si fanno ritrarre dal celebre pittore fiammingo Quentin Metsys e inviano a More, allora ambasciatore del suo re a Calais, le due tavole del dittico. More risponde ai donatori con due lettere che portano la data del 7 ottobre 1517. Quella per Gilles è di una cortesia squisita ed è accompagnata da due poemetti di ringraziamento; ma la lettera a Erasmo è un’altra cosa. È di quelle che si portano con sé per qualche giorno, senza decidersi a separarsene, e che si rileggono nelle ore di scoraggiamento, fino a saperle a memoria, perché sono, com’è stato ben detto, “il dono di un’anima”.
Scrive More:
“Al mio affetto per te, mio amatissimo Erasmo, credo nulla si possa aggiungere; eppure il desiderio che ti ha preso di legarmi a te ancora più strettamente lo accresce in modo indicibile. Mi è impossibile esprimerti fino a qual punto io sia fiero al pensiero che, con un segno di straordinaria predilezione nei miei confronti, tu mi dici che non vi è persona da cui desideri essere amato più che da me. Forse io interpreto con un po’ di presunzione l’invio di questo tuo ritratto, ma è grazie ad esso che il tuo ricordo si rinnova nel mio cuore ogni giorno, anzi ogni ora di ogni giorno. Tu mi conosci: non devo provare a uno come te che il mio spirito, tutto invischiato in occupazioni insulse, è molto distaccato da sciocche vanterie. C’è, tuttavia, in me un sentimento d’orgoglio da cui non riesco a liberarmi e che mi pone in uno stato di dolcissima agitazione: è la coscienza che agli occhi della lontana posterità io sarò raccomandato dall’amicizia di Erasmo – amicizia attestata da lettere, libri, dipinti. Possa io provare, e in maniera insigne, di non essere indegno dell’affetto di un così grand’uomo, il cui nome sopravanza la sua generazione e le generazioni che seguiranno” (Ep. 683).
More è inviato più volte nel continente per condurre a buon fine contenziosi che si trascinano da anni; ma egli sa darsi la concentrazione necessaria per far bene anche altre cose. Il diplomatico e il giurista non cancellano in lui l’uomo di pietà, l’amico, il padre. Segue con attenzione delicata la vita della sua varia e numerosa “tribù familiare”, e in particolare i problemi relativi alla formazione culturale e spirituale delle ragazze e del piccolo John; alla primogenita Margaret raccomanda vivamente di specializzarsi negli studi di medicina e di teologia anche quando è diventata Lady Roper. Più difficile, ma non meno necessario, è l’impegno a cui tiene moltissimo di affiancare Erasmo – autore del tanto frainteso Elogio della Follia e dell’edizione greco-latina del Nuovo Testamento, fortemente contestata prima ancora della sua pubblicazione – nella sua battaglia contro i conservatori. Gli scritti latini di More in difesa delle idee e del lavoro di Erasmo costituiscono il 15° volume della Yale Edition of Complete Works of St. Thomas More, che reca il titolo emblematico: In Defense of Humanism. In quel volume i corrispondenti sono tutti inglesi, eccetto uno: Martin Dorp, docente dell’università di Lovanio e studioso di Aristotele. Dorp è olandese come Erasmo, a cui è divenuto ostile dopo la pubblicazione dell’Elogio. Erasmo aveva cercato di chiarire le sue intenzioni e il carattere religioso del suo pamphlet (Ep. 337, maggio 1515), ma la replica del suo conterraneo era stata durissima. More, però, intuisce che, a differenza di altri, Dorp è un moderato incerto sulle vie da percorrere per rinnovare la Chiesa, non un integralista, e gli scrive. La lunga, meditata Lettera a Martin Dorp, (Ep. 15 Rogers), inviata da Bruges in data 21 ottobre 1515, è personale e non destinata alla pubblicazione, a significare che sulle questioni serie la “sfida” e la polemica devono cedere il posto alla riflessione silenziosa e al dialogo fraterno.
L’argomento centrale di More è che il rinnovamento autentico non distrugge affatto la tradizione, ma è la via obbligata per restituirle l’originario vigore. La critica di soprusi, deviazioni, pratiche aberranti che si sono introdotte nelle istituzioni è la pars destruens necessaria perché l’umanità possa riscoprire con il messaggio di Cristo il vero volto della Chiesa. Ancora una volta, rendendo la sua personale testimonianza alle idee direttrici della riforma religiosa e culturale di Erasmo, More onora nello stesso tempo la verità e il suo più caro amico. Dorp ne è sinceramente conquistato e rende pubblica la sua ritrattazione. E lo fa, come riconosce More, “con incredibile onestà e totale modestia” (Ep. 82 Rogers).
4. Tre ritratti di More: per von Hutten, De Brie e Budé
Il 1519 è ancora un anno propizio alle iniziative riformatrici degli umanisti cristiani: in quel momento Lutero appare a Erasmo un “medico crudele” della Chiesa e non l’artefice della rottura dell’unità religiosa dei cristiani; Enrico VIII si avvale sempre più del consiglio e della collaborazione diretta di More ed è lecito pensare che l’interesse dei rispettivi popoli, il sentire cristiano e la minaccia turca inducano Carlo V e Francesco I a non gettare l’Europa in una lotta insensata per il predominio. In tale stato d’animo, con il cuore aperto alla speranza, Erasmo scrive l’Epistola 999, un piccolo, grande capolavoro come I Sileni di Alcibiade del 1515, Il lamento della Pace del ’17 e la Lettera a Paolo Volz del ‘18. Un brillante poeta e patriota tedesco, il cavaliere Ulrich von Hutten, da tempo aveva chiesto a Erasmo notizie dettagliate su More. Pare che Erasmo si sia messo all’opera fin dal 1517 e due anni dopo abbia portato a termine quello che il Bremond chiama le portrait définitif dell’amico inglese, la sua prima biografia in forma di lettera. Il More, qui magistralmente dipinto, ha poco più di quarant’anni ed è passato dalla City al servizio del re esattamente da un anno, dal 23 luglio 1518. All’alba dell’età moderna con quella lettera, idealmente indirizzata alla Repubblica delle Lettere e alla posterità, Erasmo propone More – laico nutrito di vasta cultura e di profonda pietà, avvocato e diplomatico al servizio della cosa pubblica, padre e amico incomparabile – come l’uomo nuovo, il modello vivente e accattivante di un’umanità rinnovata e, per così dire, festiva.
È interessante mettere a fuoco anche la vicenda che portò ad uno scontro violento fra More e un giovane umanista francese, Germain de Brie (il cognome latinizzato è Brixius); essa costituisce, infatti, un’altra splendida prova sia dell’amicizia, franca e indissolubile, che lega l’inglese e l’olandese, sia dello spirito cristiano che anima entrambi. In appendice all’edizione definitiva dell’Utopia – che uscirà nel marzo 1518, a Basilea – Erasmo vuol pubblicare gli Epigrammata, gli epigrammi in versi latini di More. È, come al solito, un atto di attenzione per l’amico, il quale, però, giudica che alcune di quelle composizioni – e precisamente quattro di esse – pecchino di animosità. Erano state scritte anni addietro per mettere in ridicolo la boria nazionalistica di De Brie, ma anche la mania degli inglesi di imitare tutto ciò che veniva dal Continente; tuttavia, secondo More, era opportuno togliere ogni occasione di contesa. Erasmo non si preoccupava di reazioni inconsulte da parte di De Brie, che gli era molto affezionato; le cose, invece, andarono proprio come aveva temuto More. Il successo dell’Utopia comporta la vasta diffusione anche degli Epigrammi e ciò scatena il risentimento del francese, il quale si mette subito all’opera approntando una sua risposta in versi, l’Antimorus. Quando Erasmo viene a saperlo, invia a De Brie una missiva per invitarlo a non pubblicare il suo libello “al fiele”, che avrebbe posto l’uno contro l’altro due uomini a lui cari e fedeli. La lettera giunge al destinatario nel momento in cui l’Antimorus è in corso di stampa, per cui il francese si sente autorizzato a metterlo in circolazione. More legge quell’opuscolo intessuto di odiose malignità e, scrivendone a Erasmo, la sua amarezza esplode – è il caso di dirlo – con durezza inaudita nei confronti del De Brie (Ep. 1087, primavera del 1520).
La lettera, sottaciuta dai biografi, è invece importante perché mette a nudo il temperamento fortemente impulsivo e passionale che More si portava appresso e contro quali ostacoli egli dovesse lottare per raggiungere quello stato di grazia – fatto di gentilezza cordiale, comprensione magnanima e festosa ospitalità del cuore – che tutti ammiravano in lui. Erasmo, assai preoccupato della piega che va prendendo la polemica, in cui del resto ha una sua parte di responsabilità, gli risponde in modo fermo, col tono del fratello maggiore che vuol essere ascoltato; ed è l’unica volta che questo accade nella loro corrispondenza. Egli scongiura More, forse sarebbe meglio dire gli ordina, di non replicare in alcun modo al De Brie, mettendo semplicemente a tacere le ragioni a difesa del suo onore e del suo diritto a una riparazione: egli non vuol neanche entrare nel merito di quelle ragioni, perché la sola cosa da fare ora è chiudere una volta per sempre una diatriba quanto mai incresciosa (Ep. 1093).
La risposta di More – l’Epistola 1096 – è un documento eccezionale. All’inizio egli ha parole di rimprovero verso l’amico-fratello maggiore. De Brie ha torto e ha mostrato anche di non essere in buona fede, mirando non a ristabilire la verità, ma a porsi bene in vista con una polemica addirittura oltraggiosa; tuttavia Erasmo tiene ad annoverarlo ancora tra i suoi amici. C’è nelle frasi di More dolore ed anche amarezza. Sembra emergere da esse questo appunto: “io sono il tuo amico più caro, ma tu non hai preso le mie difese, né hai voluto confermarmi nel mio buon diritto a sentirmi offeso”. Questo incipit suona comunque rivendicazione della priorità della loro amicizia su ogni altra cosa; l’inglese, però, non si lascia vincere neppure per un attimo dal risentimento e, anzi, dà subito voce a qualcosa che si inscrive nell’ordine della nobiltà interiore, di ciò che proviene dalle sorgenti del cuore e dalle profondità dello spirito:
“Ho ricevuto la tua lettera, caro Erasmo, non quando il libro era in stampa, ma quando era già stampato per intero. E poiché chi me la inviava è un uomo verso il quale io provo un sentimento che ai miei occhi viene prima di ogni calcolo, io non ho imitato affatto il mio avversario De Brie […]. Quanto a me, tranne due copie spedite una a te e l’altra a Gilles prima ancora che arrivasse la tua lettera, e altre cinque già vendute in libreria, io ho ritirato tutti gli esemplari e li tengo sotto chiave, in attesa che sia tu a decidere che cosa farne. Posso dire francamente di non odiare più De Brie e, ora che il mio animo si è purificato, arriverei ad amarlo per amore delle lettere” (Ep. 1096, maggio 1520).
Nella conclusione, finemente autoironica, della lettera More ricorda a se stesso e ai futuri lettori – e dunque anche a noi – che una sorridente accettazione dei propri limiti aiuta a valutare ogni situazione per quello che essa è e a capire che, in ultima analisi, “è la pietà che l’uomo all’uom più deve”, per dirla con un verso del nostro Pascoli:
“Bisogna pur ridersela di ciò che è risibile e sono sicuro che un lettore che sia rimasto umano mi perdonerà di aver ceduto a sentimenti che sono propri di noi uomini: sentimenti da cui nessuno, del resto, riesce a liberarsi del tutto. Sì, è da qualche tempo che sono in questo mondo, ma non faccio ancora parte della società degli eletti” (ibid.).
Erasmo, che ringrazia More dal profondo del cuore, intende però volgere a un esito ben più alto anche per De Brie l’epilogo della vicenda: il suo più ardente desiderio è che il francese, ora che sono cessate le ostilità, possa avvicinare veramente More, nell’insieme dei suoi scritti, per stimarlo come merita e per divenirne amico: “Se tu conoscessi bene More – scrive Erasmo – confesseresti che nulla vi è al mondo più degno del tuo amore (si Morum penitus nosses, fateris nihil unquam gentium esse dignius tuo amore)”. E qui Erasmo passa a delineare un altro ritratto dell’amico prediletto (Ep. 1117, 25 giugno 1520), con particolare attenzione alle sue qualità di uomo di cultura e di scrittore. È il secondo dopo quello inviato a Ulrich von Hutten.
Germain de Brie è un animoso, combattivo rappresentante dell’intellighenzia francese, ma il capo incontestato di essa è Guillaume Budé. Nel suo Paese egli è il primo tra i grecisti ed è lui a creare una disciplina affascinante, la storia del diritto, con le sue Adnotationes Pandectarum («Annotazioni delle Pandette»). Studioso della civiltà classica, non vive con la testa voltata all’indietro e nei suoi scritti sviluppa opinioni politiche e religiose assai critiche sulle istituzioni del suo tempo. Uomo di grande valore, Budé ha un temperamento non felice: convinto di essere, e non solo rispetto ai suoi connazionali, il numero uno tra i campioni dell’umanesimo, spesso nella corrispondenza inclina a mescolare cortesie, riconoscimenti e insinuazioni sgradevoli. Erasmo, però, capisce che Budé è un prezioso intermediario presso gli umanisti della sua nazione e gli rimane amico. Fa di più: lo mette in relazione con i suoi amici più cari, con More, Gilles, Tunstall ed altri. L’incontro tra Budé e More avviene nel giugno 1520 al Campo d’Oro, dove i due si trovano, anche se con funzioni diverse, al seguito dei rispettivi sovrani. Erasmo con la sua lettera vuol fornire a Budé la chiave per entrare nel mondo interiore dell’inglese, un uomo complesso e semplice a un tempo, capace di anticipare il meglio di un’umanità futura specialmente per il modo in cui concepisce e realizza la sua piccola “utopia domestica”. Scritto con molta cura – a completamento di quelli eseguiti, da prospettive diverse, per Hutten e De Brie – con l’Epistola 1233 Erasmo traccia un terzo ritratto di More che, vincendo pregiudizi di ogni genere, è divenuto l’antesignano della promozione della donna. Nove anni più tardi, in una lettera all’umanista spagnolo Juan Vergara, Erasmo ricorderà ancora con immutato entusiasmo la casa di More come “domicilio delle Muse” (Thomae Mori domus nihil aliud quam Musarum est domicilium – Ep. 2133).
Del resto, come fosse giudicato More, e non solo nella cerchia degli umanisti, lo si capisce dai mille aneddoti che fiorirono intorno alla sua figura come uomo di spirito e magistrato integerrimo, ma anche da alcuni particolari significativi: il personaggio More, ad esempio, balza con netto rilievo persino da una guida all’apprendimento del latino, in cui il grammatico Robert Whittinton, prendendo dall’attualità gli esempi per una versione, nella parte posteriore del foglio 15 parla di Thomas More in questi termini:
“Ha l’intelligenza di un angelo e una singolare sapienza; io non ne conosco una pari alla sua. Dove trovare tanta dolcezza, umiltà, gentilezza e, secondo le circostanze, grave serietà o allegrezza straordinaria? Egli è un uomo per tutte le stagioni” (Vulgaria, 1520).
La frase finale a man for all seasons – certamente improntata all’espressione cum omnibus omnium horarum homo, “un uomo di tutti in ogni momento”, che Erasmo usa nella lettera di dedica all’amico dell’Elogio della Follia – è divenuta la definizione più popolare e classica a un tempo di More. Essa sta a significare sia la sua perfetta disposizione a essere all’altezza di ogni situazione, fino a quella suprema del sacrificio della vita, sia la possibilità per gli uomini di qualsiasi epoca storica di incontrare More e di accoglierlo per molte buone ragioni come ideale compagno di viaggio.
Negli anni in cui More è sempre più impegnato a servizio dello Stato, il rapporto più affettuoso è quello che intercorre tra Margaret, la figlia primogenita di Thomas, e il vecchio amico del suo papà. Non è un caso, infatti, che sia Meg a presentare il 1° ottobre 1524 la prima traduzione inglese, la sua, di un’opera erasmiana, la Parafrasi del Padre Nostro; ma a preparare un’altra bellissima “sorpresa” per Erasmo è tutta la famiglia che coopera. A Chelsea fa bella mostra di sé il ritratto eseguito nel 1517 da Metsys, ed ecco che More e i suoi vogliono rendersi presenti allo stesso modo a Erasmo. In effetti il pittore che avrebbe potuto emulare il grande Metsys era a portata di mano. A Basilea la riforma iconoclasta “faceva gelare le arti” (hic frigent artes, scriveva l’olandese a Gilles nell’estate del ‘26 – Ep. 1740) e Hans Holbein il Giovane se ne allontana per trasferirsi in Inghilterra, con una lettera di presentazione per More ( Ep. 1770). Holbein divenne ben presto ospite di casa More, a Chelsea, e lì ritrasse la famiglia More al completo, tra il febbraio e l’aprile 1527. Molto probabilmente fu lo stesso Holbein a portare nella sua Basilea il quadro a Erasmo, il quale accolse quel dono con esultanza e ne scrisse a Margaret il 6 settembre 1529 in modo toccante:
“Margaret Roper, onore della tua Inghilterra, difficilmente potrei esprimere con parole il piacere che ho provato nel mio cuore, perché il pittore Holbein ha ritratto per me tutta la tua famiglia in maniera così felice che, se io stesso fossi in mezzo a voi, non potrei vedervi meglio. Spesso tra me e me col pensiero torno a desiderare che, prima del termine inevitabile della mia vita, io abbia la gioia di rivedere la vostra piccola brigata, a me tanto cara, a cui io debbo in buona parte la mia riuscita e la mia fama: dell’una e dell’altra, infatti, a nessuno più che a voi sono debitore. La mano geniale del pittore ha adempiuto in gran parte il mio ardente desiderio. Nel quadro siete tutti somigliantissimi, ma nessuno lo è più di te. Attraverso il tuo bel viso io vedo risplendere la tua anima, che è ancor più bella” (Ep. 2212).
Il quadro del gruppo di famiglia disgraziatamente è andato perduto, ma di esso sono state eseguite parecchie copie; di Holbein rimane comunque quello che probabilmente è lo schizzo preparatorio, in inchiostro di china su carta, con l’indicazione in latino dell’età di ognuno e con un appunto su modifiche da apportare. Il disegno è conservato al Kunstmuseum di Basilea. Anche solo sulla base di queste continue, reciproche attestazioni di affetto e di grande delicatezza, e prescindendo dai continui richiami a More nella corrispondenza di Erasmo con amici ed estimatori di mezza Europa, ci pare francamente difficile accogliere la tesi di un “raffreddamento” nei loro rapporti a causa di presunti dissapori. Il periodo in cui il rapporto tra i due si fa più difficile, per ovvi motivi di prudenza e di riservatezza, è quello in cui More tocca l’apice della carriera politica, diventando Lord Cancelliere. Erasmo, che aveva una netta predilezione per l’Inghilterra, non volle stabilirsi definitivamente nell’isola per una ragione molto precisa: “Mi fa orrore – aveva scritto a More senza mezzi termini anni addietro – l’idea di stare sotto un tiranno” (Ep. 597 del 10 luglio 1517). Si capisce, quindi, quale fosse il suo stato d’animo nel vedere la persona che gli era più cara esposta, a causa del suo incarico, al più grave pericolo: More è elevato alla dignità più alta dopo quella del re, ma per volere di un re che, con tutto il suo fascino, è pur sempre un autocrate da cui ci si può attendere di tutto. Dopo quella nomina, Erasmo scrive lapidariamente a Tunstall, anch’egli intimo di More e dal 1522 vescovo di Londra: “Io mi felicito per l’Inghilterra, ma non certo con Thomas More” (Ep. 2263). Il 30 marzo 1530 Erasmo ribadiva quel giudizio in una lettera a Lord Mountjoy (Ep. 2295). In realtà neppure More si felicitava con se stesso.
5. Gli anni della disillusione e la fine dell’unità religiosa
a. More apologista.
L’abbraccio tra Erasmo e More a Bruges, nell’agosto 1521, e un mese dopo la lettera dell’olandese a Budé, con lo schietto elogio dell’amico inglese, chiudono un’epoca. Nei dieci, dodici anni successivi la storia registra un’accelerazione incredibile a causa della rivoluzione portata dalla stampa nella circolazione delle idee e per l’intreccio di fattori molto diversi, tra i quali assumono particolare rilevanza la protesta religiosa, il destarsi della coscienza nazionale tedesca e l’agitazione sociale. Tra il 1510 e il 1525 la leadership culturale e religiosa in Europa è formata in netta prevalenza dagli umanisti cristiani, tra i quali primeggiano Budé, Erasmo e More; intorno alla metà degli anni Venti chi domina la scena è, invece, un ex monaco agostiniano di Wittenberg, il teologo Martin Lutero, divenuto in pochi anni maestro di fede, scrittore efficacissimo e formidabile trascinatore di folle. Negli studi della seconda metà del Novecento l’interesse si è portato sempre più sulla teologia di Lutero, perché questa caratterizza il riformatore di Wittenberg più della sua critica nei confronti della Chiesa; ma per i contemporanei, ed anche per Erasmo, non fu affatto così: fu la critica ai costumi corrotti della Chiesa che diede alla protesta religiosa una risonanza immediata e vastissima, rendendo popolare il nome di Lutero e vittoriosa la sua lotta, al punto che in meno di due lustri metà Europa si pose al suo seguito.
Il verbo di Lutero giunse anche in Inghilterra e il re scese in campo di persona a contrastare l’eresia. Aiutato nella ricerca del materiale di documentazione dal suo ministro e consigliere Thomas More, Enrico VIII scrisse contro Lutero una Difesa dei sette sacramenti, pubblicata nel luglio 1521, e per questo fu insignito da Leone X del titolo di defensor Fidei; ma sette anni dopo, nel ‘28, una donna da cui il re era molto attratto, Anne Boleyn, gli pose tra le mani un opuscolo di William Tyndale, L’obbedienza di un cristiano, in cui il distacco da Roma veniva associato alla tesi del dovere di sottomissione assoluta dei credenti ai principi temporali. Dopo averlo letto, Enrico VIII avrebbe esclamato: “Ecco il libro che fa per me!”. Tyndale era stato prete cattolico e aveva tradotto in inglese il Manuale del soldato cristiano di Erasmo. Una volta passato al luteranesimo, aveva soggiornato un anno a Wittemberg per approntare la versione inglese del Nuovo Testamento, pubblicata nel 1526. Quella versione fu introdotta clandestinamente nell’isola insieme a numerosi e agili opuscoli degli evangelici.
I vescovi e i teologi erano impreparati a fronteggiare la nuova situazione e il vescovo di Londra, Cuthbert Tunstall, supplicò un amico, a lui particolarmente caro e già molto preso da importanti occupazioni, di assumersi nel tempo libero la fatica supplementare di leggere e confutare gli scritti degli eretici. La vittima designata era More, che si accinse all’impresa con grande impegno. Nel 1529 pubblicò l’opera sua migliore in questo campo, il Dialogo concernente le eresie. L’esame delle tesi di Lutero-Tyndale da parte di More investe tutti i punti su cui le nuove dottrine rovesciano le antiche: la condizione nell’aldilà di chi non sia stato né santo, né peccatore impenitente; l’uso corretto delle immagini e delle pratiche di pietà; il dovere di cogliere gli aspetti positivi della “religione popolare”, che va incessantemente purificata e non respinta a priori come superstizione satanica; il celibato del clero; la difesa del valore esemplare dei martiri e dei santi, fedeli e originali imitatori di Cristo; la giustificazione dei sacramenti e così via.
Con l’intelligenza e la preparazione che aveva, More avrebbe potuto scrivere una sintesi di grande respiro sui problemi più dibattuti, senza estenuare le sue forze in un lavoro di documentazione minuziosa; tuttavia qua e là riesce ad emergere lo stesso il pensatore originale e penetrante, che sa afferrare il nocciolo di una questione e i caratteri della crisi della coscienza europea del suo tempo. More coglie nel segno, ad esempio, quando denuncia l’errore di metodo degli eretici, che attribuiscono le colpe degl’individui alle istituzioni, per rifiutare poi le istituzioni, e cancellano l’haec facere et illa non omittere del Vangelo, sostituendolo con un perenne e perentorio aut aut, o questo o quello, che non permette mai di afferrare l’interazione necessaria tra aspetti diversi di uno stesso problema. Né manca di far capolino anche in questi scritti quell’amore intransigente per la giustizia, che lo aveva reso celebre come giudice e come autore di Utopia: nell’Apologia, che è del 1533, More non accetta che il clero delle parrocchie debba vivere in miseria, mentre gli alti prelati sguazzano nelle ricchezze; a costoro la Chiesa, per sua interna disposizione, dovrebbe togliere il denaro che sprecano nel superfluo e nello sfarzo più vergognoso per impiegarlo in attività caritative e, più precisamente, a finanziare le scuole per i figli della povera gente.
Il problema discusso più in profondità da More è, però, quello della Chiesa. Sulla Chiesa società mistica e regno di Dio realizzato, “dove l’errore e il peccato sono assenti”, tutti sono d’accordo; è l’altra Chiesa, infatti, che fa problema, quella che è entrata nella storia del mondo e che si presenta, ora come all’inizio, in una duplice dimensione: la dimensione della divino-umanità del suo capo e maestro, Gesù Cristo, e quella semplicemente umana dei suoi membri tra i quali, insieme a uomini e donne che vivono in totale dedizione a Dio e al prossimo, ci sono peccatori e traditori. La logica dell’incarnazione ci impone di testimoniare il Cristo nel mondo e attraverso una Chiesa che deve continuamente annunciare il Vangelo e, nello stesso tempo, riconoscere la sua inadeguatezza a testimoniarlo. Il realismo ecclesiologico di More non poteva essere più schietto e deciso, ed è alla luce di esso che egli pone e avvia a soluzione la questione del rapporto tra Chiesa e Scrittura. La tesi basilare di Lutero-Tyndale è l’anteriorità cronologica e l’assoluta priorità di valore della Scrittura sulla Chiesa. More, che non ama teorizzare in astratto, ricorda ai suoi interlocutori che vi è distinzione e continuità fra Parola orale e Scrittura e che se la Parola orale è venuta prima della Chiesa e ha presieduto alla sua nascita, la Chiesa, a sua volta, ha fatto sì che la Parola orale diventasse Scrittura. “La Chiesa primitiva – si precisa nell’Apologia – si riuniva a professare la fede prima che una qualsiasi parte del Nuovo Testamento fosse stata redatta”. Del resto anche le origini della fede nel popolo inglese confermano questa realtà: l’Inghilterra è stata evangelizzata e le anime conobbero la Parola di Dio prima e senza l’uso del libro. I luterani reclamano l’uso esclusivo della Bibbia, ma se tanta parte della popolazione è illetterata, se ne deve per questo concludere che l’analfabetismo è causa di dannazione? Chi oserebbe proferire una bestemmia del genere?
Tyndale e More si fronteggiarono a viso aperto, eppure le loro esistenze furono unite da uno stesso destino: passarono tutti e due per le stesse prove e pagarono entrambi con la vita la fedeltà alle loro convinzioni. Sulla questione del divorzio Tyndale si schierò inaspettatamente con Caterina contro Enrico, “il leone al quale egli aveva rivelato la sua forza”, come acutamente ha osservato Germain Marc’hadour. Costretto a fuggire in esilio, Tyndale non tornò in patria neppure dopo la separazione della Chiesa d’Inghilterra da Roma e l’invito rivoltogli dallo stesso Enrico VIII. Nei Paesi Bassi fu preso e incarcerato dalle autorità imperiali; nell’ottobre 1536, quindici mesi dopo la decapitazione di More, fu strangolato e, una volta morto, arso sul rogo.
b. Che cosa significò per Erasmo la “tragedia luterana”
L’umanista riformatore vide subito le potenzialità positive che la protesta di Lutero avrebbe potuto avere per il rinnovamento religioso, se portata avanti con spirito cristiano e con i mezzi che quello spirito comanda. Ogni volta che Erasmo pensa a Lutero o scrive di lui, abitano sin dall’inizio insieme nel suo animo la speranza più grande e la paura di vederla atrocemente vanificata. Erasmo giunge addirittura a scrivere al principe di Sassonia, Federico il Saggio, perché prenda Lutero sotto la sua protezione, temendo per la sua incolumità (Ep. 933); quando, però, Lutero di lì a poco chiede l’avallo erasmiano, il rifiuto è cortese, ma inequivocabile (Ep. 980). L’umanista cristiano, che si era battuto per la riforma della Chiesa almeno quindici anni prima di Lutero, non ci sta a essere arruolato in un movimento che non è il suo e di cui nessuno può prevedere per quali vie s’incamminerà.
Lutero e i suoi passarono allora ad accreditare l’idea di un tacito accordo tra i “due Ercoli della teologia”; l’astuta manovra trovò un’immediata eco tra i numerosi avversari dell’olandese in campo cattolico e suggerì anche ai posteri, purtroppo, un’immagine deformata della personalità, del pensiero e del ruolo storico di Erasmo. In realtà il grande umanista non gioca affatto questa sorta di jeu des dupes: il suo scopo è prima di tutto ammonire Roma a prendere sul serio la protesta di Lutero e a non difendere ciò che invece doveva ripugnare a chiunque avesse a cuore la pietà autentica e la purezza del Vangelo. Occorreva mettere subito fine, o almeno un freno, alla violenta campagna di diffamazione di monaci e teologi contro Lutero, per tenere aperta la porta al dialogo tra Roma e Wittenberg nella speranza di evitare la rottura.
Erasmo non si stanca di raccomandare a Lutero – per lettera, o attraverso comuni amici – moderazione e purezza di cuore; ai papi, però, chiede con insistenza di riconoscere onestamente, prima che sia troppo tardi, dove i dissidenti hanno ragione, cercando sul resto un’onorevole intesa. La mediazione tra Roma e Wittenberg era necessaria e va da sé che il più convinto e autorevole assertore di essa fosse tenuto ad assumere, affinché quella prospettiva rimanesse aperta, un atteggiamento neutrale tra le due parti. Erasmo aveva mille ragioni per temere quello che poi effettivamente accadde e fece di tutto perché la protesta non diventasse scisma. La sua lungimiranza, il suo coraggio, il suo anticonformismo sul “problema Lutero” fanno di lui il primo dei grandi spiriti ecumenici; allora, però, non gli procurarono che accuse e incomprensioni, sospetti e amarezze da una parte e dall’altra. Tutto divenne assai più difficile, quando nel giugno del 1520 fu emessa la bolla Exsurge Domine, con cui Leone X condannava Lutero pur senza nominarlo, e in ottobre Lutero rispose imprimendo una svolta violentemente anticattolica alla sua protesta, con lo scritto La schiavitù babilonese della Chiesa. Erasmo si lamentò con Leone X della bolla (Ep. 1143) perché la scomunica ostacolava gli sforzi di quanti lavoravano a non far cessare del tutto il dialogo tra le due parti.
In campo cattolico la tempesta luterana forniva nuovi pretesti ai conservatori contro Erasmo, il presunto “luterano mascherato”, e questa volta l’attacco gli fu mosso nella sua stessa terra, all’università di Lovanio, e fu tale da costringerlo verso la fine del 1521 a trasferirsi a Basilea, la città in cui sorgeva l’officina di Froben, da cui usciranno le più belle edizioni dell’umanista. L’amarezza di Erasmo nasceva dal constatare la pervicace incomprensione di tutta la sua opera da parte di chi – teologi, università e ordini religiosi – avrebbe dovuto essere più preparato ad accoglierla; ma anche e soprattutto dalla consapevolezza del danno incalcolabile che arrecava alla Chiesa cattolica la prevalenza dei conservatori in una delle ore più difficili e decisive per il futuro dell’intera cristianità. I conservatori, che pretendevano di essere i soli custodi e maestri dell’ortodossia, si illusero di ridurre al silenzio Lutero, facendolo mettere al bando dell’impero; ma in tal modo ne decretarono il trionfo. Erasmo, malgrado tutto, non rinuncia ancora a sperare e a lottare e, quando il 9 gennaio 1522 diventa papa, col nome di Adriano VI, un olandese tutt’altro che maldisposto nei suoi confronti, gli scrive per supplicarlo di prendere al più presto quei provvedimenti atti a suscitare fiducia nella Chiesa universale, riportando la pace e l’unità tra i cristiani. Le proposte preliminari presentate al papa erano esplicite e concrete: la rinuncia a usare mezzi repressivi verso i dissidenti, un’amnistia generale, serie riforme per cancellare soprusi di ogni genere (Ep. 1352). Adriano VI morì troppo presto, nel settembre 1523, e pertanto non fu possibile accertare se e fino a qual punto i suoi progetti fossero in sintonia con quelli del suo conterraneo.
Nell’estate di quel 1523, anche il mondo luterano – falliti i tentativi prima di annessione e poi di utilizzazione strumentale – rompeva apertamente con Erasmo. L’attacco al maestro dell’umanesimo cristiano fu portato con inaudita violenza da Ulrich von Hutten, già suo protetto, che si era messo a capo di una banda armata, credendo così di servire la causa dell’unità nazionale tedesca e del luteranesimo estremo. Nella sua Expostulatio («Spiegazione») Hutten definisce Erasmo uomo di grande intelletto, ma privo di carattere; il quale sa che la verità del Vangelo è stata riportata in onore da Lutero, ma la tace o le si oppone per vigliaccheria e interesse. A settembre arrivò come un fulmine la risposta di Erasmo, la Spongia, ossia «La spugna» per pulire gli schizzi di fango di Hutten. L’apostrofe iniziale è particolarmente felice nel farci capire le idee e la linea di condotta di Erasmo:
“Non nego di cercare la pace ovunque è possibile. Credo di dover guardare a entrambe le parti con occhio aperto. Amo la libertà. Non posso e non voglio servire un partito. Ho affermato che non si può sopprimere tutto l’insegnamento di Lutero senza sopprimere il Vangelo; ma per il fatto che io abbia appoggiato Lutero all’inizio, non vedo perché si debba pretendere che io approvi tutto ciò che ha detto in seguito” (Opera omnia, Leiden 1703-1706, J. Leclerc ed., vol. 10°, 1637-1638 B).
Né meno significativa è la conclusione: occorre che luterani e cattolici imparino a convivere nonostante tutto, perché discordie e ingiurie, bolle e roghi non portano con sé nulla di buono. La morte colse Hutten su un’isola del lago di Zurigo nel momento in cui veniva pubblicata la risposta di Erasmo al suo libello.
L’anno seguente, nel marzo 1524, Erasmo per due volte torna a parlare di Lutero con piena, delicata comprensione del suo compito. A Giorgio Spalatino scrive che “Lutero non può perire, senza che con lui scompaia una gran parte della purezza evangelica” (Ep. 1348). La lettera fu quasi certamente letta anche da Lutero, tramite Federico il Saggio. L’altra occasione fu l’ennesima edizione dei Colloqui, con l’aggiunta del dialogo “Esame della fede”, che si svolge tra un cattolico e un luterano. Lo scopo è di mostrare che l’uno e l’altro accettano integralmente il Credo apostolico; ma se questo accordo esiste, opinioni diverse su altre questioni non sono necessariamente eresie. Sono due documenti generosi nei confronti del riformatore di Wittenberg ed esprimono alla perfezione la forma mentis di Erasmo; se non che erano proprio la sua mentalità e il suo modo di sentire che ripugnavano sempre più a Lutero, per il quale l’allergia dell’umanista cristiano allo spirito di asseveranza, il suo senso critico e la sua moderazione erano altrettante prove di scarso fervore e di scetticismo teologico (moderata sceptica Theologia). Dopo Hutten, il cui attacco aveva fatto da detonatore, è Lutero in persona che nella primavera del 1524 invia una sorta di diffida ad Erasmo. Lutero esordisce affermando che evidentemente è superiore alle forze dell’olandese mettersi con decisione al suo fianco, essendo debole di carattere e di limitate risorse. All’insulto, però, segue una supplica racchiusa in una frase di struggente sincerità:
“Ti domando, se non puoi far altro, che tu sia soltanto spettatore della nostra tragedia” (A te peto ut, si aliud praestare non potes, spectator sis tantum tragediae nostrae, Ep. 1443).
Il commento più penetrante a questo passo della lettera di Lutero l’ha espresso Lucien Febvre, scrivendo: “Fra tutti gli omaggi che ha ricevuto in vita il grande umanista, io non ne conosco uno più bello. Gli è reso da un avversario, forte del suo trionfo, e non di meno tradisce qualcosa di più di un involontario rispetto” (Un destin: Martin Luther, Paris 19484, p. 172).
Erasmo prova un’intima esitazione a entrare in un campo che non era il suo, come scrive all’amico Louis Ber (Ep.1524); tuttavia le preghiere insistenti degli amici cattolici e le insolenze di Lutero lo convinsero a scrivere e a pubblicare Il libero arbitrio, che uscì contemporaneamente a Basilea e ad Anversa nel settembre 1524. Vi aveva posto mano perché pressato da molti amici, ma l’argomento scelto andava veramente al nocciolo della questione, come riconobbero subito Melantone e lo stesso Lutero. Quel tema, però, era anche decisivo per ogni umanista cristiano. Dice molto bene Renaudet: “Erasmo, umanista cristiano, difende contro Lutero la base stessa dell’umanesimo cristiano”.
La più dura di tutte le affermazioni di Lutero (durissima omnium sententia) è per Erasmo quella che considera la libertà di scelta un nome vano per l’uomo e una pretesa blasfema, essendo essa una prerogativa esclusiva di Dio, che opera in noi il bene e il male. La critica di Erasmo è stringente e chiara, benché rispettosa. Lutero nel dicembre del 1525 replicò a muso duro con Il servo arbitrio, rovesciando sul principe degli umanisti – una volta chiamato “venerato maestro” – insinuazioni e invettive di ogni genere e condensando la sua fosca visione teologica in una formula ancora più esasperata:
“La volontà umana è posta nel mezzo come un giumento. Se lo cavalcherà Dio, vuole e va dove Dio vuole […]. Se lo cavalcherà Satana, vuole e va dove vuole Satana” (Humana voluntas in medio posita est ceu iumentum. Si insederit Deus, vult et vadit quo Deus vult […]. Si insederit Satan, vult et vadit quo vult Satan – De servo arbitrio, in Luthers Werke ediz. Weimar, vol. 18°, p. 635).
Erasmo ebbe tra le mani Il servo arbitrio nel febbraio del 1526 e in dodici giorni scrisse e pubblicò, requisendo i sei laboratori di Froben, una prima replica; la seconda – insistentemente sollecitata anche da More – apparve in settembre. L’opera si intitola Hyperaspistes («Scudo di difesa contro il ‘Servo Arbitrio’ di Lutero»). Le posizioni estreme sul problema del libero arbitrio sono quelle di Pelagio e Lutero. L’uno e l’altro hanno una concezione antagonistica del rapporto tra l’uomo e Dio e fanno sparire uno dei due termini: Pelagio relega Dio al ruolo superfluo di notaio che registra, a cose fatte, ciò che senza il suo aiuto l’uomo ha raggiunto con le sue sole forze; Lutero fa di Dio la causa unica, totale, esclusiva non solo del bene, ma anche del male che egli opera in noi. L’ottimismo antropocentrico del primo e il pessimismo radicale del secondo appaiono a Erasmo come i due poli dell’errore e della sofistica in campo teologico. Pelagio afferma: “Dio mi ha fatto uomo, io mi faccio giusto”; Lutero gli contrappone: “Ogni azione dell’uomo è peccato”. Né l’uno né l’altro sono in grado di associare creazione e redenzione, natura e grazia, volere umano e volontà divina. La salvezza è sempre grazia, ma l’uomo non può salvarsi contro la sua volontà e Dio, bontà infinita, non lascia perdere nessuno che non voglia egli stesso perdersi.
c. Strategie diverse e convergenze profonde
È inevitabile chiedersi in che cosa le posizioni di Erasmo e di More sulla questione Lutero siano simili, o addirittura identiche, e in che cosa differiscano. Innanzi tutto è bene ricordare che gli scritti controversistici in quanto tali non piacevano per nulla a Erasmo perché, a cominciare da quelli di Agostino, sono tutti esposti al pericolo di sostenere tesi estreme in risposta ad asserzioni ancora più estreme. L’olandese, però, non lesse le opere di More su Tyndale perché scritte in una lingua, l’inglese, che non conosceva. Certamente, in alcune pagine l’oltranzismo polemico tenta anche More, ma nell’insieme egli riuscì a vincerlo grazie al suo buon senso, alla conoscenza dell’animo umano e al lungo sodalizio spirituale con Erasmo. Qualche biografo ha parlato di “rottura” e qualche studioso di “gelo” fra i due, a causa del diverso modo di rapportarsi a Lutero, che col suo successo aveva spiazzato quel “partito” riformatore di cui Erasmo e More erano gli esponenti più noti. Del presunto dissidio e del preteso gelo, però, non si ha la benché minima prova, né da solo può essere accolto come indizio il rarefarsi della corrispondenza, compensato tra l’altro da attestazioni di affetto dell’uno verso l’altro, espresse mediante gesti concreti e nelle lettere inviate a comuni amici in quello stesso periodo.
Nel contrapporsi alle nuove dottrine, More è pur sempre l’intellettuale che vuol capire e il cattolico che vuol rafforzare in sé e negli altri la fede che professa; ma egli è anche il politico che vuol risparmiare al suo Paese i disordini sociali che in Germania hanno accompagnato la rivoluzione religiosa e, nello stesso tempo, salvaguardare il vincolo di unione della Chiesa d’Inghilterra alla Chiesa di Roma. Inopinatamente, sarà il secondo obiettivo a palesarsi in breve tempo il più difficile a essere conseguito. Erasmo e More concordano perfettamente nel prevedere che la rottura dell’unità religiosa, combinandosi con le rivalità politiche, avrebbe portato alle guerre di religione. Essi si chiedono, sgomenti: se si dovesse arrivare a quel punto, quanti spaventosi misfatti saranno commessi in nome della fede e quanto tempo ci vorrà prima che la pace tra i cristiani possa essere ristabilita? Una logica perversa sembra menar diritto a un esito che dovrebbe riempire di orrore ogni discepolo di Cristo; ma quella catastrofe si può evitare se si cerca subito, senza preclusioni e riserve mentali, ogni possibile chiarimento e intesa. Bisogna però far presto, incalza Erasmo, prima che si accendano da una parte e dall’altra i roghi dell’intolleranza e le guerre portino nel cuore stesso dell’Europa moderna lutti e rovine finora inimmaginabili. Questo fu il tormento di Erasmo, questa la sua posizione per cui egli fu permanentemente destinato ad apparire “guelfo per i ghibellini, ghibellino per i guelfi”.
Lo scenario e i compiti di More e di Erasmo nel loro confronto con Lutero non sono, dunque, gli stessi, senza essere per questo fra loro in conflitto. Ambedue avvertono con angoscia quanti e quali pericoli comporti la perdita dell’unità religiosa dell’Europa, causata a sua volta da una crisi di cui essi sono testimoni d’eccezione, e si può anche dire che, con qualche sfumatura in più, le conclusioni a cui perviene More nei suoi scritti apologetici Erasmo avrebbe potuto sottoscriverle, se avesse potuto conoscerle. Tuttavia il “problema Lutero” è vissuto da Erasmo come una tragedia che lo sconvolge nel profondo e che, riflettendosi nei rapporti con tutti gli altri, dal 1519 in poi diventa il motivo dominante della sua vastissima corrispondenza.
Vi è, infine, un aspetto non secondario su cui occorre richiamare l’attenzione. Nella controversia con Tyndale More assume posizioni che non sono certo quelle oltranziste dei conservatori di parte cattolica, con i quali a suo tempo aveva polemizzato molto vivacemente, in difesa di Erasmo; ora la situazione è mutata e altre sono le battaglie per cui combattere, altri gli avversari da fronteggiare. In una parola, dinanzi all’attacco luterano More pone tra parentesi, pur senza mai sconfessarle, le grandi polemiche del passato. Per Erasmo, al contrario, quelle polemiche non appartengono affatto al passato, anche perché le aggressioni dei conservatori al suo onore cristiano sono diventate assai più numerose e violente proprio con l’esplodere della protesta luterana. Erasmo non concede nulla, avverte il dovere di non dimenticare e di contrastare attivamente fino all’ultimo, ribattendo colpo su colpo, quel “partito” la cui prevalenza – nelle università, nella curia romana, fra i teologi, nella predicazione e negli ordini religiosi tradizionali – aveva dato, sia pure praeter intentionem, un contributo enorme al successo di Lutero.
Erasmo, coscienza critica ed anche un po’ enfant terrible della Chiesa cattolica, rimase sempre in essa, ma ebbe discepoli e amici sinceri nei due schieramenti e il termine “erasmiano” stette a significare uno spirito che cerca e costruisce la pace, rifiuta il fanatismo e non rinuncia alla grande speranza di ricomporre l’unità religiosa tra i seguaci di Cristo. Erasmiano fu detto allora anche chi lavorava alla reciproca convivenza delle confessioni cristiane all’interno di uno stesso Stato (Ep. 2366). La Confessio augustana del 1530 – quando Erasmo e More erano ancora in piena attività – e la Dieta di Ratisbona dieci anni dopo, nel 1540, quando i due amici erano entrambi morti, resero visibile all’Europa e alle due Chiese la larghezza di vedute e il coraggio degli erasmiani. L’erasmismo ha costituito comunque, nell’ampio arco di quasi mezzo millennio, un punto di riferimento alto per la coscienza cristiana, una fonte d’ispirazione per l’ecumenismo, una vera e propria “magistratura spirituale”, come ha scritto felicemente Roland Bainton. L’irrefrenabile avversione che Lutero nutrì fino alla sua morte nei confronti del grande olandese non può farci dimenticare che Erasmo aveva visto giusto nel cogliere le esigenze profonde da cui era nata la protesta e l’anima di verità che si celava nelle stesse “iperboli teologiche” del riformatore di Wittenberg. Agli occhi di Erasmo Lutero, malgrado il suo linguaggio aggressivo ed estremo, ha avuto un grande merito: ha voluto porre la Scrittura nelle mani del popolo cristiano e ha proclamato la gratuità della salvezza, facendo riscoprire a tutti i cristiani che la grazia di Dio, lungi dall’essere meritata, è essa stessa la sola sorgente possibile di un merito che non sia illusorio. Dopo il Concilio Vaticano II questi giudizi sono largamente condivisi nella Chiesa cattolica e nelle Chiese evangeliche. Ben pochi, però, sanno ancora oggi che a formularli alcuni secoli prima fu Erasmo.
6. More Lord Cancelliere e il suo ritiro
La nomina di More a Gran Cancelliere avviene in una situazione resa dirompente dalla questione del divorzio da Caterina d’Aragona e dal pressing asfissiante di Anne Boleyn su Enrico VIII. Il 25 ottobre 1529, a Greenwich, More riceve dalle mani del re lo scettro di Gran Cancelliere d’Inghilterra. Il giorno dopo presta giuramento a Westminster. Al duca di Norfolk, che prende la parola in nome del sovrano per ricordare “quanta gratitudine debba l’Inghilterra a sir Thomas More”, questi risponde con un discorso nobile e triste, a dir poco sorprendente:
“Ho ragione di guardare alle dignità umane come a cosa di poca durata e al posto di Cancelliere come molto meno desiderabile di quanto pensino coloro che me ne vogliono onorare. Per questo mi accingo a salirvi come a un posto pieno di fatica e di pericoli, privo di ogni onore solido e reale: un posto dal quale tanto più si deve aver timore di cadere, quanto più è in alto” (Th. Stapleton, Vita Thomae Mori, in Tres Thomae, 1588).
All’indomani, il 28 ottobre, dalla casa di campagna di Chelsea More scrive a Erasmo, “colui che è più della metà della mia vita”, per annunciargli l’avvenuta nomina a Lord Cancelliere. Lo fa in questi termini:
“Alcuni amici sono esultanti e si congratulano vivamente con me. Ma tu, che hai l’abitudine di pesare le vicende umane con sagacia e prudenza, forse mi compiangerai per la mia fortuna” (tu qui res humanas soles prudenter et sollerter expendere, fortunae meae fortasse miserebis – Ep. 2228).
More, dunque, non si fa alcuna illusione e sa bene ciò che da un momento all’altro può accadere; ma allora perché accettare una carica che inevitabilmente lo pone nell’alternativa di piegarsi o spezzarsi? La risposta, a mio avviso, è in questo passaggio dell’Utopia:
“Non si deve abbandonare la nave in mezzo alle tempeste solo perché non si possono estinguere i venti. Si deve operare, invece, nel modo più adatto per cercare di rendere se non altro minore quel male che non si è in grado di volgere al bene” (Utopia, The Yale University Ed., 1965, vol. IV, p. 96).
More è lucidamente consapevole del rischio gravissimo a cui va incontro e tuttavia crede, quale che sia il costo da pagare sul piano personale, di non doversi sottrarre a due precisi doveri: servire il bene comune del proprio Paese in un momento di estrema difficoltà e mettere in atto l’unico tentativo legale possibile affinché la faccenda del divorzio non sfoci nello scisma religioso. C’è un episodio, fra i tanti, che aiuta a capire l’animo disincantato e la libertà interiore con cui More affronta le dure responsabilità della politica. Nel corso del 1529, quando era in pieno svolgimento la guerra con la Francia, una sera, senza farsi annunciare, il re si recò a cena a Chelsea e dopo si intrattenne a passeggiare per un’ora in giardino, appoggiando il braccio sulle spalle di More. Nella sua Life of Sir Thomas More, William Roper, il marito di Margaret More, racconta:
“Appena Sua Grazia se ne fu andato, io domandai tutto lieto a sir Thomas More quanto fosse anche lui contento che il re lo trattasse con tanta familiarità, come non mi era mai accaduto di vedergli fare con nessun altro […]. Mi rispose: – Di ciò ringrazio Dio, figliolo. Ma posso anche dirti che non vedo la ragione per andarne fieri: se la mia testa potesse servire al re a conquistare una fortezza in Francia, non esiterebbe a farla cadere.”
More sarà Cancelliere dal 25 ottobre 1529 al 16 maggio 1532: due anni, sei mesi e tre settimane. Sulla “grave questione del re” (the King’s Great Matter), il divorzio da Caterina per sposare Anne Boleyn, la sua linea di condotta è assai riservata e al tempo stesso molto precisa: solo conversando in privato con il re e su sua richiesta, egli espone le sue personali opinioni sullo scioglimento del matrimonio; ritiene tuttavia la questione non di sua competenza, ma degli specialisti in diritto canonico e della Santa Sede; chiede pertanto di esserne tenuto del tutto fuori, così come di non essere mai costretto a pronunciarsi su di essa pubblicamente. Il re, a sua volta, assicura il Lord Cancelliere che rispetterà la sua libertà di coscienza. Certamente nella sua stima egli pone More al di sopra di tutti, ma ci si deve chiedere fino a che punto sia sincero con lui, e fino a che punto pensi di ricattarlo con la sua stessa benevolenza, piegando prima o poi anche lui al suo volere.
Nei settori in cui è chiamato a operare, il nuovo Cancelliere lavora con l’acuta intelligenza e la straordinaria capacità realizzatrice che tutti gli riconoscono; ma egli è soprattutto il “Ministro dell’Equità” per antonomasia, a causa del suo impegno nel rendere giustizia a chi l’attende da tre, dieci, dodici anni. Il suo lieto trionfo lo ebbe il giorno in cui, aperte le udienze e definita una causa, quando chiamò la successiva, si sentì rispondere che non c’era più nessuno che attendesse giudizio. “Volle che l’avvenimento venisse registrato negli atti ufficiali della Court of Chancery”, ci ricorda uno dei suoi primi biografi; e ancora due generazioni più tardi la cosa non cessava di suscitar meraviglia. E fu proprio l’appassionata dedizione con cui servì la giustizia, insieme al suo senso dell’humour, a caratterizzare l’immagine di More nella tradizione popolare:
“Nel tempo ch’era More Cancelliere / di cause in mora non ce n’eran più. / Cose così non le potrem vedere / che quando More tornerà quaggiù”.
More rimase alla Cancelleria fino a quando l’assemblea dei vescovi, cedendo alle pressioni del re, riconobbe in Enrico VIII, sia pure ad personam, “il Capo Supremo in terra della Chiesa d’Inghilterra”. Loro avevano creduto di aver fatto al re una concessione limitata nel tempo e non si rendevano conto di aver aperto la porta al distacco dalla Chiesa cattolica, passando sopra a uno dei principi cardine del Vangelo e della civiltà europea, la distinzione tra religione e politica, Chiesa e Stato, enunciato in modo inequivocabile da Cristo: “Date a Cesare ciò che è di Cesare, e a Dio ciò che è di Dio” (Mt. 22, 21-22). More, inascoltato, aveva paradossalmente chiesto a Enrico VIII di non accrescere oltre il giusto, nello scritto contro Lutero, l’autorità del papa, perché anch’essa va esercitata nello spirito del Vangelo e nei limiti che il Vangelo le assegna; egli riteneva inoltre doveroso limitare le interferenze del papa nella giurisdizione temporale. Il Cancelliere era un autentico cristiano, e proprio per questo rifiutava ogni forma di clericalismo; ma egli non poteva neppure accettare la svolta cesaropapista del re e l’assoggettamento totale della Chiesa al volere della corona. L’intrusione del potere politico nella sfera della fede e la pretesa di una provincia della cristianità a legiferare in antitesi con la Chiesa universale attestavano, agli occhi di Thomas More, quanto si fosse spinto avanti il processo di perversione assolutistica dello Stato in una nazione che pure si diceva cristiana. La gerarchia della Chiesa d’Inghilterra non ebbe su problemi tanto gravi e di così straordinaria importanza la lucidità del laico Thomas More e capitolò. La resa fu sottoscritta il 15 maggio 1532.
Il giorno seguente More presentò le dimissioni, peraltro da tempo annunciate al sovrano a motivo delle non buone condizioni di salute. Come all’atto di insediamento di More al Cancellierato, anche ora, al momento del ritiro, il duca di Norfolk lo ringraziò pubblicamente a nome del re per la sua amministrazione esemplare. Tra il re e il suo ex Cancelliere c’è, dunque, un congedo che ambedue vogliono senza rottura e More spera ora di potersi dedicare a tempo pieno ai suoi studi, ai suoi scritti, ad una più intensa vita di preghiera e di contemplazione. Ma fino a quando gli sarà consentito di starsene in disparte con un re come Enrico VIII? Nella lucida narrazione degli avvenimenti che Geoffrey Elton fa per la nuova Storia moderna, a cura dell’università di Cambridge, di Enrico VIII si dice che aveva “il dono supremo dell’egoista”. Aveva cioè l’incrollabile convinzione che il diritto fosse sempre dalla sua parte e, dunque, la sincera pretesa di imporlo ad ogni costo.
7. Le ultime due lettere di More a Erasmo
In quei giorni in cui i suoi rematori e la sua barca passano al servizio di Thomas Audley, il sostituto nella Cancelleria, e una dignitosa povertà bussa alla porta della “Casa Grande” di Chelsea, le preoccupazioni di More sono assai gravi. Egli è realmente malato e senza possibilità di riprendere l’esercizio dell’avvocatura; si aggiunga che due anni prima, alla morte di sir John More, il figlio non aveva ereditato nulla del suo patrimonio, essendo ancora in vita l’ultima moglie del padre. Nella sua nuova condizione tutto muta, fin nelle minime cose, e tuttavia More pensa subito a scrivere finalmente una lunga lettera, una delle più belle, all’amico di sempre: l’Epistola 2659, in data 14 giugno 1532, un mese dopo le dimissioni. È come un ritrovarsi di nuovo improvvisamente insieme, dopo un lungo intervallo, con la persona più cara, a cui, pur scrivendo poco e di rado, non aveva smesso un solo giorno di pensare, cercando di indovinare il suo dissenso o il suo consenso su ognuna delle questioni che contano.
More tace sulla “grave questione del re”, ma su tutto il resto il suo cuore si apre al ricordo grato ed esaltante delle comuni speranze e battaglie. Con gli anni sono arrivate anche le disillusioni e le sconfitte e quella lettera è inevitabilmente un bilancio in cui l’accento batte sul tasto delicato del “che cosa avremmo dovuto dire e fare in un altro modo”; ma essa è soprattutto l’alta, diretta testimonianza che momentanei malumori, se mai ce ne fossero stati, e differenti giudizi, derivanti del resto dalla fortissima personalità di ognuno dei due, non hanno mai potuto oscurare lo splendore di un’amicizia che durava ininterrottamente da più di trent’anni. Certo, annota More, se Erasmo avesse potuto prevedere l’eresia, avrebbe detto le stesse cose con più moderazione e possibilmente con maggior chiarezza; si deve riconoscere, però, che lo stesso si può dire dei Padri della Chiesa e persino degli Apostoli e degli Evangelisti. I malevoli e i malpensanti ci sono e ci saranno sempre, e allora Erasmo, “che Dio ha colmato di beni particolari”, ha fatto bene a continuare il suo lavoro, lasciandoli abbaiare. Da una parte e dall’altra si esalta o si accusa Erasmo di aver aperto la strada ai luterani con le sue critiche, ma egli attaccava per riformare – ribatte More – e non per distruggere.
L’ultima lettera di More a Erasmo a noi pervenuta, l’Epistola 2831, risale al giugno 1533. Ad essa è unito uno scritto molto singolare: l’Epitaffio, composto da lui stesso per la tomba in cui intendeva riposare. Che More ne abbia inviato subito il testo a Erasmo, è un ulteriore segno del vincolo che unisce in modo unico l’olandese e l’inglese. L’epitaffio – che è in parte il testamento di sir Thomas More, e per altri aspetti il suo autoritratto – va preso in attenta considerazione. Dopo l’arguta affermazione iniziale, secondo cui la famiglia in cui era nato “non era nobile, ma degna di essere onorata”, More elenca rapidamente le tappe della sua carriera politica: Vice Sceriffo, membro del Consiglio del re, Cavaliere, Tesoriere, Cancelliere di Lancaster, Gran Cancelliere d’Inghilterra. Delle missioni diplomatiche ricorda solo quella che portò alla Pace di Cambrai, firmata il 15 agosto 1529, perché sapeva di aver dato un proprio contributo al suo buon esito. Parlando di sé in terza persona, More scrive infatti:
“Egli ebbe la gioia di veder realizzato ciò a cui aveva contribuito come ambasciatore: lo stabilirsi di nuove relazioni tra le più potenti monarchie del mondo e il ritorno a una pace generale, da tempo ardentemente desiderata. Possa il Cielo renderla solida e perenne!”
More si sofferma poi a rievocare amabilmente la figura del padre John – “uomo civile, piacevole, incapace di fare del male, dolce, misericordioso, giusto e integro” – e prosegue:
“Finché egli era vivo, il figlio appariva giovane agli altri e ai suoi stessi occhi, ma ora che il vegliardo è morto, guardando ai quattro figli e ai suoi undici nipoti, cominciò anch’egli a trovarsi vecchio. Questo stato d’animo, accresciuto dalla malattia di petto che fece seguito alla dipartita del padre, fu per lui un segnale dell’approssimarsi alla vecchiaia. Per questo, sazio di ogni cosa mortale, egli domandò che gli fosse concesso ciò che aveva sempre desiderato fin da quando era adolescente: avere, verso la fine della vita, alcuni anni di cui disporre liberamente, durante i quali, sottraendosi a poco a poco agli affari della vita terrena, potesse meditare sulla vita futura”.
More aveva fatto costruire la tomba per sé e per la seconda moglie, nella chiesa di Chelsea; ma quando nel 1532 vi fece trasportare anche le spoglie di Joan Colt, la sua chara muliercula (“cara mogliettina”), allora aggiunse alcuni versi scritti anni prima, in cui diceva di non sapere quale delle due mogli gli fosse più cara: Joan che gli aveva generato i figli, o Luisa che glieli aveva allevati. L’epigrafe chiude in modo imprevedibile:
“Come avremmo potuto vivere bene tutti insieme noi tre, / se il destino e la religione lo avessero consentito!” (O simul o juncti poteramus vivere nos tres, / quam bene si fatum religioque sinant! – Epigr. 258).
Il desiderio di More di riposare tra le due mogli non si realizzò, ma egli aveva la certezza che “la morte ci darà quello che non ha potuto darci la vita” (sic mors, non potuit quod dare vita, dabit – ibid).
L’invio al vecchio e fedele amico dell’epitaffio avrà il suo corrispettivo nella lettera che Erasmo indirizza al vescovo di Vienna Johann Faber verso la fine di quello stesso 1532: l’Epistola 2750, che ci dà il quarto ritratto di More – a completameno di quelli già scritti, da prospettive diverse, per Hutten, De Brie e Budé – e che costituisce un’esplicita, appassionata apologia dello statista cristiano proprio nel momento in cui veniva atrocemente calunniato.
8. Processo e morte di More
Era più che legittimo, dopo aver servito per tanti anni il suo Paese, disporre di un tempo riservato al recupero della salute e ad attendere, come diceva Seneca, ad maiora et meliora; i tre anni che vanno dal 16 maggio 1532 al 6 luglio 1535 saranno, invece, per More un periodo in cui sarà visitato dalla prova e dalla sventura. All’indomani delle dimissioni il partito protestante, guidato da Thomas Cromwell e al servizio di Anne Boleyn, tentò di screditare l’ex Cancelliere, accusandolo di crudeltà verso gli eretici. More si difese brillantemente nella sua Apologia, pubblicata nel 1533: egli era tenuto ad essere ereticis molestus, dovendo far rispettare le leggi dello Stato nei loro confronti, ma non permise mai, finché fu Cancelliere, che fossero torturati e nessuno di essi fu messo a morte. More rivendica con fierezza questo merito ed Erasmo, che su quel punto si era informato con scrupolo, è felice di scriverne a un altro statista cattolico, Johann Faber, vescovo di Vienna e stretto collaboratore di Ferdinando d’Asburgo, il fratello di Carlo V.
Sul divorzio del re e sul suo matrimonio con Anne Boleyn prima, durante e dopo il Cancellierato, More aveva imboccato la sola via – quella del silenzio assoluto e della resistenza passiva – che gli permetteva di non esporsi inutilmente e, nello stesso tempo, di non tradire la sua coscienza. Quella linea di condotta aveva anche una precisa motivazione religiosa che More formula così:
“Io non ho condotto una vita talmente esemplare da potermi senz’altro offrire alla morte. Forse Dio mi castigherebbe per una tale presunzione. Perciò non voglio essere io a farmi avanti; ma se sarà Dio stesso a chiamarmi, confido che, nella sua grande misericordia, non mancherà di darmi la grazia e la forza di cui avrò bisogno” (Ep. 207 Rogers).
L’ex Cancelliere finirà lo stesso col rimetterci la testa, ma ha l’umiltà e il buon gusto, l’intelligenza di non averlo voluto. Questo spiega perché egli, da grande avvocato qual era, abbia fatto ricorso a tutte le armi del diritto prima di dire pubblicamente, come avrebbe fatto all’ultimo processo, le ragioni per cui la coscienza gli vietava di giurare l’Atto di Successione. Otto giorni dopo la Pasqua del 1534, il 12 aprile, More era andato a Londra con Roper, il marito di Meg, e dopo aver assistito alla messa si era recato a salutare la figlia adottiva Margaret Giggs e suo marito John Clement a Bucklersbury, in quella casa che un tempo era stata la sua. Lì fu raggiunto da un funzionario incaricato di notificargli l’intimazione a comparire davanti alla commissione per il giuramento dell’Atto di Successione. More rientrò immediatamente a Chelsea e la sera si congedò dai suoi familiari. La mattina seguente, come faceva sempre prima di assumersi qualche alto incarico o di prendere qualche importante decisione, andò a messa nella chiesa di Chelsea. Non volle che la moglie e i figli lo accompagnassero come il solito all’imbarco, per dargli il bacio del commiato. La testimonianza di Roper è precisa:
“Chiuse con forza il cancello dietro di sé, lasciandosi tutti i suoi alle spalle. Poi, con l’animo oppresso, come appariva dal suo aspetto, salì nella barca con me e i nostri quattro servi, diretto a Palazzo Lambeth. Sedette in silenzio per un po’ di tempo, triste e abbattuto; poi, d’un tratto, mi si avvicinò e mi disse all’orecchio: Figliolo, grazie a Dio la battaglia è vinta. In quel momento io non capii cosa significassero le sue parole, ma, per non far brutta figura, risposi: Ne sono proprio contento, signore.”
Quelle parole stavano a significare che la decisione che metteva in gioco la sua stessa vita era stata definitivamente presa: la battaglia era vinta perché More aveva deciso di obbedire solo all’imperativo della sua coscienza, resistendo anche a ciò che un martire italiano della lotta di liberazione, Teresio Olivelli, chiamerà “la tentazione degli affetti”. I quattro giorni tra il rifiuto del giuramento a Palazzo Lambeth e l’incarcerazione alla Torre, More li passò sotto la custodia dell’abate di Westminster. Frattanto si tennero febbrili consultazioni, al più alto livello, sulla sorte da riservare all’ex Cancelliere.
Risulta dal documento 867, contenuto nell’ottavo volume delle Letters and Papers of the reign of Henry VIII, che More e Fisher avevano deciso, ognuno per conto proprio, di giurare, anche se con disagio, l’Atto di Successione con cui dal marzo 1534 si imponeva di riconoscere eredi legittimi al trono i soli figli nati dal matrimonio tra il re e Anne Boleyn; non lo fecero perché nel testo del giuramento era inclusa l’affermazione secondo cui il re è il Capo Supremo della Chiesa d’Inghilterra. I due amici, l’uno laico e l’altro vescovo, non morirono, dunque, per uno dei tanti annullamenti di matrimonio negato o concesso dalla curia romana, ma per questioni maledettamente serie: essi credevano nell’unità e nel carattere universale della Chiesa, nella libertà di coscienza e nella corretta laicità dello Stato, secondo la quale il capo politico non può essere nello stesso tempo il suo capo religioso. Essi sapevano, inoltre, da buoni inglesi, ciò che il primo articolo della Magna Charta esige dal re e dal Parlamento: Ecclesia anglicana libera sit («La Chiesa in Inghilterra sia libera»). Non avendo giurato, More e Fisher furono imprigionati nella Torre di Londra nella primavera del 1534 e sottoposti a processo.
Un mese e mezzo prima dell’arresto More, sollecitato da Cromwell il 1° febbraio 1534, si era detto pronto ad esprimere il proprio punto di vista, “secondo coscienza, con onestà e franchezza”, non appena il re glielo avesse chiesto, ma che non sarebbe mai venuto meno all’obbligo di fedeltà, manifestando in pubblico un eventuale dissenso. Espresso al re solo e per sua istanza, il dissenso si sarebbe ridotto a monito salutare, non a censura e tanto meno a tradimento (Ep. 197 Rogers). Nel nucleo inattaccabile della coscienza ogni singolo non può non continuare a pensare: se ha l’obbligo di tacere lo farà, ma senza piegarsi al conformismo e alla menzogna, salvando così la propria coerenza, sia pure muta.
In carcere, avendo più tempo per scrivere, More portò a termine il Dialogo del conforto, un’opera in inglese; negli ultimi mesi compose in latino Nell’Orto degli Ulivi. Non c’è più spazio, ora, per la polemica e la confutazione. More torna ai maestri della sua giovinezza – Pico, Colet e lo stesso Erasmo – e ritrova la vena sua più propria. Ma la galera gli dà modo anche di ricevere qualche lettera e di scriverne, soprattutto alla diletta Meg. Le Lettere della prigionia – diciannove in tutto, di cui due sono di Meg, due di Lady Luisa senior e una di Luisa junior – sono un documento storico di prima mano e gettano luce sul dramma dall’ex Cancelliere. Una lettera sopra tutte le altre attesta con radicale semplicità il primato che More riconosce alla coscienza personale: è la sua risposta a un prete, un certo Stephen Leder, che si era rallegrato con lui perché presto sarebbe uscito dal carcere, avendo capito che il giuramento non valeva la sua vita. More gli scrive:
“La notizia che si è diffusa è, grazie a Dio, pura invenzione. Confido che la grande bontà di Dio non permetterà mai che sia vera […]. Io non posso indurre la mia coscienza a pensare nei riguardi del giuramento diversamente da quello che penso […]. Sono certissimo che se dovessi prestare il giuramento, arrecherei un dolore mortale alla mia coscienza, ben sapendo che mai potrei indurla a pensare il contrario. In quanto alla coscienza degli altri, io non desidero occuparmene […]. Sua Maestà non crede che la causa del mio rifiuto risiede nella mia coscienza, e pensa che sia piuttosto frutto di un’ostinata caparbietà, ma l’unico ostacolo è proprio la mia coscienza che conosce Dio, al cui volere io affido tutta questa vicenda” (Ep. 213 Rogers).
Chi aveva scritto “di proprio pugno” tali parole espresse la stessa convinzione in una frase destinata a diventare meritatamente celebre:
“Io non ho mai affidato il peso della mia coscienza ad alcuno, nemmeno all’uomo più santo che oggi conosca” (Ep. 206 Rogers).
Uno dei testi più lunghi e commoventi delle Lettere della prigionia è il resoconto che Margaret fa alla sorella acquisita, Luisa Middleton, divenuta Lady Alington, del drammatico colloquio avuto col padre, nella cella del carcere, nel tentativo di indurlo a trovare una qualche via d’uscita per sottrarsi alla morte. Le argomentazioni di Margaret in quella lettera dell’agosto 1534 sono sue, appassionate e angosciose, e in esse non v’è traccia di reminiscenze letterarie; le risposte del padre, affettuose e lucidissime, convergono tutte a una sola, ineludibile conclusione: l’affermazione del primato della coscienza personale, perché è solo obbedendo fino in fondo ad essa che si compie la volontà di Dio. La parola “coscienza” ricorre quarantaquattro volte in quel testo, l’Epistola 206 Rogers; ma la si legge sedici volte anche nella lettera autografa, l’Epistola 200 Rogers, che More aveva scritto alla figlia il 17 aprile 1534, il primo giorno della sua detenzione. È spontaneo pensare al Critone platonico e a More come al Socrate cristiano, ma la perorazione di Margaret è ben più sottile e motivata di quella del buon discepolo e amico del protomartire della libertà di coscienza.
Nei quindici mesi di prigionia, si moltiplicarono i tentativi di fargli prestare giuramento e gl’interrogatori, ma inutilmente perché nessuno riuscì a piegarlo. A quel punto la regina Anne Boleyn, il suo clan che dominava a corte e nel governo e, in ultima analisi, lo stesso Enrico VIII decisero che bisognava farla finita con quell’uomo il cui silenzio era diventato assordante. L’ultimo processo per chiudere la faccenda fu celebrato il 1° luglio 1535, quando la testa di John Fisher da più di una settimana era esposta all’ingresso del Ponte sul Tamigi, ove rimarrà fino al 6 luglio, quando il boia isserà al suo posto quella di More. L’ex Cancelliere si presentò a quest’ultimo processo fisicamente prostrato, ma tenne testa ai giudici con la consueta ironia e con la sua competenza in campo giuridico. Audley, che presiedeva una corte di giustizia a cui era stato ordinato di assassinare legalmente More, si affrettò a pronunciare la sentenza della sua condanna a morte per tradimento senza neppure dare la parola all’imputato per la dichiarazione a sua difesa. Allora sir Thomas More, calmissimo e profondamente padrone di sé, come se fosse toccato a lui presiedere il dibattito, lo interruppe con parole che marcavano tutta la differenza fra il Cancelliere precedente e il suo successore:
“Milord, quando ero magistrato, era consuetudine chiedere all’imputato, prima della sentenza, quel che aveva da dire per impedire che il giudizio fosse pronunciato contro di lui” (W. Roper, op. cit.).
Essendo ormai decisa la sua morte, More volle allora dichiarare apertamente le ragioni per le quali era pronto a subire in tutta coscienza l’iniqua condanna:
“Milord, questa imputazione è basata unicamente su un Atto del Parlamento che è in diretto contrasto con le leggi di Dio e della sua Chiesa. La suprema giurisdizione della Chiesa non può, infatti, essere avocata a sé mediante una legge da alcuna autorità temporale: essa appartiene di diritto alla Sede di Roma, per quel primato spirituale che con la sua stessa parola Cristo nostro Salvatore, al tempo della sua presenza su questa terra, conferì unicamente a san Pietro e ai suoi successori, vescovi della stessa Sede” (ibid.).
Audley cercò di replicare che dal momento che i vescovi, le università e gli uomini più dotti del regno avevano sottoscritto quell’Atto, si meravigliava che lui, contro tutti, si irrigidisse nel suo rifiuto. More allora diede la sua risposta definitiva:
“Quand’anche il numero dei vescovi e delle università avesse tanta importanza quanto Vostra Signoria sembra credere, io non vedo affatto alcun motivo per cui tutto ciò dovrebbe portare qualche cambiamento nella mia coscienza. Io non ho il minimo dubbio che in tutta la cristianità, anche se non in questo regno, coloro che hanno la mia stessa opinione, tra i vescovi di più vasta dottrina e le persone di più alta virtù tuttora viventi, non sono una minoranza. Che se poi dovessi riferirmi a quelli che sono già morti, e di essi molti ora sono santi in paradiso, ho l’assoluta certezza che durante la vita terrena la massima parte di loro su questo punto la pensavano esattamente come penso io in questo momento. E perciò, Milord, io non sono tenuto a conformare la mia coscienza al concilio di un solo regno contro il concilio dell’intera cristianità” (ibid.).
Nel 399 a. C. Socrate non sarebbe stato condannato a bere la cicuta, se avesse accettato un qualche compromesso con la sua coscienza, o se avesse fatto domanda di grazia. Allo stesso modo More avrebbe potuto evitare la morte. Socrate e More, però, non lo fecero. Non spetta ai martiri, infatti, facilitare le cose ai violatori di coscienze.
Dopo il processo More fu condotto da Westminster alla Torre e durante il percorso, sul molo, insieme alla figlia adottiva Margaret Giggs, ora Lady Clement, lo attendeva Meg. Il marito William Roper ci ha descritto l’incontro tra il padre e la figlia prediletta:
“Appena lo vide, essa si inginocchiò reverente per ricevere la sua benedizione; poi, non curante di sé, aprendosi un varco in mezzo alla folla e al drappello delle guardie armate di lance e alabarde che si serravano intorno al padre, corse fino a lui, lo strinse a sé e, gettategli le braccia al collo, lo baciò davanti a tutti”.
Uno dei presenti ci racconta che Margaret, incapace di parlare, si aggrappava al padre, tenendolo strettamente abbracciato, mentre More le diceva: “Coraggio Margaret, non ti angosciare. È la volontà di Dio. Tu conoscevi da tempo i segreti del mio animo”. Roper aggiunge un altro particolare:
“Non bastando a Margaret di averlo potuto incontrare, quasi smarrita e interamente presa dall’affetto per il padre tanto amato, improvvisamente tornò indietro, corse di nuovo fino a lui, e di nuovo, gettandogli le braccia al collo, lo baciò ripetutamente con tutto il suo affetto”.
Passarono ancora cinque giorni prima dell’esecuzione. La vigilia More scrive con un carboncino l’ultima lettera alla diletta Meg:
“So di darti molta pena, mia buona Margaret, ma mi dispiacerebbe se tutto dovesse compiersi oltre domani, giorno in cui cadono la vigilia di san Tommaso [Beckett] e l’ottava di san Pietro. Mai ti comportasti in maniera che mi fu più cara dell’ultima volta, allorché mi abbracciasti, e mi piace che la pietà filiale e l’amore affettuoso possano permettersi di infischiarsi delle convenienze umane” (Ep. 218 Rogers).
Il 6 luglio gli viene comunicato, all’alba, che Enrico VIII ha ordinato di eseguire quello stesso giorno la sentenza: More sarà decapitato sulla collina di Tower Hill, nella grande piazza antistante alla Torre, invece di subire il supplizio dei traditori, che consisteva nell’appendere i condannati alla forca, ma facendo sì che rimanessero coscienti mentre erano squartati e sventrati. Come il martire Cipriano, More chiede che sia consegnata al boia una moneta d’oro, togliendola da quel poco che gli era rimasto. Probabilmente in obbedienza a ordini ricevuti, viene imposto a More di togliersi l’abito migliore che aveva voluto indossare per l’esecuzione e di vestire i poveri panni del suo servo. È quindi condotto, tra due ali di folla, al luogo dell’esecuzione.
Sale il patibolo alle 9 del mattino, appoggiandosi al braccio del Governatore della Torre, a cui regala un’ultima battuta: “Vi prego, signor Governatore, aiutatemi a salire, perché a scendere lo farò da solo”. Egli, che aveva il terrore del dolore fisico e che umilmente aveva temuto fino all’ultimo di poter cedere (Epp. 211 e 213 Rogers), affronta la morte con la regale libertà del martire. Il re temeva che aizzasse la folla, ma sir Thomas, nel dichiarare: “Muoio da suddito fedele del re e innanzi tutto di Dio”, chiede ai presenti di pregare per il sovrano perché Dio lo assista con buoni consiglieri. Racconta Thomas Stapleton:
“Quindi, inginocchiatosi, recitò a voce chiara il Salmo 50, il Miserere. Poi si alzò rapidamente e, quando il carnefice gli chiese perdono, lo baciò con grande affetto, dicendogli: – Tu mi rendi oggi un favore più grande di quello che nessuno mi abbia mai fatto o potrà farmi -. Il carnefice voleva bendargli gli occhi, ma egli disse: – Me li coprirò da solo – e lo fece con un fazzoletto che aveva portato con sé. Pose quindi egli stesso, con decisione, il suo capo sul ceppo. E subito gli fu tagliato”.
Il re aveva vietato ai familiari, e forse anche agli amici, di assistere all’esecuzione. Le cronache di altre esecuzioni ci descrivono il luogo del supplizio fin troppo affollato, ma per More non c’è neppure la presenza di un sacerdote a confortare gli ultimi istanti. Confuse tra la folla, però, c’erano la figlia Meg e Margaret Giggs. Saranno ancora esse, le due sorelle di latte, a provvedere alla sepoltura del corpo decapitato dell’amatissimo padre nella chiesetta di San Pietro in vinculis, incuneata tra le mura interne della Torre. La testa mozzata di More venne infissa su di una picca ed esposta sulla torretta del Ponte di Londra, a sostituirvi quella di Fisher. Lì stette per un mese. Quando stava per essere gettata nel Tamigi, Meg riuscì a farsela consegnare segretamente, pagando il carnefice che accudiva ai resti dei traditori. La tenne presso di sé fino alla morte.
Erasmo vorrebbe avere notizie dettagliate dall’Inghilterra, ma “la morte o il terrore chiude la bocca agli amici” (Ep. 3104); quanto riesce a sapere gli viene comunicato dall’ambasciatore di Carlo V, Eustachio Chapuys, o da altri corrispondenti non inglesi che risiedono sul continente. Solo il 24 agosto, a un mese e mezzo di distanza, viene a conoscenza del martirio di More. La commozione e lo strazio afferrano il suo animo, che non vuol darsi pace. Una settimana dopo Erasmo scrive al vescovo di Cracovia Pietro Tomicki:
“Dal frammento di lettera che ti invio saprai ciò che è accaduto al vescovo di Rochester e a Thomas More in Inghilterra, nazione che non ebbe mai uomini più santi e di maggior valore di quei due. Con la scomparsa di More, sento anch’io di aver smesso di vivere, perché noi due eravamo un’anima sola” (Ep. 3049).
Il mistero sarà illuminato dalla sua propria luce; se però è lecito, almeno in certa misura, associare al mistero della morte qualche ipotesi che non sia indegna di esso, ecco quella che più spesso mi torna in mente: quando cade il muro d’ombra, tra coloro che ci hanno preceduto a venirci incontro sarà chi abbiamo amato di più. Nella notte tra l’11 e il 12 luglio 1536, quando Erasmo concluse la sua giornata terrena, ad attenderlo c’era il “suo” More.
NOTA: testo tratto dal libro Erasmo da Rotterdam, Ritratti di Thomas More. Saggio introduttivo, traduzione e commento di Matteo Perrini, La Scuola, Brescia 2000, pag. 9-50.