Dialogo con Matteo Perrini a cura di Antonio Sabatucci
La prima volta si incontrarono a un pranzo a casa del sindaco di Londra. Era il 1499: Thomas More aveva vent’un anni, Erasmo da Rotterdam ne aveva circa trenta. Nacque in quell’occasione, favorita dal comune amico William Blount, barone di Mountjoy,un’amicizia che durò fino al 1535, cioè fino alla morte di More, decapitato sulla collina di Tower Hill, nell’ampia piazza antistante la Torre di Londra, per ordine di Enrico VIII. Furono trentasei anni intensi, vissuti nel cuore di un secolo segnato da gravissimi conflitti politici e religiosi, ai quali i due grandi umanisti parteciparono con la testimonianza di fede cristiana e di rigore intellettuale che costò loro il prezzo della solitudine e, nel caso di More, della vita. Ora, questa amicizia viene rievocata da Matteo Perrini nel libro: Erasmo da Rotterdam. Ritratti di Thomas More, edito dall’Editrice La Scuola , denso di documenti e di vicende spesso inedite, che ne rendono la lettura appassionante come un romanzo. Ne parliamo con l’autore.
Vuol dirci come è nata in lei l’idea di un libro che introducesse insieme nella nostra cultura Erasmo e Thomas More?
Ormai da parecchi anni mi propongo di pagare i debiti di gratitudine contratti in gioventù con quei maestri di umanità che hanno illuminato la mia esistenza. Finora ho cercato di farlo con Seneca, Agostino e Bergson; poi è venuto il turno della coppia più bella di amici, Erasmo e More, che sia dato incontrare nella storia. Bisognava finalmente parlare insieme di loro perché è in realtà impossibile scindere il nome di Erasmo da quello di Thomas More. Abbeverati alle medesime fonti e vissuti nella stessa epoca, essi furono legati da una di quelle simpatie totali la cui delicatezza si rivela in mille tratti affascinanti.
Nella cultura italiana non mancano certo opere di e su Erasmo e l’Utopia di More ha avuto grande fortuna. Eppure uno studioso e scrittore coltissimo, Claudio Magris, ha scritto che il suo libro rappresenta una novità assoluta. In che senso, dunque, vanno lette le parole di Magris?
Delle quattro lettere-capolavoro, in cui Erasmo parla del suo amico più caro e geniale, facendoci scoprire aspetti diversi della sua personalità, si conosceva in Italia, e non integralmente, solo quella a Hulrich von Hutten; le altre non erano state mai tradotte, né fatte oggetto di una lettura approfondita. L’idea di presentare insieme Erasmo e More attraverso documenti di prima mano e di narrare la storia della loro amicizia, con rigore ma senza pedanteria, mi ha conquistato e alla sua attuazione ho dedicato parecchi anni perchè il tempo si vendica sempre di ciò che si fa senza di lui. Quando avevo già consegnato all’Editrice bresciana il testo, ho saputo da Germain Marc’hadour, l’insigne maestro di studi moreani, che nel 2002 dovesse essere pubblicato a Toronto, in Canada, uno studio suo e di Roland Galibois analogo al mio, ma ci fu il fallimento della casa editrice.
Il racconto della straordinaria amicizia tra Erasmo e Thomas More le ha consentito di offrire un quadro d’insieme della cultura e della società europea agli inizi del Cinquecento.
Jacob Burckhardt nelle sue Meditazioni sulla storia universale considera il cammino umano essenzialmente come l’intreccio di tre fattori fondamentali: la politica, la cultura e la religione. Ebbene, Erasmo e More sono stati nella prima metà del Cinquecento protagonisti di primissimo piano nel triplice ambito della politica, della cultura e della religione. Le speranze, le rischiose battaglie e le sconfitte, le luminose anticipazioni dei due grandi umanisti collocano immediatamente il lettore nel cuore stesso della storia. Nel mio libro, nella terza parte, ho poi provveduto esplicitamente a ricostruire il profilo biografico di Erasmo e More in rapporto agli uomini e agli avvenimenti decisivi del loro tempo, che fu pure il tempo di Francesco I, Enrico VIII e Carlo V, di Leone X e Adriano VI, di Lutero e Zwingli, di Holbein il Giovane e di Albrecht Dürer. Mettere a fuoco il periodo più drammatico di crisi della coscienza europea all’alba dell’età moderna, cercando di cogliere le sfumature e i nessi evolutivi nelle idee e nella vita dei personaggi che costituiscono l’universo di More e di Erasmo, mi aiuta a capire a quali «sfide» quei due dovettero far fronte e come la qualità delle loro «risposte» ci dia la misura della loro grandezza.
In che cosa Erasmo e More erano tanto affini da esser detti «gemellini»?
Non pochi biografi lasciano spesso nell’ombra l’immagine di uno dei due amici per rendere plausibile le loro tesi interpretative. In effetti, a chi fa di More un modello di ortodossia alquanto rigida, la vicinanza dell’umanista che maneggiava l’ironia e la polemica graffiante come nessun altro può sembrare compromettente; d’altra parte, a chi vuol vedere in Erasmo uno scettico, o addirittura un Voltaire ante litteram, il ricordo del suo migliore amico, martire della fede cattolica, deve apparire ingombrante. In realtà, Erasmo e Thomas More erano diversi e nello stesso tempo inseparabili, al punto che per conoscere da vicino l’uno bisogna sempre interpellare l’altro.
Erasmo e More si somigliavano anche nell’aspetto fisico.
Erano assai simili per la taglia della corporatura, il colorito e l’espressione del viso, la pronuncia chiara e netta; e, sul piano spirituale, specialmente per la fedeltà alle amicizie e la cordialità del tratto. Essi amavano moltissimo lo scherzo e lo humour, e volevano restituire al cristianesimo quel senso di gioia e di festa che dovrebbe caratterizzare lo stile di vita di quanti credono nella resurrezione di Cristo. L’olandese Erasmo e l’inglese More diventeranno ben presto veri fratelli d’armi e avranno modo di conversare tante volte tête à tête et coeur à coeur e di intendersi perfettamente sui grandi temi del rinnovamento culturale, religioso e politico. Diversi erano i loro obblighi e i loro uffici – More, che era uomo di lettere, giurista e avvocato di successo, in futuro sarà diplomatico ministro e Lord Cancelliere – ma identico era il loro sentire. Del resto, come non vedere nell’Utopia la ripresa in campo politico e sociale dell’appassionata denuncia dei mali del proprio tempo fatta da Erasmo nell’Elogio della follia?
Si può dire che l’irruzione di Lutero sulla scena della storia fece sì che i due amici si differenziarono fra loro quando ognuno di essi dovette fronteggiare la questione luterana?
Erasmo, umanista riformatore, vide subito le potenzialità positive che la protesta di Lutero avrebbe potuto avere per il rinnovamento religioso, se portava avanti con spirito cristiano e con i mezzi che quello spirito comanda. Ogni volta che Erasmo pensa a Lutero o scrive di lui, abitano sin dall’inizio insieme nel suo animo la speranza più grande e la paura di vederla atrocemente vanificata. Lo stato d’animo di Erasmo fu quello di cercare un’onesta mediazione tra Roma e Wittenberg assumendo, finché fu possibile, un atteggiamento neutrale tra le due parti. Ma così facendo, andò incontro ad accuse ed incomprensioni, sospetti e amarezze da una parte e dall’altra. Ecco le parole di Erasmo, che rendono meglio di ogni tesi interpretativa la sua linea di condotta: «Non nego di cercare la pace ovunque è possibile. Credo di dover guardare a entrambe le parti con occhio aperto. Amo la libertà. Non posso e non voglio servire un partito. Ho affermato che non si può sopprimere tutto l’insegnamento di Lutero senza sopprimere il Vangelo; ma per il fatto che io abbia appoggiato Lutero all’inizio non vedo perché si debba pretendere che io approvi tutto ciò che ha detto in seguito» (Opera omnia, Leiden 1703 – 1706, vol. X, 1637 – 1638 B).
Quale fu invece l’atteggiamento di More?
Nel contrapporsi alle nuove dottrine, More è pur sempre l’intellettuale che vuol capire e il cattolico che vuol rafforzare in sé e negli altri la fede che professa; ma egli è anche il politico che vuol risparmiare al suo Paese i disordini sociali che in Germania hanno accompagnato la rivoluzione religiosa e, nello stesso tempo, salvaguardare il vincolo di unione della Chiesa d’Inghilterra alla Chiesa di Roma. Erasmo e More concordano perfettamente nel prevedere la rottura dell’unità religiosa, combinandosi con le rivalità politiche, avrebbe portato alle guerre di religione. Essi si chiedono, sgomenti: se si dovesse arrivare a quel punto, quanti spaventosi misfatti saranno commessi in nome della fede e quanto tempo ci vorrà prima che la pace tra i cristiani possa essere ristabilita?
C’è, però, una reale differenza fra Erasmo e More su un aspetto non secondario: dinanzi all’attacco luterano More pone tra parentesi, pur senza mai sconfessarle, le grandi polemiche del passato. Per Erasmo, al contrario, quelle polemiche non appartengono affatto al passato, anche perché le aggressioni dei conservatori al suo onore cristiano sono diventate assi più numerose e violente proprio con l’esplodere della protesta luterana. Erasmo non concede nulla, avverte il dovere di non dimenticare e di contrastare attivamente fino all’ultimo, ribattendo colpo su colpo, quel «partito» la cui prevalenza – nelle università, nella curia romana, fra i teologi, nella predicazione e negli ordini religiosi tradizionali – aveva dato, sia pure praeter intentionem, un contributo enorme al successo di Lutero.
More venne definito da Robert Whittnton un uomo per tutte le stagioni. Oggi quell’espressione, di solito applicata a qualche politico, suona in senso dispregiativo. Con quale significato quella definizione venne usata allora nei confronti di More?
Come fosse giudicato More, e non solo nella cerchia degli umanisti, lo si capisce dai mille aneddoti che fiorirono intorno alla sua figura come uomo di spirito e magistrato integerrimo, ma anche da alcuni particolari significativi. Il personaggio More, ad esempio, balza con netto rilievo persino da una guida all’apprendimento del latino, in cui il grammatico Robert Whittinton, prendendo dall’attualità gli esempi per una versione, nella parte posteriore del foglio 15 parla di Thomas More in questi termini: «Ha l’intelligenza di un angelo e una singolare sapienza; io non ne conosco una pari alla sua. Dove trovare tanta dolcezza, umiltà, gentilezza e, secondo le circostanze, grave serietà o allegrezza straordinaria? Egli è un uomo per tutte le stagioni». La frase finale a man for all seasons – certamente improntata all’espressione cum omnibus omnium horarum homo, «un uomo di tutti in ogni momento», che Erasmo usa nella lettera di dedica all’amico dell’Elogio della Follia – è divenuta la definizione più popolare e classica a un tempo di More. Essa sta a significare sia la sua perfetta disposizione ad essere all’altezza di ogni situazione, fino a quella suprema del sacrificio della vita, sia la possibilità per gli uomini di qualsiasi epoca storica di incontrare More e di accoglierlo per molte buone ragioni come ideale compagno di viaggio.
Che cosa la autorizza a scorgere decisamente in Erasmo l’antesignano dello spirito ecumenico?
Erasmo, coscienza critica e un po’ anche enfant terrible della Chiesa cattolica, rimane sempre in essa, ma ebbe discepoli e amici sinceri nei due schieramenti e il termine «erasmiano» stette a significare uno spirito che cerca e costruisce la pace, rifiuta il fanatismo e non rinuncia alla grande speranza di ricomporre l’unità religiosa tra i seguaci di Cristo. Erasmiano fu detto allora anche chi lavorava alla reciproca convivenza delle confessioni cristiane all’interno di uno stesso Stato. La Confessio augustana del 1530 – quando Erasmo e More erano ancora in piena attività – e la Dieta di Ratisbona dieci anni dopo, nel 1540, quando i due amici erano entrambi morti, resero visibile all’Europa e alle due Chiese la larghezza di vedute e il coraggio degli erasmiani. L’erasmismo ha costituito comunque, nell’ampio arco di quasi mezzo millennio, un punto di riferimento alto per la coscienza cristiana, una fonte d’ispirazione per l’ecumenismo, una vera e propria «magistratura spirituale», come ha scritto felicemente Roland Bainton. L’irrefrenabile avversione che Lutero nutrì fino alla sua morte nei confronti del grande olandese non può farci dimenticare che Erasmo aveva visto giusto nel cogliere le esigenze profonde da cui era nata la protesta e l’anima di verità che si celava nelle stesse «iperboli teologiche» del riformatore di Wittenberg. Agli occhi di Erasmo, Lutero, malgrado il suo linguaggio aggressivo ed estremo, ha avuto un grande merito, ha posto la Scrittura nelle mani del popolo cristiano e ha proclamato la gratuità della salvezza, facendo riscoprire a tutti i cristiani che la grazia di Dio, lungi dall’essere meritata, è essa stessa la sola sorgente possibile di un merito che non sia illusorio. Dopo il Concilio Vaticano II questi giudizi sono largamente condivisi nella Chiesa cattolica e nelle Chiese evangeliche. Ben pochi, però, sanno ancora oggi che a formularli alcuni secoli prima fu Erasmo.
Come mai, secondo lei, le ideologie marxiste non si sono appropriate del pensiero di More, considerando che egli nell’Utopia vagheggiò e descrisse una società comunista?
Secondo il giudizio di uno dei maestri del socialismo europeo, Karl Kautsky, More ha sostenuto nell’Utopia la tesi della comunione dei beni e, dunque, l’abolizione della proprietà privata. Ma più che sul collettivismo, che è degli utopiani ma non dell’inventore di Utopia, il Kautsky insiste soprattutto nel presentare More come «il politico dell’uguaglianza e dell’equità, l’uomo di genio che si rese conto dei problemi della propria epoca prima ancora che sorgessero le condizioni atte a risolverli». In realtà quella piccola, grande opera di More ha molti strati, com’ebbe a scrivere giustamente Luigi Firpo, e ogni interpretazione riduttiva ne impedisce non soltanto la comprensione,, ma anche l’approccio.
In che senso l’Utopia è da lei definita una «parabola» della società futura?
L’Utopia è un’opera assai complessa, perché il suo autore fa di un racconto fantastico una vera e propria «parabola metastorica» ricca di profondi significati. Egli indugia a descrivere la mescolanza di acuta razionalità e stravagante insensatezza, che caratterizza la società degli utopiani, perché l’elemento fabulatorio ha uno scopo ben preciso: il viaggio-finzione deve apparire a volte assai poco credibile per aprire più agevolmente il varco alla diagnosi severa dei mali della società e per inaugurare un nuovo tipo di riflessione sui problemi di così grande importanza. Ciò permette a More di avere una maggiore libertà di espressione e, nello stesso tempo, di ribadire che il suo pensiero non è sic et simpliciter quello del protagonista dello scritto, il misterioso navigatore Itlodeo. La connotazione enigmatica data al racconto ha colpito in ogni tempo l’immaginazione dei lettori, ma non deve farci dimenticare il forte messaggio di quell’opera: More ha individuato le tare del mondo moderno, e la maggior parte dei problemi che ne derivano, nella concentrazione del potere politico e della ricchezza, nella spietatezza dei rapporti sociali, nel bellicismo criminale, nella frenesia del danaro «unica misura di tutte le cose», nella riduzione dell’uomo a ciò che produce.
Quale fu il giudizio di Erasmo nei confronti del libro?
In realtà chi ci offre la chiave di lettura di Utopia e del suo preteso comunismo è che Erasmo, in un passo dell’Epistola 999, scrive che More, volendo mettere alla prova la sottigliezza del suo ingegno e la sua capacità dialettica, difendeva tesi che sono proposizioni volutamente espresse in modo estremo e provocatorio. Gli adoxos, gli argomenti fuori dal comune, che More sceglie come test sono quelli che più colpiscono i lettori della Repubblica platonica: la proibizione per le sole classi superiori di ogni proprietà e quella, ancora più decisa, di una vita familiare. Occorre quindi chiedersi quali verità Platone voleva affermare per loro tramite. Il discepolo di Socrate voleva tenere lontano nel modo più radicale dalla politica i detentori del potere economico-finanziario ed eliminare la confusione tra interesse pubblico e interessi privati, o familiari. Insomma, è nella plutocrazia e nel primato esclusivo del «particulare» a spese del bene comune che Platone individua la causa principale della corruzione e dell’ingiustizia che portano tutte le società, e in particolare le democrazie, alla rovina. In questo duplice imperativo, che è etico e politico a un tempo, More ed Erasmo concordano in pieno tra loro e col filosofo ateniese. Ben diverso è il discorso riguardante la configurazione mitologica che Platone dette al suo Stato ideale: essa non è solo cosa del tutto secondaria e discutibile, ma spesso contraddice apertamente alla vigorosa affermazione di quei valori che nella stessa Repubblica e in altre opere sono riconosciuti come il fondamento di ogni giusta comunità politica. I due umanisti cristiani sanno che lo spontaneo mettere in comune i propri beni nelle prime comunità della Chiesa nascente non può tradursi in obbligo giuridico; ma essi pensano che da quella esperienza eccezionale, che è squisitamente religiosa, possa giungere a tutti un appello a cercare ovunque le vie della fratellanza. Nel primo degli Adagi Erasmo giudica negativamente il modo in cui «i cristiani lapidano Platone» invece di cogliere quello che c’è di profondo nei suoi paradossi.
Che cosa c’è di attuale, oggi, nell’opera di More e di Erasmo?
Tra le molteplici ragioni, oltre a quelle già illustrate, della rilevanza attuale del messaggio di Erasmo e di More, ne segnalo altre due: l’aver posto all’ordine del giorno la questione femminile e l’affermazione del primato della coscienza. Una delle quattro lettere da me tradotte, l’Epistola 1233, indirizzata al leader degli umanisti francesi, Guillaume Budé. è interamente dedicata a celebrare l’ardita utopia domestica, realizzata da More marito e padre, con la quale si apre finalmente la via a un mutamento epocale: l’accesso delle donne alla cultura superiore – umanistica, scientifica e religiosa – e dell’arte. Erasmo si converte alle idee di More sull’educazione delle donne e riconosce che in quel campo l’inglese ha una netta superiorità su tutti gli altri riformatori, perché egli solo ha capito che il posto della donna cambierà nella famiglia, nella società e nella Chiesa solo se essa avrà il modo di esplicare al più alto livello la propria missione unica e insostituibile.
Erasmo e More sono all’origine di quanto di meglio si sarebbe affermato nell’età moderna, soprattutto perché essi conferiscono un vero e proprio primato alla coscienza personale. Nell’ultimo dei Ritratti di Thomas More, nell’Epistola 2750, Erasmo raccomanda a Johann Faber, il vescovo della capitale asburgica, di non cedere alla tentazione di accendere roghi e di adoperarsi al riconoscimento di un effettivo pluralismo religioso, anche se a Vienna la situazione era particolarmente difficile perché i principi luterani tedeschi erano alleati dell’Islam invasore. In quella stessa lettera Erasmo difende dalle calunnie More il quale, quand’era Lord Cancelliere, riuscì a far rispettare le leggi contro gli eretici, com’era suo obbligo, e a vietare assolutamente il ricorso alla tortura e alla pena capitale perché, in ultima analisi, la persona viene prima delle dottrine professate. La tragica vicenda di More, d’altra parte, non può essere compresa se non ricordiamo che la parola chiave della lettere che egli scrisse nella prigionia è «coscienza». Quel termine si legge sedici volte nell’Epistola 200 di More, quarantaquattro volte nell’Epistola 206 e ricorre di continuo nell’Epistola 213. More non pretende di giudicare la coscienza degli altri, neppure quella di coloro che lo condannano, ma, per quanto riguarda se stesso, esprime il suo intimo convincimento con questa frase indimenticabile: «Io non ho mai affidato il peso della mia coscienza ad alcuno, nemmeno all’uomo più santo che oggi conosca» (Ep. 206 Rogers).
Nel suo saggio sull’itinerario filosofico di Bergson, premesso al volume Le due fonti della morale e della religione (La Scuola, Brescia 1996), Lei cita questa espressione molto forte del pensatore francese: «Tutta la mia attività filosofica fu una protesta». Contro che cosa ha inteso anche lei protestare affrontando un lavoro così impegnativo, come quello di presentare insieme per la prima volta Erasmo e More attraverso la lettura approfondita di lettere-ritratti finora mai fatti oggetto di studio, né in Italia né altrove?
Nel mio animo stanno insieme due sentimenti: da una parte, avverto il bisogno profondo di dire grazie a chi ha dato molto a me e, più ancora, alla famiglia umana; d’altra parte, a indurmi a questo tipo di lavoro c’è anche il desiderio di rompere clichés consolidati e di confutare giudizi ingiusti. Nel caso di More si trattava di documentare e difendere l’amicizia con Erasmo da Rotterdam; ma di lui occorreva anche recuperare la straordinaria umanità, la coscienza del ruolo del laico cristiano nella Chiesa e nella società civile, l’umorismo finissimo e giocoso, l’acutezza del pensatore politico. More non è un clericale, ma un autentico laico cristiano libero e fedele, «appartenente a pieno titolo all’ordine degli ammogliati» (Ep. 999), come dice con forza Erasmo. Occorreva, infine, far conoscere un aspetto ancora oggi poco noto: More è il vero iniziatore e patrono del femminismo cristiano.
Quanto poi a Erasmo, le inesattezze e le infondate malignità scritte sul suo conto dovevano avere una risposta serena, sostituendo finalmente alle illazioni arbitrarie la inoppugnabilità dei documenti, primo fra tutti il monumentale Opus epistolarum di Erasmo, messo continuamente a profitto in questo lavoro. Insomma, a quei due andava restituito l’onore che si deve alla loro eccezionale grandezza. Uomini di quella levatura, che sotto tanti aspetti hanno anticipato di quattro secoli e mezzo il Concilio Vaticano II, non potevano non avere avversari e incontrare incomprensioni. Ma essi sono i veri iniziatori della coscienza moderna in ciò che essa ha di più nobile.
Studium, novembre-dicembre 2000. Il testo completo di note è reperibile nel file allegato.