Il testo del professor Matteo Perrini “Erasmo da Rotterdam. Ritratti di Thomas More” si lascia leggere con grandissimo piacere: incantevole, affascinante e avvincente per il modo in cui è scritto. è formato da quattro ritratti da parte di Erasmo, ma un quinto ritratto è quello dell’autore, che egli offre a questi due grandi amici, essendo egli diventato partecipe della loro amicizia.
Vorrei soffermarmi su un aspetto che è presente come sfondo nel libro, cioè la situazione religiosa del tempo, la proposta di Erasmo nel suo incontro con il mondo inglese, il rapporto che lega Erasmo e lo distingue da Lutero, e infine la scoperta della coscienza, intesa come principio della modernità.
Erasmo, More, Colet, e tutti gli umanisti avvertono ormai che è giunto il tempo di trasformare radicalmente la Chiesa.
In Erasmo poi questa esigenza di riforma diventa un’ansia di evangelizzazione, una volontà di formare sia il cristiano che il teologo. Egli è convinto, secondo l’espressione della Lettera ai Romani di Paolo, che la fede nasca dall’ascolto della predicazione (fides ex auditu); ma chi sono i predicatori in quella società?
La vita monastica pare ad Erasmo assai lontana dalla gente; l’esperienza di santità e di vita spirituale coltivata nei monasteri è troppo lontana dalla vita comune del laico, che è sposato, ha figli, lavora.
Il clero, basso o alto che sia, appare attratto da ideali che propriamente non coincidono con quelli della predicazione del Verbo: il basso clero aspira a far carriera, magari anche attraverso la formazione ottenibile dalle università e tramite i riconoscimenti accademici, mentre l’alto clero è troppo preoccupato del proprio potere, data la fortissima connessione tra potere civile e potere religioso, per cui i vescovi sono a tutti gli effetti principi.
D’altra parte le linee portanti della teologia che viene coltivata all’interno delle scuole sono troppo astratte, peccano di formalismo, di nominalismo; si vanno ad inseguire problemi minuscoli, questioni di tipo scolastico che non comunicano la Parola come verità da vivere.
Allora ecco emergere da parte di tutti questi umanisti, e alla fine questo discorso diventa assolutamente maturo in Erasmo, il desiderio di ritornare alla Scrittura, un desiderio alimentato oltretutto dalla spinta culturale nuova che veniva dall’Umanesimo, in cui era predicato proprio un “ritorno alle fonti”, ad fontes: le fonti come la possibilità di ricreare la mentalità cristiana, il contatto immediato e diretto con la Scrittura, non più soltanto per pochi eletti.
Il ricchissimo movimento della “devotio moderna” aveva fatto scuola in tal senso, facilitando l’accesso alla Scrittura ai molti laici nelle cosiddette “case della vita comune”, abitate appunto non solo da sacerdoti ed ecclesiastici ma anche da uomini e donne laici. Ma a questo movimento, che poteva in parte richiamarsi alla religiosità medievale e al “gusto” della lettura della lectio divina, che si trova ad esempio nella scuola benedettina da sempre, mancava un ritorno effettivo e competente alle fonti.
è proprio questo che Erasmo richiede, ed egli lo richiede non soltanto per la gente comune ma anche per coloro che si formano in vista dell’annuncio della parola. Dunque è nella testa di Erasmo la volontà di una riforma del metodo teologico: la teologia non deve esser più semplicemente fatta attraverso un’infarinatura di ordine filosofico, attraverso la conoscenza della scolastica, bensì deve nascere prima di tutto da un contatto immediato e insostituibile con la Rivelazione, depositata nella Scrittura e commentata dai padri della Chiesa, padri greci e padri latini.
Risulta quindi necessario conoscere le lingue, ovvero il latino – epurato dalle bassezze linguistiche verso cui si era volto il medioevo – in cui si riscopra il gusto dei classici, il greco ed anche lo stesso ebraico: le lingue che consentono di comprendere il testo originale della Scrittura.
A questo scopo erano già nate nell’ambiente umanistico tra la fine del ‘400 e l’inizio del ‘500 delle scuole che facilitavano l’accesso alla Scrittura nella sua lingua originale. Famoso è il collegio trilingue di Alcalà, che si deve all’iniziativa di Francisco Ximenes de Cisneros, il cardinale che in seguito ebbe l’idea della Polyglotta Complutense, l’edizione della Bibbia scritta nelle sue lingue originali e affiancata da diverse traduzioni.
La Polyglotta Complutense era già pronta ancor prima che Erasmo pubblicasse nel 1516 il suo Novum Instrumentum Omne in Novum Testamentum, questo “nuovo strumento”, che consisteva nell’edizione critica greca dei testi del Nuovo Testamento affiancata da una revisione della traduzione della vulgata che nasceva appunto dall’impegno filologico critico di Erasmo. Ma, pur essendo come detto pronta prima, la Polyglotta Complutense non fu pubblicata fino al 1520, ovvero alcuni anni dopo l’opera di Erasmo, non avendo fino ad allora ricevuto le autorizzazioni del Vaticano, il quale d’altra parte facilitò la pubblicazione del Novum Instrumentum di Erasmo.
Le scuole di questo genere si moltiplicarono: dopo Alcalà nel 1502, sorge il Collegio dei Giovani Greci, voluto da Leone X a Roma nel 1513, e finalmente nel 1517 alla realizzazione del progetto che Erasmo aveva in testa, da parte del prete di Lovanio Gerolamo Busleiden che lascia nel suo testamento i fondi per istituire un Collegium Trilingue che comincia a funzionare nel 1518, formato da gruppi di studenti che si dedicano allo studio delle tre lingue fondamentali. Il famoso College Royale de France dovuto a Guillaume Budé, uno dei grandi umanisti ai quali poi Erasmo dedica uno dei ritratti di More, nasce nel 1530, sempre con lo stesso fine, quello del recupero umanistico dei testi non solo classici antichi ma anche dei testi della cristianità.
Un altro esempio di questa tradizione è nel 1603, quando il cardinal Federico pone la prima pietra della biblioteca ambrosiana a Milano e vuole che contemporaneamente nasca anche un collegio trilingue.
Lo scopo perseguito da questa cultura e teologia umanistica era quello di cogliere il senso profondo e irrinunciabile della Scrittura per vivere di esso, e non soltanto per “speculare” su di esso: non soltanto speculare sulla Verità ma vivere la Verità.
La rivelazione ha infatti proprio questo di assoluto: è una verità di sua natura pratica, deve essere “fatta”, “vissuta”, “operata”; la verità va dunque raggiunta nel testo, amata, assimilata, praticata, vissuta.
Lo studio umanistico della Scrittura in questi termini fu guadagnato attraverso tappe successive: Valla cominciò ad apporre alcune glosse al testo latino della Vulgata di Gerolamo; Faber Stapulensis si spinse oltre, cominciando sulla basse del greco a dare una propria versione dei testi, almeno per quanto riguarda San Paolo.
Erasmo compì l’opera: non si accontentò di alcune glosse alla Vulgata, non si accontentò di tradurre direttamente dal greco, ma fornì il Novum Instrumentum, cioè una redazione scientifica, per quanto poteva esserlo a quel tempo, dell’intero Nuovo Testamento.
Questo divenne lo strumento ufficiale per tutte le scuole di teologia: Lutero stesso, che nel 1516 era impegnato a commentare la Lettera di Paolo ai Romani, giunto al capitolo ottavo abbandonò gli altri strumenti, i testi in greco o in latino, e si buttò nel confronto vivo con l’edizione critica greca che ormai Erasmo aveva redatto definitivamente.
Lutero condivideva l’opinione di Erasmo secondo cui si fosse resa necessaria una riforma della cristianità, ma tra i due non ci fu mai un’intesa.
In un primo momento il mondo luterano cercò di conquistare e coinvolgere Erasmo, tant’è vero che Lutero è sempre disposto a riconoscere ad Erasmo il primato assoluto nell’ambito della filologia; egli afferma di essere un “uomo che vive nelle selve”, dotato di un latino semplice e popolare rispetto a quello forbito e ben costruito di Erasmo, un vero maestro della lingua, e con questo elogio tenta di conquistare Erasmo a sé, alla causa della riforma, per come però egli la intende, ovvero una riforma che non si addentra soltanto nelle questioni disciplinari e organizzative della Chiesa, bensì anche nei contenuti dogmatici.
Non riuscendo ad avere Erasmo dalla propria parte, ad un certo punto Lutero gli chiede di assumere perlomeno un atteggiamento di neutralità, senza interferire nel dramma che colpisce la cristianità.
Infine, quando Erasmo, attirato da più pontefici e cardinali, entra definitivamente nella lotta nel 1524 con il De Libero Arbitrio, ecco scattare l’offensiva di Lutero l’anno successivo che, con il De Servo Arbitrio, cerca ormai di annullare l’avversario dal punto di vista teologico, accusandolo di esser solo un filosofo, che non afferma niente di proprio ma si esprime mettendo insieme testi antichi e parole già espresse, arrivando addirittura a parlare del Cristianesimo senza nominare Gesù Cristo.
Da queste forti prese di posizione è nata tutta una corrente storiografica e filologica che si è impegnata nel tentativo di sminuire il contributo teologico di Erasmo, facendo di lui semplicemente un umanista, il quale dunque penserebbe che all’uomo tutto è possibile. Addirittura è “quasi possibile” ottenere la salvezza: occorrerebbe solo un piccolo aiuto esterno, la Grazia, la quale andrebbe semplicemente assommata alle buone qualità dell’uomo.
Se così fosse, il discorso cristiano in Erasmo risulterebbe molto debole, si tratterebbe solo di una “condizione aggiuntiva”, per un uomo già completo in se stesso, a prescindere da Cristo e dalla redenzione attraverso di Lui.
Ma così non è: oggi più che mai la storiografia si rende conto che Erasmo è stato un vero cristiano, un vero “amante di Gesù Cristo”. Tutto il tema teorico del suo rinnovamento della teologia può raccogliersi sotto la tesi della Philosophia Christi, ed essa non è semplicemente una conoscenza naturale del Vangelo, ma è una conoscenza profonda di Cristo, amato, assimilato, vissuto, a partire dal dato immediato che si incontra nella Scrittura.
Se polemicamente nel 1525 Erasmo aveva affermato il libero arbitrio, dunque la libertà dell’uomo, magari appuntando la sua attenzione principalmente sulla questione filosofica della libertà di scelta, trascurando in un certo senso la questione della grazia, lo aveva fatto soltanto perché dall’altra parte polemicamente Lutero aveva negato all’uomo la possibilità di essere libero. Lutero aveva affermato questa schiavitù dell’arbitrio nei confronti della possibilità di salvarsi non negando in tutto e per tutto la libertà dell’uomo, ma affermando che dal punto di vista soteriologico, cioè dal punto di vista della propria salvezza, l’uomo non è più libero da solo di guadagnarsi la propria salvezza, e in questo senso intendeva contrapporsi a Pelagio, non negare sic et simpliciter la libertà dell’uomo.
Dunque i due entrarono in un certo equivoco, un fraintendimento, per cui fu facile a posteriori costruire in maniera caricaturale la figura di Erasmo come il difensore del libero arbitrio e la figura di Lutero come difensore della libertà schiava dell’uomo, senza però tenere conto di tutte le sfumature e i contesti diversi dentro i quali i due affrontavano e difendevano anche la libertà dell’uomo.
Erasmo si sforza di costruire ed affermare la libertà dell’uomo a prescindere dalla grazia, come se la grazia non ci fosse, Lutero afferma la grazia come se l’uomo non fosse libero, ma entrambe le posizioni sono astratte, cioè sono costruzioni dialettiche esasperate.
Con Erasmo, More e Lutero si può dire nasca l’epoca moderna, o perlomeno un principio basilare dell’epoca moderna, quello dell’affermazione della libertà di coscienza.
Si tratta di un’affermazione di principio che troviamo in More quando non si appella ad altro che alla sacralità della sua coscienza: “Io non mi affido, non affido mai, non ho mai affidato, il peso della mia coscienza ad alcuno, nemmeno all’uomo più santo che io oggi conosca”.
E quella di More è d’altra parte una coscienza che si radica nel terreno fecondo e vitale della Chiesa; egli infatti afferma che la sua coscienza che lo porta a mantenersi fermo nella sua posizione non cedendo alla firma è una coscienza che “non è tenuto a conformare al concilio di un singolo regno contro il concilio dell’intera cristianità”.
Lo stesso appello alla coscienza, se pure su posizioni differenti, lo si trova in Lutero quando, nel 1521, alla Dieta di Worms, incalzato da Eck affinché riprovi i sui scritti e le sue idee, egli risponde: “A meno che io non sia convinto con la Scrittura e con alcuni chiari ragionamenti, poiché non accetto l’autorità dei papi e dei concili che si sono contraddetti l’un l’altro, la mia coscienza è vincolata alla Parola di Dio”.
Anche in questo caso emerge il principio assoluto dell’affermazione della coscienza come tribunale ultimo a cui fare appello al momento di una decisione estrema, non più però una coscienza che immediatamente si concorda con la totalità della Chiesa all’interno della quale viene interpretata la Scrittura, ma una coscienza che a questo punto si rapporta immediatamente e direttamente alla Scrittura, accettando anche il confronto con gli altri, ma sempre unicamente sulla base della Scrittura, dunque al di fuori delle interpretazioni magistrali di vescovi, papi o di interi concili.
Il principio della coscienza che coincide con la persona viene affermato in maniera esplicita, se pure posto in maniera indiretta, da espressioni assolutamente chiare di Erasmo nella sua lettera a Faber, vescovo di Vienna. Erasmo elogia More, e parla della grande clemenza che egli aveva durante il suo cancellierato: “sotto il suo cancellierato nessuna sentenza di pena capitale è stata pronunciata a causa di una condanna dottrinale”.
Questa espressione fugace è la “summa” del discorso della tolleranza religiosa della modernità: More ha capito che se pure sono commessi errori dottrinali, esiste sempre una verità, un valore che va salvaguardato: la prima verità è il valore della persona, che non può essere condannata insieme con la dottrina e con l’errore.
Uomini come More e come Erasmo hanno scoperto in anticipo questa differenza, che solo col passare dei secoli è entrata nel bagaglio comune dell’umanità: l’uomo, la singola coscienza, la persona, è la “prima verità” che deve essere comunque salvaguardata, protetta, rispettata, al di là delle dottrine che un uomo professa.
È il principio della tolleranza, il principio in forza del quale appunto non si può condannare il peccatore insieme con il peccato, non si può condannare chi sbaglia insieme con l’errore.
È il principio attraverso il quale si smette di procedere per inquisizione e si entra in un rapporto di dialogo e di confronto sulla verità rispettando comunque la persona, che è portatrice della verità ma anche dell’errore.
NOTA: Testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia l’1.3.2000 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.