1. L’obbiettivo. Dobbiamo qui parlare, all’interno dell’ambito più ampio dell’educazione civica, dell’educazione alla cittadinanza digitale. Non è il solo aspetto dell’educazione alla cittadinanza richiesto dalla legge 92 del 2019. È infatti una formazione a tutto tondo di ciò che significa essere cittadini oggi ciò che in essa viene richiesto: cittadini del nostro Stato, con la conoscenza delle sue leggi e della condizione fondamentale di esse, cioè la Costituzione, e con una specifica attenzione agli aspetti dell’educazione alla legalità; cittadini del mondo reale, con i suoi processi economici, sociali e con la consapevolezza di tutte le conseguenze, sul piano delle ricadute ambientali e della sostenibilità dei processi, delle nostre singole azioni; cittadini degli ambienti digitali, di cui pure facciamo parte e da cui, anzi, sempre più siamo assorbiti.
Di tutto ciò dobbiamo tenere conto, dato che oggi la nostra “città”, e dunque la dimensione civica che viene richiesta per i nostri comportamenti, si è enormemente ampliata. Io, come dicevo, mi concentrerò sull’aspetto della cittadinanza digitale. In questo corso altri colleghi affronteranno invece gli altri aspetti. Il mio tema lo tratterò, inoltre, da un punto di vista che è quello mio proprio, che è collegato a ciò che insegno. Mi riferisco all’approccio filosofico. Si tratta, più in particolare, di un approccio etico.
Affrontare il nostro tema da questi punti di vista – filosofico ed etico, proprio per rendere utile questa riflessione ai tanti docenti impegnati a ripensare didatticamente l’insegnamento dell’educazione civica – può significare almeno due cose. Per un verso, può fornire l’analisi di ciò che cambia e di cosa c’è di nuovo nello scenario d’interazioni che costituisce oggi la dimensione della cittadinanza, e consentire così un approfondimento e una discussione di quella mentalità condivisa che contribuisce a formare il cittadino nel contesto che stiamo vivendo. Per altro verso, può indicare e giustificare quei criteri e quei principî che permettono alle persone, nello scenario preso in esame, di essere considerati “buoni” cittadini, e far vedere come e perché tali criteri e principî possono essere sia insegnati, sia applicati nei vari contesti sociali e civili.
A entrambi questi aspetti cercherò, sia pur brevemente, di dedicarmi nel mio intervento. Tenterò, in altre parole, di mettere a fuoco, anzitutto, 1. alcune questioni per molti versi nuove, che intervengono oggi nella definizione della cittadinanza e in relazione alle quali è possibile parlare appunto di “cittadinanza digitale”. Cercherò poi 2. di mostrare non solo la necessità, ma soprattutto l’urgenza di fornire un orientamento anche rispetto a tali questioni, quale compito di un’educazione alla cittadinanza nell’attuale scenario. Mostrerò infine 3. che è l’etica, e in particolare l’etica della comunicazione, nei suoi vari sviluppi, la disciplina in grado di darci supporto e motivazione allo scopo. Ecco giustificato perciò il titolo del mio intervento: Etica e cittadinanza digitale.
2. Due aspetti dell’attuale situazione comunicativa. Iniziamo con un’analisi dello scenario nel quale ci muoviamo oggi: noi e i nostri ragazzi. È uno scenario complesso e articolato, che riguarda soprattutto il mondo della comunicazione. Da un lato, infatti, viviamo sempre più interagendo con strumenti e dispositivi che ci permettono di comunicare: anzi, che aumentano la nostra capacità comunicativa e ci consentono di restare sempre e comunque connessi. Pensiamo agli smartphones. Dall’altro lato, proprio il comunicare, grazie al proliferare di tali apparati, è radicalmente mutato: da modalità di relazione si è trasformato in ambiente di vita. Per questo motivo oggi, per esempio, possiamo sviluppare le nostre relazioni proprio mantenendoci a distanza, come viene richiesto per evitare il contagio dell’infezione da coronavirus.
Approfondiamo meglio questo scenario. Anzitutto va sottolineata la centralità della comunicazione. È infatti su questo terreno che si sono realizzate le maggiori trasformazioni anche a livello sociale. Ed è dunque a partire da qui che dobbiamo considerare anche le trasformazioni nella nostra esperienza della cittadinanza. D’altronde, non a caso, l’essere umano è definito fin da Aristotele un “animale dotato di logos” (zoon logon echon: cioè un essere caratterizzato dalla capacità di comunicare) e al tempo stesso un “animale politico” (zoon politikon), vale a dire un cittadino.
Gli strumenti e i dispositivi, naturali e artificiali, di cui l’umanità ha fatto uso per comunicare, e di cui continua a far uso oggi, sono moltissimi. Sono ad esempio, nell’ordine in cui si sono storicamente presentati, la parola parlata e la parola scritta (ad esempio in un libro), i suoni diffusi via radio e le immagini trasmesse in televisione, i dati condivisi telematicamente e tutto ciò che consente di diffonderli e rilanciarli. Riguardo al loro uso abbiamo tutti – sia noi che i nostri ragazzi – una qualche competenza: maggiore o minore a seconda della più o meno grande capacità d’interagire con determinati apparati. Dobbiamo essere in grado di utilizzare appropriatamente questa molteplicità di strumenti: tutti quanti. Dobbiamo saper parlare e saper scrivere, saper decodificare le immagini e saper navigare su Internet (Fabris, 2018). Dobbiamo farlo perché proprio attraverso di essi siamo in grado di esercitare i nostri diritti di cittadinanza.
Per far questo, però, non basta avere solo una competenza tecnica. Bisogna possedere anche una consapevolezza del significato e delle conseguenze nell’uso di certi strumenti, cioè una reale competenza comunicativa. E tutto ciò richiede una preparazione e un’educazione specifiche. In altre parole, la competenza tecnica e la competenza comunicativa sono entrambe condizioni imprescindibili, oggi, per l’esercizio della cittadinanza. Ad esempio, dobbiamo saper come usare un computer e come navigare in rete, se vogliamo pagare una tassa online, o anche solo scaricare l’autocertificazione che ci consente, in in certe zone, di muoverci di questi tempi per andare al lavoro. Ma dobbiamo anche sapere che non è bene, anzi che è un reato, se, non essendo d’accordo con una decisione del governo, insultiamo il Presidente della Repubblica sui Social.
Tutto ciò avviene perché la stessa comunicazione è cambiata. Ce ne accorgiamo proprio esercitando una qualsiasi attività comunicativa. Quando condivido un post, carico una foto su Facebook o informo di qualcosa il mio gruppo su WhatsApp, ciò che faccio non è solo utilizzare un dispositivo. Piuttosto abito, grazie al dispositivo stesso, una serie di contesti che integrano la mia vita offline, che a essa si sovrappongono e che con essa, in alcuni casi, si confondono. Le tecnologie, in altre parole, non sono solo qualcosa che utilizziamo per certi scopi, ma offrono, in maniera sempre più indipendente, specifici ambienti all’interno dei quali possiamo esprimerci e sviluppare relazioni. Sono, in sintesi, nuovi spazi da abitare, nuovi spazi all’interno dei quali essere cittadini a tutti gli effetti (Valera, Castilla, eds., 2019).
Insomma: i due aspetti dell’attuale situazione comunicativa – la comunicazione come strumento da usare con competenza e la comunicazione come ambiente da abitare bene – sono strettamente intrecciati fra loro. Sono due facce, potremmo dire, della stessa medaglia. E richiedono specifiche modalità di formazione. Chiedono agli insegnanti d’integrare tali questioni nei programmi specifici delle loro discipline. Da ciò derivano nello specifico i due compiti dell’educazione alla cittadinanza digitale: l’educazione a un uso consapevole dei dispositivi tecnologici e l’educazione a muoversi in maniera corretta e buona all’interno degli ambienti digitali, nonché a istituire un rapporto corretto fra online e offline.
3. La cultura digitale. Per inquadrare però in che modo tale educazione – l’educazione alla cittadinanza digitale – può essere sviluppata concretamente, sulla scia dei temi indicati nell’art. 5 della Legge 92, dobbiamo prima chiarire alcune questioni di fondo. Dobbiamo approfondire meglio la situazione in cui viviamo e le trasformazioni nella nostra vita e nella nostra mentalità che le tecnologie comportano. Per far ciò bisogna partire dall’analisi di una parola-chiave.
Stiamo parlando di “cittadinanza digitale”. È certamente solo un aspetto, come dicevo, di una cittadinanza a tutto tondo, della capacità cioè di gestire le nostre relazioni con gli altri in un mondo sempre più complesso e sfaccettato. Ma che cosa significa, più precisamente, il termine “digitale”?
Si tratta, come sappiamo, di un termine che definisce il modo in cui, grazie a determinate tecnologie, i suoni e le immagini, qualunque sia la loro fonte, vengono scomposti e omogeneizzati per il fatto di essere ricondotti a una sequenza binaria di zero e uno. Ogni segnale, in altre parole, è riportato a questa sequenza numerica, codificato sulla base di essa e trasformato in un pacchetto di dati. L’informatica è la disciplina che si occupa del trattamento e della gestione di questi dati. Lo fa, ad esempio, mediante algoritmi: procedure di calcolo che risolvono un determinato problema seguendo un ben preciso ordine e compiendo un numero finito di passaggi (Zellini, 2020).
Nel quadro dell’informazione digitale, in altre parole, i dati possono essere facilmente scomposti, manipolati, combinati. Il loro invio è molto più agevole di quanto non fosse in precedenza e la ricezione molto più sicura. Grazie alla digitalizzazione il segnale acquista ulteriore potenza e velocità. Ciò non solo permette di migliorare l’efficienza delle reti di comunicazione, ma soprattutto si integra pienamente con un altro processo che, in parallelo, si va determinando negli ultimi decenni del Novecento. Sto parlando della nascita, prima (cioè nel 1982), della Internet Protocol Suite (TCP/IP), volta a rendere possibile la trasmissione di dati da un computer all’altro per mezzo della rete telefonica e, poi (nel 1989), del World Wide Web, una rete di testi che rimandano, all’infinito, ad altri testi, secondo la logica – appunto – dell’ipertesto (http: Hypertext Transfer Protocol).
Tutto ciò ha segnato, come sappiamo, la diffusione di Internet e l’apertura di nuovi ambienti comunicativi, online, in cui sempre più viviamo. Ma ha anche comportato rivoluzionari cambiamenti nelle nostre relazioni, nel modo in cui concepiamo la nostra identità, nelle forme di comunità che possono essere sperimentate. Un’educazione alla cittadinanza digitale deve aiutare a comprenderli, ad assumerli, a favorire il loro controllo e la loro regolamentazione.
4. Alcune sfide di fondo. Proprio a questo scopo dobbiamo aver chiare alcune cose. Anzitutto bisogna aver presente che noi siamo esseri analogici, non già digitali: cioè che recepiamo e riproduciamo per analogia – con tutta l’imprecisione che ciò comporta e con la necessità di esercitare costantemente un’attività interpretativa – i segnali che provengono dal mondo. Dobbiamo dunque trovare il modo di collegare fra loro, correttamente, questi due aspetti: l’analogico e il digitale. Si tratta anzi di uno dei primi compiti educativi.
Invece ciò che accade, ciò che abbiamo sotto gli occhi, è qualcosa di diverso. Il processo di riduzione di ogni attività comunicativa a una sequenza di presenza/assenza di segnale finisce per diventare qualcosa di normativo. Si fa cioè modello per ogni tipo di relazione: anche per quelle, molteplici e variegate, che riguardano gli esseri umani. L’assorbimento del reale nel virtuale diventa allora qualcosa di virtuoso. Sembra che sia un bene che la vita quotidiana, offline, sia omologata alle esperienze online, generando ciò che è stata chiamata la dimensione “onlife” (Floridi, 2014).
Ripristinare la differenza fra i due ambiti, per poi stabilire la corretta relazione fra di essi, è invece una questione etica, non solo educativa. Lo ripeto: nel contesto digitale la comunicazione è riportata a una trasmissione d’informazioni, l’informazione a sua volta coincide con l’invio di pacchetti di dati e questi ultimi sono resi omogenei sulla base di una sequenza binaria. Ciò comporta indubbi vantaggi in termini di sviluppo tecnologico, ma implica anche il rischio che l’essere umano perda le proprie caratteristiche qualitative specifiche, che si appiattisca su di un’unica dimensione quantitativa (Marcuse, 2002), che si trasformi nell’ingranaggio di una serie di procedure che sono le macchine a dettare (Han, 2013, 2015 e 2017). Lo vediamo proprio nelle esperienze di telelavoro che molti di noi stanno facendo in questo periodo.
Se ciò accade, non solo l’essere umano viene pensato a sua volta come una macchina, ma viene meno la distinzione tra essere vivente e macchina, tra naturale e artificiale, tra uomo e robot. Si ricade in una sorta di generalizzata indifferenza. “Indifferenza” significa quel venir meno di ogni differenza che, in primo luogo, rende tutto uguale, omogeneo, e poi fa venir meno, in parallelo, l’interesse che si potrebbe provare per qualcuno o per qualcosa. L’interesse si basa infatti sulla percezione delle peculiarità che sono proprie di ogni essere. Se le differenze sono cancellate – se per esempio l’essere umano e la macchina funzionano allo stesso modo, se in base a questa omogeneità di funzionamento gli esseri umani risultano omologati fra loro, se la stessa natura è trasformata in un prodotto artificiale – allora, alla fine, di tutto ciò – degli esseri umani, della natura, dei macchinari – non importa più nulla.
Ecco la questione di fondo. Veniamo indotti a comportarci da esseri digitali, pur essendo esseri analogici. E accettiamo una sorta di “servitù volontaria” (de la Boëtie, 2016) nei confronti di quei meccanismi che magari abbiamo costruito noi, ma che ora c’impongono le loro procedure. Rispetto a ciò, allora, bisogna sviluppare un atteggiamento critico e consapevole. Bisogna non rinunciare a nessuna delle possibilità che ci sono proprie e che ci caratterizzano in quanto esseri umani. Dobbiamo attingere a quanto, nei vari ambienti comunicativi, ci viene offerto, senza però confondere tali ambienti l’uno con l’altro. Dobbiamo educarci ed educare a vivere all’interno di essi, mantenendo le differenze e sviluppando le opportunità.
Si tratta di un vero e proprio cambio di rotta rispetto a quello che siamo indotti a fare dal nostro uso di dispositivi, apparati, piattaforme. Tale diversa direzione può realizzarla, insieme ad altre discipline, proprio l’educazione civica, intesa come educazione alla cittadinanza digitale. Se ne può far carico, però, solo se ha chiare le motivazioni etiche che la spingono in questa direzione.
5. L’essere umano, il problema educativo e la cittadinanza digitale. Mi avvio alla conclusione. Riassumo quanto ho detto. Nella nostra vita abitiamo le relazioni e i contesti in cui tali relazioni possono svilupparsi, vale a dire i contesti in cui si esplica il nostro essere cittadini. Possiamo ricevere un’educazione – l’educazione civica – che ci fa vivere adeguatamente in tali contesti ed educare altri a orientarsi altrettanto adeguatamente al loro interno. Per far ciò, tuttavia, dobbiamo inserirci consapevolmente in quell’ambiente di fondo che, più di tutti, è proprio dell’essere umano in quanto essere sociale. E dobbiamo imparare ad abitarlo bene.
Quest’ambiente di fondo è l’ambiente della comunicazione. Per abitarlo bene, per fare le scelte giuste, abbiamo bisogno di una riflessione di tipo etico. Abbiamo bisogno di sapere quali sono i criteri e i principî che ci possono orientare in queste scelte. L’etica della comunicazione è la disciplina che si occupa di stabilire questi principî e di motivare alla loro assunzione. Essa si occupa di tutte le forme della comunicazione: di quella parlata, di quella scritta, di quella audiovisiva, ma anche – e soprattutto oggi – della comunicazione digitale (Fabris, 2014).
Oggi infatti è fondamentale confrontarsi con la cultura digitale. Per farlo dobbiamo essere consapevoli di ciò che tale cultura comporta. Dobbiamo anzi essere educati ed educare a ciò. Se questo non accade, se questa educazione non la promuoviamo noi insegnanti, non solamente tradiamo il nostro ruolo, ma accettiamo, più ancora, che le conoscenze non siano più filtrate, mediate, interpretate da noi. Tali conoscenze, infatti, sono tutte già disponibili in rete, e facilmente accessibili ai nostri ragazzi. Ma proprio questo fatto richiede che ci assumiamo il compito di sviluppare nelle generazioni più giovani le competenze per un uso adeguato delle risorse accessibili: le competenze comunicative e civili di cui parlavo prima. Altrimenti la figura stessa dell’insegnante è destinata a scomparire.
A tutto questo, insomma, dobbiamo educare. Dobbiamo educare, ripeto, a un uso consapevole dei dispositivi tecnologici, a muoversi in maniera corretta e buona all’interno degli ambienti digitali, a istituire un rapporto corretto fra online e offline. È il compito dell’educazione alla cittadinanza digitale. L’articolo 5 della Legge 92 ci indica i punti concreti su cui le attività educative devono concentrarsi. Essi sono, lo ricordo, tutte quelle attività che mirano: a) a sviluppare la capacità di analizzare, confrontare e valutare criticamente i dati disponibili in rete; b) a far acquisire le competenze comunicative adeguate per interagire reciprocamente nei vari ambienti digitali; c) a promuovere la cittadinanza partecipativa nelle modalità online; d) a far apprendere le forme di comportamento da adottare anche nel web; e) a permettere di gestire la propria identità digitale e a far rispettare quella altrui; f) a far conoscere le politiche della riservatezza e del rispetto della privacy; g) a realizzare il benessere psicofisico proprio e altrui anche nei contesti digitali.
Ciò – lo abbiamo visto – è possibile quando ci viene insegnato ad aprirci alle varie forme e modalità di comunicazione, ad applicarle conformemente ai nostri scopi, a capire che ogni comunicazione comporta determinate scelte, le quali devono essere orientate secondo principi condivisi. Ma per realizzare tali obbiettivi non basta solo presentare contesti e regole: bisogna anche motivare a comportarsi bene. E questa motivazione la può fornire solo un approccio etico: quello in cui la responsabilità dell’agire di ciascuno è messa in relazione con la responsabilità dell’agire di tutti, nell’esercizio di quei diritti e di quei doveri che del cittadino sono propri.
Ecco perché, nello specifico, l’etica e l’educazione alla cittadinanza digitale risultano strettamente collegate. In conclusione, allora, proprio partendo da questo sfondo etico, possiamo fare i conti con la cultura digitale in cui oggi siamo immersi. Possiamo coglierne le opportunità e i rischi. Possiamo comprenderli e possiamo insegnare ad affrontarli. Possiamo capire che tutto ciò riguarda il buon uso delle possibilità che propriamente ci caratterizzano in quanto esseri umani. Movendo da qui, insomma, siamo in grado di comprendere quello che siamo e quello che possiamo essere: come cittadini sia dei mondi offline, sia di quelli online.
Riferimenti
de la Boëtie, E., (2016) Discourse of Voluntary Servitude, New York: Adagio Press.
Han, B.-Ch., (2013), The Burnout Society, Stanford: Stanford U. P.
Han, B.-Ch., (2015), The Transparency Society, Stanford: Stanford U.P.
Han, B.-Ch., (2017), Psychopolitics: Neoliberalism and New Technologies of Power, Stanford: Stanford U.P.
Fabris, A. (2014), Etica della comunicazione, Carocci, Roma.
Fabris, A., (2018), Ethics of Information and Communication Technology, Berlin-New York: Springer.
Floridi, L. (2014), The Fourth Revolution: How the Infosphere is Reshaping Human Reality, Oxford-New York, Oxford U.P.
Marcuse, H., (2002), One-Dimensional Man. Studies in the Ideology of Advanced Industrial Society, London, New York: Routledge.
Valera, L., Castilla, J.C., (eds), Global Changes. Ethics, politics and Environment in the Contemporary Technological World, Berlin-New York: Springer.
Zellini, P., (2020), The Mathematics of the Gods and the Algorythms of Men: A Cultural History, Cambridge: Pegasus Books.
Nota: Testo a supporto della conferenza del 12.10.2024.