Agostino indugia nel secondo libro delle “Confessioni” a descrivere lo «spinaio di impudicizia», la crisi del sedicesimo anno, favorita anche dall’ozio forzato cui era stato costretto dalla povertà di mezzi. Grazie all’aiuto finanziario del pàtron di Tagaste, Romaniano, gli fu possibile trasferirsi a Cartagine per frequentare la scuola di retorica. Amorazzi e gusto per gli spettacoli lo accompagnano nella capitale dell’Africa e fanno da intervallo all’intensa applicazione allo studio; ma solo per qualche tempo. Due fatti nuovi si verificano durante il soggiorno a Cartagine e modificano considerevolmente la sua vita. Il primo è che s’innamora sui diciotto anni di una giovinetta e l’amore, afferrando il suo animo nel profondo, ne scaccia gli amorazzi. Quella donna, innominata, gli darà un figlio, Adeodato, e Agostino, pur non essendo cristiano, a lei serbò assoluta fedeltà per quattordici anni. Il secondo avvenimento è la lettura di uno scritto di Cicerone, l’”Ortensio” (III, 4, 7 – 8). «Quel libro, devo ammetterlo, mutò il mio modo di sentire (ille vero liber mutavit affectum meum) – scrive Agostino – mutò le preghiere stesse che rivolgevo a te, Signore, suscitò in me nuove aspirazioni e nuovi desideri. Quel libro svilì d’un tratto ai miei occhi ogni vana speranza e mi fece bramare la sapienza immortale con incredibile ardore di cuore, e io cominciavo ad alzarmi per tornare a te. Amore di sapienza ha un nome greco, filosofia. Del suo fuoco mi accendevo in quella lettura. Taluno seduce il prossimo mediante la filosofia, colorando e truccando con questo grande, mite e onesto nome i propri errori (sunt qui seducant per philosophiam magno et blando et honesto nomine colorantes et fucantes errores suos). Ebbene, quasi tutti coloro che, sia al suo tempo, sia prima, agirono in tal modo, vengono bollati e denunciati in quel libro. A quel tempo una cosa sola bastava ad incantarmi in quell’incitamento alla filosofia: le sue parole mi stimolavano, mi accendevano, m’infiammavano ad amare, a cercare, a seguire, a raggiungere, ad abbracciare vigorosamente non già l’una o l’altra setta filosofica, ma la sapienza in sé e per sé là dov’era (non illam aut illam sectam, sed ipsam quaecumque esset sapientiam)».
Era la prima conversione di Agostino: dal mondo esteriore della corsa al successo e ai piaceri all’interiorità delle coscienze, alla passione più alta di tutte, quella della verità, della ricerca del significato. Nel giovane retore nasceva allora il filosofo. Ai suoi occhi sperimentare con intima gioia l’immanente eticità della cultura, la sua straordinaria capacità catartica era già «un cominciare ad alzarsi per andare verso Dio»; ma la via che conduce all’incontro con Dio attraverso Cristo sarebbe stata assai più lunga e difficile. Insegnante di retorica, ancor giovanissimo, nella natìa Tagaste e ben presto nella metropoli dell’Africa romana, a Cartagine, Agostino diverrà, com’è noto, titolare di quella cattedra a Milano, allora capitale dell’impero. E sarà a Milano che incontrerà Ambrogio e, attraverso i circoli culturali d’ispirazione cattolica, la filosofia di plotino. Sempre, anche prima della conversione, Agostino non si limitò affatto a «vendere chiacchiere atte a vincere cause»: egli insegnava tanto ad acuere linguam, quanto la ricerca della vera sapientia. Agostino avvertì sempre il valore positivo del suo far scuola poiché portava nell’insegnamento la sua «buona fede» (IV, 2, 2); non era tutto fumo, c’era pure qualche sprazzo di luce nel suo lavoro di professore (ibid.). Tra i molteplici motivi di grande rilevanza culturale e pedagogica che le “Confessioni” offrono occorre ricordare, infatti, come Agostino imposta felicemente il rapporto tra retorica e filosofia. Infatti nell’antichità la cultura oratoria e letteraria non era in contrasto, come oggi, con quella scientifica, ma con la filosofia, che poneva al di sopra dell’eloquenza la serietà e l’impegno del pensiero. Agostino, ex-professore di retorica e vescovo cattolico, vive più intensamente la tensione drammatica e la convergenza di retorica e filosofia. Malgrado il ricorso ad espressioni drastiche, sempre originate dalla vibrata protesta per la vacuità morale che si accompagna all’estetismo e a quella specie di ignoranza fastosa che è l’erudizione fine a se stessa, Agostino era troppo colto e di animo elevato per ignorare il valore delle lettere, i diritti della poesia, la funzione umanizzante della cultura e confessava: «dai versi, dalla poesia posso anche trarre un reale alimento» (versus et carmen etiam ad vera pulmenta transfero, III, 6, 11). In realtà la soluzione che Agostino dà del problema rifugge costantemente sia dal sincretismo compromissorio, sia dagli esclusivismi settari: occorre invece riscoprire e far proprio l’universalmente umano che brillò anche in epoche pagane, abbandonare al passato il male e valorizzare sempre tutto ciò che è buono. «Un argomento esposto non deve sembrar vero perché esposto eloquentemente, né falso perché risuonano confusamente le parole della bocca: ma neppure vero perché espresso rozzamente, né falso perché forbito il discorso. La sapienza e la stoltezza sono come dei cibi utili e nocivi: possono essere somministrati con parole ornate o disadorne, così come su piatti signorili o rustici» (V, 6, 10). L’ideale a cui tendere rimane quello di fondere in sintesi armonica forma e contenuto, retorica e filosofia, coscienza estetica e coscienza etico-religiosa. I più grandi umanisti – da Petrarca a Pico della Mirandola, da Marsilio Ficino a Erasmo da Rotterdam – non avranno altro programma e nutriranno le stesse aspirazioni. In ogni caso nelle “Confessioni” quella sintesi è stata realizzata a un livello altissimo, poiché in essa la massima artisticità serve a dar voce alla più autentica e profonda interiorità.
Non è stato possibile rintracciare la pubblicazione e la relativa data. Ai fini della pubblicazione sul sito è stata indicata la data del 31.12.1970.