Ci sono due libri che dovrebbero entrare di diritto nella biblioteca di ogni cittadino europeo: La nascita dell’Europa dell’inglese Christopher Dawson e la Storia dell’idea di Europa del nostro Federico Chabod, più volte ristampata da Laterza. Il primo ci dà una visione dell’insieme degli influssi formatori della nostra civiltà e ci accompagna fino al Mille; il secondo esamina magistralmente il cammino dell’idea di Europa nei secoli successivi, arrestandosi all’Ottocento. In continuità ideale con il Dawson e lo Chabod si pone il volume agile di Mauro Laeng, Identità e contraddizioni d’Europa, pubblicato nelle Edizioni Studium di Roma.
L’autore rivisita la storia dell’Europa, “storia di identità e differenze”, o più precisamente di un’unità che si costruisce attraverso le differenze, nei primi due capitoli; il terzo ha significativamente per titolo “L’educazione europea e mondiale”.
Laeng ha affrontato la questione con mano sicura sfatando, in via preliminare, nello spirito del De civitate Dei di Agostino e della visione storica del Toynbee, i due miti che occupano ancora oggi immeritatamente le menti e i discorsi di noi europei. Il primo è quello ottimistico, secondo cui il trionfo della ragione è inscritto nello stesso carattere evolutivo della storia e “le magnifiche sorti e progressive dell’umanità” sono immancabili. Così la pensano illuministi e positivisti di ogni tempo; ma essi dovrebbero poter spiegare con i loro filosofemi come mai, al punto più alto del corso storico, nel secolo XX, abbiamo conosciuto due guerre mondiali di inaudita barbarie, tre regimi di oppressione totalitaria e l’inferno di Auschwitz.
Il secondo mito è quello catastrofico-apocalittico, che identifica la fine di una civiltà con la fine della civiltà tout court. Se si guardasse con quest’ottica come si è tentati di fare, la storia dell’Europa nel secolo che sta per finire, si vedrebbe, nella trasformazione sopravvenuta del ruolo dell’Europa – da “padrona del mondo” a “provincia del mondo” – la prova del declino irreversibile della nostra civiltà. Ma, per fortuna, i pessimisti organici sbagliano almeno quanto gli ottimisti. Non sarà certo la fine dell’eurocentrismo a rendere meno attivo e benefico per tutti l’apporto dell’Europa alla configurazione del suo stesso futuro e all’avvenire del mondo. Anzi, è proprio la fine dell’imperialismo di marca europea a rendere oggi più credibile e fecondo il dialogo tra l’Europa e gli altri popoli, in campo politico ed economico come in campo culturale.
Mauro Laeng ha ben presente la categoria di “risposta alla sfida”, che, ancor prima di essere assunta a criterio storiografico dal Toynbee, fu teorizzata nel ’32 da Bergson nelle Due fonti della morale e della religione – e perciò dà al suo lavoro un’impostazione chiaramente prospettica: occorre, infatti, interrogare la parte migliore della nostra eredità culturale per affrontare, nel modo più intelligente e degno, le sfide del Duemila. E le sfide sono più d’una per l’Europa. C’è, in primo luogo, una sfida religiosa. L’anima dell’Europa deve riscoprire ciò che del cristianesimo ha dimenticato, oppure oscurato: ad esempio, l’aperta proclamazione del principio della non-violenza fatta da Cristo nel Discorso della Montagna. Occorre poi comprendere che nell’ora attuale il cammino ecumenico è divenuto la via preferenziale se vogliamo superare le passate divisioni e offrire insieme – cattolici, protestanti, ortodossi – all’uomo contemporaneo il messaggio di Cristo nella sua bellezza e verità. C’è, inoltre, un’altra sfida educativa.
L’uomo europeo d’oggi deve seppellire odi, pregiudizi e falsità che ha ereditato dal passato e aprirsi, invece, ai doni che gli vengono dagli altri popoli del nostro continente. E sono doni eccelsi in ognuna della arti e in ognuna delle scienze, ma anche nelle testimonianze di eroismo morale e di santità. La nostra educazione storica, pertanto, va pensata dalle fondamenta. Ovviamente, ogni insegnante ha il dovere di fare tutto quello che può; ma occorre una generale conversione degli atteggiamenti a livello di ricerca, di insegnamenti universitari, di programmi, di concorsi, di libri di testo. La scuola, tuttavia, da sola non può cambiare una mentalità diffusa senza la cooperazione della stampa e dei mass-media, dell’informazione e dello spettacolo, di un turismo gestito con intelligenza e larghezza di vedute.
Un altro aspetto importantissimo per la formazione dell’uomo europeo è il superamento delle barriere linguistiche, se si vuole che la reciproca conoscenza progredisca in modo effettivo, favorendo la comprensione culturale, storica e umana tra gli europei. Il deficit della popolazione italiana su questo specifico permane grave, tanto più che oggi si ha bisogno di avere il pieno possesso di almeno due lingue, oltre quella nazionale. In alcune aree è già così, come in Svizzera, nel Benelux, in Scandinavia.
Grande rilevanza hanno assunto poi in questi ultimi decenni tre questioni: 1) il ritorno alla cultura delle immagini e della parola orale rispetto a quella scritta; 2) la divaricazione fra la cultura tradizionale su basi storico-letterarie e la cultura moderna su basi scientifiche e tecnologiche; 3) il confronto pluralistico e interculturale. Il cinema e più capillarmente la televisione, in modo speciale dopo l’invenzione degli strumenti di registrazione e replica, hanno generato un vero e proprio ritorno alla cosiddetta cultura dell’ascolto, al punto che oggi un qualsiasi pubblico viene anche detto audience. Si dice: il massiccio ritorno alla cultura prealfabetica presenta qualche vantaggio – unifica, ad esempio, la lingua parlata di un Paese – e non c’è da scandalizzarsi se i bambini e le persone scarsamente culturizzate preferiscano la televisione ai libri. Ma occorre guardare con implacabile sincerità anche l’altro lato della medaglia. Se è vero, come è vero, che i bambini assorbono 4-5.000 ore di televisione ancor prima di frequentare una scuola, come eviteremo che continuino ad essere videodipendenti quando saranno pienamente alfabetizzati? La televisione non è forse una concorrente temibile e sleale, prima ancora di essere una cattiva maestra?
L’altra sfida è costituita dalla divaricazione crescente fra cultura scientifica e cultura umanistica. Occorre, invece, che la scuola ritrovi il giusto equilibrio tra l’una e l’altra. L’umanesimo scientifico non è meno necessario di quello letterario, storico e filosofico. Vorrei aggiungere – e la cosa non dovrebbe affatto scandalizzare – che bisogna giudicare insostenibile la pretesa di superiorità di un tipo di sapere rispetto ad un altro tipo di sapere. Non ci sono uffici ancillari delle scienze nei confronti delle discipline umanistiche e di queste in rapporto a quelle. Sulla necessità e sulle grandi difficoltà da superare per costruire nei Paesi europei la convivenza multietnica e l’incontro interculturale, occorrerebbe fare un discorso a parte. La questione è acutamente avvertita dalla coscienza comune, anche se questa non sempre ne coglie l’estrema complessità. Saprà l’Europa conciliare l’umana accoglienza per i non-europei e i drammatici problemi che ad essa pongono la disoccupazione strutturale e la rivoluzione tecnologica in atto? Saprà l’Europa rimanere democratica e pluralista ed insieme neutralizzare la minaccia di un nuovo integralismo, che tenti di esportare nei nostri Paesi l’intolleranza e il terrore?
Giornale di Brescia, 17.3.1996. Articolo scritto in occasione dell’incontro promosso dalla Ccdc con Mauro Laeng su “Identità e contraddizioni d’Europa”.