Nel 1789 crollò, all’inizio liberaldemocratico della rivoluzione francese, il regime feudale; nel 1989 è entrato in crisi non solo l’ultimo impero sopravvissuto al secondo conflitto mondiale, un impero che esercitava il suo dominio sul cuore stesso dell’Europa, ma anche l’utopismo ateistico che esso incarnava, l’illusione di costruire una società perfetta mediante la ferrea gabbia del terrorismo di Stato, della persecuzione religiosa, del collettivismo economico. Il comunismo è stato la tragica illusione del nostro tempo, ma grazie alla lunga resistenza pacifica, prima, e alla rivoluzione vittoriosa dell’89, poi, dei popoli europei dell’Est a un potere che si appoggiava sui carri armati sovietici, su quell’errore dell’umanità cominciamo tutti a vederci più chiaro e a giudicarlo per quello che è: una vera e propria falsificazione del bene, il tradimento delle speranze dei diseredati, il Moloch totalitario a cui sono state sacrificate vittime a decine di milioni.
Il collasso dell’impero sovietico – per quanto si cerchi di mascherarlo e malgrado i violenti sussulti della troika Kgb-esercito-nomenclatura e burocrazia del Pcus – è sotto gli occhi di tutti; ma ciò che ha impresso un’accelerazione incredibile al processo di disfacimento della Babele comunista, ai nostri occhi incessantemente propagandata come il Paradiso in terra, il sostituto ateistico della Città di Dio, ha avuto il suo inizio nei cantieri di Danzica nell’agosto del 1980 con la nascita di Solidarnosc. Tutto cominciò di lì, dalla Polonia. Ma la premessa evidente al coraggio di quella nazione – coraggio di osare di credere nei propri diritti, di capovolgere un immeritato destino di asservimento sancito dal disgraziato Patto di Yalta – è stata l’ascesa al soglio di Pietro di uno slavo che ben conosceva la realtà del comunismo: Karol Wojtyla.
All’esultanza dell’89 per la primavera dei popoli umiliati dal giogo comunista non è seguita, però, in Occidente l’attenzione doverosa al dramma terribile di quei popoli chiamati a vivere un’epoca crudele: l’epoca dell’uscita dal comunismo senza poter avviare da sé, con le loro forze, l’estremamente necessario e urgente ricostruzione economica. «Non abbiamo più una tradizione – dichiarava a Brescia nel novembre scorso lo scrittore Karel Hvizdàla, oggi direttore del più diffuso quotidiano di Praga – Quarantacinque anni di dominio comunista hanno distrutto il senso della responsabilità e l’immaginazione. Abbiamo ricevuto un’eredità catastrofica in ogni campo. Abbiamo bisogno di tutto e non abbiamo nulla».
L’Europa Occidentale, distratta da altri problemi, sembra non udire più il grido di dolore dei fratelli europei dell’Est. D’accordo, la Germania saprà provvedere presto e bene a riparare i disastri dell’ex-Ddr; ma ai polacchi, ai cecoslovacchi, agli ungheresi chi dovrà dare una mano? Come non farci carico noi dei loro angosciosi problemi di sopravvivenza prima ancora che di organizzazione economica e politica?
Per noi dell’Europa Occidentale il dopoguerra finì intorno al 1950. Per i popoli europei dell’Est, a causa dell’occupazione del potere, il dopoguerra è continuato per quarantacinque anni e dovrà, purtroppo, durare ancora a lungo. Non tener conto di questo dato di fatto, quando si parla dei Paesi dell’Est ex-comunisti, significa non capire quei popoli e tradirne le attese. Né mancano i soliti farisei – anche tra i cattolici – così ottusi da rimproverare, e talora aspramente, a quei nostri fratelli la «pretesa» di uscire finalmente dal dopoguerra e di entrare anch’essi, dopo tante sofferenze, in Europa, che è la loro e la nostra casa madre. Quei popoli sono nostri fratelli in senso stretto e il nostro cuore, se non deve escludere nessuno, deve però assegnare a loro – ai polacchi, ai cecoslovacchi, agli ungheresi – il primo posto nell’ordine degli affetti e degli aiuti. Così come si fa in ogni buona famiglia.
Giornale di Brescia, 16 gennaio 1991.