Ai nostri giorni capita di leggere affermazioni come questa, che riporto nei termini in cui le ha formulate un noto maître à penser, ma che hanno una diffusione, per così dire, “atmosferica”: “La coscienza che abbiamo di noi stessi dipende sempre proprio dall’opinione altrui. Ed è questa dipendenza che porta l’uomo sempre al di là di sè stesso, in un incontro che, con la sua riuscita, lo apre alle gioie migliori della vita”. Schopenhauer, al contrario, aveva scritto: “Il maggior contributo alla propria felicità consiste nel prescindere totalmente dall’opinione che gli altri hanno di noi”.
Ora l’aforisma del filosofo tedesco si può non condividere, ma è chiaro; le frasi altisonanti del nostro autore servono, invece, solo a confondere le idee, non riuscendo neppure a render conto – una volta posta l’identità tra l’opinione che abbiamo di noi stessi e le opinioni altrui – delle ragioni, nobili o ignobili che siano, di un fatto innegabile come il sorgere di conflitti nel nostro intimo, fra l’io e gli altri, fra la coscienza personale e le opinioni correnti. Certamente Schopenhauer in quelle sue parole non rivendica per l’io il dovere di conquistare l’autonomia del proprio giudizio, né il primato che va riconosciuto alla coscienza morale; e, in coerenza con il suo radicale pessimismo, teorizza l’isolamento egocentrico, così vicino all’indifferenza verso gli altri; ma l’opposta tesi del nostro scrittore è ancor meno sostenibile, perché riduce la coscienza, che è quanto di più personale abbia un essere umano, a un’eco o a un carrefour d’influences delle opinioni altrui. Per nostra fortuna le due posizioni antitetiche non costituiscono affatto, come pure ci si vorrebbe far credere, i corni di un inevitabile dilemma e siamo autorizzati a battere altri sentieri.
Tra gli uomini sussiste indubbiamente un rapporto di solidarietà su cui si fonda la vita sociale; ma è parimenti certo che l’interiorità vitale costitutiva della coscienza – e in modo particolare della coscienza morale – non può essere vincolata all’opinione altrui. Dall’impasse si esce se si pone e si risolve positivamente il problema dei valori universali, la cui esigenza è connaturale alla coscienza umana, che non potrebbe senza di essi apprezzare alcunché con adeguata motivazione. La coscienza dei valori va certamente destata e sviluppata in ogni persona, ma essa ed essa sola consente di valutare la propria e l’altrui opinione, la propria e l’altrui condotta.
Il conflitto dell’individuo con sè stesso e tra gli individui caratterizza l’esistenza umana, ma non è dovuto a una disfunzione, per dir così, fisiologica della coscienza, bensì al fatto che la coscienza è spesso sopraffatta dalle passioni e dal calcolo utilitario, che si cristallizzano in abitudini mentali e morali, quelle che una volta si chiamavano molto semplicemente “vizi”; d’altro canto, i meccanismi della pressione sociale sono spesso così opprimenti da alimentare tensioni e antagonismi più o meno gravi.
Lo sforzo di procurarsi con mezzi leciti e schietti la stima di coloro che ci circondano è naturale e legittimo, ma l’impresa non è così semplice come si vuol far credere. È, invece, evidentemente immorale subordinare la propria coscienza alla sola preoccupazione della “riuscita”, cioè del successo, elevato così a supremo criterio di giudizio e di azione. Una preoccupazione del genere, infatti, è di per sé fonte di ambizione, di piccoli e grandi intrighi, di arrivismo e di ipocrisia.
Se Socrate si fosse preoccupato di conservare la stima della maggioranza e dei maggiorenti degli Ateniesi, avrebbe evitato il processo e la cicuta, ma avrebbe tradito la sua missione: la civiltà e il pensiero filosofico non avrebbero potuto, in tal caso, annoverarlo tra le più grandi personalità della storia, alle quali tuttora l’umanità è debitrice.
Se Cristo avesse voluto seguire la dottrina ufficiale dei farisei o degli zeloti, sarebbe stato uno di loro, ma non colui che pronunciò il Discorso della Montagna e altre divine parole. Se Tommaso Moro avesse voluto conservare con l’alta carica, di cui era insignito, il favore e la stima di Enrico VIII e della sua corte, non sarebbe stato quel testimone della verità che fu e che oggi anche gli anglicani onorano.
Ogni epoca ha i suoi emarginati, alcuni a ragione, alcuni a torto. Noi qui vogliamo parlare di questi ultimi. Agli emarginati a torto, cioè immeritatamente, mancheranno forse le gioie di cui parlava lo scrittore citato in apertura, ma non certo la coscienza di aver compiuto il proprio dovere al di sopra di ogni altra considerazione. La disponibilità più generosa al confronto leale delle idee e all’armonizzazione onesta degli interessi non basta per nulla a metterci al riparo da ingiusti attacchi e da umilianti discriminazioni.
Ai giovani bisogna dire subito la verità su cui Tommaso d’Aquino e Kant non si stancarono di richiamare l’attenzione: qui, in questo mondo, non c’è equazione tra il bonum honestum, che riusciamo a testimoniare nella misura in cui siamo uomini di buona volontà, e la delectatio che può venirci anche dalla stima, dal consenso, dalla gratitudine degli altri. Non è lecito, dunque, spingere i giovani a farsi illusioni e a fantasticare il successo come traguardo fondamentale della vita, come risultato che comunque non può sfuggire a una buona condotta di vita. C’è di più: a mio avviso occorrerebbe insegnare che è un bene che le cose vadano così, per evitare una degenerazione utilitaristica della coscienza morale. Se qui e ora il trionfo del bene fosse immancabile, il bene finirebbe con l’essere voluto non in quanto tale, ma per i vantaggi che ci procurerebbe.
Nel Vangelo di Giovanni c’è una frase ammonitrice: veritas odium parit. La verità genera odio sicuramente in quelli che si rifiutano di accoglierla, ma non solo in essi. Sant’Agostino notava acutamente che noi amiamo la verità quando risplende senza toccare i nostri interessi e le nostre passioni; la odiamo, però, palesemente e più spesso nel segreto del nostro cuore, quando la sua presenza o la sua affermazione costituisce per noi un rimprovero: odimus redarguentem. La verità ha un enorme potere, ma non può annullare nell’uomo, creato libero, la facoltà di aderirvi o di contestarla.
L’educazione, nel senso più alto della parola, è quel processo che aiuta la coscienza a scegliere il bene con piena consapevolezza della sua superiorità su ogni altra alternativa. Ma questo fine così alto sarebbe irraggiungibile se nei nostri figli e nei giovani alimentassimo la mentalità meschina del do ut des. Guai a incoraggiare la tendenza a pretendere una chicca per ogni dovere compiuto. Bisogna apprendere per tempo anche a fare a meno delle lodi, se mancano, e tanto più delle adulazioni, fuorvianti per chiunque. La stima degli altri fa innegabilmente piacere, ma bisogna cercare di meritarla senza sollecitarla o pretenderla a tutti i costi.
Giornale di Brescia, 22.9.1996.