Una volta un giornalista chiese a Thomas Mann se Schiller si potesse considerare scrittore ancora vivo. Mann ebbe una reazione di stupore e, direi, di fastidio. Porsi una domanda di quel genere – rispose brusco – significava non avere coscienza di sé stessi e della propria storia. Thomas Mann parlava, ovviamente, a nome dei tedeschi e la sua risposta non può valere allo stesso modo per noi, che abbiamo altri e diversi riferimenti culturali. E tuttavia il nome di Schiller rientra in certo qual modo anche nella nostra tradizione e forse ci è più familiare di altri, pur grandi, autori tedeschi.
Introdotto e conosciuto in Italia all’epoca della polemica classico- romantica, Schiller godette poi di grandissimo successo e di risonanza per tutto l’Ottocento, grazie anche alle traduzione di Andrea Maffei. Nel secolo scorso Schiller, in Italia, venne amato, celebrato e preferito anche a Goethe, come il poeta della libertà individuale e nazionale. Nel suo concetto di libertà si vede una sorta di insegna ideale, in nome della quale prese di petto la sua epoca, denunciando un ordine sociale ingiusto, nello specifico il dispotismo dei principi, la prepotenza dei nobili, gli intrighi e l’abiezione dei lacchè, l’impotenza della legge, i soprusi contro il cittadino indifeso. Questa formula consentì di riassumere in modo armonico e lineare l’itinerario della sua opera drammatica, dalla libertà anarchica dei Masnadieri, prima opera del 1782, al repubblicanesimo del Fiesco, alla rivolta etico-sociale di Intrigo e amore, alla rivendicazione della libertà di pensiero in Don Carlos, fino alla celebrazione della piena e perfetta libertà di tutto un popolo, nell’ultima opera compiuta, del 1804, il Guglielmo Tell.
Questa interpretazione, tanto lineare e rassicurante quanto in realtà ingannevole e semplificatoria, riconobbe in Schiller un poeta in perfetta sintonia con la cultura risorgimentale italiana. Fu ciò che ne determinò il successo. Ma, questa stessa interpretazione, sostanzialmente non più messa in discussione – mi riferisco naturalmente all’Italia -, fece sì che il nome di Schiller rimanesse legato indissolubilmente a un periodo circoscritto della nostra storia e che il nostro secolo pensasse di non potersi più riconoscere nella sua opera. Infatti i drammi di Schiller non vengono più rappresentati e sopravvivono quasi soltanto nello specchio deformante del melodramma di Verdi. Il cammino del drammaturgo Schiller non è in realtà così rettilineo e armonicamente riassumibile. Ogni dramma costituisce un tentativo in una direzione differente nello spirito e nella forma. Allo stesso modo, il suo concetto di libertà non è univoco, né tanto meno si può fare di lui un liberale astratto. In ogni sua opera l’idea di libertà si confronta con la vita in modo sempre diverso e, in tale modo, assume inevitabilmente un alone tragico, perché la vita in realtà non conosce libertà, che esiste solo nell’uomo.
Questo concetto tragico della libertà – e quando parlo di tragico intendo dialettico – emerge in maniera chiarissima, a me pare, nella trilogia di Wallenstein il dramma storico dedicato appunto alla figura del grande condottiero della guerra dei Trent’anni. È sul tema della libertà, pertanto, o meglio del conflitto tra il libero volere dell’io e la necessità oggettiva, quella delle cose e della vita, che vorrei, in questa conversazione, concentrare la mia attenzione. Il tema mi consente di ripercorrere, pur semplificandola moltissimo, la storia del protagonista. È un’occasione per verificare insieme se la vicenda del XVII secolo, proposta da Schiller agli spettatori tedeschi della fine del secolo XVIII, possa dirsi viva anche per noi oggi.
Chi è Wallenstein? Schiller riassume la sua vicenda in poche parole, nel prologo, recitato a sipario ancora chiuso al pubblico di aristocratici e borghesi affluiti la sera del 12 ottobre 1798 nel teatro di Weimar. Wallenstein è “un audace – cito Schiller – creatore di valorosi eserciti, idolo dei suoi soldati, flagello del paese, sostegno e minaccia per l’imperatore, figlio avventuroso della fortuna, che favorito dai tempi propizi in breve salì ai più alti onori; ma mai sazio, agognando di salire ancora, cadde vittima delle sfrenate ambizioni”.
La sua vicenda non è dunque un fatto privato e personale, ma si inserisce nel più vasto mondo della storia, che vede Wallenstein affiancato all’imperatore d’Asburgo nella sua lotta contro l’unione protestante. Pertanto, nella prima parte della trilogia, intitolata: L’accampamento di Wallenstein, Schiller ci presenta subito l’esercito, che è la base larga e solida sulla quale Wallenstein poggia le sue imprese; un esercito – ricordiamolo – non ricevuto dall’imperatore, ma creato e mantenuto dallo stesso Wallenstein. Per la prima volta nel teatro tedesco le masse, avrebbe detto Brecht, entrano sulla scena. Data l’evidente impossibilità di portare tutta la soldatesca sul palcoscenico, i singoli soldati, il sergente, il trombettiere, i due cacciatori a cavallo ecc., sono rappresentativi dei reggimenti, i cui comandanti compariranno nelle parti successive della trilogia. Questi personaggi, anonimi mercenari delle più diverse nazionalità, differenziati tra loro, ma tenuti insieme tutti dall’autorità carismatica del loro comandante, costituiscono una sorta di coro, di voce collettiva. Questa voce è scandita nel ritmo rude e popolaresco del verso usato nella poesia tedesca del Cinquecento, che ci dice – per se nei toni della commedia – di una Germania stremata da secici anni di stragi e di rapine.
Siamo, dunque, nel 1634. Nella voce della soldatesca avvertiamo i presagi del grande conflitto immanente: “A Vienna non si fidano di noi – dice il sergente -, temono il vero volto del duca di Wallenstein. È salito troppo su per i loro gusti, e vorrebbero buttarlo giù”. Nel quadro animato e chiassoso dell’accampamento affiora la dimensione del tragico, come dialettica. L’esercito di Wallennstein che è il sostegno dell’imperatore, è diventato a questo punto la più seria minaccia, di conseguenza, quello stesso esercito che costituisce lo strumento primo della potenza di Wallenstein, diventa la vera causa della sua rovina. Ciò che gli garantisce la somma libertà si rivela, al tempo stesso, il più potente limite. La rovina di Wallenstein non nasce dunque dall’esterno, ma proprio da quella condizione che gli dà l’illusione di essere libero e di poter asservire la storia al proprio volere. Nell’accampamento il personaggio di Wallenstein non compare, ma la sua ombra si erge, amata e temuta e, agli occhi infantili e superstiziosi dei suoi soldati, ricca di ambiguità e di mistero. Su di lui corrono molte voci e ne riporto alcune:
“Legge il proprio futuro nelle stelle; intorno a lui ci deve essere un silenzio di tomba, questo è l’ordine che hanno le sentinelle perché egli pensa a cose troppo profonde. Chi lo sa cosa crede quell’uomo? Chissà dove vuole arrivare? Sotto le sue insegne si è certi della vittoria perché egli costringe la fortuna, forse si è dato al diavolo. Un omino grigio suole entrare da lui nottetempo, attraverso le porte chiuse”.
Chi è Wallenstein? Incuriosito dai discorsi dei soldati, lo spettatore diventa più che mai desideroso di conoscere il protagonista. Ma, per vederlo agire di persona, deve attendere il secondo atto della seconda parte della trilogia. Nella costruzione piramidale della tragedia, alla presentazione della base – rappresentata dall’esercito – segue quella dello stato maggiore e dei personaggi che giocano un ruolo, nella contesa tra Wallenstein e l’imperatore. Sono, questi, il conte Ottavio e il figlio Max, fra tutti gli ufficiali i prediletti di Wallenstein. Nella seconda parte (I Piccolomini) Schiller, in conformità con lo spirito del classicismo, introduce un tipo di verso che secondo Aristotele più si avvicina alla naturalezza del parlato. Ancora lontani dall’azione tragica, assistiamo in questa seconda parte ad una vera e propria azione politica. Questo soggetto, la politica, ha in sé tutto ciò che ripugna la poesia. È materia arida, difficile da plasmare, refrattaria alla drammatizzazione perché non ha nulla di spettacolare. Eppure Schiller riesce a dare a questa materia riluttante, una forma viva e drammatica, grazie ai suoi dialoghi che creano tensioni e generano scintille. Nei piccolomini Schiller affida alla politica il ruolo di protagonista. L’azione ha inizio con l’arrivo da Vienna del consigliere di guerra Questemberg che deve recare a Wallenstein l’ordine di distaccare otto suoi reggimenti, per mandarli in Fiandra. La richiesta è evidentemente insidiosa e mira a ridurre e ad indebolire la potenza dell’esercito di Wallenstein. Si mette in moto così la grande partita politica, quel meccanismo che porterà Wallenstein alla rovina ed alla morte.
Veniamo a sapere che a Vienna lo si accusa di abuso d’autorità e di disprezzo degli ordini imperiali, ma quel che è più grave, lo si sospetta di tradimento e di alleanza con gli svedesi. Se ne è anzi certi, si aspetta solo di averne le prove. Di fatto la sua destituzione è già decisa – siamo ancora all’inizio dei Piccolomini – ma di questa destituzione sono a conoscenza solo Questemberg ed Ottavio; lo spettatore lo intuisce, anche se non gli viene detto apertamente. Questa è dunque la situazione: mentre Wallenstein si illude di essere ancora forte e libero, la sua fine è già decretata. Nell’attesa dello scontro, inevitabile, si soppesano le forze dei due opposti campi – cioè i fedeli di Wallenstein e quelli dell’imperatore -, si creano alleanze, si cerca di valutare quanto i singoli pezzi valgano nell’insieme. Il sottile gioco diplomatico è affidato alla scaltrezza; esige prudenza e segretezza, e difatti si svolge per lo più nell’ombra, di notte e in colloqui segreti. La necessità della politica vuole che tutti usino tutti, come strumenti; vuole che tutti sorveglino ed ingannino tutti. Ottavio Piccolomini sorveglia Wallenstein, pronto a colpirlo non appena compia la mossa che renda palese la sua colpevolezza. L’ironia tragica vuole che il prescelto a colpire alle spalle Wallenstein sia proprio l’amico prediletto. Ma la politica ha le sue leggi e non lascia libertà di scelta, né è conciliabile con la virtù disinteressata, cioè con l’amicizia, e nemmeno con la purezza, la rettitudine e la lealtà. Tutto questo, Ottavio cerca di spiegarlo al figlio Max, l’unico estraneo ai maneggi della politica e legato a Wallenstein da un forte vincolo d’ammirazione e di amore. Ottavio gli dà una lezione di realismo politico:
“Figlio, figlio diletto, non sempre nella vita è possibile mantenere l’innata innocenza, come consiglierebbe l’intima voce. Nell’assidua lotta contro la perfida astuzia, anche l’animo onesto perde la sincerità. Questa, appunto, è la maledizione del peccato, quella di continuare a generare sempre il peccato. Ma non voglio sottilizzare, io faccio il mio dovere, l’imperatore mi prescrive la condotta che devo tenere; sarebbe più piacevole potere seguire sempre il proprio cuore, ma così ci si precluderebbe la via a più di un’onesta meta. In quest’ora, figlio, si tratta di servire lealmente l’imperatore, piaccia o non piaccia al cuore”.
Max, il giovane Max non si lascia convincere e si ribella a chi vuole usare i mezzi cattivi, tradire cioè l’amicizia, sia pure per un fine buono:
“Quella vostra politica come la maledico! Con la vostra politica voi spingerete Wallenstein ad un passo estremo. Precisamente, per volerlo colpevole lo farete colpevole”.
A questo punto lo spettatore si chiede: ma Wallenstein ha davvero tradito? Chi è Wallenstein, il colpevole o l’innocente? È il tradito o il traditore? Come nella prima parte della trilogia anche nella seconda Wallenstein è il soggetto principale di tutti i discorsi. A seconda di chi ne parla, si configura in maniera diversa: ammirato, temuto, amato, sospettato, innocente, colpevole. Anche lui, come gli altri, anzi prima degli altri, ha cominciato a svolgere la sua partita politica senza lasciarne tuttavia intendere la portata. È il segreto di Wallenstein, ignoto anche ai suoi fidi. Segreto che apre comunque ad alti e misteriosi disegni. Nel secondo atto, l’unico su cinque in cui egli compare sulla scena, si viene a sapere, sempre in colloqui segreti, che da tempo in effetti sono in corso trattative tra Wallenstein e gli svedesi. Ma quando uno dei suoi generali vorrebbe spingerlo a tradurre i suoi intenti in una azione coerente, egli giustifica le proprie esitazioni dicendo:
“E chi ti dice che io non abbia voluto prenderli in giro? Che non abbia voluto prendere in giro tutti voi? Mi conosci così bene? Che io sappia l’animo mio non te l’ho mai rivelato. È verissimo che l’imperatore mi ha trattato male – Wallenstein era stato destituito nel 1630 e poi richiamato l’anno successivo -; se volessi potrei fargliela pagare cara. Mi piace conoscere la mia potenza, ma se intendo farne uso questo credo nessuno lo sa e tu non più degli altri.”
Subito dopo Wallenstein si incontra con Von Questemberg – a cui ho accennato prima, nella scena settima, atto secondo – e non più, questa volta, in un colloquio segreto, ma in presenza di tutti i generali del suo esercito. Davanti a tutti i suoi, come spettatori, Wallenstein inscena una magnifica rappresentazione teatrale di sé stesso. Wallenstein si muove sulla scena con una superba regalità. È sicuro di avere le carte migliori, pensa che la forza sia dalla sua parte, è convinto di essere l’uomo chiamato dal destino. L’uomo d’armi si dimostra, quanto ad arti curialesche, per nulla inferiore all’uomo di toga, e risulta agli occhi dei suoi e dello spettatore come indiscusso vincitore. Alla fine, la sua collera a lungo repressa esplode incontrollata:
“Morte e dannazione! No, Signor mio, da che mi è venuto tanto danno dal servire il trono a spese dell’impero, ho mutato animo verso l’impero. Sì, è vero, il bastone del comando lo tengo dall’imperatore, ma oggi me ne servo come generalissimo per il bene di tutti, per il vantaggio di tutto il paese, e non per l’incremento di uno solo”.
Sono parole gravi, per Questemberg non ci sono dubbi: esse tradiscono in maniera inequivocabile le intenzioni di chi ormai è un nemico pericoloso per l’impero. Wallenstein pone poi fine al colloquio con la sorprendente decisione di voler deporre il comando. In realtà questa decisione è solo simulata. A questo punto tutti i generali insorgono, protestando:
“Non può essere, tutto crollerebbe”. E dichiarano unanimi: “Vogliamo vivere e morire con te!”.
Esattamente a questo ha mirato Wallenstein con la sua commedia, recitata non tanto per Questemberg, ma esclusivamente a beneficio dei suoi generali, per assicurarsi il loro appoggio. Fino a che può disporre di tutto il suo esercito egli si sente forte e si illude di avere piena libertà di azione.
Dopo tutto il lavorio politico che caratterizza la seconda parte della trilogia, si assiste nel quinto e ultimo atto ad una svolta drammatica. Ad Ottavio viene riferito che è stato catturato e consegnato all’imperatore l’intermediario incaricato da Wallenstein di condurre le trattative con gli svedesi, intermediario di nome Sesina. Wallenstein viene informato all’inizio della terza parte intitolata la “Morte di Wallenstein”, viene informato appunto di questa cattura, e da questo momento l’azione precipita con l’ineluttabilità della tragedia. Si badi bene: prima che il tradimento si compia, quando ancora non è avvenuto alcun tradimento Vien può averne le prove grazie alla confessione di Sesina. Mentre nelle prime due parti della trilogia Wallenstein appare allo spettatore per lo più come personaggio fantasmagorico, tanto se ne discorre senza mai vederlo, con l’unica eccezione in quella scena con Questemberg, nella terza parte è quasi sempre presente sulla scena. E subito fin dall’inizio si dirada quella nebbia di mistero che lo ha avvolto fino ad ora, ed egli appare in tutta la sua tragicità, stretto com’è nelle maglie del destino. Wallenstein, che fino ad ora si è illuso di essere arbitro del proprio destino e di dominare la storia, ora apre improvvisamente gli occhi e si rende conto di non essere più libero di agire né di scegliere. Non senza angoscia prende atto della nuova realtà:
“Posso agire come voglio. Ormai per loro sono e rimango un traditore”.
Il monologo della scena quarta rappresenta un momento cardine del dramma (cfr. l’edizione Einaudi del Teatro di Schiller). Cosa succede in questo monologo? Wallenstein, vi ho detto, è sconvolto per la novità della situazione. Parla con sé stesso quasi per cercare di rendersi conto di come la sua situazione di uomo libero e potente si sia potuta rovesciare nel suo contrario. Qui Wallenstein è solo, non deve più recitare alcun ruolo davanti ad altri, non deve più apparire, ma solo essere sé stesso. Il monologo si divide in quattro parti e ciascuna è scandita da una sospensione. Nelle prime tre parti, che sono quelle che leggeremo insieme, si tratta della dialettica tra pensiero ed azione, tra ideale e realizzazione pratica, apparenza ed essere, libertà e necessità. All’inizio abbiamo un susseguirsi di domande:
“Possibile che io non possa più agire come voglio? Che neanche volendo non sia padrone di tornare sui miei passi? Che io debba portare il fatto a compimento – cioè tradire – semplicemente perché l’ho vagheggiato? Perché non ho respinto la tentazione? Ho nutrito il cuore con quel miraggio? Ho preparato i mezzi e ho tenuta aperta la strada per trasformarlo in realtà?”.
Wallenstein è sbigottito, non sa rimettersi dallo stupore di non poter più agire secondo quella libera volontà che era l’unica legge valida per lui. Contro la sua stessa volontà si vede costretto a compiere ciò che aveva soltanto pensato. Viene costretto, cioè, a ribellarsi al dovere della fedeltà all’imperatore nonostante la ribellione fosse soltanto una possibilità accarezzata nel pensiero. A questo punto, come stordito, protesta al gran Dio del cielo di non avere mai concretamente agito, di non aver cioè mai attuato il tradimento, ma di averne solo vagheggiato nel pensiero la possibilità:
“Ma, per quel Dio che è nel cielo, giuro che non fu mai mia seria intenzione, non fu mai una precisa risoluzione. Mi compiacevo di quel pensiero, ecco tutto. Mi seduceva pensare che ero libero di farlo, che ne avevo il potere. Fu delitto dilettarmi al miraggio di un possibile regno?”.
Ci appare qui un Wallenstein completamente diverso da quello che abbiamo visto agire nel colloquio con Questemberg. Wallenstein non è più soltanto il condottiero dalle straordinarie doti militari, non più soltanto il realista politico, che con la sua abilità e il suo acume si è creato dal nulla un potere immenso. È anche un sognatore che gioca con molteplici multiformi progetti. Ad esempio, la corona di Boemia: quel possibile regno di cui abbiamo letto, era appunto la corona di Boemia. Oppure, come abbiamo visto nel colloquio con Questemberg, si ricorda il bene di tutti, il vantaggio di tutto il paese; o ancora un impero tedesco unito, oppure un nuovo ordine al posto di quello rappresentato dal kaiser, un regno della pace ecc. Sono idee grandiose rivolte al bene, a ciò che è benefico per gli uomini ma, indefinite e vaghe come i sogni. Questi sogni, anche se non conosciuti, vengono tuttavia intuiti dai suoi soldati e dai generali, così come dall’imperatore e sono questi che fanno di lui un nemico pericoloso da eliminare. E sono ancora questi sogni che lo frenano nell’azione. Ogni volta che i suoi generali vorrebbero spingerlo ad affrontare la situazione con risolutezza, per prevenire l’imperatore, egli oppone un misterioso indugiare. Il dramma tedesco della fine del settecento non può evidentemente avere un eroe che sia pienamente risoluto e pienamente attivo. Ma, temporeggiando, Wallenstein lascia che siano gli altri, i suoi avversari, ad agire, a prendere quelle decisioni delle quali egli finisce per essere vittima. Di fronte alla realtà che incalza e che gli vuole imporre la sua legge e lo vuole costringere all’azione, Wallenstein vorrebbe ritirarsi ancora nello spazio del gioco, delle possibilità in cui si sente signore e può seguire soltanto le proprie regole. Ma l’immunità del pensiero si rivela illusoria:
“In fondo al petto non restava forse libera la mia volontà? Non vedeva, tuttora aperta a fianco dell’altra, la retta via che mi consentiva ad ogni istante la ritrattazione? Dove mai mi trovo ad un tratto sospinto? Alle mie spalle si è chiusa ormai ogni via, le mie stesse azioni formano un muro torreggiante che mi preclude il ritorno”.
Per la prima volta Wallenstein diventa cosciente di quanto esile sia il confine fra il pensiero e l’azione e di come anche i pensieri siano azioni. Egli gioca col pensiero, ma i suoi avversari prendono sul serio il suo gioco:
“Agli occhi di tutti sono colpevole e, comunque agisca, non posso discolparmi, ché la doppiezza della vita mi condanna e il sospetto mi avvelenerà, male interpretando persino l’azione onesta nata da pia intenzione. Se fossi stato quel traditore per cui mi si ritiene, avrei salvato le apparenze, mi sarei cinto di un fitto velo e non avrei permesso al mio malanimo di rivelarsi. Cosciente invece della mia innocenza, della mia incorrotta volontà lasciai esalare il mio dispetto, la mia passione, e fui ribelle a parole quanto non ero nei fatti. Adesso ciò che è accaduto per caso essi me lo addebiteranno come azione premeditata e lungimirante e da ciò che nel traboccar del cuore e sdegno e ironia mi spinsero sulle labbra, essi ricaveranno un artificioso tessuto di tremenda accusa. Davanti alla quale dovrò ammutolire. Così mi sono rovinosamente impigliato nella mia stessa rete e solo con la violenza mi sarà dato strapparla”.
Questa seconda didascalia, si ferma e medita, introduce l’amara constatazione di apparire ormai colpevole perché lo accusa la doppiezza, l’ambiguità della vita. Io tolgo il mia che c’è qui nel testo perché non si tratta qui dell’ambiguità che pure domina la vita di Wallenstein, si tratta invece dell’ambiguità della vita stessa, che fa sì che nel momento stesso in cui il pensiero si traduce in parole, queste vengono strumentalizzate e finalizzate a qualcosa d’altro rispetto alle intenzioni. Wallenstein infatti ribadisce l’innocenza delle sue intenzioni e proprio perché è innocente si è abbandonato a quelle espressioni di malumore, a quei moti di passione che gli avversari astutamente hanno adoperato per tessergli una rete fatale. Nelle riflessioni di Wallenstein si compie, dunque, un doloroso processo di conoscenza, che conduce passo dopo passo all’acquisizione della verità tragica della vita. La colpa e l’innocenza hanno identica origine e nascono dalla stessa fonte. Ciò che pure scaturisce da una fonte innocente si capovolge nella colpa più tremenda e la conclusione a cui Wallenstein arriva, nelle sue riflessioni, è ancora più dura: in quella rete egli si è avvolto con le sue proprie mani. La sua propria scelta diventa costrizione, necessità del destino. La libera scelta dell’azione e il cieco destino che costringe ad agire sono facce della stessa medaglia. Lo sgomento, l’orrore provato da Wallenstein deriva, dunque, non tanto da ciò che potrà avvenire, nel futuro, ma da ciò che già è avvenuto e che, come tale, è immodificabile. Non c’è possibilità di ritorno, non c’è che una via d’uscita: lacerare la rete con violenza. Abbiamo letto: “solo con la violenza mi sarà dato di strapparla e liberarmi”. È un verso di tale plastica evidenza, che sembrerebbe debba uscirne la decisione di ribellarsi e di tradire. Ma la terza ripresa del monologo non porta la riscossa attiva. Wallenstein ricorda con rimpianto il tempo in cui l’impeto libero dell’anima lo spingeva a progettare gesta audaci e lo confronta col tempo presente, in cui l’azione è imposta dalla necessità:
“Come era tutto diverso quando il libero impulso del coraggio mi spingeva a quell’azione ardita che oggi inesorabile mi impone la necessità, esige da me l’autodifesa. Severo è il volto della necessità e l’uomo non può affondare la mano nell’urna misteriosa del destino senza rabbrividire. Finché è racchiusa nel mio petto, la mia azione ancor mi apparteneva. Una volta licenziata dal sicuro nascondiglio del cuore, dal suolo che la generò, uscita fuori fra le estraneità della vita, essa appartiene alle insidiose forze che nessuna arte umana riesce a renderci amiche”.
Wallenstein non cede ancora alla necessità la contempla con occhi meditabondi e rabbrividendo si raffigura la sorte di chi deve tentarne i segreti. L’impersonale necessità si è fatta misterioso destino. Nelle parole di Wallenstein si esprime la contraddizione per la quale il destino nasce dalle azioni dell’uomo stesso e, tuttavia, si pone poi sopra di lui come qualcosa di ineludibile, di inesorabile: severo è il volto della necessità. A questo punto, dopo una nuova pausa agitata, cammina affannosamente, poi si ferma meditabondo. Wallenstein, sotto l’urgere della situazione, cerca di rendersi conto esattamente di ciò che si accinge a fare, di quello che la sua azione comporta.
Qui Wallenstein non si vede davanti come avversario la persona dell’imperatore che l’ha costretto in una certa situazione, ma la potenza oggettiva dell’autorità sicura sul suo trono nel possesso consacrato dai secoli, radicata con mille fibre nella fede filiale dei popoli soggetti. E di fronte all’autorità legittimata dalla tradizione, lui che è il rappresentante dell’autorità che proviene dal carisma, ha profondi timori, che si riveleranno ben fondati. nel momento stesso in cui Wallenstein abbandona la veste della legalità, immediatamente si infrange il suo potere carismatico e, posti di fronte a una scelta, i suoi generali lo lasciano solo e optano per la fedeltà all’imperatore. In questo monologo Wallenstein dà un nuovo grande spettacolo di sé. Ogni frase è un gesto drammatico. Ma questa volta, rispetto al dialogo con Questemberg, egli non è più superbamente trionfante nella certezza del suo avvenire, ma sorpreso e angosciato nella stretta del pericolo. Se con Questemberg, Wallenstein aveva dimostrato di essere un politico raffinato ed astuto, un macchinatore che non si perita di usare per i suoi scopi di potere amici e nemici, qui si rivela un sognatore, un idealista, uomo delle possibilità più che della realtà. Nel soliloquio avviene un processo della conoscenza per cui Wallenstein alla fine si rende conto che la libertà sognata e fantasticata è nella realtà pura illusione. Nel momento in cui si sente costretto ad agire per necessità, non si sente più signore e padrone della storia, ma schiavo e vittima. E in effetti non può più scegliere, è costretto dalla necessità ad usare violenza o a patirla. Quando la contessa Terzky – che è cognata di Wallenstein, lo ammira, probabilmente lo ama, e si è immedesimata nel suo sogno di grandezza – sente che Wallenstein ha ancora esitazione a compiere l’estremo passo, sbotta:
“Come non vuol fare ciò che deve fare per forza?”.
Pertanto si reca da lui decisa a convincerlo quanto prima, a stringere l’alleanza con gli svedesi. La contessa gioca qui il ruolo della protagonista. Di fronte a Wallenstein, smarrito e angosciato per la scoperta della propria impotenza, dimostra un animo virile e ben determinato. Con le sue abili argomentazioni, degne di Lady Macbeth, dimostra a Wallenstein che è illusione pensare di muoversi con le mani pulite, quando c’è in gioco il potere. In un mondo in cui regna l’utile, non c’è posto per scrupoli di ordine morale, e la contessa Terzky tiene a Wallenstein una lezione di realismo politico simile a quella che Ottavio aveva tenuto al figlio Max. Questa volta per una finalità opposta, cioè per spingerlo al tradimento. Fa riflettere Wallenstein e gli chiede: “in fondo, che cos’è il tradimento?”. Gli risponde lei stessa:
“Se resta un progetto, è un volgare delitto, se si compie è un gesto immortale e, se riesce, è a un tempo perdonato, perché ogni riuscita è un giudizio di Dio”.
Gli dice poi che si tratta in fondo di legittima difesa:
“Sei accusato di alto tradimento, se a torto o a ragione non è quello che importa. Certo sei perduto se non ti servi subito delle forze che hai in mano; e, poi, che senso ha porsi il problema della fedeltà? Forse che l’imperatore è stato fedele? Devo essere io a rammentarti come ti abbiano ricompensato dei tuoi fedeli servigi a Ratisbona? È forse per fiducia e affetto che l’imperatore ha riaffidato il comando a Wallenstein? Eh via, aveva bisogno di te! Fu la necessità che ti mise a questo posto. All’imperatore era gradito ciò che gli tornava utile”.
Quindi non si può più parlare di doveri e di diritti, precisa la contessa, ma solo di potere e di occasioni, del resto non c’è scelta. Se non si vuole esercitare violenza, si deve subirla. In modo ironico e provocatorio la contessa Tezrky gli prospetta questa seconda alternativa, che gli consentirebbe di salvare almeno la vita:
“Si presenti all’imperatore, con una cassaforte ben piena, accetti di sottomettersi alla sua volontà , lasci il comando e si ritiri nei suoi castelli a vita privata. Vedo chiaramente come tutto si svolgerà. – dice la contessa – Un bel mattino il duca Wallenstein sarà partito, tosto i suoi feudi si animeranno. Lì egli promuoverà cacce, nuove costruzioni, allevamenti di cavalli, si formerà una corte distribuendo auree chiavi, imbandendo grandi banchetti ospitali. Insomma sarà un gran re in miniatura. E dal momento che egli saggiamente si contenta, e non pretende di contare, di significare realmente qualche cosa, gli lasceranno la consolazione di apparire ciò che gli farà piacere”. fino alla fine apparirà un principe magnanimo.
Vedendosi in quello specchio deformante, Wallenstein si riscuote, si libera di ogni residuo di scrupolo morale e rimette la sua vicenda nei termini di quella necessità che ha così ben appreso:
“L’imperatore non può più fidarsi di me ed ecco io non posso retrocedere. Avvenga ormai ciò che è fatale, il destino ha sempre ragione, giacché il cuore in noi non è che il suo imperioso esecutore”.
Se nel monologo Wallenstein ha preso coscienza di come il suo volere sia perdente di fronte alla necessità del destino, nel dialogo con la contessa impara a conoscere sé stesso: ciò che è, ciò che non vuole essere, ciò che aspira ad essere. Di conseguenza pone fine ad ogni dissidio interiore e perviene ad una conciliazione con sé stesso, con il suo destino individuale. Ritirarsi dal campo non è scelta che fa per lui. Significherebbe rinunciare a tutto e soprattutto perdere sé stesso:
“Se mi manca l’azione io sono un uomo finito”.
Per chi, come lui, non è disposto a porsi a servizio di chicchessia, sia pure dell’imperatore, e ubbidisce soltanto a sé, vale solo la fedeltà a sé stesso:
“Ha sempre ragione un carattere che sia coerente con sé stesso, non c’è altro torto che contraddirsi.”
Wallenstein si decide dunque per la ribellione. In questa sua decisione di lottare, diventa davvero eroe schilleriano. Egli sa che arbitro del suo avvenire sarà il destino, ma di fronte ad esso saprà sostenere degnamente la sua parte. Wallenstein non si nasconde la gravità della sua impresa, la chiama «misfatto» e nella sua immaginazione se la raffigura minacciosa e gravida di conseguenze. Ora l’azione procede inarrestabile e gli eventi convergono tutti verso un unico punto: la morte di Wallenstein. Nel terzo atto si assiste al progressivo inesorabile sgretolamento della sua potenza, non appena Wallenstein ha imboccato la via della ribellione, vede sfuggirsi di mano l’esercito, lo strumento di cui si credeva certo. E così alla fine si ritrova solo e non è tanto vinto da una forza esterna, quanto privato di ogni mezzo per la realizzazione del suo scopo.
Negli ultimi due atti ci compare un Wallenstein che ha in sé note nuove, toni più umani, che tuttavia non contraddicono al suo essere sempre determinato e combattivo. Quanto più perde potere, tanto più guadagna in umanità. Quando l’azione volge al termine, lo spettatore sente finalmente di provare simpatia per l’eroe e di avere, come vuole Arisotele, compassione per il suo destino. Wallenstein assume alla fine tutti quei requisiti che sono tipici di un eroe tragico, che non deve essere né troppo malvagio né del tutto innocente. Colpevolezza e innocenza, virtù e vizi debbono mescolarsi in lui, secondo determinate regole e in dosi sapienti. E deve andare in rovina per lo più immeritatamente a cagione solo di qualche errore. In effetti, nell’ultima parte Wallenstein di errori ne compie: affida la propria salvezza a chi invece si appresta a dargli morte; si fida dei suoi presentimenti quando invece dovrebbe valutare realisticamente lo stato delle cose; non tiene conto dei presagi e dei segnali, quando invece ci sarebbe motivo di ascoltarli. Alla maniera di Edipo, sembra con le sue azioni accelerare tragicamente il compiersi della rovina cui vuole sfuggire. Alla cecità del protagonista si contrappone la veggenza dello spettatore. Grazie ad una serie di segnali ironici, lo spettatore segue e avverte, molto meglio dell’eroe, i passi che lo conducono alla rovina. Così come, meglio e prima di lui, lo spettatore smaschera le illusioni e acquisisce consapevolezza della verità tragica che domina l’intera sua vicenda. È strano che Bertold Brecht nella sua critica a Schiller non avesse minimamente avvertito, né tanto meno sospettato le affinità esistenti nel loro modo di fare teatro: un teatro che vuole un pubblico che pensi, un pubblico che impari a vedere, magari meglio del protagonista.
Il finale porta tutti i personaggi alla resa dei conti della loro vita. Wallenstein finisce illuso in un sogno già condannato; Max, puro e innocente, muore, perché questa nella vita è la sorte delle anime belle; Tecla, la sua amata, lo segue nella tomba; la contessa Terzky affronta virilmente il suicidio. La fine di Wallenstein travolge tutti coloro che gli sono vicini; sopravvive Ottavio, ma neppure lui è un vincitore, infatti perde il figlio Max, Nell’epilogo gli viene conferito un premio per la devozione alla causa dell’imperatore. Giunge un corriere recante una lettera con sigillo imperiale indirizzata al «principe» Piccolomini, mentre lui era conte. Il conferimento del titolo di principe suona beffardo: è il premio di Giuda, che spetta a chi ha violato il sentimento dell’amicizia.
Con questa lapidaria e folgorante battuta al principe Piccolomini, tipicamente schilleriana, si conclude il dramma di Wallenstein. Nessuno dei suoi atti consente di considerare dimostrato il suo tradimento, ma in ogni caso la storia si vendica dei suoi eroi e alla fine quella stessa storia respinge colui che si era illuso di esserne l’interprete in un’oscura morte dietro alle quinte. E tuttavia non è la sua rovina finale a costituire il tragico. In tutta la vicenda di Wallenstein si esprime la coscienza tragica per cui il conflitto fra libertà individuale e necessità del destino, tra ideale e sua realizzazione pratica, è il fondamento stesso del vivere umano e della storia. Questo conflitto non si rispecchia soltanto tra Wallenstein e una potenza esterna, l’imperatore o la politica, ma anche e soprattutto all’interno del suo stesso io. In lui vivono, in sempre nuova e rinnovata tensione, bene e male, utopia e disincanto, poesia e realtà, genialità e prassi. Luci ed ombre sono accortamente distribuite e fanno di Wallenstein uno dei caratteri più laboriosi e, direi, più affascinanti che il teatro tedesco conosca. L’ambiguità della vita è anche la sua.
Riassumendo: per dare forma poetica al concetto del tragico Schiller si avvale della teoria dell’arte tragica di Aristotele e nel Wallenstein fa rivivere la tragedia greca del destino, con le sue antiche metafore e vesti mitologiche dalla nemesi fino alla fortuna. Anche se il destino, in una tragedia moderna, ovviamente non può più essere una potenza trascendente ma esclusivamente cifra della causalità dell’agire umano. Nel Wallenstein il destino è la politica. La forma tragica trova piena concretezza ed evidenza nella figura storica di Wallenstein, che Schiller come storico ha studiato a fondo. L’aderenza alla storia gli è funzionale, per rappresentare e conseguire l’idea muovendo dal reale. Evita, come già in passato nei drammi giovanili, il rischio di imporre l’ideale alla realtà. La storia lo costringe ad animare e a dar vita al dato empirico e, cosa fondamentale per Schiller, pone un freno agli arbitrii di una fantasia irrelata.
La trilogia di Wallenstein è la prima opera della maturità, dopo un’interruzione nella produzione drammatica di circa dieci anni, dedicati agli studi storici e filosofici. Quest’opera ha dunque a che fare con il pensiero e con la storia più di quanto non sia necessario per la bellezza pura di un dramma. Ma nella sua arte drammatica Schiller non è guidato soltanto dal puro amore d’artista. Nel suo teatro, sulla scena, la protagonista è la vita, la vita in tutta la sua concretezza presente e attuale. Gli spettatori del teatro di Weimar sono avvertiti fin da subito che il destino che incalza Wallenstein è il loro stesso mondo politico e che su di loro incombe quello stesso potere, contro il quale si infrange impotente la libertà di Wallenstein. Si tratta di un potere insidioso, nascosto, come quello dell’imperatore, che non compare mai sulla scena. La fine tragica di Wallenstein è pertanto un ammonimento su quale sia lo spazio riservato alla libertà umana, a ripensare alle condizioni dell’ordine esistente, a valutare dove sia necessario adattarsi e dove invece occorra resistere.
In Wallenstein lo sguardo di Schiller non è rivolto al passato, ma al mondo nuovo, moderno, nato dalla rivoluzione francese. Quella rivoluzione che si è dimostrata l’esempio più recente e più palese della dialettica tragica che domina la storia. L’ideale della libertà che ha dato vita alla rivoluzione entra, nella sua realizzazione pratica, in conflitto con sé stesso e si traduce in una nuova negazione della libertà. Non è un caso che, esattamente negli stessi anni del Wallenstein, l’ultimo quinquennio del secolo, in cui l’interesse di Schiller si concentra sul come rappresentare il tragico in un’opera poetica, la filosofia tedesca inizi con Scelling ad interrogarsi sull’essenza del tragico. Col concetto di tragico, di dialettica tragica, che è peculiare della filosofia tedesca. Del conflitto tra libertà soggettiva e necessità oggettiva, tra idealità del soggetto e realtà del mondo si mostrano profondamente convinti anche i giovani romantici, che pure operano in contemporanea a Schiller, nella stessa cittadina di Iena. Ma, diversamente da Schiller, e spesso in diretto contrasto con lui, anziché cercare un punto di convergenza fra io e mondo, i romantici rifiutano il confronto con la realtà, con il loro presente storico, e celebrano nella loro poesia la libertà assoluta della soggettività e della fantasia. Nelle loro opere viene a mancare il conflitto e dunque non c’è spazio per la tragedia e la loro preferenza va al romanzo.
Concludendo, c’è chi ha visto nella tragedia di Wallenstein le espressioni di un profondo pessimismo storico, ma la parola pessimismo poco si addice a Schiller. L’atteggiamento di Schiller è piuttosto quello di chi prende atto della irriducibile contraddizione dell’essere, la oggettiva, la rappresenta e da questa muove senza tentare di negarla o di addolcirla. È l’atteggiamento di chi dice: «Le cose stanno così»; ma questo non significa rassegnazione all’esistente e neppure la malinconia trova posto nella poetica di Schiller, anche se essa è tipica del poeta moderno o sentimentale. Wallenstein, infatti, che pure deve soccombere di fronte alla solidità del potere imperiale, mantiene tuttavia forza e coerenza fino alla fine. Si dimostra conciliato con il suo destino individuale e difende nella lotta la sua libertà soggettiva di fronte a tutte le sventure e alla sorte per quanto amara essa sia. Tale atteggiamento emerge molto chiaramente dalle parole che Schiller rivolge a Rousseau:
“Certo puoi porti come una meta lontana la tranquilla felicità della natura, ma solamente quella che è premio alla tua dignità. Dunque, non elevare lamenti sui gravami della vita, sulle infelicità delle condizioni, sulla pressione delle circostanze, devi sottometterti con libera rassegnazione a tutti i mali della cultura, devi rispettarli in quanto condizioni dell’unico bene. Soltanto il loro male devi lamentare, ma non contentarti di fiacche lacrime. Cura piuttosto di agire tu stesso in maniera pura fra quelle macchie, libero in quella servitù, costante in quel mutamento capriccioso, conformemente a leggi in quell’anarchia. Non avere timore del disordine che sta fuori di te, ma del disordine dentro di te. Tendi all’unità ma non cercarla nell’uniformità, tendi alla pace ma attraverso l’equilibrio e non arrestando la tua attività. Quella natura che tu invidi a chi è privo di ragione non merita alcun rispetto, alcuna nostalgia. Essa sta dietro di te deve rimanere eternamente dietro di te. Abbandonato dalla scala che ti ha portato fin qui non ti rimane ora più altra scelta se non di afferrare la legge con libera coscienza e volontà, oppure di cadere senza possibilità di salvezza in un abisso senza fondo”.
NOTA: Testo, non rivisto dall’Autore, della conferenza tenuta a Brescia il 11.3.1997 su invito della Cooperativa Cattolico-democratica di Cultura.