Prefazione al libro "La Rosa Bianca non vi darà pace" pubblicata sul Corriere della Sera in data 5.4.2014.
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Erano lettere scritte col sangue quelle che i ragazzi della Rosa Bianca spedivano per posta nella Germania nazista impegnata a fare terra bruciata in Europa.
Appelli inauditi alla libertà e alla ribellione in un Paese incredibilmente legato mani e piedi al piccolo caporale austriaco capace di conquistare, secondo l’immagine di Carl Gustav Jung, l’inconscio del suo popolo.
Richiami urgenti, ineludibili, destinati a scoprire la cattiva coscienza di quanti stavano rinnegando le premonitrici parole di Kant: «In guerra bisogna evitare le azioni che rendono impossibile ogni futura riconciliazione».
Fermenti vivi destinati al futuro secondo la folgorante intuizione di Dietrich Bonhoeffer: «La domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in quest’affare, ma: quale potrà essere la vita della generazione che viene?».
Tuttavia, sopra ogni altra sostanza e qualità, la protesta democratica che spezzò l’esistenza dei membri attivi della Rosa Bianca era scrittura.
Non dovremmo mai dimenticarlo, specialmente oggi che la rivoluzione informatica sta scavando una pericolosa fossa fra noi e il mondo. Parole guadagnate una per una, riga per riga, sancite dalla bruciante esperienza dell’ingiustizia, giustificate dall’amara consapevolezza dell’infamia, scagliate come frecce acuminate contro l’ipocrisia dei discorsi di piazza che il regime ufficiale diffondeva al pari di una lugubre nenia da un confine all’altro dell’impero totalitario.
Ecco perché la struttura di questo libro, concepito come un abbecedario della giovane resistenza tedesca, corrisponde in modo profondo allo spirito intimo dei sei volantini, riproposti in appendice, l’ultimo dei quali, dopo essere stato ristampato in grande tiratura, venne lanciato nella seconda metà del 1943 dalla Royal Air Force in decine di migliaia di copie sulle città di Monaco, Berlino, Weimar, Münster, Dortmund, Düsseldorf, quasi replicando in modo fantasmagorico il gesto estremo compiuto da Sophie Scholl (la cui testa era nel frattempo già rotolata a terra nelle segrete di Stadelheim), quando dalla scalinata dell’università aveva fatto volare in aria l’ultima risma di carta destinata ai suoi coetanei studenti.
Cosa ci hanno insegnato tanti sedicenti maestri del Novecento, se non l’arbitrio dell’immagine non dimostrabile, l’azzardo dell’atto gratuito, il delirio del viaggio senza meta?
Come se l’arte fosse davvero il regno di una conoscenza esclusiva e potesse esimerci dal pagare il prezzo del risarcimento nel caso in cui commettessimo un errore. Nel ventesimo secolo, uno dei più violenti della storia umana, abbiamo immaginato troppi vascelli fantasma lasciando a fari spenti le persone vere. Ora dobbiamo recuperare. Leggiamo quindi con fiducia e speranza le pagine che Paolo Ghezzi, dopo più di vent’anni dal suo primo libro sulla Rosa Bianca, pubblicato dalle edizioni Paoline, e dieci dal secondo, una monografia su Sophie Scholl uscita nei tipi della Morcelliana, ha ancora una volta dedicato al gruppo dei giovani tedeschi e scopriremo una diversa dimensione etica, nell’accezione che noi preferiamo di letteratura, quella secondo cui, come sapeva l’Albert Camus dei Discorsi di Svezia, l’esperienza senza scrittura è muta, cieca e sorda, ma la scrittura senza esperienza è vana, sterile e vuota.
Hans e Sophie, Willi e Alexander, Christoph e Kurt, insieme ai pochi altri amici e fiancheggiatori che ne condivisero le tragiche sorti, non ci consentono soltanto di stringere idealmente la mano alla Germania, dopo le trascorse nefandezze, ma possono aiutarci a sostenere l’idea di una nuova Europa, rimettendo in sesto quella che faticosamente cerca di superare gli egoismi nazionali, lasciandosi dietro come relitti gli ultimi isterici vagiti delle identità populiste, vecchi fantasmi sempre pronti a tornare. Non la poco entusiasmante rappresentazione che spesso ne forniscono i burocrati di Bruxelles, impegnati a ripianare i bilanci e a diminuire lo spread, ma la regione planetaria capace di essere, proprio in virtù del suo tormentoso passato, la guida spirituale dell’avvenire.
Scorrendo le vicende biografiche illustrate da Ghezzi con passione e acribia, rigore e partecipazione, mi sono venuti in mente tanti nuclei di umanità che, lo dico da insegnante, andrebbero spiegati ai ragazzi del Terzo Millennio.
Ne ho individuati quindici. Mi limito a elencarli come tracce di un cammino da compiere.
La forza contundente della giovinezza: un tizzone raccolto nel bosco.
Il pacifismo integrale da praticare accettando di farsi trafiggere dal punto di vista altrui.
L’amicizia quale fonte di energia contagiosa e vitale.
La libertà scaturita dall’indipendenza del pensiero.
La rete degli affetti familiari che non dovrebbe mai essere autoconservativa bensì aperta al mondo.
Il cristianesimo pronto a nascere dall’incrocio degli sguardi prima che dai precetti recitati sull’altare.
L’eroismo paradossale come accettazione del limite.
L’aula scolastica che assomiglia alla ciurma di un naviglio
da salvare.
Il recupero della tradizione violata, da Goethe a Schiller.
La Russia profonda di Fedor Dostoevskij che, come sapeva anche Mario Rigoni Stern, non poteva essere nostra nemica.
Il programma federalista che noi italiani dovremmo intendere in senso mazziniano.
Il dialogo coi maestri, a partire da quelli contemporanei, come Thomas Mann, il quale per primo comprese la forza propulsiva dei giovani resistenti.
Lo spazio ristretto eppure cruciale che può avere l’azione storica responsabile.
Il campo attivo del sapere universitario, fuori dalle bacheche e dai gessi d’accademia.
Il sogno di un’altra vita da contrapporre alla nostra.