“Quale nome di battaglia vuoi prendere?”. Con questa domanda venni accolto, al termine di una fortunata evasione dal valdostano Forte di Bard, dal comandante di una formazione partigiana a Pont Bosé nella valle di Champorcher. Era il 3 settembre 1944 e P. Carlo Manziana si trovava già da qualche mese a Dachau, deportato politico. Pensando a lui, mio assistente alla Fuci, mi venne un’ispirazione: “Vorrei chiamarmi Manzio”. E fu questo il nome che portai con un certo spirito di rivendicazione, nella 76° Brigata Garibaldi, da allora fino al termine del conflitto.
Forse le nuove generazioni faticano ad afferrare nei giusti termini il significato di quel particolare momento storico.
Colpendo Padre Carlo, i nazifascisti non avevano certamente mancato la mira e tanto meno preso un abbaglio. Padre Carlo era veramente colpevole, un nemico pericoloso. Colpevole di aver “traviato” schiere di giovani studenti, avendo insegnato loro “a pensare e a ragionare contro le Organizzazioni e le direttive del Regime” (Rapporto Bozzi, sull’attività antifascista della Pace, 7 giugno 1940). Infatti, cosa c’è di più pernicioso, per un regime totalitario, di giovani che imparano a pensare e a ragionare liberamente, al di fuori degli schemi preordinati e imposti dagli esponenti del potere, di un potere “che ha sempre ragione?”.
Ma in Fuci si faceva proprio così, con l’accompagnamento discreto e lucido dell’Assistente. Si pensava criticamente, si cercava sempre e ovunque la verità oggettiva, si leggevano testi autorevoli. In Fuci ebbi la grazia di leggere libri come “Germania religiosa nel terzo Reich” di Mario Bendiscioli (Morcelliana, 1936), un libro profetico, sfuggito chissà come alla censura fascista, che metteva in piena luce la follia nazista della supremazia assoluta della razza ariana, con tutte le conseguenze…
Padre Carlo ci aiutava a cogliere il frutto della libertà e a gustarlo. Era un aristocratico dello spirito, aveva il culto dell’intelligenza e un fine umanesimo. Come avrebbe potuto sopportare la volgarità e la violenza dell’ideologia dominante, piegarsi al suo tentativo di plagio totale, di autentico vampirismo spirituale?
In questo Padre Manziana era un fedele interprete del suo grande maestro P. Giulio Bevilacqua, irriducibile nemico dei nemici dell’uomo e Dachau fu il terribile luogo della sua coerente testimonianza.
Tornato a casa, alla Pace, P. Manziana riprese con accresciuto prestigio il suo difficile apostolato. Avvicinare il più possibile la cultura alla fede e la fede alla cultura divenne il suo impegno quotidiano, prima ancora che tale problema venisse espresso dal suo grande amico, il Papa G.B. Montini (Evangelii nuntiandi, 1975). Non fu forse abbastanza creativo, bisogna dirlo, padre Carlo, il suo carteggio è abbondante, ma non pubblicò molto; lo teneva indietro il suo senso autocritico e un perfezionismo che talvolta rendeva non facile il suo rapportarsi agli altri.
Personalmente, era molto austero, quasi rigido.
Era preposito alla Pace, allorché una sera, col volto segnato dalla stanchezza, lo udii chiedere a P.O. Dolci (l’indimenticabile pader picinì), il più anziano fra i presenti, il permesso di…. recitare l’Ora liturgica di Compieta a letto, a causa del suo malessere.
Allora io ero giovane prete: ricordo questo suo gesto di umiltà e di severa ascesi come una lezione più forte di un’intera predica.
Nel corso degli anni ho cercato di contraccambiare, ma è chiaro che resto sempre in debito.
Grazie, Padre Carlo, Vescovo.
Giornale di Brescia, 31.5.2002.