Filosofia e coscienza in Matteo Perrini

Ringrazio gli organizzatori per l’invito che mi hanno rivolto a presentare il libro di Matteo Perrini, Filosofia e coscienza, che raccoglie i saggi che ha dedicato agli autori da lui più amati, legati dal filo conduttore della coscienza, il tema a lui più caro. Come molti, qui, questa sera – forse come tutti – ho anch’io un grande debito di riconoscenza nei confronti del prof. Matteo Perrini. Non solo per gli inviti ripetuti e affettuosi che mi aveva rivolto a partecipare a diverse delle iniziative culturali che non si stancava di organizzare a Brescia, ma molto di più per il dono della sua amicizia, attraverso la quale non si entrava solo in contatto con la sua straordinaria personalità, la sua passione e la sua cultura, ma anche con la sua famiglia spirituale che, oltre alla famiglia terrena, comprendeva gli “spiriti magni” con cui egli dialoga nel testo. Entrare in contatto con lui significava introdursi a questo convivio di umanisti, fatto d’amicizia sincera, di letture di grandi, d’impegno civile, di passione educativa nei confronti dei giovani. E a noi piace pensare che ora il suo dialogo con questi autori stia continuando.

Filosofia e coscienza. Questo libro ci aiuta ad accostarsi non solo agli autori che amava, ma anche al tema della coscienza. La centralità della coscienza non è stata solo oggetto di riflessione per lui, ma anche modo di intendere la vita, la propria come la vita della società intera, ché senza rispetto della coscienza non c’è davvero convivenza che meriti il nome di umana. Questo viaggio alla riscoperta della coscienza che Matteo Perrini ci invita a fare prende le mosse da Socrate, ossia dall’inizio del filosofare. Si farebbe torto alla tradizione che ha visto in Socrate l’inizio della filosofia – secondo la quale ciò che lo precede viene definito appunto pensiero “pre-socratico” – se si pensasse che le ragioni di questa identificazione stiano nella presunta invenzione socratica del “concetto”. Per cui solo nel “pensare” che giunge a darsi la forma del “che cos’è questo?”, si avrebbe l’inizio del filosofare. Se ha senso indicare in Socrate un inizio del filosofare, questo inizio non può essere sciolto dal vivere e morire di Socrate per la ricerca della verità. Qui nasce il pensiero filosofico come amore per la sapienza, dove il termine “amore” sta inequivocabilmente ad indicare il legame particolare e intimo che lega il cuore umano alla verità come a ciò che è proprio – più proprio – dell’uomo. Intimior intimo meo direbbe Agostino. Per cui senza legame alla verità lo spirito dell’uomo s’inaridisce, si ammala, si estenua e la sua vita si appiattisce nella banalità. Il detto di Socrate, che Perrini ci invita a riscoprire: «un’esistenza senza ricerca della verità non è degna di essere vissuta», è la dichiarazione di un innamorato, non è un progetto di esplorazioni intellettuali. Il nascere della filosofia è atto di amore, risposta affettiva ad un riconoscersi “affetti” dalla verità. Questo è il “pathos” della verità, perché la verità ci colpisce, ci ferisce, ci inquieta, ci affligge, non ci fa dormire e in questa ricerca ne va della nostra vita.

Come ogni amore, anche l’amore della verità ci espone al rischio della libertà, al rischio della morte. Per amare non è sufficiente venire colpiti dall’oggetto dell’amore, ma occorre anche mettersi in marcia. Non è forse l’amore il motore di tutte le cose, secondo l’immagine stupenda di Agostino? Tutta la storia è questo dramma di amore, di amore suscitato, di amore negato, represso, ripiegato su oggetti indegni di noi, capace di fuoriuscire da sé fino al sacrificio della vita e incapace di uscire da sé, fino a spingerci a sacrificare la vita degli altri per salvare noi stessi. Amare vuol dire rischiare. E la filosofia è esposizione al rischio mortale. Incamminarsi verso la ricerca della verità significa abbandonare le certezze dell’ovvio, i pregiudizi, il sapere consolidato, il “così dicon tutti”, per un cammino incerto. Pensare con la propria testa non è solo compiere un’operazione mentale, ma è compiere una scelta morale. Quella che a Socrate o a Seneca stava a cuore più della vita: vivere da uomini liberi.

Se c’è una cosa di cui Matteo Perrini aveva il gusto era la libertà. E questi autori ci aiutano a riscoprire nel nostro tempo il gusto per la libertà, non solo la libertà, ma la gioia della libertà. Libertas enim delectat, citando l’amato Agostino. Bisogna saper ritrovare questo gusto. Questo gusto della libertà che accomuna questi autori ma anche molti altri che Matteo Perrini amava; ed è questo gusto per la libertà che ci rende insofferenti nei confronti delle catene della caverna platonica, che noi stessi ci costruiamo e in cui finiamo per addomesticarci, tanto da perdere, alla fine, il gusto della libertà, e provare paura per la libertà stessa. Ed è questo gusto per la libertà che altre volte ci rende invece coraggiosi e capaci di pagare qualche piccolo prezzo sull’altare della ricerca della verità. Altrimenti perché filosofare, posto che la filosofia difficilmente può garantire ricchezza economica, successo mondano e, perfino, la felicità?

Se c’è un modo comune di intendere il filosofare tra questi autori che Matteo Perrini amava, esso è legato a questo nesso tra ricerca della verità e libertà. La morte di Socrate è davvero la testimonianza di un modo di intendere la vita e la filosofia che Perrini interpretava come valore perenne, capace di parlare a tutti gli uomini e donne e a tutti i tempi, come le storie dell’Antigone, di Thomas More, di Sophie Scholl che non si stancava di raccontare di nuovo ai ragazzi di ogni generazione. E chi sorregge Socrate in questa ricerca è la voce del suo demone interiore. Diremmo – con parole nostre – della coscienza. Coscienza che parla, in questo come in altri casi, attraverso un’ingiunzione negativa. Socrate lo dice nella sua Apologia davanti ai giudici: “in questa scelta di restare fedele alla ricerca della verità, il mio demone tace, la mia coscienza non mi dice nulla”.

Socrate avverte, in ciò che fa, l’unità di tutto sé stesso. Quando la voce della coscienza si leva, è perché avverte una frattura tra ciò che l’uomo fa o pensa, e il nucleo più intimo dell’uomo, e dunque si esprime con un’ingiunzione negativa. La stessa cosa che Adam Michnik, intellettuale dissidente polacco, aveva espresso così fortemente nella sua lettera al generale Jaruzelski: «C’è un momento, generale, in cui appunto una voce si avverte e dice: tu non lo farai». E pensiamo a quanto amasse Perrini queste figure di dissidenti nei confronti dei totalitarismi di ogni colore.

Il senso della giustizia, cui la coscienza ci richiama, si esprime prima come ripugnanza, come negazione nei confronti dell’ingiustizia, che Rosmini definirebbe “troppo brutta e schifosa” per poter essere accettata dall’uomo. Ingiustizia che non può essere compiuta senza una protesta almeno interiore, e di qui la preoccupazione di Perrini nei confronti dei regimi totalitari e delle loro seduzioni, perché narcotizzano e ottundono la coscienza, e la rendono incapace di sentire questa protesta interiore nei confronti dell’ingiustizia, e la sua ripugnanza. Ma questo carattere di ingiunzione negativa, attraverso cui la coscienza si esprime, ha anche un altro risvolto. Se la coscienza ci dice che cosa non dobbiamo fare, non ci dice però che cosa dobbiamo fare in modo altrettanto chiaro. Non solo ci libera, ma ci consegna alla libertà.

Il vincolo più forte, quello della coscienza – tanto forte che alcune anime sentono di dover sacrificare la loro vita per restare fedeli al comandamento della coscienza –, si manifesta così come il fondamento della libertà. Se il non fare il male è chiaramente definito, il fare il bene è un atto creativo: da compiere, da inventare, da costruire. La libertà è legata alla creatività, e forse per questo Matteo Perrini amava così tanto Bergson, che voleva trascinata non solo la storia umana, ma l’intero cosmo in questa avventura della libertà.

Ma c’è un altro senso in cui si può dire che la coscienza non solo libera, ma anche consegna alla libertà. Perrini ce lo addita attraverso il richiamo a Erasmo e Tommaso Moro: uomini capaci di solitudine. Con questo non intendeva dire intellettuali sprezzanti, che non si chinano sulla storia dell’uomo. Perrini ricorda l’impegno, l’umanesimo civile di queste grandi figure. Ricorda il libro di Tommaso Moro, Utopia, in cui si discute se sia opportuno o no, per l’intellettuale, consigliare il principe (il rapporto tra coscienza e potere a proposito di Seneca). Tommaso Moro non ha affatto una visione da purista della ricerca della verità. Anzi; critica fortemente la filosofia “scolastica”, cioè la ripetizione stanca delle formule, e invoca un’alia philosophia, un altro tipo di filosofia, più civile, capace appunto di farsi carico degli uomini, e tuttavia questo farsi carico degli uomini e della loro storia non può mai portare ad un compromesso con la verità. La storia di Tommaso Moro in questo senso è esemplare: ci mostra come le decisioni di coscienza siano decisioni prese nella solitudine. L’ambiente di Tommaso Moro lo lascia solo: gli intellettuali e l’università sono schierati in larga parte con Enrico VIII. La sua corporazione – i giuristi e il ceto politico –, la sua Chiesa (se si eccettua un vescovo: Sean Fisher e alcuni certosini) sono tutti dalla parte di Enrico VIII.

È interessante notare come colui che è stato additato a modello del laico cristiano impegnato in politica, compia il gesto supremo (quello per cui viene beatificato negli anni ’30 del secolo scorso, nella temperie del totalitarismo) in una strana condizione di solitudine: in piena comunione con la Chiesa romana, ma non con la Chiesa d’Inghilterra (se non appunto attraverso alcune figure particolari). Nessuno, in situazioni che esigono giudizi di coscienza, può affidarsi ad altri. Alla maggioranza o uniformarsi a decisioni altrui: una decisione avente ordine all’eternità è assolutamente singolare e non allineabile. E come nessuna autorità o potere mondano può imporre al singolo alcuna decisione contro la sua coscienza, così nessun uomo può caricare sulle spalle di altri la responsabilità di una decisione che solo lui può – e deve – prendere.

«Non ho mai voluto – dice Tommaso Moro –, Dio essendo il mio buon Signore, caricare il peso della mia anima sulle spalle di nessuno, nemmeno del più buono tra i viventi, perché non so dove potrebbe portarla. Non c’è uomo vivente di cui, finché vivo, io possa essere sicuro: chi per amore, chi per paura, potrebbe accadere che qualcuno porti la mia anima per la strada sbagliata. E per questo non mi lego ad alcuno, ma bado a me stesso, non mi occupo della coscienza degli altri, ma della mia; e nella mia coscienza, ne grido pietà a Dio, trovo riguardo alla mia vita materia sufficiente a cui pensare».

Il tema della libertà si traduce qui in una visione di profondo rispetto della libertà altrui. Quindi di tolleranza e di dialogo. L’ideale Moro e degli altri umanisti è l’ideale di una libertà religiosa, in cui la verità non sia affidata in nessun modo alle ragioni della forza, ma alla ricerca libera. Di nuovo ritorna il nesso tra libertà e amore: la ricerca della verità, proprio perché è amore della verità, si può dare solo nella libertà.

Erasmo e Moro non sono solo esempi, con il loro pensiero, della libertà religiosa, ma anche del valore della pace secolare, intesa quale valore teologico. Un altro dei fili rossi che attraversano il libro di Perrrini è la centralità della pace: da Agostino ad Erasmo, da Tommaso Moro a Bergson, passando per Seneca (con l’ideale della res pubblica magna che si allarga a tutta l’umanità). L’ideale della pace secolare, di una condizione di vita in cui gli uomini non si ammazzino a vicenda, è un valore teologico. Noi abbiamo buone ragioni spirituali per perseguirlo. Ci può anche chiedere sacrifici, come la storia dell’Europa moderna ha mostrato, negli anni appunto di Erasmo e Tommaso Moro, quando le lotte per la religione insanguinavano gli Stati europei. Centralità della coscienza, dunque, e rispetto per la coscienza degli altri.

Il tema della coscienza non ci deve però far pensare a una perenne inquietudine (nel senso di una lacerazione interiore, di un tormento che non ha pace). Al contrario. L’idea che le pagine del volume di Perrini trasmettono – la centralità della coscienza – è quella di una coscienza riconciliata, che quando trova il suo orientamento fondamentale, quando è consapevole dei limiti umani, quando ha ben giudicato nella sua libertà, fornisce all’uomo uno stato di profonda serenità. La grande serenità con cui essi hanno affrontato la prova suprema: non solo una tranquillità in termini psicologici, ma un più profondo stato di certezza, che deriva da una riconciliazione interna, per cui tutta l’anima è unita a sé e riposa nella speranza di un destino di eterna beatitudine. E qui, di nuovo, l’esempio di Tommaso Moro è straordinario: gli ultimi scritti ci descrivono il conforto che la coscienza può dare quando sia stata orientata verso la verità. «Poiché è certo – scrive Tommaso Moro – che se uno può, come infatti lo può, sentir gran conforto nella purezza della propria coscienza, anche se gli viene imputato un falso delitto, e se viene addotta contro di lui una falsa testimonianza, se viene falsamente punito e perciò posto alla berlina davanti al mondo e ne dovesse soffrire, cento volte maggior conforto potrà sentire nel proprio cuore colui che dove il bianco è chiamato nero e il dritto torto, rimane fedele alla verità e viene perseguitato per la giustizia». Davvero qui si potrebbe dire, con Tommaso d’Aquino, che la sicurezza e la tranquillità di coscienza sono un gran bene: un animo tranquillo è come un banchetto perpetuo.

Questo paragonare la tranquillità di coscienza a un banchetto eterno ci riporta al senso del convivio umanistico di cui parlavo all’inizio. Il libro di Matteo Perrini ci fa gustare un po’ di questo banchetto di umanisti, dove il termine “umanista” non vuole indicare solo il dotto, l’intellettuale, l’educatore, ma per usare le parole di Valery pronunciate nel discorso su Bergson all’Académie française dopo la morte del filosofo, l’umanista è “un grande amico degli uomini”. Matteo Perrini lo è stato; e lo è, davvero.

Nota: Testo non  rivisto dall’Autore dell’intervento tenuto nella Sala Bevilacqua di Brescia su iniziativa della Ccdc a un anno dalla morte del prof. Matteo Perrini.