1.1 In questo intervento, che esamina il tema della vita morale in Agostino alla luce di una questione più specifica, relativa al rapporto tra pluralismo culturale e universalità evangelica, il discorso potrà prendere le mosse da alcuni orientamenti emergenti della cultura contemporanea, relativi in particolare ai problemi della convivenza e del futuro della civitas nell’epoca della globalizzazione e del disincanto, per cercare di provocare la riflessione agostiniana sui medesimi aspetti, ricavandone quindi alcuni motivi di attualità teorica e culturale. La riflessione si svilupperà in tre tempi: partendo da alcune coordinate fondamentali del pensiero etico-filosofico contemporaneo, ci si volgerà successivamente ad Agostino per attingere qualche contributo del suo pensiero che ci consenta di tornare (non certo a mani vuote) al punto di partenza. Il metodo che si seguirà consiste in alcuni sondaggi mirati e paradigmatici, che possono offrire al nostro intento interpretativo un quadro generale di riferimento, in questo caso preferibile ad un’analisi circoscritta e approfondita.
L’idea di fondo da cui cercherò di lasciarmi guidare potrebbe essere enunciata nel mondo seguente: la fortuna etico-teologica e la fecondità culturale dell’idea di una civitas peregrina, è dipesa in larga misura anche dalla sua capacità di intercettare, precisamente attraverso la nozione di civitas, il tema della cittadinanza, come una forma di convivenza cementata da un vincolo istituzionale e da un ethos condiviso, fermentandola con la buona notizia di un evento straordinario che ha redento non solo la singola persona, ma anche la relazione tra le persone. Riflettere sull’attualità della riflessione agostiniana significa anche interrogarsi sulle trasformazioni profonde del paradigma della convivenza civile, con il quale quella riflessione può entrare in una feconda circolarità dialogica. Togliere invece al messaggio agostiniano questa carica di esigente interlocuzione critica con la cultura sociale e politica equivale ad abbandonare tale cultura alla logica puramente conflittuale della competizione o (nel migliore dei casi) alla logica strumentale del calcolo degli interessi, negandole qualsiasi pertinenza con le domande più profonde che investono il senso, il valore e il futuro della comunità umana. In tal modo si emargina la stessa riflessione teologica, condannandola a diventare una sovrastruttura fideistica estrinseca e storicamente ininfluente.
1.2 Per contestualizzare le domande da rivolgere ad Agostino, potremmo abbozzare una chiave di lettura che ci aiuti ad intercettare alcune linee di tendenza della cultura contemporanea in ordine al nostro tema. Tale chiave di lettura può essere individuata chiedendo aiuto a tre autori contemporanei, tra loro molto diversi per interessi, sensibilità ed orientamento.
Il primo è Alasdair MacIntyre, che, nella sua opera più nota, intitolata Dopo la virtù, sottolinea come uno degli aspetti che distinguono l’universo morale della società odierna rispetto alla società classica antica riguarda il diverso rapporto della libertà con il bene e con il male. Mentre nella società classica bene e male venivano considerati come i criteri originari che disegnavano la scala di valutazione del nostro agire e che in un certo senso giudicavano il nostro agire, nella società odierna tali criteri valutativi vengono gradualmente trasformati (e snaturati) in oggetti di una scelta possibile. In altri termini si può decidere di agire in termini di bene e di male, scegliendo (questo è il punto) il parametro etico, oppure un altro parametro, ad esempio il parametro estetico del gusto o quello economico dell’utile. Secondo MacIntyre, Kierkegaard avrebbe interpretato questo slittamento, mostrando come lo scarto tra l’etico e l’estetico corrisponda alla possibilità di scegliere lo stadio di vita, cioè il criterio di riferimento. Se però i principi che definiscono la vita etica sono frutto di pure opzioni alternative e razionalmente indecidibili, si chiede MacIntyre, dove l’etico può attingere la sua forza normativa[2]?
Potremmo provare ad accostare a questa tesi il contributo che ci è offerto, in un contesto molto diverso, da Ralf Dahrendorf in un libro del 1979, intitolato La libertà che cambia. Qui Dahrendorf enuncia la nozione di chances di vita, intese come “le impronte dell’esistenza umana nella società”[3], che si determinano in funzione dell’equilibrio dinamico di due fattori: opzioni e legature (ligatures); le prime si riferiscono ad un ventaglio di beni disponibili, le seconde ad una insieme di vincoli di appartenenza, che legano le persone alle loro comunità. Un bilanciamento dinamico fra questi due fattori è però indispensabile: “Le legature senza opzioni significano oppressione, mentre le opzioni senza legami sono prive di senso”[4]. Mentre nelle società premoderne si poteva facilmente rilevare una prevalenza delle legature sulle opzioni, oggi tale rapporto sembra essersi capovolto, rischiando di diventare squilibrato nella direzione opposta: “C’è un rapporto ottimale tra opzioni e legature che forse è stato turbato nelle società odierne”[5].
Se allarghiamo e radicalizziamo questo concetto di “legatura”, che Dahrendorf intende prevalentemente in senso socio-economico, potremmo vedervi l’insieme delle condizioni originarie (naturali e relazionali, ma anche antropologiche, etiche e ontologiche) dalle quali il soggetto che sceglie non può prescindere. Se una società in cui prevalgono troppe “legature” è eccessivamente vincolata, poiché si soffocano i margini di autonomia individuale, al contrario – e Dahrendorf sottolinea l’attualità di questo pericolo – una società che allarghi esageratamente il campo delle opzioni e riduca pericolosamente l’orizzonte delle “legature”, rischia di diventare troppo slegata, scivolando verso una pericolosa forma di anomia e quindi di perdita di identità.
Incrociando questo contributo con quello di MacIntyre si potrebbe dire così: in una società nella quale si nega in maniera sempre più diffusa l’esistenza di “legature” naturali, ontologiche, creaturali e nella quale al contrario aumenta in misura inversamente proporzionale il margine delle opzioni, alla fine anche bene e male diventano opzioni. In tal caso, per mettere un limite al tasso di anomia interna che la spinge verso una crisi di identità, la società è costretta a darsi delle “legature” artificiali, vale a dire di ordine contrattuale, convenzionale, mascherando quelle che in realtà sono opzioni molto fragili. Al fondo di questo modello sta infatti, come unico elemento vincolante, il soggetto che sceglie e che dà a se stesso le proprie “legature”, determinando di fatto la dissoluzione del vincolo della cittadinanza.
Il terzo contributo può aiutarci ad identificare l’esito estremo di questo paradigma politico-culturale. Prendendo a prestito un’espressione di Charles Taylor, potremmo parlare di “lato oscuro dell’individualismo”, per indicare l’esito ultimo di una forma di “liberalismo della neutralità”. Le radici nascerebbero dalla convinzione che, per liberare la società da “legature” invadenti e artificiose, lo spazio della convivenza dev’essere neutralizzato, cioè ridotto ad alcuni vincoli opzionali (e dunque ultimamente non vincolanti) individuati sulla base di fragili compromessi, che la ragione non è in grado di legittimare e universalizzare. Questa sfera vitale elementare, neutralizzata rispetto ad ogni vincolo morale e ad ogni riflessione culturale, dovrebbe apparire immediatamente come evidente, ma il concetto di evidenza, quando è liberato dalla tutela critica della ragione, può diventare l’anticamera di una Babele culturale.
Occorre a questo punto ricordare, con Taylor, che l’autenticità non può accompagnarsi ad una libertà intesa come assoluta autodeterminazione antropocentrica; come egli scrive, “io posso definire la mia identità soltanto sullo sfondo di cose che hanno un’importanza […] Soltanto se esisto in un mondo in cui la storia, o le esigenze della natura, o le necessità dei miei simili, o i doveri della cittadinanza, o l’appello di Dio, o qualcos’altro di questo genere ha un’importanza essenziale, posso definire un’identità per me che non sia banale. L’autenticità non è il nemico delle istanze che provengono dall’esterno dell’io; essa anzi le presuppone”[6].
In un contesto diffuso di “relativismo morbido”[7], come lo chiama ancora Taylor, quando si riduce progressivamente lo spazio delle “legature” e si fa strada la convinzione che la società possa autotutelarsi dando a se stessa le proprie “legature”, senza riconoscerle come vincolanti, allora solo un debole paradigma contrattualistico può “legare” la convivenza, cercando in qualche modo di contenere l’utilitarismo dilagante a livello economico. Contrattualismo e utilitarismo diventano in un certo senso i modelli culturali dominanti, ai quali si delega la gestione delle relazioni umane, mentre la sfera privata è affidata ad una forma di insindacabile convenzionalismo delle scelte soggettive. Una società così “slegata” riconosce tutt’al più solo alcune forme di generosità opzionali, ma sostanzialmente ininfluenti nel tessuto della convivenza.
Contrariamente a quel che potrebbe sembrare, l’attenzione di Agostino al tema della convivenza, nel suo spessore istituzionale e nelle sue valenze etiche, non è secondario né rappresenta l’approdo tardivo di un pensiero intimisticamente ripiegato su stesso. Il Deum et animam scire cupio[8] non deve ingannarci; lo ha rilevato anche un interprete come Kurt Flasch, non sospetto di eccessiva indulgenza verso l’opera agostiniana: “ ‘Dio e anima’ – ci ha ricordato Flasch – non significa ‘Dio e io’, ma Dio e la vita razionale, ovunque si trovi, in primo luogo negli amici. Il concetto agostiniano di ‘anima’ è privo delle connotazioni individualistico-pietistiche che sono proprie del nostro vocabolo. L’anima dell’uomo come anima spirituale non è solo individuale; essa è caratterizzata dal rapporto con il vero Bene, che in Agostino è un bene comune, non privato”[9].
A riprova di questa originaria curvatura interpersonale dell’impianto agostiniano potremmo limitarci a segnalare alcuni punti sensibili dell’opera agostiniana, colti in momenti strategici del suo sviluppo, prima di soffermarci sulla pagina straordinaria del XIX libro del De civitate Dei, che offre il contributo più istruttivo e pertinente a questo intervento.
2.1 Il primo passo potremo farlo attingendo a De lib. arb. 1,15,32. Il contesto è quello di un confronto con Evodio sul tema della voluntas come unum verum bonum (1,12,26). E’ dinanzi alla voluntas, infatti, che si apre l’alternativa tra una vita laudabilis et beata ed una turpis ac misera (1,12,28); ma il recte atque honeste vivere, che rappresenta la discriminante fondamentale, chiama in causa la capacità umana di amare omnino ac vehementer un oggetto non mutevole e temporale, ma eterno e assolutamente immutabile (Aeternum sane atque incommutabile). Sulla base di questa alternativa radicale si può distinguere quindi fra due fondamentali categorie di persone (alios esse homines amatores rerum aeternarum, alios temporalium), così come fra due diverse leggi (unam aeternam, aliam temporalem) (1,15,31).
In tal contesto, dominato dalla contrapposizione neoplatonica di mutabile e immutabile, ma anche da un pragmatico senso delle istituzioni, al quale non è certo estranea la cultura giuridica romana, si situa il passaggio del § 32, sul quale vorrei richiamare l’attenzione: mentre infatti, continua Agostino, iubet … aeterna lex avertere amorem a temporalibus, et eum mundatum convertere ad aeterna, la legge temporale prescrive che gli uomini possiedano tutto ciò che in senso temporale possiamo considerare nostro eo iure…, quo pax et societas humana servetur, quanta in his rebus servari potest. Segue quindi un elenco, articolato con una qualche pretesa gerarchica: al primo posto viene infatti collocato il corpo e tutti quei beni che configurano a vario titolo il diritto all’integrità fisica (integra valetudo, acumen sensuum, vires, pulchritudo, et si qua sunt cetera); al secondo posto viene indicata la tutela della libertà individuale, non quella che consiste nella beatitudo promessa dalla lex aeterna, ma quella impedisce la schiavitù e la sottomissione di un individuo ad un altro; in terzo luogo la legge temporale (che potremmo dire civile) deve tutelare la famiglia, nell’insieme delle relazioni parentali che la costituiscono (parentes, fratres, coniux, liberi, propinqui, affines, familiares, et quicumque nobis aliqua necessitudine adiuncti sunt); al quarto posto Agostino nomina espressamente la civitas, che è normale assimilare alla nostra patria (quae parentis loco haberi solet), con quelle cariche istituzionali in virtù delle quali si può acquisire una sorta di gloria popularis ; all’ultimo posto, infine, viene nominata la pecunia, vale a dire l’insieme dei beni materiali sui quali si può giuridicamente vantare un diritto di proprietà privata.
Su questa scala di competenze della legge civile si dovrebbero svolgere indagini più approfondite, relative sia alle fonti giuridiche, sia alla sua interna articolazione. In questa sede può essere sufficiente sottolineare almeno alcuni aspetti che interessano il nostro discorso: il primo riguarda il potere della legge temporale, cui compete la tutela dei diritti legittimi, affidata ad una costante minaccia repressiva (metu coercet), che induce ad un rapporto corretto con tali beni plasmando in questo modo lo stesso vincolo della vita civile (quemdam modum aptum vinculo civitatis). Ma a tale legge non si può chiedere più di tanto: essa infatti non reprime la colpa quando si amano le cose temporali, ma quando si sottraggono illegalmente agli altri[10].
In secondo luogo, la scala secondo cui si articola e si compagina la convivenza temporale è fondata su beni caratterizzati da una insuperabile fragilità storica, che diventa disordine morale cum quisque avertitur a divinis vereque manentibus, et ad mutabilia atque incerta convertitur (1,16,35). Ma come non è giusto far ricadere sull’oro la colpa degli avari, o sul cibo quella dei golosi, o sul vino quella dei beoni, allo stesso modo si deve concludere che la legge temporale tutela dei beni relativi, essenziali al mantenimento di una ordinata convivenza.
Infine, è importante sottolineare che la civitas, e di conseguenza lo ius civile, qui non appare soltanto come una condizione esterna per il conseguimento di quei beni, quasi fosse una sorta di “contenitore neutro”, ma occupa essa stessa un posto preciso nella gerarchia da tutelare, al di sotto della famiglia e al di sopra della pecunia; snodo cruciale tra ius naturale e ius gentium. In un certo senso, la nota scansione di domus, urbis, orbis del XIX libro del De civitate Dei comincia qui ad offrire qualche indizio fondamentale.
2.2 Un altro passaggio significativo potremmo rintracciarlo in un testo del De vera religione, di poco posteriore al primo libro del De libero arbitrio, al quale s’è fatto riferimento. Qui viene pienamente assunta l’antitesi paolina (cfr. 1 Cor 15,47-49) di vetus homo, et exterior, et terrenus e novus homo, et interior, et caelestis (26,48-49). Il primo paradigma identifica una vita dominata dalla cupiditas rerum temporalium, che può anche arrivare a conseguire eam quam vulgus vocat felicitatem, in bene constituta terrena civitate, sive sub regibus, sive sub principibus, sive sub legibus, sive sub his omnibus. Esiste dunque la possibilità di una terrena civitas in bene constituta, a prescindere dalla forma di governo che la regge; in caso contrario, continua Agostino, bene constitui populus non potest, etiam qui terrena sectatur; habet quippe et ipse modum quemdam pulchritudinis suae (26,48). Dunque il baricentro “terreno” della civitas non le preclude di per sé la possibilità di essere in bene constituta, consentendo ai suoi membri di conseguire la coesione del populus, ad un livello di equilibrata armonia interna. Ciò da cui essa non potrà costitutivamente svincolarsi è la sua “terrestrità”, vale a dire quella effimera e insuperabile fragilità, che connota tutto ciò che è sottoposto alla mutabilità temporale.
Ogni essere umano, sive in suo genere moderatum, sive servilis iustitiae modum excedentem, può dunque consumare l’intero arco della sua esistenza temporale secondo questo paradigma, dal quale però è possibile discostarsi, nel caso in cui la nostra prima origine terrena venga oltrepassata da una seconda origine di natura spirituale; in virtù di questa rinascita interiore, corrispondente ad un diverso paradigma antropologico, è possibile cominciare a bonificare ogni vecchio sedimento carnale, sottomettendosi ad una giurisdizione “celeste” (in caelestes leges … adstringunt) (26,49), che inaugura una diversa cadenza storica, ritmata da nuove età spirituali e aperta ad una integrale rigenerazione post visibilem mortem.
Com’è noto, nel pensiero di Agostino la genesi spirituale dell’uomo nuovo è il segno di straordinaria ‘iniziativa’ divina: è la replica redentiva con cui Cristo, come in una ‘seconda creazione’, restaura il disegno salvifico originario compromesso dal peccato: “È il Signore infatti che dirige i passi dell’uomo e sceglie il suo cammino – egli scriverà, commentando il Salmo 37 – . Del resto quale salvezza possiamo procurarci all’infuori della tua mano che ricostituisce ciò che ha costituito?”[11]. In questo modo si genera un doppio intreccio nella storia umana: al paradigma dell’uomo carnale, generato dall’umanità peccatrice, risponde il ‘nuovo inizio’ dell’uomo spirituale[12]. Ricordando sempre, come Agostino precisa altrove, che caelestis autem homo prior factus est, quamvis post venerit[13].
In ogni caso la dinamica storica è sempre segnata dalla logica della permixtio dei due paradigmi, non del loro sdoppiamento gnostico: come il peccato d’origine ha inoculato un tarlo destabilizzante nell’ordine onto-assiologico della creazione, compromettendo l’equidistanza della voluntas rispetto al bene e al male, e sottomettendola alla ribellione umiliante della concupiscenza e al giogo insuperabile della morte, allo stesso modo anche la rigenerazione dell’uomo nuovo, prima di conoscere il suo approdo escatologico, deve misurarsi storicamente con una difficile convivenza in interiore homine, là dove la lotta diventa interna alla stessa volontà[14]. Sta precisamente nella compresenza storica di questa doppia origine (più ancora che nella reazione antidonatista di Agostino) la radice ultima di quella doppia cittadinanza che impedisce di proiettare l’antitesi tra le due città in un inconciliabile dualismo istituzionale: mentre infatti la condizione dell’uomo vecchio è universalmente sperimentabile, nessuno può sperimentare la condizione dell’uomo nuovo se non in concomitanza con la precedente (novum vero et caelestem nemo in hac vita possit nisi cum vetere) (27,50). Detto con le parole del commento al salmo 54, dove si parla di Babilonia come paradigma della civitas turbulenta… per innumerabiles gentes dispersa, a partire dalla quale è convocata la Chiesa: inde congregatur Ecclesia in desertum bonae conscientiae[15].
E poiché, platonicamente, il genere umano riproduce in termini socialmente e storicamente amplificati l’esistenza del singolo individuo[16], alla Provvidenza divina, la quale non solum singulis hominibus quasi privatim, sed universo generi humano tamquam publice consulit (25,46), è affidato l’intero genere umano, che appare, sotto la sua legge, come diviso in due categorie (in duo genera distributum): una costituita dalla turba impiorum, che si riconoscono nell’immagine di un uomo terreno, la cui identità si risolve interamente nell’arco del divenire storico (ab initio saeculi usque ad finem), l’altra dalla series populi uni Deo dediti, al quale è stata promessa una risurrezione capace di rinnovare completamente veteris hominis sui reliquias (27,50).
L’espansione storico-politica dei due paradigmi viene quindi posta, ben presto, sotto il segno di una congiunzione strutturale di ecclesiologia ed escatologia, che ridimensiona radicalmente, agli occhi di Agostino, ogni interesse (dominante nel pensiero antico) per la forma migliore di organizzazione della convivenza umana nella polis. Non è tanto la crisi politico-istituzionale dell’impero romano a smorzare ogni indagine in tale direzione, quanto la scoperta che nella “buona notizia” della venuta di Cristo era contenuto anche l’annuncio di una “cittadinanza assoluta”, che sposta la dialettica di uomo vecchio e uomo nuovo anche sul piano comunitario, rileggendola non a caso secondo le due cifre bibliche di Babilonia e Gerusalemme. La promessa di redenzione non tocca solo la singola persona, ma anche la convivenza tra le persone; e come la novità evangelica chiama l’uomo vecchio a rinascere interiormente, iniziando un cammino che giungerà al suo compimento definitivo solo alla fine dei tempi, allo stesso modo anche l’appartenenza alla nuova civitas dipende da un atto spirituale di trasfigurazione della vita sociale e delle relazioni istituite che la costituiscono, disegnando uno spazio storico di permixtio costantemente in bilico tra tentazione e speranza.
2.3 Non è possibile, in questa sede, rintracciare il progressivo consolidarsi nell’opera dell’Ipponate di questa linea tematica, che riceve, soprattutto nelle Enarrationes in Psalmos; una serie di puntualizzazioni progressive[17]. L’ultimo sondaggio di questa breve ricognizione non può non condurci, invece, al cuore del XIX libro del De civitate Dei, giustamente considerato “il libro della dottrina agostiniana della pace”[18], e precisamente a quel denso e straordinario nucleo tematico che sviluppa, incrociandoli, i temi del sommo bene, della pace e quindi della convivenza temporale delle due città, posta appunto sotto il segno di una concordia pacifica.
Sono note le tesi che vengono illustrate in queste pagine, giustamente famose, che qualcuno ha definito il “breviario di una sana concezione laica della politica dentro precisi mondi di fede, anche i più diversi”[19]. Nell’ambito del percorso di riflessione che stiamo cercando di tracciare, può essere sufficiente qualche sottolineatura, a cominciare dal felice tentativo di intercettare alcune movenze essenziali dell’etica antica, in senso eudemonistico e intersoggettivo, trascritte nella nuova prospettiva di una caritas valorizzata nella sua vis unitiva e nella sua proiezione comunitaria[20].
Di conseguenza all’istanza eudemonistica viene riconosciuta una costitutiva curvatura sociale, sapientemente articolata secondo la gerarchia espansiva che risale dall’ambito domestico (domus) a quello territoriale dell’urbs (dove i membri di più famiglie assumono il nome di cives), quindi della più ampia sfera dell’umana società (orbis), che abbraccia insieme tutte le nazioni (ut sunt gentes quas ei societas humana coniungit[21]), fino al mondo intero (mundus), che si estende dalla terra al cielo, comprendendo anche le creature angeliche. Se la vita beata non può dirsi estranea a nessuno di questi ambiti, peraltro inestricabilmente amalgamati nella stratificazione sociale, conoscendo di conseguenza un forte dinamismo teleologico, la pace diviene il fine ultimo di ogni nostro bene e Gerusalemme, il cui nomen mysticum può essere interpretato come visio pacis, ne rappresenta la compiuta cifra escatologica. Tuttavia è preferibile parlare di vita aeterna per questo approdo finale, riservando il termine pace per indicare il telos del bene ad ogni livello, razionale e irrazionale, dell’universo creato[22].
Se quindi si può parlare di una pax omnium rerum, che rappresenta la tranquillitas ordinis, l’equilibrio armonico del reale in una ordinata gerarchia che attesta ad ogni livello il primato del bene, nella vita di relazione essa diventa ordinata concordia, che sul piano politico della civitas viene descritta come ordinata imperandi atque oboediendi concordia civium[23]. Alla base sta il riconoscimento di una costitutiva “socialità ontologica”, che investe direttamente anche la dimensione della pace: “socialità e pace – scritto Cotta- costituiscono una sorta di endiadi”[24]. Proprio la pace assume a questo punto una funzione di cerniera che consente di cogliere il punto di tangenza e di strutturale analogia tra le due città: Omnis igitur usus rerum temporalium refertur ad fructum pacis terrenae in terrena civitate; in caelesti autem civitate refertur ad fructum pacis aeternae[25]. Infatti etiam in rebus terrenis et mortalibus la pace rappresenta il punto di coagulo di una ordinata convivenza, che è nello stesso tempo il punto di arrivo nella minima aspirazione naturale di Babilonia e il punto di partenza nella massima tensione unificante di Gerusalemme. La civitas peregrina, infatti, tende, in virtù della grazia, alla pax aeterna, ma vive, in virtù della natura, nella pax terrena, conferendole una forza prolettica di prefigurazione. Persino il popolo che si estranea da Dio, infatti, diligit tamen etiam ipse quamdam pacem non improbandam; una pace, beninteso, che interessa direttamente la peregrinatio della civitas Dei, quoniam quamdiu permixtae sunt ambae civitates, utimur et nos pace Babylonis[26].
Al di là della suggestiva fenomenologia della pace, l’analisi del vescovo d’Ippona si lascia guidare da una duplice mira, ontologica ed etica, e tende a risolvere proprio in tale sdoppiamento il tema della convivenza delle due città. Come infatti vi può essere una qualche vita senza dolore, mentre non può darsi un dolore senza vita, sic est quaedam pax sine ullo bello, bellum vero esse sine aliqua pace non potest[27]. Trasportato sul piano della convivenza civile, ciò significa che esiste un unico ordine ontologico, al quale può contrapporsi solo un disordine etico; l’intenzionalità ontologica, che attraversa ogni piano del reale e traspare persino nell’universale aspirazione alla felicità come una indefettibile cifra creaturale, può non essere assecondata sul piano morale, quando la voluntas interrompe deliberatamente la ricerca di un bene radicalmente sommo, cioè infinito ed eterno, ancorandosi alla mutabilitas terrena. Ma poiché il disordine morale non potrà mai intaccare la positività ontologica fino a distruggerne le ultime tracce, anche a livello sociale (nullius quippe vitium ita contram naturam est, ut naturae deleat etiam extrema vestigia[28]), occorrerà distinguere tra il principio costitutivo della convivenza civile, che attinge alla socialità ontologica dell’uomo, e la sua degenerazione storica, che avvelena tale convivenza, arrivando di fatto a traviare il più innocente amore della gloria nella perversione della libido dominandi: Nihil enim est quam hoc genus – scrive Agostino riferendosi alla creatura umana – tam discordiosum vitio, tam sociale natura[29].
Per questo anche nella naturale socialità umana s’insinua storicamente un vitium strutturale, che aggredisce la sfera politica, giungendo persino a fare dello Stato quella che oggi nel linguaggio della Chiesa si chiamerebbe una “struttura di peccato”[30]. Nell’espressione civitas terrena al sostantivo sembra essere affidata la rappresentazione dell’ordine ontologico che regge una convivenza politica finalizzata al bene, mentre l’aggettivo connota la chiusura dell’orizzonte intenzionale, che viene ancorato alla “terra”, a causa di una perversione dell’amor.
Non a caso, nel prosieguo della sua analisi, Agostino riprende la definizione ciceroniana della res publica come res populi, introdotta nel secondo libro (2,21), che aveva sollevato un duplice problema, relativo alla identificazione del populus in base ai due parametri dello iuris consensus e della utilitatis communio[31], e alla legittimità dell’istituzione politica che lo rappresenta, di cui la giustizia rappresenta il fondamentale principio costitutivo[32]. Com’è noto, anche nella discussione che viene ripresa nel libro XIX, Agostino ribadisce la convinzione che se la giustizia ea virtus est, quae sua cuique distribuit , non si può certo accreditare come giusto quello Stato quae ipsum hominem Deo vero tollit et immundis daemonibus subdit[33]. Così alterata nella sua intenzionalità ultima, la giustizia viene meno e viene meno di conseguenza lo iuris consensus, che trasforma il populus in una mera accozzaglia di individui.
Non è il caso, qui, di discutere la diversa accezione di giustizia che allontana drasticamente Agostino da Cicerone. Interessa piuttosto sottolineare l’avversativa con cui si apre il capitolo XXIV (Si autem populus non isto, sed alio definiatur modo), che prelude ad una diversa definizione di populus come coetus multitudinis rationalis rerum quas diligit concordi communione sociatus[34]. Lasciato cadere il parametro giuridico e trasformata la utilitatis communio in una concors communio, è come se il discorso facesse, per così dire, un passo indietro dal piano politico-istituzionale a quello etico-spirituale, riconoscendo la dinamica della aggregazione sociale nella sua genesi costitutiva, piuttosto che nella sua formalizzazione giuridica. In tal senso, finché la concordia, quae salus est quodam modo populi[35], assicura un grado accettabile di coesione sociale, in quanto è alimentata da un orientamento condiviso e finalizzato dell’amor, anche in assenza di vera giustizia si può dare un populus e, sul piano politico, una res populi corrispondente[36].
In tal prospettiva viene meno non solo la possibilità di istituzionalizzare l’antitesi tra le due città, considerandola come la proiezione socio-politica di un dualismo ontologico originario, ma cade anche l’equivoco di una città politica intesa come tertium quid, come una struttura assiologicamente neutrale[37], assimilabile ad una sorta di organizzazione funzionale aperta al valore e al disvalore. Nello stesso tempo, se riconosciamo con Cotta la “Weltanschauung teocentrica e metapolitica”[38] di queste pagine agostiniane, dobbiamo liberarle anche da qualsiasi sospetto più o meno implicitamente teocratico; esso nasce sempre dall’attribuire alla politica una qualche missione salvifica, che è quanto di più estraneo al pensiero di Agostino[39].
Insomma, potremmo concludere ancora con Cotta, “la struttura politica risulta dipendente dalla struttura ontologica dell’uomo, ma indipendente dalla fede religiosa”[40]. L’uomo, naturaliter civis, è diventato storicamente impius, inoculando anche nel “politico” il proprio vitium. La salvezza, di conseguenza, non si potrà conseguire risalendo velleitariamente alle spalle della corruptio per inseguire una ormai irraggiungibile autonomia morale, ma aprendosi, attraverso la conversio, al dono straordinario della promissio redemptionis. Dopo il peccato, la salvezza non può venire dalla natura, ma soltanto dalla grazia, a livello personale e comunitario. Per questo, a rigore, la vera civitas è soltanto la civitas Dei quae de caelo descendit, mentre la civitas terrena non è altro che una defectio storica. All’inizio infatti c’era una sola città, così come ci sarà una sola città alla fine dei tempi. La civitas terrena, infatti, ha il suo bene sulla terra, sostiene Agostino, aggiungendo coerentemente che essa sempiterna non erit (neque enim, cum extremo supplicio damnata fuerit, iam civitas erit [41].
3.1 A questo punto, alla luce della domanda dalla quale ha preso le mosse questo intervento, non resta da chiederci quale contributo il pensiero di Agostino possa offrire ad un orizzonte culturale così geloso della propria autonomia da essere persino tentato non solo di contrapporre la città politica alla comunità religiosa, assolutizzando quella e screditando questa, ma addirittura di incorporare nella prima valenze religiose e salvifiche, per giustificarne il suo carattere di traguardo intramondano ultimamente intrascendibile.
E’ vero che l’alta progettualità politica che ha contrassegnato la modernità, raggiunta anche attraverso una riduzione secolarizzante del messaggio cristiano e una compiuta risposta storicistica alla sue più profonde promesse di senso[42], oggi sembra essersi fondamentalmente dissolta. Tuttavia, nell’abbassarsi dell’orizzonte, mentre l’utopia cede il passo al disincanto, la riduzione secolarizzante di un tempo s’annuncia in una nuova, equivoca versione postmoderna: non più nella forma di una requisizione politica di tutte le istanze salvifiche, ma in quella, apparentemente meno aggressiva, ma per questo forse ancora più subdola e devastante, di un relativismo cinico e rassegnato, che riduce anche la civitas ad un contenitore caotico ed incoerente di emozioni effimere e insindacabili.
In tale prospettiva la dimensione religiosa non è più attaccata come un arcaico residuo di sacralità alienante o, al massimo, come un serbatoio di energia utopica da alleggerire severamente di ogni evasiva velleità escatologica; al contrario, può essere accolta come ingrediente mitologico-consolatorio di una fluida miscela sincretistica, depurata di ogni pretesa veritativa[43]. In tale contesto, una ragione troppo debole riesce forse a delegittimare le sicurezze ideologiche di un tempo, ma non a impedire una riconsacrazione selvaggia del vissuto, che sta conducendo a nuovi, paradossali esiti politeistici. Il dibattito odierno sulla crisi della città e sul futuro della cittadinanza è in proposito quanto mai istruttivo[44].
Rispetto a questo capovolgimento scettico del razionalismo moderno, il De civitate Dei di Agostino può conoscere anzitutto una insospettata attualità proprio nella sua pars destruens, apparentemente più datata e anacronistica, costituita dai primi dieci libri. Qui infatti il vescovo di Ippona conduce una dura requisitoria, volta a demistificare ogni tentazione idolatrica, a rompere la commistione torbida di sacro e profano, a liberare la genuina istanza religiosa da ogni maschera mitica e ideologica, che dissimula il radicale bisogno di salvezza, inscritto nel cuore dell’uomo, confondendolo con il moltiplicarsi di atti di culto stravaganti e superstiziosi. Nella nuova prospettiva cristiana non è la civitas che precede i propri dèi, ma è Dio che precede la civitas, che la istituisce e la fonda, ad un livello ben più alto di quello politico, giuridico o militare.
3.2 A partire da qui possiamo provare a cogliere anche una pars construens del contributo di Agostino, che sembra delinearsi proprio attorno ai due nuclei tematici segnalati nel titolo di questo intervento: il nesso tra la città e il bene da una parte, quello tra universalità evangelica e pluralismo culturale dall’altra. Provando a riesprimere tale contributo alla luce della chiave di lettura abbozzata in apertura, si potrebbe dire che il messaggio fondamentale che Agostino può offrirci riguarda la differenza ontologicamente irriducibile tra opzioni e “legature”, a cominciare dal rifiuto di considerare il bene come una eventualità opzionale. La “legatura” costitutiva di una comunità civile, infatti, non può che essere il bene, telos ultimo di quella concors communio senza la quale la convivenza non riesce a compaginarsi. Per sua natura, però, il vincolo del bene non è di ordine naturale, ma morale; è quindi affidato alla bona voluntas e, in una umanità sospesa tra peccato e redenzione, alla misteriosa dialettica di libertà e grazia. Anche la pace, che pure è il supremo vincolo ontologico di ogni natura creata, nella convivenza umana si trasforma in un imperativo moralmente vincolante, diventando ideale di ordinata concordia.
D’altro canto, la involuzione della civitas terrena nasce proprio da uno stravolgimento del rapporto tra mutabile e immutabile, tra opzioni relative e vincoli assoluti. Lo stesso culto politeistico, rivendicato come parte integrante della res publica romana, non è altro che il risultato di un fuorviante irrigidimento idolatrico, equivocamente saldato nella civitas con il momento propriamente politico. Insomma un’opzione ideologica, mascherata dall’apparente imparzialità di una civitas ridotta a spazio neutro in cui ogni opzione è possibile. L’autodisgregazione del vivere associato, generata dal peccato personale e collettivo, ne è però, secondo Agostino, la demistificazione più clamorosa e inquietante: alla fine dei tempi, mentre la civitas Dei caelestis si costituirà come assoluta comunione d’amore, chi sarà nella seconda morte vivrà una sorta di alienante solitudine assoluta. Venute ormai meno le ultime briciole di amore del bene, che storicamente avevano contrastato la deriva egocentrica, la civitas terrena conoscerà una sorta di implosione individualistica, in cui verrà bruciato il benché minimo vincolo intersoggettivo, esito fatale di una opzionalità assolutamente svincolata.
Questo esigente vaglio critico ci è offerto dal De civitate Dei proprio in quanto può essere letta come un’opera De vera religione[45], in cui il discrimine ultimo tra aversio e conversio è dato dal riconoscimento dell’unico Dio, di cui tutta la città redenta è in se stessa sacrificio universale, che la Chiesa rinnova continuamente grazie al vero mediatore, che è insieme sacerdote e sacrificio[46]. La stessa scelta lessicale, operata da Agostino in favore del termine civitas, non deve ingannarci: senza dimenticare la variegata stratificazione semantica di questo termine, che nascondeva una gamma di accezioni diverse, da quella puramente territoriale e sociologica (civitas come luogo in cui una multitudo diventa populus) a quella politico-istituzionale (civitas come organizzazione statuale, dalla quale discende la condizione della cittadinanza)[47], Agostino qui vuole rivendicare un compiuto spessore antropologico e comunitario alla rivelazione cristiana.
Proclamando l’origine metastorica e la proiezione escatologica della civitas Dei, egli non intendeva minimamente abbandonare la convivenza civile al suo destino storico. Pur senza entrare nel merito di una ricognizione specifica del “politico”, alla quale anche in questa opera resta in larga misura estraneo, Agostino non può non misurarsi con la reazione pagana nei confronti di quella singolare religione, importata da un modesto manipolo di seguaci di Gesù di Nazareth, che appariva al mondo pagano troppo rigida nel suo intransigente monoteismo e troppo debole nella difesa del primato, politicamente insostenibile e scandaloso, della carità e della misericordia. L’autonomia giuridica della politica, in nome della quale Roma aveva legittimato la forza e costruito la res populi, si scontrava apertamente con quella singolare “buona notizia”, che predicava il primato dell’umiltà sull’orgoglio, l’uguaglianza fra gli uomini, l’attenzione primaria ai poveri, agli ultimi, persino il perdono ai nemici.
Per questo, la civitas Dei non è una vaga e indolore metafora spiritualistica, ma una modalità fondamentale di riorientare storicamente il rapporto religioso, che diventa anche principio di discernimento storico, fattore di aggregazione comunitaria, risorsa di progettualità culturale. Per il suo fondamentale carattere metapolitico, la civitas Dei in linea di principio non entra in competizione con le forme storiche concrete di aggregazione sociale e politica, ma individua un paradigma assoluto di comunione, che consente di gettare una luce nuova sulla deriva formalistica della giustizia e sulla impotenza ultima della politica[48]. Come è stato sottolineato, si tratta di passare dalla ciceroniana summa iustitia alla vera iustitia, che non interessa solo le giuste relazioni tra gli uomini, ma l’ordo che fonda l’equilibrio interno alla persona, tra le persone e tra queste e Dio; ordine ultimamente affidato alla logica dell’amore [49].
E’ la stessa vocazione escatologica della civitas Dei peregrina, che introduce una sorta di comunità paradossale nella città degli uomini, fatta di cittadini e insieme di stranieri[50], consentendo di scavalcare di colpo ogni angustia nazionalistica, ogni rassegnata miopia localistica e invitando a guardare oltre i confini della razza, della lingua, della cultura. Qui Agostino dimostra di aver colto fino in fondo, in tutte le sue implicazioni, la radicale novità del vangelo e la sua proiezione autenticamente universale, sulla quale fonda l’affermazione di un comune destino dell’umanità, di un genere umano identificato da un’aspirazione costitutiva alla solidarietà e alla pace.
Il libro XIX contiene affermazioni esemplari intorno al dilatarsi di ogni prospettiva puramente sociologica, etnocentrica e al superamento in radice di ogni visione relativistica della cultura e della storia: “Questa città celeste, quindi, finché è pellegrina sulla terra, chiama cittadini da tutte le nazioni e raccoglie la società pellegrina fra tutte le lingue, senza badare a diversità di costumi, di leggi, di istituzioni con le quali si istituisce o si mantiene la pace terrena, senza eliminare o distruggere nessuna di esse, anzi accettando e seguendo ciò che tende ad un unico e medesimo fine, nonostante le diversità da nazione a nazione, purché ciò non costituisca un ostacolo per quella religione che insegna a venerare l’unico, vero e sommo Dio”[51].
Qui diventa possibile cogliere il punto di contatto tra pluralismo culturale e universalità evangelica: “Certo non riguarda minimamente questa città l’atteggiamento o il costume di vita con cui ciascuno riceve questa fede attraverso la quale giungere a Dio, purché non ci si ponga contro i comandamenti divini. Per questo essa non costringe nemmeno i filosofi che diventano cristiani a mutare il loro atteggiamento o le loro consuetudini di vita che non siano contrarie minimamente alla religione, bensì a mutare le loro false dottrine”[52]. Del resto, come è stato notato dagli interpreti più attenti, Agostino non ha mai tratto dall’idea del cristianesimo come religione universale la conclusione che tutti gli esseri dovrebbero essere vincolati politicamente entro un’unica società mondiale[53].
Accettando di misurarsi con i sospetti del mondo pagano intorno alla impotenza progettuale dell’amore, Agostino non si accontenta di confinarlo in uno spazio circoscritto e ininfluente di consumo emozionale, ma ne rivendica la lungimiranza progettuale e lo spessore comunitario, liberandolo da qualsiasi sottomissione ad una superiore ipoteca politica, fino a riconoscerlo come la radice costitutiva, la coscienza critica e il coronamento teleologico della giustizia. Ma questo è possibile solo ad una condizione, che appare scandalosamente rivoluzionaria alla civitas di oggi come a quella di ieri e che potremmo esprimere con le parole pungenti di Kierkegaard: “Si son dette molte cose strane, deplorevoli, rivoltanti sull’amore, ma la cosa più stupida che mai sia stata detta è che l’amore deve avere un limite”[54].
[1] Testo del prof. Alici che riprende alcuni de temi trattati nella conferenza bresciana sul problema morale in Agostino tenuta su invito della CCDC il 26.2.2004.
[2] Cfr. A. MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, tr. it. P. Capriolo, Milano 1988, pp. 58-59. Ho cercato di riprendere e sviluppare alcuni aspetti di questo problema nel saggio Metamorfosi della libertà tra moderno e postmoderno, in L. Alici, F. Botturi, R. Mancini, Per una libertà responsabile, a cura di G. L. Brena e R. Presilla, Padova 2000, pp. 39 – 71.
[3] R. Dahrendorf, La libertà che cambia, tr. it. P. Micchia, Roma-Bari 1995, p. 16.
[4] Dahrendorf, La libertà che cambia, p. 42.
[5] Dahrendorf, La libertà che cambia, p. 43.
[6] Ch. Taylor, Il disagio della modernità, tr. it. G. Ferrara degli Uberti, Bari 1994, p. 48.
[7] Taylor, Il disagio della modernità, p. 22.
[8] Sol. 1,2,7: NBA 3,392.
[9] K. Flasch, Agostino d’Ippona. Introduzione all’opera filosofica, tr. it. C. Tugnoli, Bologna 1983, p. 149.
[10] Com’è noto, Agostino si discosta nettamente su questo punto dai Manichei, i quali ricavano da una errata esegesi paolina di Rm 4,15 e 5,13 e di Gal 3,10-13 condannavano qualsiasi tipo di legge temporale; al contrario egli difende la necessità di quella legge, promulgata perché gli uomini che non hanno ancora conosciuto la redenzione cristiana e che non è stato possibile distogliere dal peccato con la ragione fossero sotto la minaccia di pene alle quali sono sensibili anche gli stolti. Cfr. ad esempio De ut. cred. 3,9: NBA 6/1,184, dove si contrappone il beneficium della grazia al vinculum della legge.
[11] Conf. 5,7,13: NBA 1,126 [129]. “La redenzione dunque, è la nuova creazione, Cristo è il nuovo Adamo, in cui e da cui il genere umano viene ri-generato e portato a un nuovo incontro con il suo Creatore” (L. Obertello, Creazione e redenzione nel pensiero di Agostino, in Aa. Vv., Fede e sapere nella conversione di Agostino, Genova 1986, p. 84).
[12] Su alcuni aspetti di questa doppia dialettica temporale mi sono soffermato in particolare nel saggio Tempo e creazione in Agostino, in Aa. Vv., Filosofia del Tempo, a cura di L. Ruggiu, Milano 1998, pp. 52-71.
[13] En. in Ps. 9,4: NBA 25,134. E’ percorrendo la via della conversio, quindi, che diventa possibile assecondare la forza rigeneratrice dell’agape, che introduce al culmine della formatio, in quanto “trasforma la volontà di potenza in abbandono tra le mani del creatore per accedere al suo essere autentico” (M.-A. Vannier, “Creatio”, “conversio”, “formatio” chez S. Augustin, Fribourg 19972, p. 62).
[14] Esemplare in proposito la testimonianza delle Confessiones: “Mentre io stavo decidendo di servire ormai il Signore Dio mio, come da tempo avevo progettato, ero io a volere, io a non volere; io in entrambi i casi. Non era totale il volere, non lo era il non volere. Per questo combattevo con me stesso e da me stesso mi dissociavo, una dissociazione che avveniva indubbiamente mio malgrado, attestando però non la natura di una mente estranea, bensì la miseria della mia” (Conf. 8,10,22: NBA 1,242 [tr. it. L. Alici, Confessioni, Sei, Torino 1992, p. 245]). E’ senza dimenticare questo testo che si può quindi accogliere l’ammonimento di Agostino circa la fragilità di questo nuovo stato, “finché non avrà raggiunto quella condizione in cui non c’è più tentazione alcuna e non possederà quella pace che va cercando in mezzo a tutte le diverse battaglie di questa guerra, in cui la carne ha desideri contrari allo spirito e lo spirito desideri contrari alla carne” (De civ. Dei 21,15 NBA 5/3,254 [tr. it. L. Alici, La città di Dio, Rusconi, Milano 1997, p. 1089]).
[15] En. in Ps. 54,12: NBA 26,98.
[16] In un testo di poco posteriore leggiamo: Ubi ergo rex, ubi curia, ubi ministri, ubi plebs invenitur, civitas est. Neque enim talia essent in malis civitatibus, nisi pirus essent in singulis hominibus, qui sunt tamquam elementa et semina civitatum (En. in Ps. 9,8: NBA 25,140).
[17] Basterebbe citare, oltre ai testi già ricordati di En. in Ps. 9,4-8 (NBA 25,134-140), almeno alcuni passaggi importanti della stessa opera, dove si presentano duae civitates permixtae interim (En. in Ps. 61,8: NBA 26,354); si distingue tra il civis de Sion e quello de Babylonia; id est, non de civitate peritura huius saeculi, sed de Sion ad tempus laborante et peregrinante, in aeternum autem regnatura (En. in Ps. 145,20: NBA 28,760-761); si riconosce nella peregrinatio l’anello di congiunzione tra la Gerusalemme presente e quella futura (cfr. En. in Ps. 147,5: NBA 28, 812), dialettica ulteriormente ripresa in En. in Ps. 148,4: NBA 28,872 (Non vobis placeat amor Babyloniae, ne obliviscamini civitatem Ierusalem).
[18] W. Geerlings, De civitate dei als Buch der augustinischen Friedenslehre, in Aa. Vv., Augustinus. De civitate Dei, hrsg. von Ch. Horn, Berlin 1987, pp. 211 – 233.
[19] I. Mancini, Manifesto politico e cristiano, “il nuovo leopardi” 23(1988), p. 3.
[20] Insiste in particolare su questo aspetto W. R. O’Connor, The Uti/Frui Distinction in Augustine’s Ethics, “Augustinian Studies”, 14 (1983), pp. 45-62.
[21] De civ. Dei 19,3,2: NBA 5/3,20.
[22] Cfr. De civ. Dei 19,11: NBA 5/3,42. Sottolinea questo aspetto, fra gli altri, R. A. Markus, Saeculum: History and Society in the Theology of St. Augustine, Cambridge 1970, p. 68.
[23] De civ. dei 19,13,1: NBA 5/3,50.
[24] S. Cotta, Introduzione. III Politica, in De civ. Dei, NBA 5/1, p. CXLI.
[25] De civ. Dei 19,14: NBA 5/3,52.
[26] De civ. Dei 19,26: NBA 5/3,84.
[27] De civ. Dei 19,13,1: NBA 5/3,50.
[28] De civ. Dei 19,12,2: NBA 5/3,46.
[29] De civ. Dei 12,227,1: NBA 5/2,212. Insiste su tale differenza anche Markus, secondo il quale dopo il 400, d’accordo con Cicerone, Agostino continua a ritenere l’uomo un animale sociale per natura, rifiutandosi però di ritenerlo anche naturalmente un animale politico: cfr. R. Markus, Two Conceptions of Political Authority: Augustine, De civitate Dei, XIX, 14-15, and Some Thirteenth-Century Interpretations, in AA.VV., The City of God. A Collection of Critical Essays, ed. by D. F. Donnelly, New York 1995, p. 104.
[30] Cfr. Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis, 36. A questo tema è dedicato il volume di Aa. Vv., Il male politico. La riflessione sul totalitarismo nella filosofia del Novecento, a cura di R. Gatti, Roma 2000.
[31] Cfr. Cicerone, De rep. 2,42,69.
[32] Cfr. Cicerone, De rep. 1,25,39. Per discussione svolta da Agostino cfr. De civ. Dei 2,21,1-4: NBA 5/1,132-138. Questa attenzione non sembra autorizzare, però, la conclusione radicale alla quale giunge Fortin: “Come la Repubblica di Platone e il De republica di Cicerone, la Città di Dio di Agostino è principalmente un libro intorno alla giustizia” (E. L. Fortin, Justice as the Foundation of the Political Community: Augustine and his Pagan Models, in Aa. Vv., Augustinus. De civitate Dei, cit., p. 41).
[33] De civ. Dei 19,21,1: NBA 5/3,68.
[34] De civ. Dei 2,24: NBA 5/3,80.
[35] De civ. Dei 2,24: NBA 5/3,82.
[36] Sottolinea l’importanza di questa posizione più duttile e aperta anche J. D. Adams, The Populus of Augustine and Jerome. A Study in the Patristic Sens of Community, London 1971, pp. 18 s.
[37] Su questo punto è sintomatica la Retractatio di Cotta, il quale prende le distanze da una tale interpretazione, sostenuta nell’opera La città politica di S. Agostino, Milano 1960, frutto di un equivoco formalistico e antigiusnaturalistico che gli aveva impedito di riconoscere l’ordine ontologico della creazione, nel quale si radica naturalmente la giustizia e che il peccato non può azzerare. Cfr. Cotta, Introduzione. III Politica, p. CXXXI, nota *.
[38] Cotta, Introduzione. III Politica, p. CXXXLVIII.
[39] Cfr. in proposito J. B. Elshtain, Augustine and the Limits of Politics, Notre Dame (Indiana) 1995, la quale sottolinea le distanza di Agostino da ogni mitizzazione trionfalistica dello Stato.
[40] Cotta, Introduzione. III Politica, p. CXLVI.
[41] Cfr. De civ. Dei 15,4: NBA 5/2,382.
[42] Tale atteggiamento non potrebbe essere espresso meglio che con le parole del giovane Hegel: “A parte altri precedenti tentativi, è stato riservato soprattutto ai nostri tempi di rivendicare in proprietà degli uomini, almeno in teoria, i tesori che sono dissipati in cielo. Ma quale età avrà la forza di far valere questo diritto e di entrarne in possesso?” (G. W. F. Hegel, La positività della religione cristiana, in Scritti teologici giovanili, tr. it. di E. Mirri, Napoli 1972, p. 317).
[43] Mi sono soffermato su questi aspetti nel saggio Cultura post-moderna e visione cristiana dell’uomo, in Aa. Vv., Cattolici in Italia tra fede e cultura. Materiali per il progetto culturale, Milano 1997, pp. 135-159.
[44] Mi limito a rinviare, per il primo punto, a: S. Natoli, L.F. Pizzolato, La politica e la virtù, Roma 1999; M. Renna, F. Riva, M. Rizzi, S. Xeres, La città. Un’alba o un tramonto, Roma 1999; F. Riva, M. Rizzi, La politica e la religione, Roma 2000; per il secondo a: S. Belardinelli, R. Gatti, G. Dalla Torre, Individuo e istituzioni: il futuro della cittadinanza, Cinisello Balsamo 2000.
[45] Cfr. G. Madec, Le De civitate Dei comme De vera religione, in Aa. Vv., Interiorità e intenzionalità nel “De civitate Dei” di Sant’Agostino, a cura di R. Piccolomini, Roma 1991, pp. 7-33.
[46] Cfr., fra l’altro, De civ. Dei 10,6-7: NBA 5/2,694-698 e 10,31: NBA 5/2,758-760.
[47] Com’è noto, Agostino preferisce il termine “città” a quello di Chiesa per la natura e la destinazione dell’opera, perché esso consente di tenere insieme il tema dell’ambivalenza dell’amore e delle conseguenti opposte modalità di convivenza umana, simboleggiata nelle due città di Babilonia e Gerusalemme. Cfr. in proposito soprattutto E. Lamirande, L’église céleste selon saint Augustin, Paris 1963, pp. 120-122. Su questo aspetto cfr. anche J. van Oort, Civitas dei-terrena civitas: The Concepts of the Two Antithetical Cities and Its Sources, in Aa. Vv., Augustinus. De civitate Dei, cit., pp. 157-169 e Id., Jerusalem and Babylon. A Study into Augustine’s “City of God” and the Source of His Doctrine of Two Cities, Leiden-New York-København-Köln 1991, pp. 102-108, dove si sottolinea la valenza anche religiosa di tale nozione e la complessità delle sue fonti. Sul rapporto tra civitas (o regnum) Dei ed ecclesia sempre utile lo studio di Y. M. J. Congar, “Civitas Dei” et “ecclesia” chez saint Augustin. Histoire de la recherche: son état présent, “Revue des Etudes Augustiniennes”, 3 (1957), pp. 1-14.
[48] In questo senso si può convenire con Fortin nel rilevare un duplice intento alla base di De civitate Dei: “incoraggiare la pratica della giustizia tra gli esseri umani e, accentuando i limiti della giustizia umana, mettere in guardia contro eccessi di zelo nel perseguirla” (Fortin, Justice as the Foundation, p. 41).
[49] Cfr. A. J. Parel, Justice and Love in the Political Thought of St. Augustin, in Aa. Vv., Augustine, ed. by J. Dunn, I. Harris, vol. I, Cheltenham (UK) – Lyme (US) 1997, pp. 404-417. L’opera, in 2 voll., ripubblica un’ampia serie di saggi, difficilmente reperibili, sul pensiero politico di Agostino.
[50] Sottolinea l’ossimoro implicito in questa nozione agostiniana “di una città dei non cittadini” anche R. Bodei, Amores duo fecerunt civitates duas, in Aa. Vv., La città di Dio nel tempo. Homo viator, Roma 1997, p. 24.
[51] De civ. Dei 19,17: NBA 5/3,62 (tr. cit., p. 972).
[52] De civ. Dei 19,19: NBA 5/3,64 (tr. cit., p. 973).
[53] Così anche Fortin, Justice as the Foundation, p. 43.
[54] S. Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica, in Opere, ed. it. a cura di C. Fabro, Firenze 1972, p. 382.