GHEDI, VIA GIUSEPPE VERDI, 23
QUI ABITAVA
FRANCESCO PRATINI
NATO NEL 1907
ARRESTATO IL 08.09.1943
INTERNATO MILITARE A MOSBACH
ASSASSINATO IL 17.06.1945
Caddi per un colpo alla nuca, l’ultima cosa che vidi fu la canna di un fucile puntata verso di me. Mi risvegliai su un carro chiuso e maleodorante. All’interno era molto buio, ma, per fortuna, uno spiraglio di sole, ci illuminò il viso. Le nostre facce si riflettevano sulle lastre di ferro del vagone: occhi celesti, naso piccolo e il colorito roseo di un uomo pieno di vita.
In fondo ero sempre lo stesso Francesco Pratini, contadino di Ghedi, nato il 17 agosto 1907. Guardando gli occhi riflessi sulle lastre di metallo ripensai a mio figlio e a quanto era dolce e amabile. L’avrei visto crescere? Ma soprattutto, l’avrei rivisto? Mi addormentai e sognai
casa: quando iniziai a coltivare le mie terre, secondo la tradizione di famiglia. Sono un contadino, non un soldato. Ma nel 1942, una sera d’inverno, tornato da una giornata pesante di lavoro nei campi, trovai sulla porta di casa mia moglie che mi aspettava con la cartolina in mano e le lacrime agli occhi. La presi dalle sue mani, restai di ghiaccio nel vedere il contenuto: era la cartolina verde e grigia dell’Esercito Italiano su cui compariva in bella vista il nome del mittente. Questa mi ordinava
di presentarmi per essere assegnato al 66° reggimento di fanteria.
La frenata del carro mi svegliò insieme alle urla. Mi ritrovai a Mosbach. La maggior parte dei miei compagni erano contadini, come me, ed erano molto giovani. Ci schedarono, poi le docce e la rasatura. L’acqua era gelata, i rasoi arrugginiti: uscimmo più provati di prima. I miei caldi e pesanti vestiti non li vidi più: al loro posto una camicia e pantaloni logori e umidi, zoccoli di legno, troppo grandi per me. La baracca in cui alloggio è lurida e umida, è molto cupa e triste perché dalle finestre
non entra un raggio di sole. Ratti, pulci, zecche sono i nostri coinquilini.
Qui la vita non è facile, si ha poco cibo e bisogna lavorare nelle cave di gesso, in quegli stretti e tenebrosi cunicoli in cui si soffoca.
Una fabbrica d’armi di Berlino si è trasferita qui a causa dei bombardamenti. L’aria polverosa che respiro si deposita nei miei polmoni, provocandomi una tosse secca e convulsa. Per lavorare abbiamo solamente dei picconi arrugginiti, nessuna protezione.
Quando salgo in superficie sono molto debole e stanco, sento il mio corpo indebolirsi, ho una tosse terribile, peggioro di giorno in giorno, faccio sempre più fatica e la galleria non ha fine.
Rispetto a quando sono partito sono diventato molto più magro, la mia pelle ha perso quel il colorito roseo di prima, sto perdendo le forze. Sto sempre peggio, ma qualcosa mi dà speranza. Aerei militari sorvolano i cieli, i tedeschi sono in delirio… Sono arrivati gli Alleati. La maggior parte dei tedeschi è stata fucilata, altri sono stati arrestati. Vicino al campo di concentramento, hanno messo dei grossi tendoni bianchi, dove ci cureranno e ci rimetteranno in sesto. Passano i giorni, vedo i miei compagni andarsene, io rimango nel mio letto, sempre più debole. Sento i medici parlare di me, e discutere del fatto che i miei polmoni stanno per cedere. Un amico è venuto a salutarmi, prima di partire: “Sorridi, tornerai a casa sano e salvo, riabbraccerai presto la tua famiglia”. Dentro questo maleodorante letto, chiudo gli occhi e ricordo la mia cara e vecchia Ghedi. Come potrei dimenticare il canto del gallo che mi svegliava all’alba per cominciare la giornata nelle campagne? Come tutte le mattine, avrei mangiato la mia solita polenta intinta nel latte. Quanto sarebbe bello ripercorrere quelle strade di campagna insieme agli amici e vedere i bambini giocare nei fossi. Ripenso ancora alle gelide mattine
d’inverno, alla fitta nebbia che ricopriva le campagne. Le donne, che lavavano i panni, e si intrattenevano intonando vecchi canti popolari.
Sorrido e chiudo gli occhi per sempre. Sono morto senza rivedere la mia famiglia. Con una firma disonorevole avrei potuto salvarmi, ma c’è qualcosa in me che supera ogni tentazione, ogni lusinga, qualcosa che permette di vincere anche un egoismo tanto prepotente. Hanno trasportato il mio corpo in Germania, a Francoforte sul Meno, e lì mi hanno sepolto. Mi ritrovo circondato da lapidi, tutte uguali, bianche, croci. Condivido le storie dei miei vicini e ho scoperto che non sono poi così tanto diverse dalla mia: arruolato nell’esercito, catturato dai nazisti, internato, assassinato. La speranza di tornare a casa, per anni, mi diede la forza di sopportare la prigionia, ma non bastò a farmi tornare.
A cura degli alunni della classe 2 I della scuola secondaria di primo grado di Ghedi