Un grande maestro appare una volta ogni tanto. Possono passare anche parecchi secoli senza che se ne presenti uno. Mohandas Karamchand Gandhi è stato uno dei pochi maestri delterribile e magnifico XX secolo. Winston Churchill, a cui la storia deve riconoscere molti meriti, non ebbe occhi per la grandezza di Gandhi e si diceva disgustato dallo “spettacolo umiliante e nauseabondo offerto da quel fachiro sedizioso che, seminudo, trattava da pari a pari con il rappresentante del re di Gran Bretagna e imperatore del Commonwealth”; ma un altro inglese, Lord Mountbatten, colui che passò le consegne del potere dall’Inghilterra ai due nuovi Stati indiani nel 1947-’48, aveva di Gandhi e del suo ruolo storico un ben diverso concetto. Chi fu realmente, Gandhi, colui che fu chiamato “la grande anima”, il Mahatma, e che cosa del suo messaggio rimane perennemente valido, per lo meno come fonte di ispirazione e metodo di lotta, al di là di certe insistenti “arcaicità” o credenze assai particolari e francamente discutibili? Certamente anche Gandhi mitizzò un’India dalla cui storia e dalla cui tradizione, l’una e l’altra idealizzate, espungeva solo la fobìa per gli intoccabili, peraltro sperimentata fin dall’infanzia nella sua stessa educazione familiare. A lui dobbiamo chiedere non il rigore dello storico, ma lo slancio eroico del profeta che vuol elevare a Dio, all’Assoluto, il popolo di cui si sente parte e l’umanità stessa. A lui dobbiamo chiedere la testimonianza della santità. Perché Gandhi è “soprattutto un eroe religioso”, come ben vide Giorgio Borsa, un insigne studioso italiano, nel suo bel libro Gandhi, ora nelle “Biografie Bompiani”, libro che ha potuto essere ripubblicato dopo quasi quattro decenni (era uscito nientemeno che nel 1942) con i necessari aggiornamenti, ma sostanzialmente immutato nella sua linea interpretativa che rimane valida.
Rivedo le fotografie che ritraggono Giovanni Paolo II in preghiera, a Delhi, dinanzi a una pietra nera, là dove il 31 gennaio 1948 un immenso falò avvolse di fiamme il corpo del Mahatma, ucciso da un indù perché impegnato a realizzare ciò che per lui era un imperativo categorico: una politica che riuscisse a far coesistere induismo e islamismo in India. Il Papa si lascia afferrare dal colloquio silenzioso con quel grande spirito e rimane lì, inginocchiato, assorto, al di là di ogni previsione e cerimoniale. Gli indiani chiamano darshan il momento di comunione intensa con la verità che ci parla dentro (in interiore hominis habitat veritas aveva detto sant’ Agostino) e quel colloquio per il Papa durò quattro minuti e mezzo. Giovanni Paolo II lo confessò ad alta voce: il suo era “un pellegrinaggio per rendere omaggio a un uomo che ha incarnato nel nostro secolo il bisogno di Dio e la vita come testimonianza religiosa, come servizio reso a Dio”. Quando il Papa pronunciò quelle parole era il febbraio del 1986. Mai un pontefice aveva usato espressioni così alte per un non cristiano. Lo chiamò “eroe del1’umanità”, “annunciatore della natura religiosa dell’uomo, che anela a Dio come la cerva ai corsi d’acqua”. “L’essenza del suo insegnamento – precisa il papa – è ben visibile: il primato dello spirito e la verità che dà forza, la Satyagraha, che vince senza violenza attraverso il dinamismo interiore dell’azione giusta”.
In che cosa il nostro tempo ha bisogno di far sua la lezione e l’esempio di Gandhi? La nostra epoca, in primo luogo ha bisogno, dopo l’ateismo di massa che ha caratterizzato intere regioni del nostro pianeta, di uscire dalla prigione del materialismo. L’uomo contemporaneo deve riappropriarsi della sua dimensione religiosa, in lui così orrendamente pervertita o negata. “In quanto nasciamo uomini – scriveva Gandhi – ci è assegnato come fine la realizzazione del Dio che è in noi… Realizzare Dio significa vederlo in tutto ciò che vive, vale a dire realizzare la nostra unità con il resto del mondo”. Da ciò derivano due importantissime conseguenze. La prima è che “la Verità o Sat è forse il nome più giusto da dare a Dio e che la devozione alla Verità è la sola giustificazione alla nostra esistenza». Una vita che non tenda con tutto il cuore a radicarsi nella Verità, manca di una base profonda; non può resistere né alla bestia che è in noi, né alle spinte all’involgarimento e alla negazione della dignità stessa degli altri, che la pressione sociale ci trasmette.
La seconda conseguenza è che “la coscienza dell’onnipresenza di Dio rende sacra la vita, anche quella dei nostri oppositori”; il che determina una rinuncia di fondo a usare la violenza nella risoluzione dei conflitti e una fiducia nel bisogno interiore di giustizia, oscurato e distorto fin che si vogliama non del tutto assente neppure in chi usa la violenza contro i suoi simili. Insomma Gandhi fa sua la sconvolgente logica dell’atteggiamento evangelico:”porgi l’altra guancia”, “odia l’errore, non l’errare», “odia il male ma per la conversione di colui che lo commette”. Gandhi ha potuto scrivere di sé: “Grazie a un lungo processo di disciplina e di preghiera ho cessato da più di quarant’anni di odiare chicchessia”. E ancora: “La non-violenza è la legge della nostra specie, come la violenza è la legge del bruto. Lo spirito giace addormentato nel bruto ed egli non conosce altra legge salvo quella della violenza. La dignità dell’uomo esige ubbidienza a una legge superiore, alla forza dello spirito”.
Lascio da parte, per ovvie ragioni di buon gusto, l’uso improprio, strumentale e mistificatorio che anche in Italia qualcuno ha fatto di Gandhi e dello sciopero della fame. Occorre certamente liberare l’immagine della vita che Gandhi propone da alcuni fraintendimenti. Il primo dei quali è quello di confondere la non-violenza con la passività e l’accettazione dell’ingiustizia."La verità-forza o non-violenza si distingue dalla resistenza passiva – scrive Gandhi – come il polo Nord dal polo Sud”. Meglio il ricorso alla violenza che la resa incondizionata all’ingiustizia. Il problema è solo di pervenire ad un più alto punto di vista e a un metodo di lotta che sia civile e che nasca dalla mobilitazione delle coscienze sottraendo le masse alla degradazione dell’odio. Gandhi non è un’utopista, ma – com’egli stesso si definisce –“un idealista pratico”, che tende sempre alla più stretta unità tra idea e prassi, pensiero e azione, fini e mezzi. “I mezzi possono essere paragonati al seme e il fine all’albero; tra i mezzi e il fine vi è lo stesso inviolabile rapporto che esiste tra il seme e 1’albero”.
Gandhi politico – che ha negato con forza qualsiasi validità agli insegnamenti di Machiavelli e di Marx – ha portato nella ricerca del bene delle nazioni, a cominciare dalla sua India, tutta la carica della sua fede profonda nella radicale moralità che deve animare l’azione politica. Era un profeta disarmato e ha vinto. Avendo esteso il principio della non-violenza dal piano individuale a quello sociale e politico, Gandhi ha portato l’India all’indipendenza. Ma ha altresì anticipato un metodo di lotta (poiché, bisogna ribadirlo, Gandhi fu un inflessibile lottatore) che merita di essere approfondito e universalizzato. Un metodo che ha trionfato nel 1989 anche nell’Europa dell’Est, rendendo possibile, in un periodo di grande crisi storica, l’uscita dall’impero sovietico e dai regimi comunisti di nazioni quali l’Ungheria, la Polonia, la Germania Orientale, la Cecoslovacchia.
Ci sono altri aspetti della filosofia di Gandhi che avrebbero bisogno di essere discussi e ci ripromettiamo di farlo in altra sede con profondo rispetto e con intima simpatia. Qui ci piace concludere facendo nostre le parole di Einstein sul Mahatma: "Le generazioni future a stento potranno credere che un uomo del genere sia passato in carne ed ossa sulla terra”.
Giornale di Brescia, 27.11.1991. Articolo scritto in occasione della conferenza di S. Jeyapragasam su “Ghandi e la forza della non violenza”.